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Il capitano Yotam Vilk rompe il silenzio: “Ho combattuto a Gaza: è ora di dire basta”
Il capitano Yotam Vilk rompe il silenzio: “Ho combattuto a Gaza: è ora di dire basta”. Il nome di Yotam Vilk ha cominciato a circolare fuori dai circuiti militari israeliani non per le medaglie ricevute, ma per un gesto di rottura: dire basta. Vilk è un ufficiale dei corpi corazzati, ha combattuto per oltre un anno nella Striscia di Gaza, guidando operazioni di terra e carri armati. Oggi, però, è una delle voci che si leva contro la prosecuzione della guerra.
Se il 7 ottobre siamo entrati in guerra per salvare ciò che ci era più caro, mi fu presto chiaro che stavamo combattendo perché i nostri leader non avevano mai pianificato di fermarsi.
ha raccontato in una testimonianza raccolta dall’Associated Press.
La ferita morale di Gaza: basta crimini di guerra!
Vilk descrive una ferita che non è solo militare, ma etica. Racconta di aver visto almeno dodici persone uccise in una zona cuscinetto sotto controllo israeliano. Uno degli episodi che lo perseguitano è l’uccisione di un adolescente palestinese non armato:
faceva parte di una storia più vasta, della politica dello stare lì e del non vedere i palestinesi come persone.
Una frase che incrina la retorica ufficiale e mostra la frattura profonda che attraversa chi ha vissuto la guerra dall’interno.
Non è un caso isolato. Negli ultimi mesi, circa 200 soldati hanno firmato una lettera di dissenso: dichiarano che smetteranno di combattere se il governo non raggiungerà un cessate il fuoco. Molti parlano apertamente di ordini di bruciare case non minacciose, di saccheggi, di omicidi indiscriminati. È la definizione di moral injury, una ferita morale che provoca insonnia, flashback, senso di colpa: il peso di aver eseguito ordini percepiti come ingiusti o disumani.
Un atto politico, non solo personale
Il rifiuto di Vilk e degli altri non è solo individuale. È un atto politico che mina dall’interno l’immagine compatta dell’esercito israeliano. Denunciare oggi significa incrinare la narrazione dominante, secondo cui la guerra a Gaza sarebbe necessaria e inevitabile. Al contrario, le voci dissidenti rivelano il costo umano e morale del conflitto: non solo per i civili palestinesi, ma anche per i soldati israeliani che si scoprono complici di pratiche di disumanizzazione. In parallelo, il contesto politico non offre vie d’uscita rapide: i negoziati per un cessate il fuoco sono in stallo, e il governo di Netanyahu continua a mostrarsi impermeabile alle critiche interne e internazionali.
Quella di Vilk è dunque la storia di un passaggio: da capitano in prima linea a dissidente che denuncia la “zona senza legge” creata a Gaza, dove le vite palestinesi sono rese invisibili. È anche la storia di un’erosione della fiducia: nella leadership politica, nell’esercito come istituzione, nella capacità di Israele di fermarsi prima che la guerra diventi un vicolo cieco.
C’è chi, anche tra gli israeliani, crede che si sia entrati in guerra per questo: non per bruciare case, non per ridurre interi quartieri a macerie, non per trasformare Gaza in un laboratorio di controllo e punizione collettiva.
Ha combattuto a Gaza, ma dice “basta genocidio”
Ogni crimine di guerra, per sopravvivere, ha bisogno di propaganda, di impunità e di disciplina. Ogni rottura interna diventa allora un segnale pericoloso per il potere: la consapevolezza che l’obbedienza non è scontata. Le parole di Vilk e degli altri 200 soldati non fermeranno il genocidio da sole, ma aprono una crepa: mostrano che persino dentro l’esercito israeliano cresce chi non accetta più il prezzo morale di tutto questo.
Maria Paola Pizzonia











