Cerca nel blog

25.6.25

a che punto siamo arrivati "Chiuso per paura". La commerciante abbassa la saracinesca per colpa di un immigrato e se invece fosse un italiano avrebbe fatto lo stesso ?




Quando si parla di criminalità legata alle migrazioni, è tale il carico di pregiudizi che qualunque affermazione si presta ad accuse di razzismo o di buonismo. Poi ci sono i fatti. C’è una negoziante del centro storico di Vicenza, Margherita Parolin, che mette il cartello «Chiuso per paura» e dice che non riaprirà fino a quando un extracomunitario che ha già tentato più volte di aggredirla non verrà espulso. Perché ciò accada occorre che cambino le leggi. In base a quelle attuali, una persona in possesso di un
certificato medico che ne attesti un problema di salute non può essere mandata via dall’Italia. 
E così il persecutore della commerciante vicentina, espulso giovedì scorso, sabato mattina girovagava di nuovo intorno al negozio. In questo quadro, che purtroppo non è originale, va segnalata una novità: il giovane sindaco di Vicenza, Giacomo Possamai, ha espresso pubblica solidarietà alla commerciante. Una scelta popolare ma al tempo stesso coraggiosa, perché Possamai è del Pd, quindi rischia la scomunica della sua chiesa politica.Le paure dei cittadini non vanno strumentalizzate per mero calcolo elettorale, a prescindere che l’oggetto sia un italiano o un extracomunitario, però non possono neanche essere etichettate a priori come espressione di razzismo quando riguardano un migrante. Una sinistra moderna dovrebbe assomigliare al sindaco Possamai e, in attesa di trovare soluzioni alternative a quelle della destra, riconoscere almeno che c’è un problema.

Una fame disperata di vitaLaura ha 50 anni e per metà la sua vita è stata segnata dalla progressione della sclerosi multipla. Aveva pensato di ricorrere al suicidio assistito in Svizzera, ma poi ha fatto della sua vita e della sua morte una battaglia.

 
Ogni vita è diversa dall’altra e ogni storia è speciale. Siamo unici ogni giorno, nelle scelte e nei sogni, e lo siamo di fronte all’idea di morire. L’incontro con Laura Santi mi ha toccato profondamente, in lei abitano due desideri profondi e potenti: una fame disperata di vita e la pulsione a liberarsi per sempre dalla sofferenza. Laura ha combattuto per avere la libertà di morire a casa sua e nel suo letto e ora che l’ha ottenuta si confronta ogni ora con la libertà di vivere.
Laura nel 2007, all’epoca era già 
malata   ma asintomatica

 


Laura Santi è una giornalista, ha viaggiato il mondo ma vive ancora nella città dove è nata: Perugia.
Laura ha cinquant’anni e da venticinque soffre di sclerosi multipla. Il suo corpo è quasi completamente paralizzato, muove solo la testa e tre dita della mano destra. Non ha più nessuna autonomia e dipende completamente e per qualunque funzione da chi l’assiste e da suo marito Stefano. La sua giornata è scandita dalla sofferenza, dal dolore, da una serie di gesti necessari per tenerla in vita, da un’immensa fatica.

 

                                                 Laura Santi


Tre anni fa ha iniziato una battaglia legale per avere il diritto di accedere al suicidio medicalmente assistito. Per avere la libertà di scegliere se restare in questo mondo.
Alcune settimane fa, quando pensava ancora di essere costretta ad andare in Svizzera per il fine vita nonostante abbia i requisiti previsti dalla Corte Costituzionale per morire in Italia, mi ha scritto. Ha immaginato che tutti avrebbero parlato della sua morte, invece lei voleva raccontare la sua vita, lasciare una traccia del suo passaggio e del suo amore e della sua gratitudine per il mondo e le persone.Così sono andato a trovarla e proprio nel giorno in cui sono arrivato a Perugia lei ha ricevuto il protocollo sanitario di assistenza per il suicidio assistito dall’Asl della Regione Umbria. Era molto scossa: «Mi sono messa a piangere quando l’ho saputo. Ero in un misto tra malinconia, tristezza, liberazione e trionfo. Mi sono fatta un pianto a singhiozzo pensando a me che schiacciavo quel pulsante. È dura dirlo, però è così: quel pensiero può essere anche vissuto come una grande liberazione».

Insieme a Laura Santi durante il nostro incontro

Per più di due ore sono stato seduto di fronte a lei ad ascoltarla, nelle sue parole ho trovato tanta umanità e la capacità di spazzare via le banalizzazioni che caratterizzano il dibattito sul fine vita in Italia: «La vita è una e soltanto una e me la tengo cara, me la sono sempre tenuta cara. Avere la libertà di morire è una cosa dirompente, ma vorrei far capire che non porta nessun abuso. Ora sono libera di decidere della mia esistenza. Sono libera di capire fino a che punto voglio affrontare la progressione di una malattia che non si sta fermando ed è dirompente». Così Laura mi ha parlato del dilemma che vive ogni giorno, di quella vertigine che lei chiama “il parapetto”, che è figlio della possibilità di scegliere, di non essere obbligata a vivere a tutti i costi: «È come se tu ti sporgessi da un parapetto che si affaccia sul vuoto: tu guardi di sotto e ti chiedi: vuoi morire domani? No, grazie, domani no. E forse neanche dopodomani, forse neanche tra una settimana. Questo è il parapetto, questa è la libertà. E questo nonostante io mi senta intrappolata in questo corpo, sia piena di sofferenze, di dolori, di spasmi, di crisi epilettiche, nonostante io viva ogni giorno la solitudine e l’isolamento della disabilità. Ogni sera il mio corpo mi dice basta, ma la mia mente mi dice che vorrebbe andare avanti. E per me è un dilemma terribile».

                                  Laura insieme al marito Stefano Massoli

Laura mi ha parlato a lungo della sua vita, della sua famiglia, della sua infanzia di bambina timida e introversa, della sua adolescenza difficile: «Ero una ragazza bulimica, ma crescendo mi sono trasformata in una persona bulimica di vita, che cercava di strappare la vita con i denti e con le unghie anche nella timidezza». Mi ha raccontato dell’amore per il nuoto e della sofferenza di dover rinunciare alla piscina per la malattia, della scelta di fare la giornalista: «Perché mi piaceva molto ascoltare gli altri, perché tutti hanno delle storie bellissime da raccontare. Perché l’ascolto per me è una cosa pazzesca». Mi ha parlato dei suoi viaggi nel mondo e dell’amore per Stefano, che è diventato suo marito e le sta accanto ogni giorno. Il nostro incontro è diventato anche un podcast che ha il titolo che Laura avrebbe dato alla sua autobiografia se ne avesse mai scritta una: “Una fame disperata di vita”.Un incontro che è stato un turbine di sensazioni e così pieno di vita da farmi quasi dimenticare che ero arrivato per parlare della sua morte: «Lo capisci il dilemma che sto vivendo? Tu mi senti parlare? Il dilemma è che se fosse per la mia mente, per il mio cuore, io andrei anche tranquillamente molto in là, perché c’è la vita. Ho cercato il cartellone di Umbria Jazz, è bellissimo, lo vorrei tanto vedere. Non credo che lo farò, ma il solo fatto che lo desidero è vitale. Oppure vorrei essere alla manifestazione per Gaza. Vorrei vedere la gente che si ammassa a Roma. Voglio sapere come andrà il referendum. Questa cosa mi incuriosisce da matti. Non so bene come votare quelli sul lavoro, ma quello sulla cittadinanza sono certa di andare a votarlo.
E allora mi si potrebbe dire: ma che ti frega del referendum, di Gaza, del jazz se vai a morire? E invece mi frega, il problema è questo: la vita è bella e il mondo per me è e resterà sempre tremendamente interessante. Il mondo con le sue atrocità, con le sue ingiustizie, con le sue bellezze, con la sua poesia. Questo è il dilemma, questo è il parapetto». Una delle cose più commoventi di Laura è la sua gratitudine verso le persone: ringrazia sempre per la solidarietà, la vicinanza e l’amicizia. Non c’è nessuna amarezza, nessuna rabbia, ma una forza straordinaria. Nella sua battaglia non è stata sola, ma ha avuto accanto Marco Cappato e Filomena Gallo dell’Associazione Luca Coscioni: «Per me sono due amici, sono due persone che mi hanno tenuto per mano mi hanno suggerito di rendere pubblica la mia situazione. Io ero intenzionato ad andare in Svizzera dalla disperazione e volevo tenere in incognita questa mia scelta anche per motivi familiari, ma loro mi hanno aiutato a parlarne pubblicamente».Nessuno di noi sa quanto vivrà ancora Laura, ma io sento il privilegio di averla incontrata e di averla ascoltata e mi ha regalato un grande insegnamento sul valore della libertà e sul rispetto che si deve alle scelte degli altri.

SARA, LA DONNA NELL’OMBRA serie TV italiana distribuita da Netflix.

  Su Netflix   c'è  una   serie italiana che si fa apprezzare per recitazione, approfondimento psicologico e trama di grande attualità. Sto  parlando di SARA, LA DONNA NELL’OMBRA, tratta dalla saga letteraria di Maurizio De Giovanni e composta da sei episodi. Un crime ambientato a Napoli, che convince sebbene abbia qualche affinità con le fiction della tv generalista     nella    quale    sono stati  trasmessi  fction  tratte  dai romanzo di  giovanni  e  non solo   . 
La miniserie Netflix è un cocktail di giallo, spy story, thriller e family drama che ha subito conquistato gli abbonati della piattaforma – malgrado l’assenza di un battage pubblicitario anche minimo  rispetto ad  altre  produzioni alcue  discutibili  – perché un prodotto convincente e ben confezionato.  Infati  tenere insieme le dcose è molto difficile e sicuramente molto "pericoloso" perchè  puà  detterminare il  flop   o il successo effimero    e raramete    come  in questo caso  duratuto   Paradossalmente, però, è così che   la  protagonista  torna a vivere e a far quello che meglio sa fare. Giustizia.Come dicevo all’inizio, ha affinità con le fiction delle tv generaliste, ma non lo vediamo un demerito se riesce a distinguersi per i suoi indubbi lati positivi. A cominciare dalle interpretazioni di un cast stellare, diretto egregiamente da Carmine Elia, che ha firmato il primo MARE FUORI e da qui ha voluto esportare parte del cast in SARA, LA DONNA NELL’OMBRA. In primis Carmine Recano, che tuttavia non si capisce perché sia sempre uguale nei flashback, seppure siano passati tanti anni. Avestire i panni di Sara, la protagonista dei libri di Maurizio De Giovanni, è Teresa Saponangelo (David di Donatello per “E’ stata la mano di Dio” di Sorrentino), che riesce perfettamente a immedesimarsi nell’ex agente dei servizi segreti   ( visto       che tra  il  suo  curriculum   di film e serie polizieschi  )  resa speciale sul lavoro da una dote non comune: leggere il labiale anche a distanza.

 Una donna che spesso comunica più coi suoi silenzi che con le parole, divorata dal senso di colpa per avere abbandonato il figlio piccolo, algida e determinata sul lavoro quanto capace di tenerezza anche con un solo sguardo e di ironia con l’agente Pardo (irresistibile Flavio Furnu).  Il suo contraltare è una Claudia Gerini altrettanto magnifica, perfettamente nel ruolo dell’ex collega dei Servizi pronta a mettersi contro il sistema pur di scoprire la verità su una morte che l’ha devastata. Fra le due attrici c’è   subito  chimica, nei loro continui battibecchi e nei dialoghi da cui traspare la loro grande amicizia nel  passato  .

 


La  serie  affronta un tema importante e di stretta attualità, lo sfruttamento politico della paura degli immigrati, scandagliandolo attraverso una trama che potrebbe benissimo essere superata dalla nostra realtà. Gli episodi si divorano grazie a un ritmo incalzante e a personaggi convincenti, ma i difetti :sono una trama complessa (compensano comunque alcune sequenze didascaliche) e l’uso del dialetto napoletano, che  certo   realismo  apporta realismo ma rischia    di rendere incomprensibili diversi passaggi e  di andare   troppo ad  intuito  . Il mio consiglio è di inserire i sottotitoli. In definitiva, la prova di  Netflix e Palomar è superata. Non resta che attendere la seconda stagione. Per  colmare ,  almeno  per  me  che  non ho-  lettoi romanzi    da cui è tratta  ,  il  passato    di  sara come    agente  dei servi , qui  solo eìaccenato e   quasi fumoso .  Essa  è  stata   una  serie  italiana è riuscita a distinguersi all’interno del vasto catalogo di Netflix, in mezzo alle tante uscite settimanali che si contendono l’attenzione del grande pubblico. E lo ha fatto senza far leva su campagne pubblicitarie importanti o sfruttando la spinta del clamore. Sentendo    gli elogi    della serie    mi  si chiede Ma qual è il segreto di Sara – La donna nell’ombra? Come ha fatto a conquistare tutti?
Uno dei punti di forza della serie italiana è senz’altro   come  ho già  detto  la credibilità della sua protagonista, un personaggio silenzioso ma determinato, reso ancor più temibile dalla ferita subita con la morte del figlio. Il resto lo fanno un intreccio avvincente e un’ambientazione carica di tensione. Sara – La donna nell’ombra è girata tra Roma e Napoli, due città che riflettono alla perfezione lo stato d’animo della protagonista, sempre agitato da ombre e luci. 
Sara – interpretata da Teresa Saponangelo – è un’ex agente dei servizi segreti che ritorna in scena dopo la misteriosa morte del figlio. La donna cerca risposte a un evento che l’ha spezzata interiormente e sospinta verso un profondo isolamento. Per trovarle si rivolge a Teresa (Claudia Gerini), amica e ex collega. Il mondo dello spionaggio però non fa nulla per nulla.
Ogni favore ricevuto ha un prezzo da pagare. Sara lo sa bene e inizia così un percorso alla ricerca della verità che finisce per sconvolgere tutte le sue certezze, non escluso il passato di suo figlio. Così, tra passato e presente, tra vecchi e nuovi nemici, la strada della donna si intreccia con una serie di eventi che la costringeranno a mobilitare tutte le sue risorse e le sue abilità da agente. 
Un thriller avvolgente , pieno  di colpi  di scena ,  alcuni prevvedibili  ovviament e per  conosce  le  vicende  storiche   politiche  dell'italia  che  sono il  contorno    del  romanzo  e    della   serie   ed  usa  come analisi  il  dubbio sule  versioni  ufficiali  e  un  complottismo  critio  o     o  per  chi 
Uno dei grandi pregi della serie sta nella capacità di abbinare suspense e profondità emotiva. Diversi spettatori hanno definito Sara – La donna nell’ombra come un «thriller calmo ma avvolgente, che cresce episodio dopo episodio». La scrittura della serie, molto coinvolgente, spinge quasi senza accorgersene lo spettatore a “divorarla”. Ben bilanciato anche l’equilibrio tra qualità visiva, tensione psicologica e interpretazione.
Infatti  Sara – La donna nell’ombra punta molto sull’atmosfera e sull’evoluzione del personaggio. È una serie che riesce a conquistare silenziosamente gli spettatori e che per essere potente non ha bisogno di correre e imprimere ritmi frenetici agli eventi. La presenza di Teresa al fianco di Sara aggiunge poi ulteriori sfumature e accenti a una dinamica mai banale tra le due donne. In sintesi, la serie diretta da Carmine Elia è un crime sofisticato che non parla solo di noir ma anche di dolore, memoria, identità, amicizie spezzate e ferite mai rimarginate.Un noir interiore tra silenzi e memorie: così appare Sara-La donna nell'ombra. La serie segna l'ingresso televisivo di un personaggio davvero particolare: non una detective tradizionale, ma una donna segnata dal dolore che usa le sue competenze professionali per una ricerca personale di verità e giustizia.Inoltre L'adattamento della saga letteraria di Maurizio de Giovanni vede Teresa Saponangelo in una grande interpretazione. La forza della serie, infatti, sta nella sua capacità di esplorare il lutto materno attraverso la sottrazione. È pacata, in controllo, quasi dimessa. Ci fa dimenticare i detective geniali e fuori dalle righe tutto genio e sregolatezza. Qui di genio ce n'è tanto, ma non è necessario strafare per mostrarlo. Gli altri personaggi non possono che rispondere alla recitazione di Saponangelo: nulla, così, risulta mai eccessivo.
Oltre a Teresa Saponangelo (Sara) e Claudia Gerini (Teresa), nel cast troviamo Flavio Furno (Pardo), Chiara Celotto (Viola), Carmine Recano (Massimiliano), Massimo Popolizio (Corrado Lembo) e Antonio Gerardi (Tarallo).Beh, il finale di Sara – la donna nell’ombra   sembra     per  chi   ha  letto i romanzi    che non ha lasciato nulla in sospeso, quindi è probabile che una seconda stagione dipenda dall’accoglienza dello show su Netflix.


24.6.25

Toh, chi l’avrebbe mai detto. C’è voluta una super-perizia per stabilire l’ovvio il caso di Gisella Cardia, l’auto-proclamata veggente



"Non è necessario avere una religione per avere una morale perché se non si riesce a distinguere il bene dal male quella che manca è la sensibilità, non la religione".
                                           Margherita Hack

C’è voluta una super-perizia per stabilire l’ovvio: il sangue comparso magicamente sulla statua della Madonna di Trevignano è solo ed esclusivamente di Gisella Cardia, l’auto-proclamata veggente a cui negli ultimi due anni decine di televisioni hanno dedicato trasmissioni, articoli, inchieste per lo più acritici .E oggi quelle stesse testate titolano stupefatte: “Nessun miracolo”.Come se ci volesse l’esame del DNA per stabilire un tale livello di cialtroneria e circonvenzione di incapaci.Abbiamo speso soldi, tempo, energie, palinsesti, sottratto minuti preziosi a questioni molto più serie per occuparci di una madonnina che sanguinava soldi.Non solo mi auguro che ne risponda la diretta interessata.Da Barbara D’Urso a Bruno Vespa, a tutti i giornalisti veri o presunti, chiunque abbia dato credito e spazio inutilr a questa cialtronata in cambio di un pugno di share o di click è pregato di restituire la tessera (ammesso che ne abbiano una) e chiedere scusa.




«Mi ha sbattuto la faccia sul volante e strappato le unghie per gelosia»: il tuffatore Andreas Sargent Larsen a processo per stalking e

 OVVIAMENTE   STO  FACENDO    UN  DISCORSO GENERICO   SU  COME  IL  CONFINE   TRA   STALKING    E  FEMMENICIDIO      PASSANDO PER  IL  BRACIALETTO  ELETTRONICO     SIA  LABILE   .   NON  STO  ACCUSANDO   ANDREAS  SARGENT  LARSEN  INDAGATO   E  CON  UN PROCESSO   IN CORSO   SOLO   PER  VIOLENZE  E L'ARTICOLO  SUL 
BRACIALETTO  ELETRONICO  NON E'  IL  ALCUN MODO  COLLLEGATO    ALLA   SUA     VICENDA  




DA OPEN TRAMITE MS.IT

«Mi ha sbattuto la faccia sul volante e strappato le unghie per gelosia»: il tuffatore a processo per stalking




Le ha sbattuto la faccia sul volante. Le ha strappato le unghie per gelosia. E quando camminava doveva tenere lo sguardo basso. È la storia che ha raccontato V. in tribunale a Roma nel processo che vede il tuffatore azzurro Andreas Sargent Larsen imputato per stalking. All’epoca lei aveva appena 15 anni. «La nostra relazione è cominciata a giugno del 2021. Mi sentivo lusingata, perché lui era più grande», ha raccontato la vittima. Lui, classe 1999, nato a Copenaghen da madre italiano, è arrivato in Italia da allenatore federale e tesserato di una società romana. V., nata nel 2005, faceva parte della stessa squadra e i due si allenavano tutti i giorni.
La carriera di Larsen
Larsen all’epoca era in fase di lancio. Lei gareggiava ancora nelle giovanili: «Sin dal primo momento mi chiedeva foto e video per vedere dove fossi», spiega V. E ancora: «Uno dei primi episodi di gelosia risale a settembre del 2021. Mentre stavo lasciando la piscina avevo alzato lo sguardo per vedere gli altri allenamenti in corso. Ma, una volta usciti, in auto, ha cominciato a urlare, mi ha sbattuto la faccia sul volante. Pensavo di essermi rotta il naso perché ero tutta rossa. Allora per coprire il rossore mi ha fatto mettere una mascherina».
Sei mesi di persecuzione
La relazione è terminata a luglio 2022. Ma per i sei mesi successivi lui ha continuato a perseguitarla. Con chiamate e messaggi giornalieri. E scenate. «Stai aspettando un altro», le aveva detto, insistendo per portarla a casa una volta. Lei aveva dovuto chiamare la madre al telefono. Poi gli apprezzamenti sessuali con gli altri. Che costringono V. a trasferirsi negli Usa dove continua a fare la tuffatrice. A seguito del processo, Larsen all’inizio del 2025 è stato sospeso per un anno dall’attività atletica dal tribunale federale.



 UNIONE SARDA       ONLINE  

  DI  Fabio Manca

Stalking, quando il braccialetto elettronico è solo un gadget

Sono i racconti delle vittime a restituire i limiti di un sistema che ha un obiettivo nobile ma si scontra spesso con oggettive carenze




Ogni anno in Italia vengono uccise mediamente cento donne. Alcune di loro avevano già denunciato violenze, altre non lo avevano fatto.
Qualcuna, tra chi si era rivolta alle forze dell’ordine, era stata inserita nel percorso del codice rosso, quell’insieme di norme che mira a rendere più efficace la risposta della giustizia alle violenze domestiche e di genere, garantendo una maggiore tutela alle vittime e una più rapida e tempestiva azione penale.
Funziona? Non bene come dovrebbe. Sono i racconti delle vittime a restituire i limiti di un sistema che ha un obiettivo nobile ma si scontra spesso con oggettive carenze: dal poco personale di chi deve gestire le diverse fasi del percorso delle vittime, alla preparazione non sempre adeguata di chi riceve le denunce. Uno dei limiti conclamati riguarda i braccialetti elettronici. In Italia, certifica un’inchiesta del Sole 24 ore, ne risultano attivi 10.553: i dispositivi anti-stalking sono 4.662, quelli utilizzati per reati da codice rosso sono 5.965, Alcuni di questi sono stati indossati da uomini che hanno ucciso le loro vittime designate. E’ successo perché il dispositivo non ha funzionato o perché quando ha suonato l’allarme non c’è stato un intervento tempestivo delle forze dell’ordine. O perché se c’è stato la gestione da parte delle forze dell’ordine non è stata adeguata.
Un esempio arriva direttamente dal racconto di una vittima. “In pratica succede questo: sei una donna vittima di stalking, di quelle a cui tutti dicono che devi denunciare. Lo fai, ti ritrovi a bussare alle porte di un commissariato, davanti a persone a cui affidi lacrime, paure, incubi e la tua vita. Inizia forse così la storia di tutte. Con la denuncia, senza sapere che ne seguiranno altre e ti ritroverai a dover combattere oltre che con lo stalker contro un sistema che ti rende vittima due volte. Perché quando. riesci a ottenere da un giudice la misura cautelare che dovrebbe garantire la tua sicurezza - nello specifico il divieto di avvicinamento imposto all’indagatrice nel frattempo diventato imputato al quale mettono anche il braccialetto elettronico che dovrebbe far suonare il tuo dispositivo se si avvicina a meno di 500 metri - scopri che la tanto agognata tutela non esiste. Non esiste una tutela valida per una donna vittima di violenza, per un codice rosso, per una che ha denunciato non una ma quattro volte e atteso due mesi per ottenere una misura cautelare, e poi un altro ancora per l’applicazione. Nella realtà capita di trovarti lo stalker a 5 metri e che solo allora il dispositivo di tracciamento suoni, per 15 minuti senza che nessuna forza dell’ordine chiami per sapere se ci sono problemi. A distanza di sei giorni il tecnico Fastweb chiamato per risolvere il problema non si sa dove sia, dicono che i casi sono tanti e altrettanti i malfunzionamenti. È come essere alle poste, hai il numerino e attendi il tuo turno, sperando che lui non faccia più in fretta della burocrazia. È umiliante, scandaloso, pericoloso. Al decimo giorno sembra che il malfunzionamento sia stato risolto, riprendi a respirare, sino a quando il dispositivo suona un’altra volta. Lo fa per 45 minuti, tu, donna che hai denunciato, ti aspetti di vedere una pattuglia comparire in pochi minuti, o per lo meno di ricevere una chiamata dai carabinieri che pensi ti dovrebbero proteggere (così ti assicurano quando denunci). Invece sei tu ritrovarti a chiamare chiedendo un intervento che non arriva mai. Quarantacinque minuti in cui chiedi se lui è nei paraggi, ma nessuno lo sa. Ti senti dire: faccia così, se si avvicina lei si allontani. Così schiacci anche il tasto SOS, ma non succede nulla. E a paradosso si aggiunge paradosso. Ti ritrovi a vivere le distorsioni di un sistema fallato alla base e pure dopo, con un aggeggio sempre in borsetta che si scarica troppo in fretta e che cambia colore. E se chiedi il perché ti senti rispondere “Tranquilla, se non suona è tutto ok”. Lo ripetono anche quando chiedi il perché la casella verde all’improvviso sia diventata rossa. “Se non suona può stare tranquilla”. Il problema è che anche quando suona, in ritardo, lo fa senza che nessuno intervenga e che ti senta dire che alla centrale dove hanno il monitor l’allarme non è arrivato, e tu non sai se possa trovartelo dietro la porta di casa, vicino alla macchina, dietro l’angolo o ovunque. Può succedere anche che il dispositivo sia in loop, così chiami il comandante dei carabinieri. Manda una mail per chiedere l’intervento del tecnico Fastweb: dopo 5 giorni - in cui rimani scoperta - sostituiscono il dispositivo, un’ora dopo lui ti passa a circa 50 metri e non suona. Insomma, si affida la vita delle donne a un dispositivo elettronico che non è in grado di proteggerle, e così viene disattesa anche la disposizione del giudice: in questo caso il braccialetto con obbligo di tracciamento sono stati disposti perché il quadro probatorio - scrive il GIP - è di rilevante gravità e lui ha continuato anche dopo la denuncia con le azioni criminose. Suona un’altra volta, chiedono una nuova verifica al tecnico Fastweb e devi aspettare dieci giorni chiusa in casa prima che ti dicano che il problema è risolto (nessuno mi ha chiesto il dispositivo, quindi non so come e cosa abbiano risolto). Succede anche di trovarti in punti dove il segnale non arriva, quindi in realtà resti scoperto spesso. Come se fossi una vittima a intermittenza. La conferma che siamo ancora inaccettabilmente lontani dal minimo sindacabile. Perché la vita di una donna, la vita in generale, non può essere affidata al gioco delle probabilità o a un apparecchio elettronico che evidentemente non è in grado di fare ciò che dovrebbe. Non si può andare avanti sperando che siano tutti falsi allarmi o magari no, ad attendere l’intervento di un tecnico telefonico che non ti sa neanche dire a quanto è tarato il dispositivo e si divide tra le troppe donne nella stessa situazione paradossale. Vittime due volte, di uno stalker e di un sistema incapace di offrire le tutele richieste e dovute”.
Del resto il braccialetto elettronico non è solo un dispositivo: è – o dovrebbe essere – il braccio delle forze dell’ordine sulla spalla di ogni donna, il simbolo della presenza rassicurante dello Stato, la certificazione della volontà di stare accanto alle vittime per proteggerle. Invece spesso è solo un gadget.

INGHILTERRA Morta a 23 anni dopo il rifiuto della chemioterapia: «Colpa delle teorie complottiste di nostra madre» ., Grothendieck, il matematico che voleva disarmare il mondo con un’equazione .,


Una  morte da  rifiuto chemioterapia  per le  teorie   da  complottismo patologico   
 da   Open  tramite  msn.it  




Paloma Shemirani aveva 23 anni, una laurea in tasca a Cambridge e tutta la vita davanti. Ma quando nel dicembre 2023 i medici le diagnosticarono un linfoma non-Hodgkin, un tumore curabile con l’80% di possibilità di sopravvivenza, rifiutò la chemioterapia. Morì sette mesi dopo, nel luglio 2024. Ora i suoi fratelli, Gabriel e Sebastian, puntano il dito contro la madre Kate Shemirani, ex infermiera e nota influencer della disinformazione sanitaria. Il loro racconto è al centro di un’inchiesta della Bbc. «Mia
sorella è morta come conseguenza diretta delle azioni e delle convinzioni di nostra madre. Non voglio che nessun altro provi questo dolore», ha dichiarato Sebastianhemirani.
La madre infermiera ed ex complottista
Kate Shemirani si è fatta conoscere durante la pandemia come volto della protesta anti-vaccino. Radiata dall’albo delle infermiere britanniche per aver diffuso disinformazione sul Covid, ha continuato a lanciare false teorie sulla medicina convenzionale, promuovendo trattamenti alternativi privi di fondamento, come la terapia Gerson: una dieta estrema a base di succhi, integratori e clisteri di caffè, proposta come cura miracolosa per il cancro. Proprio questa cura è stata seguita da Paloma, dopo che sua madre le aveva scritto messaggi per scoraggiarla ad accettare la chemioterapia. «Non firmare nulla. Non dare il consenso verbale. Non fidarti dei medici», le diceva in un messaggio.
Il rapporto tra la madre e la figlia
Nonostante un rapporto difficile, Paloma cercava ancora il sostegno di sua madre, raccontano amici e familiari. Il suo compagno, Ander Harris, ha condiviso messaggi in cui Paloma esprimeva esaurimento e dolore per l’abuso psicologico subito, ma anche il desiderio di sentirsi amata. La Bbc ha ricostruito come Paloma, pur essendo una giovane donna brillante e consapevole, sia stata fortemente condizionata dal pensiero della madre, che l’avrebbe convinta a rifiutare il trattamento salvavita. Dopo aver lasciato l’ospedale e iniziato la terapia Gerson, le sue condizioni sono peggiorate. Ed è morta per un infarto causato dal tumore. «Non sono riuscito a salvare mia sorella, ma spero che la sua storia impedisca ad altri di morire così», ha detto Gabriel.

Alcundi diranno che avrebbe potuto morire anche dopo la chemioterapia
Certo. la chemio non è Non è la bacchetta magica puo rallentare come può guarire la malattia . Ma non sappiamo a che stadio era il suo tumore. Ma almeno avrebbe avuto qualche possibilità in più. Quante persone si sono salvate con la chemio? Quante con la cura ( pseudo cura perchè mi sembra assurdo , pur non essendo uno specialista e dalle approssimative conoscienze in merito dato che non ho fatto studi universitari medico scietifici ma lettere , curare con fondi cafè tali malattie cosi gravi ) Gerson? In proporzione, naturalmente...  .  Quindi  come turata antonio  che  su msn.i.t   riponde  a @Gio Lo
mi   chiedoi   Ma il clistere di caffè andava fatto caldo o freddo, zuccherato o amaro, magari decaffeinato? Le opzioni sono molto importanti 😜😂🤣

------

  credevo   che  la  matematica   fosse  solo  una  cosa   barbosa      invece  

  da  Avvenire


© Fornito da Avvenire

C’è un momento, all’inizio del Novecento, nel quale la Verità matematica diventa relativa. Della sua nozione abituale rimane solo la coerenza della struttura argomentativa, ma non gli assiomi iniziali. A mettere in crisi definitiva ciò che pareva indiscutibile concorrono Hilbert, Frege, Poincaré, Dedekind, Cantor. Da quel 1917, anno nel quale a Zurigo Hilbert espose la sua teoria degli assiomi, per il pensiero scientifico nulla sarà più come prima. E come è sempre accaduto a mettere i bastoni tra le ruote è stata proprio la matematica, la disciplina che più di ogni altra ha diretto la danza che gli uomini menano intorno alla realtà quando cercano di conoscerla. Orientati da due assunti fondamentali, il primo dei quali dice che il mondo è interamente matematizzabile; il secondo che le leggi fisiche sono continue e che una qualsiasi variazione nei parametri dell’esperienza produce variazioni nei risultati riscontrati, matematici e fisici si sono inoltrati in un territorio incognito. Ciò che pareva solido si è dissolto; l’indiscutibile viene interrogato e rimesso in discussione e tutti gli assiomi di base diventano fonte di disaccordi incomponibili.
Una delle figure che meglio rappresenta questa crisi – accompagnata però da uno straordinario successo tecnico – è stato Alexandre Grothendieck. Nato a Berlino nel 1928, membro del gruppo raccolto sotto il nome fittizio di Nicolas Bourbaki, nel quale militò il fratello di Simone Weil, André. Medaglia Fields nel 1966, l’equivalente del Nobel in matematica, Grothendieck si ritira dalla comunità scientifica negli anni 70 per evitare che il suo lavoro venga sfruttato dall’industria delle armi, come è successo a Oppenheimer e, con la sua convinta adesione, a John von Neumann. Muore nel 2014, nel sud della Francia, dopo aver condotto gli ultimi anni della sua vita appartato, durante la quale assumerà posizioni ambientaliste sempre più radicali. Negli anni 80 inizia una profonda analisi della propria storia personale e via via gli eventi che hanno inciso drammaticamente nella sua vita gli si presentano come effetti del declino e della decomposizione di una umanità spiritualmente morta alla quale i risultati scientifici non solo non pongono rimedio ma, se possibile, aggravano. Redige migliaia e migliaia di pagine nelle quali la lucidità razionale del suo pensiero fa i conti con la propria storia. Di genitori rigorosamente atei per i quali la religione era una sopravvivenza arcaica, Alexandre ricostruisce il fallimento radicale delle prospettive nelle quali si trovarono implicati: la rivoluzione mondiale. Il padre, Jossl Isaevitch Shapiro, ebreo russo, combatte con l’armata anarchica di Makhno e viene condannato a morte da Stalin ma ucciso da Hitler; la madre, Johanna Grothendieck, tedesca, scampa al campo di Rieucros in Francia, dove era internata col figlio Alexandre e muore di tubercolosi nel 1957. La matematica diventa un luogo della mente dove il Tutto dovrebbe spiegarsi e manifestare la sua verità ultima e definitiva.
Alla fine del 2024 la casa editrice francese, Èditions du Sandre, ha pubblicato un libro del grande matematico: La Clef des Songes ou Dialogue avec le Bon Dieu (La chiave dei sogni o Dialogo con il buon Dio). Sono quattrocento pagine intense, scritte da una figura che la comunità scientifica tuttora considera come decisiva per la soluzione dei problemi ancora irrisolti della matematica, nelle quali viene descritto un cammino spirituale che può bene essere accostato alle Confessioni di Agostino. La sua non può definirsi una vera e propria conversione al Dio cristiano, per quanto i tratti assolutamente personali del Creatore prevalgano su altri di natura più panteistica. In Dio non risiede alcun sapere inerte simile a quello di un qualche ipotetico e gigantesco computer che vorrebbe possedere la memoria di ciò che fu e di ciò che sarà, ma una conoscenza vivente, dialogante. «È Lui, il Creatore che è in cias
Il pensiero di Dio in Grothendieck non è quello di un Dio dimostrabile matematicamente: «le leggi matematiche fanno parte della natura stessa di Dio – una parte infima, la più superficiale, la sola che sia accessibile alla ragione». Ed è proprio per questo che la vita di un matematico può svolgersi nel più completo abbandono della dimensione spirituale pur raggiungendo i più alti risultati disciplinari. Nel totalizzare la parte infima di Dio, elevandola a parte essenziale della sua azione nel mondo è facile per il matematico passare all’identificazione stessa del suo lavoro con quello di Dio, sostituendolo. Se sono in grado di fare quello che è prerogativa divina sono io stesso un dio. È ciò che si dissero i matematici che parteciparono alla costruzione della bomba atomica. Ci sono pagine che sembrano uscite pari pari da quelle di Agostino quando, per esempio, Grothendieck sostiene che il dialogo con sé stessi è inseparabile dalla relazione a Dio, «al Dio in noi». Ritrovare nel cuore del matematico che ha sviluppato il teorema chiamato di Riemann-Roch-Grothendieck un po’ del cuore del grande Padre della Chiesa non è cosa di poco rilievo. Grothendieck ha vissuto una vita complessa e drammatica, che sfocia nel completo ritiro dalla vita sociale, fino all’accettazione della morte per denutrizione. In questo simile a quella di Simone Weil.
Ritroviamo Alexandre nell’ultimo romanzo scritto da Cormac McCarthy, Stella Maris, dove la protagonista, anch’essa matematica, alla domanda del dottore che la segue e che le chiede perché non risponde alle lettere di Grothendieck risponde: «Fondamentalmente perché ha mollato la matematica – Come lei. – Sì. Come me. […] Ha prodotto più lui di quanto ci si aspetterebbe da cinque matematici messi assieme. Quasi quanto Eulero … ha cambiato la matematica in modo sostanziale. Era alla testa del gruppo Bourbaki ma alla resa dei conti gli altri non sono riusciti a seguirlo. O non hanno voluto».




il perdonare è anche lasciare andare e lasciare perdere

da bing.com   con l'opzione 
 ispirami

Secondo la  mia esperienza  e il  mio  percorso interiore   fin qui  fatto  oltre  alla definzione  classica il  Perdonare

una parola piccola, ma un gesto enorme.È uno degli atti più umani e trasformativi che esistano. Perdonare non significa dimenticare, né giustificare ciò che è accaduto, ma scegliere di non lasciare che il dolore tenga in ostaggio il nostro presente. È un modo per dire: “Non voglio che ciò che mi ha ferito continui a ferirmi”.
A volte perdonare è facile. Altre volte richiede tempo, silenzi, riflessioni… perfino lacrime. Ma quando arriva, può liberare entrambi chi perdona e chi viene perdonato.

 vuol dire ,  giustamente   anche non ricambiare  un torto con una vendetta  facendo cosi un altro torto .  Lasciare  passare  e  a  volte  anche  dimenticare Infatti  mi  è   capitato   spesso  di riderci su  quando  affiorano  dei ricordi assopiti o     sono    riaffiorati   di  recente  dei   torti  avvenuti  il primo 10\12  ani fa   e  il   secondo    20\5 anni  fa   e dirsi  ma  cazz...    ancora ci penso  per  poi  andare oltre perchè  t'accorgi  che  soprattutto  per  i più  vecchi   non vale  la  pena   riaprire la  questione  .
Qualcuno di voi  (  e  fose  anche l'altro mio io )     m chiederano ma  come  fare  a metterlo   in atto ? .Lo so che   è  semplice  a  dirsi     difficile  a metterlo   in  atto   perchè   Dipende  da  ciascuno di noi  infatti  : << [ .... ]   sei tu sei tu sei tu chi può darti di più in un eterno presente che capire non sai  [....] da  Per Me Lo So (  Testo ) -CCCP  >>
 Ma  soprattutto     non si  può sempre  stare  a  pensare    di vendicarti o come reagire  . Inoltere  Per  le  piccole  cose  (  ovviamente  il  termine  piccole è soggettivo  )   è meglio  lasciar perdere e   pensare   come   dice   se  on ricordo male   uno  ( foto a  destra  )   di miei , punti  di riferimento  nonostante    sia  un po' dato , Consigli per un anno   di  Roberto Vacca ( Bompiani1995)  un antica  leggenda  orietale       di  un  sovrano  offeso   che non  reagi    ad  un offesa     e  quando tutti  increduli  per la  sua   calma  e non reazione   rispose  : <<   tanto  troverà  qualcun  altro  che lo punira  >>  infatti quella  persona  fu decapitata   da  un altro signorotto  locale  di  cui  aveva   insultato la  mare  . Ma  soprattutto :  1)  la  miglior  vendetta  è il perdono ., 2)  prendere  esempio  da  Gandhi  ., 3)  dal  romanzo il  conte  di montecristo  .

  concludo     questo  post       con le  note    della canzone  Mio caro padrone domani ti sparo  - Paolo Pietrangeli .

N.B    (    scusate lo  spiegone    ma   a  volte    è necessario ) 
ascoltate bene la  canzone  senza  pregiudizi  e  preconcetti ideologici  in quanto    sia il  testo  e     il  titolo   sono   sarcastici  e  contestualisti al periodo 1969\1984    di grossi cambiamenti    sociali   non solo d  violenza  i  cosidetti  :  strategia della  tensione ( bombe  di  stato  )  ,   anni  di  piombo  e  stragi  mafiose      . infattti un  verso  dice 
[...]  Compagni sia chiaro\Che il giorno ventuno\Migliore vendetta\Sia proprio il perdono\E allora saremo\Più grandi e più forti\Se tutti i rancori\Saranno sepolti [...] 

23.6.25

La crescente mania dei selfie nei musei di Firenze ha portato a danni a opere d'arte, spingendo gli Uffizi dopo l'apertura ai selfie della ferragni a prendere misure più severe e fa bene



Va bene farsi un selfie , da soli o in compagnia nagari anche con l'autore \ attore preferito . lo fanno anche gli stessi catanti dal palco con il pubblico. Basta usare un minimo di moderazione e buon senso . Per esempio evitarlo nei musei . Infatti qualche  giorno fa  un turista volendo fare un memeo  una  foto   davanti a un dipinto, indietreggiando in posa come il principe dei Medici ritratto, ha urtato la superficie dell'opera  danneggiandola . 

Il problema  della  maggior  parte   di visitatori che vengono nei musei per fare meme o scattare selfie per i social è un dilagante: « porremo dei limiti molto precisi, impedendo i comportamenti non compatibili con il senso delle nostre istituzioni e del rispetto del patrimonio culturale ». Lo ha detto il direttore delle Gallerie degli Uffizi, Simone Verde  ( foto  sotto al  centro )  , in merito al danneggiamento del dipinto settecentesco avvenuto oggi nel museo di Firenze.


PRESSPHOTO Firenze, verrà rimossa a breve la gru dal piazzale degli Uffizi. Nella foto il direttore Simone Verde Giuseppe Cabras/New Press Photo

IIl personale del museo è subito intervenuto. Il visitatore è stato identificato e secondo quanto si spiega, verrà denunciato. Il quadro, un dipinto del '700, 'Ritratto di Ferdinando de’ Medici gran principe di Toscana’, di Anton Domenico Gabbiani, si spiega ancora dal museo, ha riportato “lievi danni” ed è già stato rimosso per l'intervento di risistemazione.
Il fatto richiama quanto avvenuto di recente a Palazzo Maffei a Verona, quando per  una foto fatta in maniera maldestra da due turisti ha portato al danneggiamento della sedia Van Gogh realizzata dall'artista Nicola Bolla.  Il comportamento “cafone” dei visitatori dei musei non è una novità, ma la mania dei selfie e dei meme sta diventando un vero pericolo per le opere d’arte. Che  strano   però  prima    sono  tra  quei  musei  che     secono  alcuni  hanno  dato  carta ta  bianca  alla  ferragni   per  i  selfie \  foto  anche  molto vicino alle  statue  e  quadri   voce  smentita   dai be  informati    : 1) https://www.finestresullarte.info che  pubblica  anche  le  foto  di  chiara  ferragni  al museo . 2) https://www.artribune.com più precisamente  qui   in  quanto  Chiara Ferragni non ha avuto carta bianca nel senso di poter mettere a rischio le opere. Il servizio fotografico agli Uffizi per Vogue Hong Kong è stato svolto fuori dall’orario di apertura al pubblico, con permessi specifici, presenza di personale del museo e rispetto rigoroso delle norme di sicurezza per la tutela di quadri e sculture Le opere, come la Nascita di Venere di Botticelli, non sono mai state toccate né avvicinate in modo pericoloso. Le foto sono state scattate a distanza di sicurezza, con attrezzature leggere e senza flash diretto, come previsto dai protocolli museali.Il direttore Eike Schmidt ha sottolineato che si è trattato di un’operazione regolarmente autorizzata e controllata, come accade per altri shooting fotografici nei musei. Nessun privilegio “pericoloso”, insomma — solo una strategia di comunicazione ben orchestrata. Ma  ciò ha  suscitato polemiche   che  sono ritornate  dopo   questi due episodi di "sefie" rovinosi .Quinise  proprio    si  vuole  pomuovere  l'arte   fra  i  giovani meglio   un Jacopo veneziani   o  un alberto  angela  o un  Cazzullo    troppo  pop  soprattutto l primo  ma   meglio  di  un inflenzer   digiuna  di un minimo di storia    dell'arte     che   è  solo immagine  e  gossip   o  peggio radical chic  .  Infatti dagli stessi uffizi sono emerse perplessità sulla reale efficacia di questa strategia nel creare un legame duraturo tra i giovani e il museo, come riportato da Artribune. L'incidente del turista che ha danneggiato l'opera ha ulteriormente alimentato il dibattito, con il direttore che ha annunciato l'intenzione di porre limiti alle attività dei visitatori all'interno del museo, secondo quanto riportato da Il Sole 24 ORE.
Quindi  giustamente    niente   selfie \  foto  nei musei ? il dibattito è  aperto ma secondo le da fotografo incallito e spesso ( adesso di meno ) a,tutti i costi fa bene .   VOI cosa ne pensate ?

La vera storia della donna che ha sposato un tribale keniota

da Newsner ggiornato: Giu 18, 2025, 15:09
La vera storia della donna che ha sposato un tribale keniota



Guerrieri Masai. Fonte/Derek Hudson/Getty Images

Una donna britannica che ha lasciato il marito e i tre figli per iniziare una nuova vita con un guerriero Masai in Kenya ha raccontato i rimpianti che porta con sé dalla sua insolita storia d’amore e il peso emotivo che ha avuto sulla sua famiglia.
Si sentiva intrappolata nel suo matrimonio
La storia di Cheryl Thomasgood ha fatto notizia in tutto il mondo quando ha lasciato la sua comoda vita di periferia sull’isola di Wight in Inghilterra per inseguire un’inaspettata storia d’amore in un remoto villaggio del Kenya. Ma ora, a distanza di decenni, la donna si confida sulla realtà che si cela dietro quella che un tempo sembrava una favola.
Nel 1995, Cheryl aveva 34 anni quando incontrò Daniel Lekimencho, un imponente guerriero Masai di due metri e mezzo e danzatore tradizionale che si esibiva per i turisti in un hotel di Mombasa. Il loro legame fu immediato e potente.Guerrieri Maasai tornano ai loro insediamenti portando bastoni e lance sulle spalle nel cratere di Ngorongoro. (Derek Hudson/Getty Images)

All’epoca, Cheryl Mason si sentiva bloccata nel suo matrimonio e frustrata dal suo lavoro di parrucchiera nella tranquilla Isola di Wight, appena fuori dalla costa meridionale dell’Inghilterra.
Decise che una fuga di una settimana in Africa con un’amica avrebbe potuto aiutarla a schiarirsi le idee e a capire quali cambiamenti voleva apportare. Ma Cheryl non si sarebbe mai aspettata che una notte al bar dell’hotel, dove si era riunito un gruppo di danzatori tribali, avrebbe cambiato la sua vita per sempre. Ancora più sorprendente è stato il fatto che la sua vita sarebbe stata cambiata da un guerriero Masai, più giovane di lei di 10 anni, che viveva in una capanna di fango e trascorreva le sue giornate cacciando giraffe e leoni.
“Quando l’ho visto, sono rimasta sconvolta dal suo aspetto fisico”, ha raccontato Cheryl a The Province nel 1998. “Sapevo che non avrei potuto passare la mia vita senza di lui”.
“Ho dovuto prendere una decisione”
Dopo l’esibizione, Daniel ha avvicinato Cheryl e si è offerto di farle fare un giro sulla costa del Kenya. Ne seguì una storia d’amore vorticosa: i due trascorsero il resto della vacanza esplorando il mare e facendo leva sulla loro chimica.
Ma quando il viaggio finì, Cheryl si trovò di fronte a una scelta angosciante: tornare a casa dal marito e dai figli o seguire il suo cuore verso l’ignoto.
“Era così bello che dovevo prendere una decisione”, ha ricordato. “È stato allora che ho pensato: ”Che cosa devo fare, essere ragionevole e fare la casalinga di periferia soddisfatta, o iniziare a vivere nel modo in cui volevo?“”.Youtube / AP Archive

Nel giro di poche settimane, Cheryl aveva lasciato il suo secondo marito, Mike Mason, e i loro tre figli per stare con Daniel, di dieci anni più giovane di lei.
Sorprendentemente, Mike, il marito di Cheryl, ha accolto la notizia con notevole grazia. Ha ammesso che il loro matrimonio non era più solido da un po’ di tempo e si è persino spinto a vendere la sua auto per aiutarla a finanziare il viaggio di ritorno in Kenya.
Reazione del marito
“Alcune persone pensano che io sia un po’ un fifone e che avrei dovuto cacciare Cheryl subito”, ha detto Mike all’epoca. “Ma ci sono dei bambini coinvolti e volevo che rimanessimo in buoni rapporti. Devo accettare che il nostro matrimonio è finito”.
Alla fine del 1994, Cheryl ha fatto i bagagli e si è trasferita in Kenya, stabilendosi nella capanna di

fango di Daniel nel cuore dell’Africa rurale. Per qualche mese abbracciò lo stile di vita tradizionale dei Masai, ma le condizioni estreme la stancarono rapidamente. Il caldo torrido diurno e le notti gelide hanno compromesso la sua salute e alla fine Cheryl si è ammalata.
Avendo bisogno di tornare in Inghilterra per riprendersi, escogitò un piano audace per ricongiungersi con Daniel: vendette la sua storia alla stampa. Il denaro ricavato da quelle interviste la aiutò a permettersi il biglietto aereo per il Regno Unito.
Una volta che Daniel arrivò finalmente nel Regno Unito, fu il momento della prossima grande sorpresa.
La coppia fece una dichiarazione audace sposandosi il giorno di San Valentino del 1995, vestita con abiti tradizionali Masai. Le autorità, tuttavia, erano scettiche sul matrimonio, sospettando che fosse semplicemente uno stratagemma per far ottenere a Daniel la cittadinanza. Di conseguenza, nel 1995, Daniel fu espulso.
Youtube / AP Archive

Una volta che Daniel arrivò finalmente nel Regno Unito, fu il momento della prossima grande sorpresa.
La coppia fece una dichiarazione audace sposandosi il giorno di San Valentino del 1995, vestita con abiti tradizionali Masai. Le autorità, tuttavia, erano scettiche sul matrimonio, sospettando che fosse semplicemente uno stratagemma per far ottenere a Daniel la cittadinanza. Di conseguenza, nel 1995, Daniel fu espulso.
La coppia tornò nel Regno Unito qualche anno dopo, crescendo la figlia Mitsi e cercando di adattarsi alla vita sull’Isola di Wight.
La realtà della loro relazione
La loro vorticosa storia d’amore fece notizia e affascinò i lettori dell’epoca, ma a distanza di anni la favola è svanita e la versione dei fatti di Cheryl sembra molto diversa.
Ma Cheryl dice che la realtà della loro relazione era ben lontana dal legame spirituale che aveva immaginato. Ammette di essere stata usata come un “buono pasto” da Daniel, la cui ossessione per il denaro e le cose materiali è cresciuta dopo il trasferimento in Inghilterra.
“Ho commesso un errore madornale, è stato molto sbagliato da parte mia e ho molti rimpianti, soprattutto per come ha danneggiato i miei figli”, ha dichiarato Cheryl al MailOnline in una rara intervista, riflettendo sul suo “tormentato” matrimonio.
Descrive il drammatico cambiamento di Daniel, da guerriero spirituale e orgoglioso di cui si era innamorata in Kenya a uomo frustrato dalla vita borghese, che pretendeva sempre di più, da una casa più grande a vestiti firmati e denaro da inviare alla sua famiglia in Kenya.
“L’unico momento in cui Daniel era felice era quando saltava in giardino facendo la sua danza tradizionale Masai”, ha ricordato Cheryl. “Diceva che si stava preparando per la battaglia e voleva saltare in alto come un elefante. I bambini lo adoravano, ma dopo un po’ mi dava sui nervi”.
Un passato difficile
Nonostante le sue speranze, le differenze culturali e le difficoltà di Daniel ad adattarsi hanno portato a continui litigi e infine alla loro separazione nel 1999, solo quattro anni dopo il loro matrimonio.
Cheryl si è anche aperta sul suo difficile passato, rivelando di aver subito abusi sessuali da bambina e di aver dovuto affrontare un trauma e un matrimonio infelice quando ha incontrato Daniel. Un amico del coro della chiesa l’ha incoraggiata a fare il viaggio in Kenya che le avrebbe cambiato la vita, ma quello che pensava sarebbe stato un percorso di guarigione si è rivelato una fuga dolorosa.
“L’impatto che tutto questo ha avuto sui miei figli. Avere un guerriero Masai come padre non è stato facile per loro. Daniel faceva del suo meglio, ma non riusciva a capire i modi occidentali e non poteva essere il padre di cui avevano bisogno”, ha detto Cheryl.
I suoi figli – Steve, 43 anni, Tommy, 41 anni, Chloe, 34 anni, e Mitsi, 27 anni – hanno dovuto affrontare le complicate conseguenze delle scelte della madre, ma Cheryl dice di essere orgogliosa del fatto che, nonostante tutto, i rapporti con loro sono rimasti forti.
Oggi Cheryl, 65 anni, vive una vita tranquilla in una cittadina balneare del Somerset, lontana dai riflettori e dai drammi del suo passato. Non ha intenzione di risposarsi dopo quella che definisce una “tripletta di disastri”.
Nel frattempo, Daniel vive ancora sull’Isola di Wight e lavora in un supermercato, lontano dall’orgoglioso guerriero che un tempo danzava sotto il sole del Kenya.

si può fare carrierea sportiva senza giocare stando solo in panchina ? sembra di si a leggere la storia di Carlos Henrique Raposo, calciatore che non giocò mai: una storia incredibile di astuzia e finzioni“Kaiser” Raposo,

 si  può  fare   carrierea  sportiva  senza ...  giocare  stando solo in panchina    ?  sembra  si    a  leggere  la storia  del  calciatore che non giocò mai: una storia incredibile di astuzia e finzioni“Kaiser” Raposo, classe 1963, vent’anni di carriera nelle grandi squadre brasiliane: neanche un minuto in campo


                               Carlos Henrique Raposo, il calciatore brasiliano
                              soprannominato Kaiser che non giocò mai una partita


L’antieroe che ha sfidato e abbattuto ogni barriera logica, quasi vent’anni di carriera da calciatore professionista e neanche un minuto giocato. Carlos Henrique Raposo, noto Kaiser, è riuscito a inventarsi una storia ai confini della realtà: mai una partita ufficiale ma contratti sempre in tasca con le squadre più prestigiose del campionato brasiliano, come Botafogo, Flamengo, Fluminense, Vasco De Gama. Si è spinto anche in Argentina (Independiente) e in Messico (America). Nel suo curriculum esiste persino una stagione europea, in Corsica, con il cartellino del Gazelec Ajaccio.
Mai in campo
L’incredibile filo conduttore è sempre stato lo stesso: dal 1979 al 2001 Raposo non è mai sceso in campo. Neanche un minuto, neanche una presenza, figuriamoci i gol. La sua storia è lo straordinario intreccio di astuzia, fortuna e faccia tosta che ha generato l’unica carriera fantasma nella storia del calcio. Su Wikipedia uno zero diffuso (tra le presenze nelle varie squadre in cui ha militato) certifica la totale assenza di Raposo dai campi di gioco. Nel 2018 è uscito anche un docufilm biografico “Kaiser: the greatest footballer never to play football”, ribattezzato in italiano in un più aspro “Il più grande truffatore della storia del calcio”.
Una storia di finzioni
Classe 1963, brasiliano di Porto Alegre, una vaga somiglianza con Renato “Gaucho” Portaluppi, stella brasiliana degli anni Ottanta (nonché meteora del calcio italiano), Raposo era per tutti il Kaiser. «Avevo uno stile paragonabile a quello del campione tedesco Beckenbauer», diceva lui. «Il soprannome è legato alla birra Kaiser di cui andava matto», ribattevano i suoi amici più stretti. Sapeva a malapena fare qualche palleggio ma le sue doti erano ben altre: la parlantina sciolta, un carisma innato e la capacità unica di tessere relazioni. La sua carriera si può considerare un capolavoro di inganni e finzioni. Come è stato possibile? All'epoca non esisteva la presa diretta e costante sul mondo del calcio. Poche immagini, una dimensione sfumata, il sistema mediatico meno oppressivo, anche le visite mediche non erano troppo stringenti. Il Kaiser è riuscito sfruttare questi scenari, intrecciando una fitta rete di amicizie con procuratori e calciatori veri.
La carriera in crescendo
Raposo si è aperto le prime porte grazie a una breve parentesi nel calcio giovanile. Poi è stato tutto un lavoro di relazioni e conoscenze, accompagnate da una simpatia spontanea che gli consentivano di farsi accettare in tutti i gruppi. Raposo entrava nelle squadre e si metteva subito da parte con una nonchalance insuperabile. Inventava infortuni che gli assicuravano periodi di riposo prolungati. Insomma, non scendeva mai in campo: eppure, stagione dopo stagione, trovava sempre un nuovo contratto e qualcuno disposto a investire su di lui. La forza del Kaiser era legata alla capacità di coinvolgere sempre più persone nel suo progetto. Compagni di squadra, staff sanitari, procuratori, giornalisti, tifosi: c’era una sorta di accordo non scritto, Raposo doveva sempre trovare una squadra.
La parentesi in Corsica
Quando arrivò in Corsica, nel 1986, le sue certezze per qualche istante vacillarono. Ad Ajaccio ci fu una presentazione da star del «campione» arrivato dal Brasile: «Mi catapultarono in uno stadio pieno di tifosi, come se si dovesse disputare una partita», raccontò poi. «Credevo di dover fare giusto un giro di campo e salutare, ma era pieno di palloni. Tutti si aspettavano qualche palleggio, giocate con i compagni». Dalla paura alla solita intuizione il passo fu brevissimo: «Raccolsi tutti i palloni e li lanciai verso i tifosi, la folla era in estasi. Non c’erano più una sola palla in campo, non correvo più rischi». All’inizio del campionato arrivò la consueta sentenza: infortunio muscolare, zero presenze anche con la squadra di Ajaccio. Seguì qualche polemica sull'oggetto misterioso ripartito dall’Europa senza mai scendere in campo, ma nulla di più. Raposo se ne tornò tranquillamente in Brasile per accasarsi nella Fluminense prima e al Vasco de Gama poi.
Amico di Romario e Bebeto
Aveva stretto amicizie importanti con i campioni dell’epoca: come Romario e Bebeto (campioni del mondo nel ‘94 dopo la finale vinta ai rigori contro l’Italia di Baggio), e poi “O animal” Edmundo. fino al suo quasi sosia Renato Gaucho. Tutti lo coccolavano e proteggevano il suo segreto. Il Kaiser si era guadagnato i gradi di talismano, portafortuna, uno che doveva esserci per forza. E le poche volte in cui qualche allenatore provava a mandarlo in campo, lui con la solita noncuranza simulava stiramenti improvvisi, malesseri vari, guadagnandosi un'altra visita medica e l’immancabile nuovo periodo lontano dal campo. «Io volevo essere un calciatore per vivere come un calciatore, non per giocare a calcio», raccontò poi con una flemma che dimostrava una volta di più quanto avesse le idee chiare. Sognava «fama, soldi, donne, viaggi» come «i veri campioni del pallone». Ci riuscì, come seppe uscire di scena senza troppi clamori. Non ci fu mai uno scandalo: Raposo negli ultimi anni giocò – si fa per dire – anche nei Patriots di El Paso, in Texas, prima di tornare a casa (nel Bangu) e per poi passare all’America di Città del Messico. Concluse la sua incredibile carriera a quasi 38 anni con la maglia brasiliana del Guarany de Camaquã. Ovviamente senza scendere in campo un solo minuto.

CI SONO DUE GUERRE CHE CONFLUISCONO POI IN UNA

 

dagli    anni  90 come  dice    editoriale  di tacitus sull'unione  sarda    del  22\6\205 Sono in corso due guerre parallele. La principale, feroce e disumana, anche se i protagonisti sono esseri umani, si combatte sui fronti di battaglia; un’altra, secondaria soltanto in apparenza, si combatte sui media e coi media. Che sono, allo stesso tempo, luoghi di scontro e armi. La seconda è di supporto alla prima e mira al coinvolgimento sul piano emotivo e ideologico di nazioni e popoli. L’obiettivo è creare un’opinione pubblica mondiale orientata, pronta a schierarsi con chi dalla campagna di guerra mediatica emerga
come vittima e contro chi risulti carnefice, vera o falsa che sia la rappresentazione. Queste guerre non sono più feroci di quelle del passato. Appaiono tali perché le viviamo in diretta, assistiamo in tempo reale agli scoppi di bombe e ai massacri. Nulla sfugge agli obiettivi. La dialettica delle parole e delle immagini artatamente manipolate riesce a capovolgere la verità in una commistione di colpe, condanne e assoluzioni tra vittime e carnefici. Quando queste terribili cronache di guerra e di fuoco passeranno al vaglio degli storici si scoprirà che tra la realtà e le sue apparenze c’è stata una contraffazione, che oggi è proibito denunciare.

non ne  condivido  la  chiusa <<  C’è, alla base, la volontà del mondo autodefinito progressista, che sta vincendo la guerra mediatica, di abbattere e sostituire la civiltà occidentale. Cina, Russia e loro satelliti attendono implacabili >> perchè  come  ho  già  detto  in  precedenza  Nell'introduzione  al  post : << L’assurdita delle frontiere > di Pacmogda Clémentine   di    no esistono  confini  in  quanto  


 [... ] il terreno su cui ogni giorno camminiamo noi non lo possediamo lo occupiamo
E non è italiano africano
È un dono che è stato fatto ad ogni essere umano
I confini le barriere le bandiere sono giunti dopo
Aiutando l'odio la guerra e il razzismo a fare il loro gioco [..,] 

E quindi la   distinzione  oriente  ed  occidente   è  vista  la  contaminazione   avvenuta    nel  corso  del secoli   con scambi commerciali e non  solo   è   puramente  convenzionale 

DIARIO DI BORDO N 131 ANNNO III «Ciao Fulmine»: morto l’Hachicko sardo che andava sulla tomba del padrone., troppi funerali benedizioni in ritardo ., Alessandro Porceddu professione bancario ed enigmista per diletto ,m un uomo salva un cane bloccato e chiuso in auto

 



fonte  unione  sarda  22\6\2025

Badesi 
La figlia di Leonardo Sechi: «Al mio fianco anche durante la malattia. Se n’è andato il giorno dopo che i medici mi hanno detto che ero guarita»

Per «Lo voglio dire a tutte le persone che si sono interessate alla sua storia, che ci hanno chiamato da diversi paesi del mondo, che hanno pianto. Fulmine riposa nel vigneto che è stato a lungo di mio padre, adesso è nel paradiso degli animali»: Sara Sechi è commossa mentre parla del suo meticcio, il cane che nel 2021 era stato soprannominato l’Hachicko italiano, dal film Hachiko - Il tuo migliore amico, con Richard Gere, la storia di un cane di razza Akita che per dieci anni attese il padrone in una stazione ferroviaria.Fulmine è morto qualche tempo fa, era diventato famoso perché andava sulla tomba del suo padrone, Leonardo Sechi, nel cimitero di Badesi. Dice Sara, la figlia di Leonardo: «Sì, Fulmine non c’è più. Quando nel 2021, dopo la morte di mio padre, ha iniziato a circolare la notizie delle visite in cimitero, mi hanno chiamato da mezzo mondo. Giornalisti dal Giappone, dagli Stati Uniti, tutti volevano sapere di Fulmine. Il legame che aveva con mio padre era impressionante, fortissimo».Ma la storia di Fulmine non è finita. Sara racconta: «Aggiungo un capitolo a questa bellissima vicenda che riguarda la mia famiglia e me. Fulmine mi ha aiutato in un periodo difficile, ero molto provata a causa di una malattia. È stato sempre con me, non mi ha mai lasciata sola. I medici mi hanno detto che sono guarita, il giorno dopo se n’è andato. Ciao Fulmine». 

----


----




 concludo   con  un altra  storia     sproveniente  dal mondo animale 

  fonte  settimanale  giallo  
  




Pietro Sedda il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti

   Dopo  la  morte  nei  giorno scorsi  all'età  di  80 anni   di  Maurizio Fercioni ( foto sotto  a  sinistra )  considerato il primo t...