7.5.20

l'odio non ha colore ideologico e sopratutto non #Lodiononvainquarantena

 ecco le  storie    d'oggi  la  prima  è la  risposta   agli imbecilli    che  lasciano ne ho parlato  nel   post  : << Lucca, infermiera trova biglietto nella posta: "Ci porti il Covid"    >>   biglietti anonimi   ad  una   del condominio  perchè  infermiera  in un reparto  di covid 19  o vedono i medici   ed  il personale  sanitario   come untore  .
 da https://invececoncita.blogautore.repubblica.it/  del 7\5\2020

Irene Nasone, giovane medico, calabrese vive in Lombardia da un anno
Irene prova a scherzare in ospedale a Treviglio, frontiera contro il Covid-19
"In un periodo storico in cui sembra essere riemersa la differenza tra ‘nord e sud’, in cui i medici e gli infermieri vengono visti come pericolosi untori ai quali lasciare messaggi minacciosi nella cassetta delle lettere, esistono anche esempi di bellezza. Ed è giusto parlarne perché il bene va raccontato, almeno ogni tanto per ricordarsi che c’è"."Sono un medico in formazione specialistica in medicina d’emergenza, al primo anno. Da circa sei mesi mi trovo a Treviglio e sto lavorando nel pronto soccorso di quello che è diventato a tutti gli effetti un ospedale per pazienti Covid-19. Sono originaria di Reggio Calabria e qui sono sola, senza parenti o amici. In questi mesi mi sono ritrovata ad affrontare situazioni che non avrei mai potuto immaginare. Tornando a casa dal lavoro in, in un appartamento vuoto, non facevo altro che rivivere ancora e ancora quello che avevo affrontato in ospedale"."Rivedevo continuamente quei corridoi invasi dalle bombole di ossigeno, quelle barelle piene di sguardi impauriti, quelle mani ‘sporche’ che nessuno poteva stringere se non attraverso degli sterili guanti. In mezzo a tutto quel dolore si inseriva un sorriso quotidiano. Ogni giorno trovavo dei bigliettini attaccati alla porta. Erano da parte dei miei vicini, persone che io non conosco e che non ho mai visto di persona.Avendo saputo il lavoro che svolgo, hanno pensato di starmi accanto attraverso dei pensieri e qualche piccolo regalo".
Il coniglietto
L'immagine può contenere: 1 persona, occhiali
"Chi scrive è Viola, una bambina di 8 anni che mi chiede come sto, come è andata a lavoro e conclude ogni lettera con un arcobaleno. ‘Cara Irene in questi giorni ho avuto tanti compiti da fare, sono in terza elementare, ma oggi ho avuto un po’ di tempo per te e con l’aiuto della mia mamma ti ho preparato un regalino: spero ti piaccia, magari puoi farlo vedere anche ai tuoi colleghi come pensiero di speranza, un forte abbraccio, Viola e Marco, mamma e papà’".

"E insieme alla lettera c’era un coniglietto di pezza coperto di quadrati di stoffa colorata. Un arcobaleno. In questo difficile periodo lei mi ha fatto compagnia, mi ha insegnato ad attendere quell’appuntamento epistolare con gioia, immaginando una realtà a colori. Mi ha regalato la sua amicizia con una spontaneità disarmante riaccendendo in me un sentimento di speranza, come solo i bambini sanno fare”.

Infatti  Dovremmo imparare a prendere ad esempio il comportamento dei bambini di fronte alle grandi difficoltà, e dare così un aiuto a chi per lavoro si trova in mezzo ai mille problemi. Complimenti anche ai genitori della bimba.Visto   che    questo virus  , come   tutti quelli che  ci  sono   stati nel  corso  della storia   ,  ci   hanno   dimostrato che la democrazia è quella che lui detiene. Infatti attacca chiunque senza nemmeno preoccuparsi di sapere chi è.Ricchi, poveri, blasonati, umili. bianchi, neri, intelligenti, ritardati, del nord del sud...Dovremmo restare tutti bambini per non impregnarci di queste stupidaggini  e  fare  si (  veder e anche  storia   sotto  )  che  anche in quarantena  non  ci sia  odio  . Mi piace  concludere    con queste parole      espresse   da  Totò  nel  finale  della  sua poesia A Livella



"Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive
nuje simmo serie... appartenimmo â morte!"



Siamo quindi  stati avvertiti tutti. Si parla molto della democraticità del coronavirus. Colpisce indifferentemente il Primo Ministro britannico e la Signora di Voghera. La confusione è impressionante, non si sa come venirne fuori. Si discute imperterriti sul significato di normalità, se siamo già al dopo oppure semplicemente nel durante, su chi è stato il più bravo di tutti a prevedere o a reagire, se è stato un megacomplotto per non si capisce quale scopo, sulle nuove dive della cronaca, le mascherine, sconosciute fino a ieri - le portavano solo quei fissati igienisti di giapponesi. Intanto l'infallibile Organizzazione Mondiale della Sanità avverte di tenersi pronti per la prossima pandemia.
Quando i bambini dimostrano, nella loro ingenua perfezione, una chiara superiorità su noi adulti imperfetti. Se il Mondo fosse nelle loro manine, andrebbe molto meglio !


la seconda 


Grande solidarietà a queste ragazze.Il problema risiede purtroppo in questo paese bigotto, di poca cultura e di molta ignoranza.Un paese dove purtroppo sembra di vivere nel medioevo, questa è la triste realtà.Dovete denunciare e mandare in galera questi vigliacchi che si nascondono perché hanno paura, continuate ad amarvi.


la  loro  vicenda  (  ne  avevo parlato  nel blog  da qualche  parte   )  è dimostrazione   come  in italia  manca  e  ci sono  fortissime resistenze ad  una  legge  contro   le  discriminazioni  omofobe e  transfobiche . Infatti    mi hanno  abbandonato  ,  certe persone  è   meglio perderle  chje  trovarle  e  ne  ho cosa  rara   eliminato   alcune  ,  ma certi insulti  non riesco a  reggerli  e  certe posizioni retrograde  di gente  che  scambia  la libertà  d'espressione   ed  una proposta  di legge   contro tali discriminazioni  come un limite   con la  libertà di  discriminare , minacciare  , insultare  .

 da http://www.novaratoday.it/attualita/

 di Annalisa Felisi 04 maggio 2020 11:59
L'odio non va in quarantena, insulti omofobi a due ragazze gay: "Il coronavirus è colpa vostra"

L'odio non va in quarantena, insulti omofobi a due ragazze gay: "Il coronavirus è colpa vostra"
Erika e Martina affrontano ogni giorno decine e decine di insulti: durante il lockdown non hanno potuto nemmeno sporgere denuncia                   



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Martina Tammaro ha 24 anni ed è di Arona. La sua compagna Erika Mattina, 22 anni, abita invece a Monza. I loro nomi, purtroppo, non sono nuovi alle pagine di cronaca, visto che nell'agosto del 2019 erano state prese di mira per aver postato sui social una loro foto mentre si baciavano.
Da allora gli insulti sono continuati e non si sono mai fermati, nemmeno durante il lockdown. "L'odio non va in quarantena - raccontano le due ragazze alla redazione di NovaraToday - Con l'arrivo del coronavirus pensavamo che la gente avrebbe avuto altro da fare, altro a cui pensare, altri problemi. Invece non solo hanno trovato il modo di insultarci, ancora e ancora, ma ci hanno anche attribuito "la colpa" per l'arrivo del coronavirus. Ed anche per tutte le altre disgrazie che stanno capitando (e capiteranno). L'odio non si è fermato, ma tutto il resto sì. Inclusa la possibilità, per noi, di denunciare. Abbiamo chiamato più e più volte i carabinieri, e ci hanno sempre detto di aspettare. Ora, finalmente, dopo quasi 2 mesi di reclusione, martedì 5 potremo andare dai carabinieri. Anche se ci hanno detto che per gli insulti più vecchi, è troppo tardi. Passati 3 mesi, non si può più far nulla (o quasi)".
Gli insulti che le ragazze hanno ricevuto sono terribili 

 eccone  alcuni le  altre le  trovate  qui sulla galleria fotografica   del sito
:

Insulti omofobi a Erika e Martina(4)


Insulti omofobi a Erika e Martina(5)

oltre a offese gratuite hanno anche ricevuto minacce di morte, di stupro e di violenza. "Tra due settimane, il 17 maggio, sarà la giornata conto l'omontransfobia - spiegano Marina e Erika -. Un fenomeno, ancora oggi, troppo radicato e invisibile agli occhi di tutti. E non è normale, a 24 e 22 anni, ricevere ogni giorno insulti e minacce solo per il semplice fatto di amarsi. Solo nell'ultima settimana abbiamo ricevuto più di 100 offese e insulti gratuitamente. Perché l'odio non è andato in quarantena. E mentre tutto il mondo si è fermato, noi incluse, ci siamo ritrovate con valanghe di offese disgustose e "colpe" che non abbiamo. Noi abbiamo una pagina instagram, @leperledegliomofobi, che denuncia tutto questo, e cerchiamo di aiutare e sensibilizzare più persone possibili, anche se a volte è dura".

Infatti   concludo    non  avendo  ottenuto    da  loro nessuna risposta  per  intervistarle  per   voi lettori   con  quanto dichiarato  loro   su  https://www.leggo.it/italia/cronache/  del Lunedì 4 Maggio 2020, 16:46
[...]
Perché vi scriviamo, però?
Perché tra due settimane, il 17 maggio, sarà la giornata conto l'omontransfobia. Un fenomeno, ancora oggi, troppo radicato e invisibile agli occhi di tutti.
E non è normale, a 24 e 22 anni, ricevere ogni giorno insulti e minacce solo per il semplice fatto di amarsi. Solo nell'ultima settimana abbiamo ricevuto più di 100 offese/insulti gratuitamente.
Perché l'odio non è andato in quarantena. E mentre tutto il mondo si è fermato, noi incluse, ci siamo ritrovate con valanghe di offese disgustose e "colpe" che non abbiamo.
Noi abbiamo una pagina instagram, @leperledegliomofobi, che denuncia tutto questo, e cerchiamo di aiutare e sensibilizzare più persone possibili. Anche se a volte è un po' dura.
Vi alleghiamo qualche screen. (sono tutte cose che ci hanno detto nell'ultima settimana. Quelle più fresche, insomma. Le altre minacce di morte e stupro sono "vecchie" e le abbiamo già denunciate ai carabinieri.)
In più alleghiamo delle foto nostre, più quella "famosa" del bacio al mare.
Speriamo che si possa parlare anche di questo, perché, anche se in maniera diversa, è comunque una 

Andrà tutto bene.
Erika e Martina

La lettera di Erika e Martina è arrivata all'attenzione di Leggo nel primo giorno della Fase 2. Per le due ragazze, fidanzate da quasi tre anni, alle problematiche legate al lockdown condivise da tutti i cittadini italiani si sono aggiunte quelle dell'omofobia che combattono con ironia sui social grazie alla pagine Le perle degli omofobi.

Quella su Instagram e Facebook è stata l'unica denuncia possibile durante i giorni della quarantena. Perché non avete denunciato alle autorità?

«Ci siamo informate telefonicamente per tre volte. La prima volta ci è stato detto che la questione al momento non era prioritaria. Ci siamo sentite sminuite, anche se capiamo la situazione. Alla seconda telefonata ci hanno consigliato di aspettare la fine della Fase 1, sicuramente anche per tutelare la nostra salute. Solo la settimana scorsa abbiamo ricevuto il via libera: domani potremo denunciare».

Cosa denuncerete?

«Andremo dai Carabinieri di Arona, perché la Polizia Postale è troppo distante. Porteremo tutto quello che abbiamo, dalle offese online ai video molesti che arrivano in continuazione: per molti uomini due ragazze lesbiche sono sinonimo di porno. Ma non tutte le offese online sono perseguibili, per denunciare è necessario che scattino minacce o diffamazione». 

Chi c'è dalla vostra parte?
«Al momento, dal punto di vista legale, siamo sole. Ma riceviamo il supporto dei nostri followers, tantissime persone che ogni giorno ci dimostrano affetto e solidarietà». 

E le critiche?
«Non sappiamo cosa sia successo, ma nell'ultima settimana è arrivata una nuova ondata d'odio».

Come ve lo spiegate?
«Probabilmente le persone in questo momento di frustrazione collettiva riversano la rabbia su un "problema secondario" come quello di due donne che si amano. Che non solo non è affatto un problema, ma di certo non è un problema loro. È per questo che abbiamo deciso di lanciare l'hashtag #lodiononvainquarantena».

4.5.20

Fruttero & Lucentini non erano “congiunti”, tanto meno “affini” e neppure “affetti stabili”, stando all’ultima interpretazione del decreto eppure la vicinanza era tutto L’amico è più di un affetto

Una  storia   che  dimostra   che  l'affetto non è solo qualcosa  di  burocratico  .  Leggoi e  riporto    sotto   , su repubblica  d'oggi 4\5\2020 



Carlotta Fruttero: "Mio padre e Lucentini non erano congiunti, ma un'amicizia così non si può tradurre nella lingua della burocrazia"
Parla la figlia dello scrittore che diede vita, insieme all'amico Franco, alla più celebre coppia letteraria italiana: "Avevano bisogno di stare vicini, camminare anche in silenzio. Era il loro modo di recuperare una dimensione intima e alimentare l'ispirazione che li teneva uniti"




Fruttero & Lucentini non erano "congiunti", né di primo né  di sesto grado, tanto meno "affini" e neppure "affetti stabili", stando all'ultima interpretazione del decreto presidenziale che espunge dalla categoria l'amicizia. Sicuramente non potevano fare a meno l'uno dell'altro, nella vita come
nella letteratura. A pensarli nel distanziamento sociale imposto dal Coronavirus, viene in mente un possibile titolo a quattro mani: "La prevalenza del congiunto".
"Mio padre Carlo Fruttero collegato a Lucentini via Skype? Inimmaginabile. Non tanto per papà quanto per Franco, che non aveva la Tv, figurarsi lo smartphone. E poi entrambi guardavano con sospetto alle minime invenzioni tecnologiche, fossero anche una lametta da barba o un cavatappi di nuova concezione".  Dalla più celebre coppia letteraria italiana, Carlotta Fruttero ha ereditato ironia e tenerezza. "No, non avrebbero mai potuto resistere lontani. Avevano bisogno di parlare, vedersi e stare insieme almeno un paio d'ore al giorno".

Era un'amicizia anche "fisica" che contemplava lunghe passeggiate.
"Sì, avevano bisogno di stare vicini, camminare anche in silenzio, a Torino lungo il fiume Po ai Murazzi, o in Francia vicino al canale del Loing, tra Fontainebleau e Nemours, dov'era la casupola di pietra di Franco. Avevano l'abitudine di ritirarsi da quelle parti ad agosto per lavorare. E papà mi raccontava le passeggiate notturne, misteriose, che era il loro modo di recuperare una dimensione intima e alimentare l'ispirazione che li teneva uniti. Potevano parlare per ore d'un dettaglio della trama oppure stare in silenzio: la loro amicizia non aveva bisogno di parole. Per decifrarsi l'un l'altro, bastavano uno sguardo, la postura delle spalle o il modo di camminare".
Come definirebbe il loro sodalizio?
"Un'amicizia assoluta. Inscindibile. Papà si sarebbe gettato nel fuoco per Franco, e viceversa. Era anche un'amicizia spirituale nel senso della coincidenza dei loro spiriti, e del sentire sul mondo".
Un'amicizia che fonde caratteri diversi.
"Sì, mio padre era quello che leggeva i quotidiani, s'informava, guardava la Tv: una costante immersione nella realtà, sostenuta da curiosità inesauribile. Franco era l'uomo dalle grandi visioni, letture alte tra filosofia e arte, conoscenza approfondita dei classici greci e latini, padronanza di almeno diciassette lingue. Papà mi diceva sempre: quello veramente bravo è lui, non io. Se non ci fosse stato Franco, non sarei riuscito e mettere in piedi la struttura del romanzo. In realtà non era così. Il suo libro Donne informate dei fatti ha dimostrato che poteva farcela da solo. Ma questo era il suo sentimento verso l'amico".
Non esisteva competizione.
"Si completavano vicendevolmente, senza ombre. Ed evitavano con accuratezza ogni discussione sterile. Potevano avere punti di vista differenti, ma il confronto era sempre limpido e amichevole".
Non hanno mai litigato?
"Mai. Erano capaci di stare in silenzio per molte ore, ma non li ho mai sentiti alzare la voce. C'era una cosa che creava tra loro tensione: l'uscita da casa in macchina per andare al cinema. Ansiosissimo per il parcheggio, Franco fissava la partenza un'ora prima; di temperamento più quieto, mio padre spostava più avanti l'appuntamento, con l'effetto comico di stare a discutere per ore sul minuto esatto dell'uscita. E mia madre sempre dalla parte di Franco".
Fruttero ha dovuto convivere per una vita con le malinconie della moglie e con la stessa attitudine saturnina del suo migliore amico.
 "Sì, Franco poteva avere momenti di depressione e in questo senso lui e la mamma erano lo specchio l'uno dell'altra. Mio padre non poteva certo appoggiarsi sulla spalla dell'amico, perché sapeva che Franco viveva la difficile condizione di mia madre con grande angoscia. Per tutta una vita ha dovuto alleggerire le situazioni, invitandoci sempre a godere del dettaglio minimo del quotidiano. Non puoi guardare i problemi tutti insieme  - mi diceva - perché c'è il rischio di restarne paralizzata. Bisogna guardare la vita un pezzo per volta. E lui riuscì a sopravvivere a una esistenza cupa rifugiandosi nella scrittura e nelle trame dei suoi romanzi".
Anche per questo aveva bisogno di stare con Lucentini. Per entrambi la letteratura era un rifugio.
"Sì, un'officina in cui non smettevano di progettare, inventare nuovi generi, lanciarsi in una sfida letteraria senza fine. La fantascienza, i fumetti, i classici rivisitati, i drammi e i radiodrammi, gli adattamenti televisivi. Li chiamavano Bouvard et Pécuchet, come i personaggi di Flaubert: loro li lasciavano dire, ma in realtà di quella strana coppia non condividevano la fede nel progresso, però l'ansia di fare sì. E ne hanno fatte tante insieme".
Lucentini più ansioso, anche nel progetto.
"La famosa scaletta: Franco esigeva un 'preromanzo', una traccia dettagliatissima, mentre mio padre  preferiva lanciarsi in un percorso gravido di sorprese. E allora discutevano. "Sei schizofrenico" gli diceva papà. 'Vuoi scrivere sul serio, fingendo di scrivere per prova'. E lui replicava: 'No, schizofrenico sei tu che vuoi scrivere fingendo di non sapere dove stai andando'".
Come capirono di essere amici?
"Nei primi anni Sessanta, quando dalla Einaudi passarono alla Mondadori, con l'incarico di curare Urania, la collana di fantascienza. Non ne sapevano granché ma erano molto curiosi. Così andarono a fare incetta di racconti fantascientifici in lingua inglese nelle bancarelle di libri usati in corso Valdocco, a Torino. Poi se li dividevano per blocchi di sessanta titoli a testa; ognuno doveva fare la sua scelta. E successivamente si scambiavano i blocchi di libri, per un'ulteriore verifica. Alla fine scoprirono che i libri scelti erano gli stessi".
Si erano conosciuti a Parigi, nel 1953. Suo padre aveva 27 anni, Lucentini 33.
"Papà era rimasto colpito dal suo sorriso: ironico ma mai feroce, provvisto di un punto di vista preciso ma sempre indulgente. Come se fosse animato da un fondo di sconfinata tenerezza verso ogni minima cosa che poi si traduceva in compassione per ogni debolezza, follia, bassezza. Seppur ammirandone moltissimo l'indole, lui si sentiva diverso, più giudicante e tranchant".
Poi, nella vecchiaia, da dinamici Bouvard et Pécuchet divennero statici come i personaggi di Beckett paralizzati dall'attesa di Godot: lo racconta Fruttero in una bellissima pagina dedicata all'amico.
"Si incontravano al caffè o su una panchina di Piazza Maria Teresa o in ospedale per caso tra un ricovero e un altro: mi ricordo una volta in ascensore, Franco seduto sulla sedia a rotelle - era malato di tumore - e papà in attesa di una serie di controlli. Si guardarono con infinita tenerezza. Franco diceva di non starci con la testa, ma era lucidissimo: aveva paura della malattia, sentiva venir meno le forze. E non sopportava l'idea di non essere più autonomo".
È stata lei a dire suo padre del suicidio?
"Eravamo nella casa estiva di Roccamare, vicino a Grosseto, e presi la telefonata di Mauro Lucentini, il fratello. Entrai nello studio e glielo dissi. Non fece scenate, immobile, fedele alla sua educazione sabauda. Mi guardò con dolcezza e rassegnazione, come se in fondo se l'aspettasse. Negli ultimi mesi Franco non aveva voluto vedere nessun altro che lui. Mi chiese solo: come? Ed è stato il modo che l'ha straziato, il fatto che Franco sia stato costretto a fare tutto da sé, spingersi faticosamente sul pianerottolo, trovare un varco nella tromba delle scale. Se avesse avuto un medico pietoso al suo fianco, si sarebbe potuto risparmiare questa ultima crudeltà. Lo disse ai funerali, con quel termine inconsueto di 'suicida bricoleur'. E mentre parlava non riusciva a staccare la mano dal legno della bara".
Carlotta, suo padre e Lucentini non erano congiunti, forse qualcosa di più.
"Mi è appena arrivata la notizia della morte di Mauro Lucentini, il fratello novantaseienne che viveva a New York. Per me è un dolore acuto, come se fosse venuto a mancare l'ultimo legame con quella che per molti è una coppia letteraria ma per me resta un universo affettivo intimo, una bussola sentimentale, un padre e un secondo padre. Non so come tradurlo nella lingua della burocrazia".
       

che ne sarà delle vecchie abitudini fatte di cultura ed identità dopo il covid 19 ?

secondo me  come   sono sopravvissute alle  varie  epidemia  e pandemie  che    la  storia    secolo scorso compreso  , rimarranno    talmente  sono  anche  se  trasformate  dalla modernità   e  dal tempo , tanto sono radicate  da  costituire   un fattore  culturale    \ identitario   come  testimoniano   le  canzoni  (     trovate  sotto    l'elenco  )    che  formano  la  colonna sonora  di questo  post   . Inoltre  il  bar     non è  solo  sinonimo  di vino  e  di alcolici e quindi    alcolismo  e  disagio sociale   ma   è anche   vita  sociale   e  di comunità   come   testimoniano :  il  libro  Bar Sport  il primo libro di Stefano Benni, pubblicato da Arnoldo Mondadori Editore nel 1976  da  cui  è tratto il  film omonimo  ed   il suo  seguito  Bar Sport Duemila  2007   in generale .,  oppure    molta letteratura  italiana  mi  sovvengo   in mente         i  capitoli    de il  giorno del giudizio  di Salvatore  Satta    in cui parla del caffè tettamazzi ( tutt'ora esistente e  attivo    )  di Nuoro  o  il film Radiofreccia 1998 diretto da Luciano Ligabue, all'esordio nella regia, e prodotto da Domenico Procacci.L'opera, ispirata ad alcuni racconti presenti nel primo libro pubblicato da Ligabue, la raccolta Fuori e dentro il borgo, ottiene un successo inaspettato: ben tre David di Donatello, due Nastri d'argento e quattro Ciak d'oro.
Ecco quindi  che  se nel  nord  era (  ed è ) più classista  , il mito dell'aperitivo   e della   Milano da bere  cioè espressione giornalistica, originata dalla  famosa   campagna pubblicitaria
che definisce alcuni ambienti sociali della città italiana di Milano durante gli anni 80 del XX secolo.





Infatti questo periodo, la città era assurta a centro di potere in cui si esercitava l'egemonia di quello che fu Partito Socialista Italiano del periodo craxista,e le origino del Berlusconismo caratterizzato dalla percezione di benessere diffuso, dal rampantismo arrivista e opulento dei ceti sociali emergenti , dei Parvenu , arrampicatori sociali , dall'immagine "alla moda" in particolare  yuppies, dei paninari e del mondo della moda del capoluogo lombardo e  non solo .  questi film ricordiamo:


Proletario o quanto meno misto a partire dall'Emilia e dalla Toscana al sud .   Come dimostra  per  quanto riguarda   la mia sardegna 

  ecco una  storia  presa dall'account  Facebook    Luca  Urgu  di  citato nell'articolo della  nuova  sardegna  del  3\5\2020  


MOSSIDU T’HATA?In paese le donne sono più argute e spesso più coraggiose degli uomini, fanno mestieri persino più pericolosi di quelli maschili, la vita le ha temprate a tutto, perché quando era necessario era proprio la donna a vestire i panni degli uomini. Era così anche Cosomina, una donna bella e con un fisico possente, intelligente e simpatica che per tanti anni ha gestito il bar di famiglia come e meglio di un uomo. A lei non sono mancati anche i disturbatori e gli avvinazzati e più di una volta andava a verificare dentro la vaschetta dello sciacquone per trovarci una o due pistole che giovanotti preoccupati dall’avvicinarsi di carabinieri in servizio depositavano frettolosamente. Per lei si trattava di quotidianità, non le turbavano il sonno. E non mancava neanche chi osava stuzzicare Cosomina per il suo essere donna, ma lei non si scomodava più di tanto, anzi furbescamente stava al gioco, in fondo cosa più del gioco e dell’allegria invita un uomo ad offrire da bere a tutti i presenti?E fu così che un giorno Antoneddu offrì da bere a tutti e chiese a Cosomina quanto doveva pagare. Cosomina gli disse la cifra ma non aveva fretta di riscuotere, ma Antoneddu voleva giocarle il suo tiro: «Mi chi su inare est in busciacca si lu cheres picatilu!!» disse, facendo capire che la tasca era quella del pantalone, luogo pericoloso per le donne.
Cosomina non si si spaventò, il tipo non era certo un adone e lei sapeva che in quella tasca proprio pericolo non ce n’era e decise di stare al gioco. Infilò la mano ma ebbe anche lei il suo colpo di genio… facendo finta di aver toccato chissà cosa tirò indietro la mano e si rivolse ad Antoneddu ma anche a tutta la platea con finto spavento: «Maleittu sias!!!!»
Antoneddu, non da meno: «Mossidu t’hata??»
E ancora Cosomina : «bae innorommala!!!»
Strepitosa risata generale, dove Cosomina e Antoneddu avevano superato se stessi, senza certamente avere un copione scritto.
I nostri BAR sapevano essere luogo di incredibile divertimento.



Colona  sonora
VITA SPERICOLATA- Vasco Rossi

3.5.20

Nuoro L’epopea di un gruppo di insegnanti che istruiva gli studenti tra monti e campi Dai viaggi in groppa all’asinello alle classi che si radunavano post mungitura



Cambiamo discorso   , non stiamo  sempre  a parlare  di Covid19    \ coronavirus  e notizie  legate direttamente  ed indirettamente  ad  esso legate  . Parliamo d'altro .  Riporto     qui   questo articolo  preso dalla nuova  sardegna del  29\4\2020  . Eccovi una storia d'altri tempi 😢😎😁 quando  ancora  l'analfabetismo   era  una  piaga   che sembra  ritornato in auge  , i  corsi ed  i ricorsi   della storia  .  Ma  ora   bado alle  ciance  veniamo  ala storia   d'oggi



NUORO
Mezzo secolo fa gli insegnanti colmavano le distanze con gambe da scalatori e volontà di ferro, oggi nelle scuole chiuse per decreto a tenere unità e produttiva la classe – ognuno a casa sua – c’è bisogno di un computer e di una linea wi-fi affidabile. Generazioni a confronto con storie e metodologie differenti per affrontare le emergenze. Così, se da una parte gli insegnanti itineranti non conoscevano la fase uno e poi quella due, ignoravano termini come lockdown o altre diavolerie, avevano però un solo credo: faticare tutti i giorni per sconfiggere l'analfabetismo, allora galoppante. Perché tutto quello che possedevano, che non era molto anzi, era quasi nulla – se lo dovevano conquistare con il sudore in tutte le stagioni dell’anno.


Oggi per i pochi maestri rimasti che portavano l’insegnamento in campagna, là dove c’erano gli alunni che mai sarebbero andati a scuola in paese, reduci di una stagione che sembra essere lontana anni luce dalle comodità attuali, vivere quest’era afflitta da un male, il coronavirus, fino a poco tempo fa sconosciuto, sorprende ma non li allarma. Sentendo i loro racconti l’emergenza attuale è davvero poca cosa rispetto alle difficoltà – davvero di ogni tipo – che hanno dovuto affrontare e superare quando andavano a insegnare tra i monti e le campagne del nuorese. Viaggi quotidiani in groppa all’asinello se si era fortunati o a piedi per chilometri per portare la didattica ad una classe di pastori che si radunava dopo la mungitura.
Di quel gruppo nutrito di insegnanti – in Sardegna erano una cinquantina – ne sono oggi rimasti davvero pochi. Una compagine che si è ulteriormente assottigliata dopo la dolorosa perdita di uno di loro, l’apprezzato e compianto, Gianni Berria di Orune, una delle tante vittime di questa malattia fino a poche settimane fa sconosciuta. Il lavoro in prima linea di Berria, ma anche di Giovanni Puggioni, di Giovanni Pala Mundanu e dei loro alunni – pastori spesso coetanei e con voglia di apprendere – non era sfuggito all’Europeo, rivista che nel febbraio del 1960 aveva realizzato un reportage su questo particolare spaccato di vita e lavoro di un’Isola che lottava per emanciparsi.
«Le nostre difficoltà raccontate oggi hanno dell’incredibile. Sembrano irreali. Eppure le abbiamo vissute con fermezza e spirito di adattamento. E con uno stipendio che a mala pena serviva a coprire le spese», racconta Giovanni Puggioni, 81 anni. Gli fa eco dalla sua Orune, costretto in casa come tutti dalle restrizioni nei movimenti imposte dal governo per contrastare il coronavirus, Giovanni Pala Mundanu. Voce ferma e vis ironica ancora intatta, l’ex insegnante dimostra molte stagioni in meno dei suoi 87 anni. «Questo male non ci può spaventare – dice – noi abbiamo superato tutto, qualsiasi malattia, dalla tubercolosi, alla malaria. E poi andare a fare lezione in campagna non era semplice. Un’esperienza che ti temprava e portava anche molte soddisfazioni».
A Oliena vive Monserrato Mereu, che allora pastore quasi ventenne, era uno degli alunni che seguiva le lezioni di Giovanni Puggioni. Anche la sua dichiarazione e foto fu raccolta da Epoca, giornale che custodisce gelosamente in un quadretto.

«Il maestro era una gran brava persona e mi aiutò tantissimo» rimarca l’anziano che grazie a quei primi insegnamenti riuscì a prendere la licenza elementare. Oggi invece in questa situazione di tempo sospeso la didattica online dà un aiuto importante, anche se ritrovare la scuola e i suoi spazi sarebbe tutt’altra cosa. «Tra gli estremi rimedi rientra sicuramente la didattica a distanza. Essendoci trovati noi tutti scaraventati in una realtà surreale quale quella causata dal covid-19, l’utilizzo degli strumenti tecnologici per l’insegnamento non lasciava scampo. Ma sono tanti i contro di questo mezzo, primo tra tutti il venire a mancare di tutto il sistema scuola e il suo riconoscimento da parte dell’alunno come luogo non solo di apprendimento e di studio, ma anche e soprattutto come spazio protetto e sicuro, un luogo di accoglienza non solo intellettiva ma soprattutto emotiva – spiega Ivana Dore, insegnante e psicologa – È venuta a mancare la motivazione e il coinvolgimento nelle attività a causa della distanza fisica, della relazione. Anche per gli insegnanti e per tutti gli operatori che utilizzano questo strumento non è semplice, si incombe in tante distrazioni, si rischia di lasciare indietro chi anche all’interno della classe aveva bisogno di maggior attenzione e un grande vuoto si apre per i bisogni educativi speciali) e per chi ha una diagnosi precisa»

2.5.20

Don Haskins, il Martin Luther King bianco del Basket americano

Durante    periodi come  qiuesto  si scoprono  ( nel mio caso )  o  si  riscoprono   vecchi film  è  i caso   di



 Il bello    che  esso  è tratto  da  una storia    vera  . Infatti Glory Road racconta una storia di vittorie ottenute sia sul campo da basket, sia fuori dal terreno di gioco, in particolare nella lotta al razzismo . Vedere  siti d'approfondimento  ala  fine del post 

Egli  , per  quei tempi fece una cosa  rivoluzionaria   come potete  vedere  nei diversi  film    che trattano  la storia  degli Usa  negli anni 60 \80in particolare   maggiordomo alla  casa bianca   , tanto    che    fu    chiamato come riportato  da  https://giocopulito.it/don-haskins-il-martin-luther-king-bianco-del-basket-americano/



          Don Haskins, il Martin Luther King bianco del Basket americano

                                           di Roberto Consiglio




Il 4 Aprile 1968 veniva assassinato a Memphis, Martin Luther King. Nello stesso periodo, nel mondo dello Sport c’era un uomo che prese i suoi concetti di uguaglianza e li portò nel Basket scrivendo una storia di sport indimenticabile. Vi raccontiamo la vita di Don Haskins.
Martin Luther King Jr. era un pastore protestante ma anche attivista e politico statunitense che si battè contro la segregazione razziale in America e per i diritti civili degli afro-americani.
Per questa sua attività, caratterizzata dal concetto della non-violenza, King, nel 1964, vinse il Premio Nobel per la Pace. Il pastore, inoltre, in questo suo percorso, venne affiancato da un’altra figura molto importante nel campo dei diritti civili dei neri: Malcom X che, però, preferiva la violenza per raggiungere determinati traguardi.
L’azione di Martin Luther King non risparmiò nessun ambito della vita quotidiana americana. Tra questi non poteva mancare, manco a dirlo, il mondo dello sport.
Nel mondo sportivo americano l’azione rivoluzionaria del pastore protestante venne colta e portata avanti, in particolar modo, da Don Haskins. Egli, per chi non lo sapesse, era il coach bianco della squadra dei Miners legati al Texas Western College, nella cittadina texana di El Paso.
Nell’inverno 1965, guarda caso esattamente 10 anni dopo il gesto di Rosa Parks, Haskins iniziò a girovagare per tutti gli Stati Uniti con un intento ben preciso: cercare giovani talenti neri a cui affidare la rifondazione del suo team di pallacanestro.
In quello stesso 1965 Luther King aveva raggiunto il culmine della sua lotta contro la discriminazione razziale in America, che lo portò ad essere ucciso pochi anni dopo, nel nome del suo celebre motto “I Have A Dream”. Questa azione fece sì che venisse approvata la cosiddetta “Voting Rights Act”: una legge, di cui lo stesso Martin Luther King fu il promotore e che venne firmata dal presidente Lyndon Baines Johnson, che riconosceva il diritto di voti anche ai neri d’America.



La scelta di Haskins, in più, oltre a contribuire alla lotta di King ebbe anche degli effetti dal punto di vista dei risultati sportivi raggiunti sul campo. Nella Summer League del 1965, ad esempio, vennero fuori le qualità dei cestisti neri che Don aveva scelto di portare nella sua squadra.
In particolare si mise in evidenza la figura di Bobby Joe Hill. Esso, che era considerato un vero e proprio genio ribelle del mondo del basket, in quell’anno vinse la classifica dei punti messi a segno del torneo.
Joe Hill era la punta di diamante di quel gruppo di atleti afroamericani che vennero denominati i “seven niggas”. Da quel momento, in poi, i giocatori bianchi dei Miners diventarono la minoranza della squadra: 5 bianchi contro 7 atleti neri. Era la prima volta che avveniva un fatto del genere nel mondo del basket americano.
Questa storia cancellava, in un secondo, tutte quelle regole e quegli stereotipi razzisti che, da oltre un secolo, caratterizzavano la società del paese che veniva considerato “la più grande democrazia del mondo”.
Inoltre vi era un altro fatto: questa rivoluzione avveniva in uno degli stati più conservatori, il Texas, che componevano i già ultra-conservatori Stati Uniti meridionali. In questa parte di paese, per fare qualche esempio, i membri della setta razzista del Ku Klux Klan, nel periodo temporale tra il 1882 e primi anni ’50 del XX secolo, avevano ucciso, spinti da puri ideali razzisti, circa 5000 afroamericani, la maggior parte dei quali in giovane età.
Il 4 dicembre 1965 vi fu il debutto vero e proprio sul campo dei “nuovi” Miners contro l’Estearn New Mexico. Il clima in cui si svolse la partita non fu certo buono, dal punto di vista razziale, ed i giocatori neri allenati da Haskins vennero insultati pesantemente nel corso di tutto il match.
Le prime vittorie vennero descritte, dagli addetti ai lavori, come dei veri e propri colpi di fortuna e non venne minimamente presa in considerazione la bravura dei giocatori neri. Quando però la squadra di El Paso raggiunse la cifra record di 23 vittorie consecutive nessuno provò, nuovamente, a tirare in balla la sola fortuna.



A suon di vittorie i Miners si conquistarono, inoltre, il rispetto di gran parte del pubblico, sia proprio che della squadra avversaria. L’apoteosi si raggiunse, però, il 19 marzo 1966: quel giorno venne riscritta un pezzo di storia americana che non può essere relegata al solo mondo del basket. In quelle ore, infatti, era in programma la finale del campionato, presso la struttura del Cole Fields House di College Park nello stato del Maryland. Il giorno prima, purtroppo, si verificò l’ennesimo episodio razzista a cui Haskins decise di rispondere con una scelta parecchio coraggiosa: mandare in campo solamente giocatori neri.
La partita, per la cronaca, si chiuse con il punteggio di 72 a 65. Bobby Joe Hill, invece, risultò essere il miglior marcatore dell’incontro con 20 punti segnati.
La figura di Don Haskins, per queste ragioni, è ricordata, più che per gli schemi di gioco, per aver cercato di insegnare ai suoi atleti valori come l’unione e la condivisione. Dopo di lui, guarda caso, il numero dei giocatori neri nel mondo della pallacanestro americana, dal 5% degli anni ’50, aumentò fino a rappresentare i tre/quarti del totale nell’epoca attuale.
Lo stesso allenatore, però, è sempre rimasto molto nell’ombra e non si è voluto mai esporre troppo su questo fatto. Una volta, ad una domanda su quell’impresa raggiunta, rispose in maniera che più semplice non si può: “Io non ho fatto niente di strano: quel giorno misi in campo semplicemente i migliori giocatori della squadra. E risultò che erano tutti neri”.

per  approfondire  
https://it.wikipedia.org/wiki/Glory_Road  il  film che    racconta la   vicenda  

donne e terzo settore nel coronavirus \ codiv19

 ha  perfettamente ragione   questo editoriale  del mensile  grazia    magio  2020 



#Undisegnocontrolapaura: il mondo dei comics contro il coronavirus, 15 autori per 15 inediti
Disegno di Carlo Guarino
In un Paese normale la gestione familiare sarebbe equamente divisa tra le coppie. Invece tra smart working, lezioni online dei figli, cura delle casa o degli anziani, in questi mesi sono state soprattutto le mogli e le madri a sostenere il peso dell’emergenza. Ora la decisione di rinviare l’apertura delle scuole rischia di aumentare le disparità di genere nel nostro Paese, già primo in Europa per l’ingiusta distribuzione delle incombenze domestiche e delle retribuzioni nei luoghi di lavoro. Grazia ha chiesto a leader politici, sindaci ed esperti come evitare il ritorno delle mamme nei tinelli.  Infatti  L’epidemia ha messo le madri sotto scacco. Già le italiane erano prime in Europa per l’ingiusta ripartizione dei compiti domestici: si dovrebbe dividere tutto a metà con il partner, invece, dice Istat,le donne lavoratrici devono farsi carico ogni giorno anche di circa quattro ore di incombenze casalinghe, contro un’ora e 47 minuti dei maschi. E la Fase 2 rischia di far esplodere la situazione: sia provvedimenti come lo smart working, sia i congedi parentali diventerebbero una “gabbia digitale” per le donne. Una situazione che si somma a quello della bassa presenza femminile nel mondo del lavoro: solo il 49,5 per cento delle donne ha un’occupazione contro il 67,6 per cento degli uomini. Mentre la differenza di retribuzione è, in media, del 23,7 per cento, rivela Eurostat. Ora   Che cosa sta facendo la politica per evitare un arretramento senza ritorno? «L’emergenza ha soltanto acuito la fragilità della presenza delle donne nel mondo del lavoro, ma noi possiamo usare questa criticità per trasformare il sistema. Se non ora, quando?», risponde Elena Bonetti  --- GRAZIA  ---  ministra delle Pari Opportunità e della Famiglia e docente di Matematica all’università Statale di Milano. «Possiamo trasformarla in un’opportunità per attivare politiche inclusive.
È questo l’obiettivo del gruppo di lavoro che ho
istituito: 12 donne provenienti da realtà diverse che possono contribuire a progettare un Paese più paritario. I risultati scientifici più importanti di questa emergenza sono stati ottenuti proprio da ricercatrici. Io sono una scienziata e non mi sono stupita. Il mio obiettivo è valorizzare le donne nel mondo delle Stem: scienze, tecnologia, ingegneria e matematica. Anche il futuro nell’ambito dell’Intelligenza artificiale avrà bisogno di noi». In concreto, per l’emergenza sono in arrivo un nuovo assegno mensile universale per i figli, altri congedi parentali e i bonus per le baby sitter. «La custodia dei figli non è un fatto privato delle famiglie, all’interno delle quali sono sempre le donne a farsene carico», dice  sempre   la ministra. «Per questo ho voluto che il congedo fosse anche per gli uomini. Ora proseguiamo in questa direzione: che diventi premiante per le aziende concedere congedi ai padri». Queste misure basteranno? E non rischiano di riguardare solo le madri, imprigionandole in casa? Gli uomini ricorreranno mai ai congedi? «Alziamo la voce. Non è solo una questione delle donne, ma sociale», dice Giulia Blasi, scrittrice femminista, autrice del Manuale per ragazze rivoluzionarie (Rizzoli). «Come scienziate, o economiste, siamo invisibili. Tutti gli esperti scelti dal Governo su Covid-19 sono maschi (vedi a pagina 24, ndr). Si dà per scontato che durante le crisi le donne si rimettano a fare gli angeli del focolare». Eppure quelle in prima linea, dalle operatrici sanitarie alle commesse, sono in gran parte donne. Ma una vera divisione del carico di lavoro tra genitori è lontana. «Noi politici dobbiamo fare uno sforzo in più, com’è stato fatto per la legge Golfo-Mosca sulle quote rosa», dice Debora Serracchiani, vicepresidente del Partito democratico e membro della Commissione Lavoro alla Camera dei Deputati. «Dovremo spingere i cittadini ad altri comportamenti anche all’interno della famiglia. Che sia obbligatoria un’alternanza di smart working o altro. Altrimenti sarà sempre la donna a stare a casa, per condizionamento culturale o perché guadagna meno». Dice Chiara Appendino, sindaca di Torino: «Il mio auspicio è che la politica possa favorire, attraverso i suoi strumenti, un cambiamento normativo e culturale che crei il prima possibile le condizioni per l’equiparazione dei ruoli». E tra le proposte c’è quella del primo cittadino di Milano: «Dobbiamo pensare a una Fase 2 che sostenga le madri», dice Giuseppe Sala. «I congedi parentali aiutano, ma non sono la soluzione. È necessario dare alle donne la possibilità di organizzare la giornata liberando tempo. I centri estivi per i bambini, su cui stiamo lavorando, saranno fondamentali». Ma saranno sicuri? Garantire la salute dei piccoli e tranquillizzare le famiglie non sarà facile. Per superare le discriminazioni di genere, Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, propone screening della popolazione con test sierologici. «L’obiettivo è arrivare a stabilire il prima possibile chi ha sviluppato gli anticorpi contro il virus in modo che gli immuni possano tornare al lavoro», dice. «Questo porterebbe a una maggiore turnazione familiare». La crisi sanitaria, e il carico di lavoro per le donne, non aiutano certo il tasso di natalità, già ai minimi storici. «Noi puntiamo ad asili nido gratis, congedo parentale retribuito al 100 per cento nei primi sei mesi del neonato e all’80 per cento fino a 6 anni d’età», dice Meloni. La realizzazione personale delle donne al di fuori della famiglia è minacciata. «Sono sempre loro quelle più a rischio professionale», dice Paola Profeta, docente di Economia di genere all’università Bocconi di Milano. «Anche i congedi sono un’arma a doppio taglio: per le donne, un distacco prolungato è l’anticamera della perdita del lavoro. I congedi previsti solo per i padri sono l’unico modo per coinvolgerli. Non ci possiamo permettere che le donne escano dal mondo del lavoro: sono una risorsa fondamentale per l’economia». E questo è il momento giusto per capirlo.
Il bello  è    che   nonostante  le  donne  ( personale  sanitario , infermieristico  , medico    ecc  )siano in prima   linea   Nessuna ricercatrice è stata inserita nel comitato del Governo per l’emergenza Covid-19. Eppure immunologhe, virologhe ed epidemiologhe stanno guidando la battaglia contro la pandemia. Infatti  Gli ultimi dati dicono che in Italia si laureano ogni anno in materie scientifiche e tecnologiche circa 28 mila ragazze, contro circa 44 mila ragazzi. Però i posti di vertice all’università, e nelle grandi organizzazioni del settore, sono assegnati per l’80 per cento a maschi. Quest’anno ha fatto scalpore la scoperta che su 71 professori ordinari di Fisica teorica ci siano solo tre donne. E su 247 ruoli universitari, le docenti o ricercatrici sono appena 27. Anche per questo l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha istituito nella data dell’11 febbraio la Giornata internazionale delle Donne e ragazze nella Scienza.

Tre di loro, tutte ai vertici, spiegano in questo  articolo  di  a Grazia perché guarire dal maschilismo sarà un vantaggio per tutti 

MARIA TERESA COMETTO da NEW YORK 

Questa è l’epidemia delle donne», dice Silvia Stringhini. «Ma l’Italia non è un Paese per donne», osserva Antonella Viola. E Ilaria Capua avverte: «Il talento femminile in Italia è tantissimo e rischiamo di perderlo». Stringhini, Viola e Capua non sono tre donne qualunque: sono tre scienziate al top della ricerca mondiale nelle discipline - rispettivamente - dell’Epidemiologia, dell’Immunologia e della Virologia, tre esperte insomma con un bagaglio di conoscenze fondamentali per combattere il coronavirus. Eppure nessuna di loro è stata interpellata per far parte del comitato tecnico-scientifico nominato dal governo italiano per superare l’emergenza Covid-19. Un comitato di 20 nomi tutti al maschile. «NON CAPISCO COME NEL COMITATO NON CI SIA NEMMENO UNA DONNA, quando proprio le donne sono in prima linea in questa guerra: dalle infermiere alle dottoresse alle tantissime ricercatrici», continua Stringhini e cita, come esempio, la dottoressa Annalisa Malara, la prima in Italia a diagnosticare un caso di Covid-19, il 20 febbraio all’ospedale di Codogno (Lodi). E poi ci sono le tre ricercatrici dell’Istituto Lazzaro Spallanzani a Roma, fra le prime al mondo a isolare la sequenza genomica del coronavirus. Senza dimenticare che la stessa virologa Capua è stata fra i primissimi a lanciare l’allarme, il 18 gennaio, sulla presenza del Covid-19 in Italia. Laureata in Economia internazionale all’Università di Pavia, con un Master in Salute globale al Trinity College di Dublino e un dottorato in Epidemiologia all’Université Paris-Sud e all’University College di Londra, dal 2011 Stringhini lavora negli Ospedali universitari di Ginevra. Ora è responsabile della squadra di Epidemiologia che sta conducendo uno dei più grandi studi al mondo di sierologia su un campione di cittadini svizzeri per capire in che percentuale ha sviluppato anticorpi. Anche Viola sta guidando uno studio importante sul coronavirus. Professoressa di Patologia generale all’università di Padova, dove dirige l’Istituto di Ricerca pediatrica Città della Speranza, ha avviato l’analisi del sangue di un campione di pazienti per capire come ogni cellula risponde al virus e ottenere il quadro definito dell’interazione fra virus e sistema immunitario. «Ovviamente ci sono scienziate italiane brave e capaci di dare un contributo anche come membri del comitato governativo, solo che non vengono considerate perché nel nostro Paese “l’esperto” è un uomo», sottolinea Viola. «Le donne rappresentano una grandissima fetta della ricerca italiana, anche in campo biomedico. A livello iniziale, le giovani ricercatrici sono decisamente più numerose degli uomini. Ma appena si passa alle posizioni più importanti, per esempio di professori o di primari, ecco che gli uomini scalzano magicamente tutte le colleghe. È accaduto anche nel caso del coronavirus: le donne si sono distinte da subito per la loro abilità e competenza sul campo, ma sono state messe in un angolo non appena si è arrivati agli incarichi in ruoli strategici», racconta.

ESSERE DONNA E SCIENZIATA È DIFFICILE DOVUNQUE, ANCHE IN SVIZZERA», puntualizza Stringhini. «Ma almeno altri Paesi cercano di non sembrare troppo maschilisti e promuovono qualche donna ai vertici, invece in Italia non fanno nemmeno lo sforzo di fare bella figura». Eppure ci sono stati tentativi di cambiare la situazione. «Qualche anno fa in Italia è nata anche l’iniziativa 100 donne contro gli stereotipi ( www.100esperte.it, ndr) con lo scopo proprio di facilitare l’individuazione di donne competenti in vari ambiti del sapere, ma anche questo non è bastato», ricorda Viola. Che invita le colleghe a continuare comunque a far sentire la propria voce: «Le donne che, nonostante il clima non favorevole, sono riuscite ad arrivare in posizioni apicali rappresentano per le più giovani uno stimolo a crederci e a lottare. Ma hanno anche la grande responsabilità di esserci, di metterci la faccia a costo di essere criticate e attaccate, come sempre accade, perché, nel nostro Paese, alle donne non si perdona di essere protagoniste. Ma è necessario resistere e continuare a mostrarsi, a raccontare, a indignarsi. E fare squadra con le altre donne, favorirne la crescita». «Dobbiamo anche essere più sicure di noi stesse», aggiunge Stringhini. «Abbiamo sempre bisogno di sentirci dire che siamo brave, ma poi ci accontentiamo di quello: abbiamo paura di essere considerate arriviste, carrieriste, se chiediamo che la nostra competenza sia riconosciuta con posizioni di potere». «QUESTA PANDEMIA CI HA REGALATO CONSAPEVOLEZZE NUOVE», RAGIONA CAPUA, dal 2016 responsabile del One Health Center of Excellence della Università della Florida a Gainesville. «Una è che le donne biologicamente, e anche per opportunità, sono state le prime a reagire a questa emergenza, portando il loro soccorso e il loro talento organizzativo a risolvere le prime fasi della crisi. Ora, per fare una volta un piacere al Paese e non trasformare in un investimento morto tutti quei soldi spesi per formare le nostre ragazze, non perdiamolo, il talento femminile: è importante e valorizzarlo è un atto di grande civiltà. Se le donne sono più gratificate e più indipendenti, si è tutti più liberi e più contenti».

Per  quanto  riguarda  il terzo settore
Nessuna precauzione per gli operatori e nessun sostegno economico specifico. Finora Conte e il suo governo si sono dimenticati del Terzo settore. Una miopia che mette a rischio la tenuta sociale del Paese
 potete   , scusate   se  non riporto qui  articoli  ma  è  difficilissimo  diciamo  meglio impossibile  da  riassumere  le   difficoltà e le  carenze  del governo  verso tale  settore    di vitale  importanza    come  quello  del volontariato   , leggerle  online  qui   in questo  numero   (  vedere a  sinistra   copertina  ) di www.vita.it.
Qualora  , leggiate tardi questo   post   o  esso  no fosse  più disponibile   lo trovate    in  pdf   nella  nostra ulteriore  appendice  social dove  trovate    anche   degli extra   rispetto  al blog  ovvero  il  canale    telegram  https://t.me/compagnidistrada 


1.5.20

Umiliazione allo stato puro, succede al tempo del coronavirus.



L’umiliazione. «Il dolore e la morte non sono il peggio che possa capitare a una persona. Il peggio è l’umiliazione». Scrive così Jo Nesbø  ( 1960 - )  scrittore, musicista e attore norvegese. E quanti modi, parole, azioni servono allo scopo? Tantissimi, quante sono le infinite sfumature di un colore scuro.   Infatti 

L’umiliazione è una parola che descrive un forte senso di imbarazzo o mortificazione – proprio come quella volta che alle medie, dopo averti accompagnato a scuola, tua madre ti chiamò “biscottino” davanti a tutti i tuoi compagni di classe. La parola deriva dal termine latino “humiliare”, che significa”umile”. Quindi, se ci si trova in una situazione che provoca questo tipo di sentimento, si può ottenere una perdita di autostima e del rispetto di sé.

Ora  sono  , per  poter  continuare  ad esporre  il  fatto    con parole mie, talmente  indignato ed  sconfortato  da non trovare  le parole  adatte   che  non siano di pancia   e  preferisco (  Lo  sò  che non è bello ed originale   dipendere  dagli altri  cioè far  si che  siano essi a  parlare  o scrivere  per  te  , ma  a volte  non sempre   se ne  può  fare  a meno   in quanto  siamo animali sociali ed  ogni  ha  bisogno dell'altro\a    ed


La libertà non è star sopra un alberoNon è neanche avere un'opinioneLa libertà non è uno spazio liberoLibertà è partecipazione
 lasciare   la  descrizione  della  vicenda   avvenuta  qui  in paese   , come credo   visto   che ogni regione    e comune  ,  fa   come  .....  gli pare  (  e  poi dicono  che l'italia  è  unita  Bah  )  ,  nel resto   d'Italia  .

Chissà qual’è stato il sentimento di quella persona che al supermercato, con il buono spesa del comune, si è vista ritirare dalla spesa acquistata, la carta igienica e una scatola di camomilla. Come so queste cose? Le so e questo mi basta per inorridire per questa doppia umiliazione, come dice il mio amico al telefono. Si signori, doppia. E non c’è bisogno che spieghi perché. 
L’ordinanza comunale, infatti, risalente al 30 marzo, a cui probabilmente la persona non ha badato, lo specificava benissimo. 
1) I seguenti prodotti di prima necessità:
Pasta, Riso, Latte, Farina, Olio di oliva o di semi, Frutta e verdura, prodotti in scatola (quali legumi, tonno, carne, mais, ecc.), prodotti per la prima colazione (the, caffè, biscotti), Passata e polpa di pomodoro, Zucchero, Sale, Carne e pesce. Prodotti alimentari e per l’igiene per l’infanzia  (omogeneizzati, biscotti, latte, pannolini, ecc.).

«L’umiliazione è uno di quei veleni che uccide lentamente» (Stefano Chiacchiarini).

L’igiene dell’adulto non è compresa e la carta igienica si considera igiene. Come uno shampoo, un sapone o un deodorante che non ne fanno parte. Una persona senza reddito, secondo questa disposizione, non si deve lavare, ma deve rispecchiare il suo stato di “povero” alla luce della ribalta, davanti ad una cassa dove una commessa gentile quanto, a sua volta, umiliata, le ha dovuto dire: “No signora, questi prodotti non sono compresi, mi dispiace”.
Eccessi, sviste, mancanze, omissioni, chissà quali siano stati i sentimenti che hanno fatto decidere di escludere tali beni dal carrello spesa. Non sta a noi giudicare la scelta.La sottolineatura è nel profondo senso di umiliazione che quella persona avrà portato con se a ricordo di questo tempo da coronavirus. Magari vi aggiungerà l’oblio, come spero, ma sa tanto di marchio a fuoco. Sicuramente non il primo, né l’ultimo.Non lo auguro al peggior nemico che non ho di trovarsi in quella situazione. Un’altra lezione è servita, gratis, anche oggi. Imparo sempre di più e non smetto mai di chiedermi il perché di ogni cosa.


handicap e covid19 . tre ragazzi producono mascherine con finestra per i non udenti


per evitare chiamate indesiderate o messaggi molesti su whatsapp usate due schede una pubblica ed una privata

  questo post     di  Aranzulla     conferma    il consiglio      che  davo    in un post   (  cercatevelo  nell'archiviuo  dell'ann...