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11.11.25

Bambini e guerra a Sarajevo: quando il denaro spezza l’infanzia a Milano l’inchiesta sui “cecchini del weekend”

  Libro cnsigliato 
I bastardi di Sarajevo, di Luca Leone

di  solito sono  molto prolisso , loquace   , logorroico  . Ma  questa  è una  dell poche volte   in cui  non riesco a   trovare  le parole  , anzi meglio  a  controllarmi   per non abbassarmi  al  loro livello d'odio ,   che  esprimano   senza  cadere   indiscorsi d'odio    il mio  ribrezzo e  disgusto   davanti  a  simili  abberrazioni  .  Lascio   la  paola   a  questi due   articoli che  aprono   la mia rassegna  web   quotidiana 

 da   Unione sarda online





Partivano dall'Italia pagando somme «ingenti» ai militari serbi per partecipare all'assedio di Sarajevo e sparare «per divertimento» contro i cittadini della capitale bosniaca durante la guerra. Per individuare questi «turisti della guerra» a Milano è aperta un'inchiesta che punta a individuare coloro che parteciparono al massacro di oltre 11mila persone tra il 1993 e il 1995, come riportano oggi il Giorno e La Repubblica.
Il fascicolo - di cui aveva già scritto Il Giornale a luglio - è stato aperto dal pm Alessandro Gobbis con l'accusa di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà e dai motivi abbietti ed è al momento a carico di ignoti e nasce dall'esposto presentato dal giornalista e scrittore Ezio Gavazzeni. In base alle testimonianze raccolte, da tutto il nord Italia questi “cecchini del weekend”, perlopiù simpatizzanti di estrema destra con la passione per le armi, si radunavano a Trieste e venivano portati poi sulle colline attorno a Sarajevo dove potevano sparare sulla popolazione della città assediata dopo aver pagato le milizie serbo-bosniache di Radovan Karadzic. Nel fascicolo c'è anche una relazione su questi «ricchi stranieri amanti di imprese disumane» inviata alla Procura di Milano dall'ex sindaca di Sarajevo Benjamina Karic.
«Ciò che ho appreso, da una fonte in Bosnia-Erzegovina, è che l'intelligence bosniaca a fine 1993 ha avvertito la locale sede del Sismi della presenza di almeno 5 italiani, che si trovavano sulle colline intorno alla città, accompagnati per sparare ai civili». Lo si legge nell'esposto dello scrittore Ezio Gavazzeni. La «mia fonte», spiega lo scrittore assistito dagli avvocati Nicola Brigida e Guido Salvini, «faceva parte dell'intelligence bosniaca» e nell'atto viene indicato con nome e cognome. Gavazzeni riporta uno scambio di mail del novembre 2024 con la fonte che scriveva: «Ho appreso del fenomeno alla fine del 1993 dai documenti del servizio di sicurezza militare bosniaco sull'interrogatorio di un volontario serbo catturato, venuto a combattere dalla parte dei serbi di Bosnia ed Erzegovina. Ha testimoniato - si legge - che 5 stranieri hanno viaggiato con lui da Belgrado alla Bosnia Erzegovina (almeno tre di loro erano italiani, e uno ha detto di essere di Milano)». All'epoca, ha raccontato l'ex 007 bosniaco, «lavoravo nel servizio di intelligence militare dell'esercito bosniaco. Condividemmo le informazioni con gli ufficiali del Sismi (ora Aisi) a Sarajevo perché c'erano indicazioni che gruppi turistici di cecchini/cacciatori stavano partendo da Trieste». Lo scrittore nelle 17 pagine dell'esposto dà conto che «in una testimonianza è riportato che tra questi ci fossero degli italiani: un uomo di Torino, uno Milano e l'ultimo di Trieste». E ancora: «Uno dei cecchini italiani identificati sulle colline sopra Sarajevo nel 1993, oggetto della segnalazione al Sismi, era di Milano e proprietario di una clinica privata specializzata in interventi di tipo estetico».
Per ora agli atti dell'indagine ci sono solo i documenti presentati dall'autore dell'esposto, datato 28 gennaio, e nelle prossime settimane il pm Alessandro Gobbis, con delega al Ros dei carabinieri, dovrà effettuare verifiche, ascoltando semmai le persone indicate dallo scrittore. Per ora, spiega lo scrittore, «sono solo 'soffiate'», ma sarebbe esistita anche «una tariffa per queste uccisioni: i bambini costavano di più, poi gli uomini (meglio in divisa e armati), le donne e infine i vecchi che si potevano uccidere gratis». Lo scrittore fa anche riferimento al documentario "Sarajevo Safari" del 2022 e chiarisce che «il regista Miran Zupanic ci ha dato le password per accedere alla visione riservata del film sul sito di Al Jazeera e posso fornirle al magistrato che ne farà richiesta». Nel filmato anche un testimone anonimo. E ancora: «Alcune fonti parlano di americani, canadesi e russi, ma anche di italiani, che erano disposti a pagare per giocare alla guerra». I clienti, ha raccontato l'ex 007 bosniaco, erano «sicuramente persone molto ricche» che potevano «permettersi economicamente una sfida così “adrenalinica”». Per il modo in cui «tutto era organizzato, i servizi bosniaci ritenevano che dietro a tutto ci fosse il servizio di sicurezza statale serbo». E con «le infrastrutture dell'ex compagnia aerea serba di charter e turismo Aviogenex». Jovica Stanišić, «condannato per crimini di guerra al Tribunale penale internazionale per l'ex Jugoslavia, svolgeva un ruolo chiave in questo servizio». Stando all'esposto, tra questi "turisti-cecchini" c'erano anche appassionati di caccia e armi. E la «copertura dell'attività venatoria serviva così per portare, senza sospetti, i gruppi a destinazione a Belgrado».
«Ho assistito in più di un'occasione a persone che non mi sembravano persone del posto per il loro abbigliamento, per le armi che portavano, per il modo in cui venivano trattati, gestiti, cioè guidati dai locali. Ho visto questo a Sarajevo in diverse occasioni». Così un passaggio della testimonianza di John Jordan, un ex vigile del fuoco statunitense che era volontario nella città assediata di Sarajevo negli anni '90, davanti alla Corte internazionale dell'Aja nel processo al comandante dell'esercito serbo-bosniaco Ratko Mladic. Passaggi di questa deposizione del 2007 è contenta sempre nell'esposto dello scrittore Ezio Gavazzeni ai pm milanesi. «Era chiaramente evidente - si legge ancora nella testimonianza di 18 anni fa - che la persona guidata da uomini che conoscevano bene il terreno era completamente estranea al terreno, e il suo modo di vestire e le armi che portava con sé mi hanno fatto pensare che fossero tiratori turistici». E ancora: «Quando un ragazzo si presenta con un'arma che sembra più adatta alla caccia al cinghiale nella Foresta Nera, che al combattimento urbano nei Balcani... Quando lo si vede maneggiare e si capisce che è un novizio...». In questi giorni, tra l'altro, alla Casa della Memoria di Milano è in corso una mostra fotografica intitolata 'Shooting in Sarajevo', che ricorda proprio l'assedio alla città di 30 anni fa.

da  fanpager  10 NOVEMBRE 2025  13:00

Cosa sappiamo sull’indagine sui “turisti della guerra” che pagavano per uccidere civili nell’assedio di Sarajevo
Un esposto del giornalista Ezio Gavazzeni ha portato la Procura di Milano ad aprire un’indagine, al momento a carico di ignoti, per plurimo omicidio volontario aggravato dalla crudeltà e dai motivi abbietti. Tra il 1993 e il 1995, “almeno 5 italiani” avrebbero pagato ingenti somme di denaro per poter andare a Sarajevo a sparare ai civili.

A cura di Enrico Spaccini

I civili che corrono lungo la "sniper alley" cercando di evitare il fuoco dei cecchini (foto da LaPresse)
La Procura di Milano ha aperto un fascicolo d'indagine sui cosiddetti "turisti della guerra" che, tra il 1993 e il 1995, avrebbero partecipato all'assedio di Sarajevo "per divertimento". Si tratterebbe di "almeno cinque italiani", tra cui un milanese al tempo "proprietario di una clinica privata", i quali avrebbero pagato decine di migliaia di euro di oggi per poter essere accompagnati sulle colline della capitale della Bosnia ed Erzegovina e da lì sparare su civili inermi. L'indagine, al momento a carico di ignoti, è nata dall'esposto presentato dal giornalista e scrittore Ezio Gavazzeni, con la collaborazione dell'avvocato Nicola Brigida e dell'ex giudice, e avvocato, Guido Salvini. L'ipotesi di reato è plurimo omicidio volontario aggravato dalla crudeltà e dai motivi abbietti. "Sono crimini mostruosi contro l'umanità", ha commentato Brigida a Fanpage.it, "la speranza è che come con i Desaparesidos argentini si arrivi a individuare i colpevoli e alla giusta sanzione penale".
Gli "stranieri" arrivati a Sarajevo "per sparare ai civili"
L'assedio di Sarajevo da parte dell'esercito serbo era iniziato il 6 aprile del 1992, non appena la Bosnia-Erzegovina aveva dichiarato la propria indipendenza. Passato alla storia come l'assedio più lungo della storia moderna, era terminato ufficialmente il 29 febbraio 1996, quasi quattro mesi dopo la firma dell'Accordo di Dayton che pose fine alla guerra. Le vittime furono in totale 11.541 civili, di cui 1.601 bambini, e i feriti oltre 60mila.
"Ciò che ho appreso, da una fonte in Bosnia-Erzegovina, è che l'intelligence bosniaca a fine 1993 ha avvertito la locale sede del Sismi della presenza di almeno cinque italiani, che si trovavano sulle colline intorno alla città, accompagnati per sparare ai civili", si legge nelle 17 pagine di esposto firmato da Gavazzeni e che ha portato all'apertura dell'inchiesta del pm Alessandro Gobbis. Nel documento, come riportato da Ansa, viene citato uno scambio di mail avvenuto nel novembre del 2024 in cui la "fonte" scriveva: "Ho appreso del fenomeno alla fine del 1993 dai documenti del servizio di sicurezza militare bosniaco sull'interrogatorio di un volontario serbo catturato, venuto a combattere dalla parte dei serbi di Bosnia ed Erzegovina. Ha testimoniato che cinque stranieri hanno viaggiato con lui da Belgrado alla Bosnia-Erzegovina".
La Procura pronta ad ascoltare i testimoni
Di questi "cinque stranieri" citati dalla "fonte", almeno tre sarebbero italiani: "un uomo di Torino, uno Milano e l'ultimo di Trieste". Chiamati "cecchini del weekend", sono stati descritti come perlopiù simpatizzanti di estrema destra con la passione per le armi e per la caccia. I "turisti della guerra", o anche "cacciatori di umani", si riunivano a Trieste, dove partivano con un volo della compagnia serba Aviogenex verso Belgrado e, infine, venivano accompagnati sulle colline di Sarajevo. Secondo le testimonianze, da là avrebbero sparato a civili inermi e, pagando un po' di più (fino anche a 100mila euro di oggi), anche ai bambini.
Di "tiratori turistici" se ne era già parlato alla Corte penale internazionale dell'Aia nel processo a Slobodan Milosevic, presidente della Serbia negli anni dell'assedio e accusato di crimini contro l'umanità. Alcuni testimoni affermarono di averli riconosciuti perché portavano armi e indumenti che stonavano con il contesto di guerra. Nel fascicolo della Procura, poi, è presente anche la relazione firmata dall'ex sindaca di Sarajevo Benjamina Karic sui "ricchi stranieri amanti di imprese disumane". Come anticipato da Repubblica e Il Giorno, la Procura di Milano sarebbe già pronta a convocare i primi testimoni. Il pm e il reparto Ros dei carabinieri avrebbero una lista di persone da convocare, tra cui un ex agente segreto bosniaco.

Ora  a  mente  fredda      come      


Claudio BANCARO18 ore fa
Come mai queste storie escono fuori dopo trent'anni? Cosa hanno aspettato fin ora? Che i responsabili morissero nel frattempo?
    Sandro Staiano17 ore fa
    Penso che una tale brutturia sia stata abilmente nascosta, dobbiamo anzi ringraziare i pochissimi individui che hanno mostrato grande coraggio nel denunciare lo schifo di queste persone. perciò c'è voluto un sacco di tempo perché uscisse allo scoperto tutto cio. Voglio sperare che escan fuori i nomi di questa gente maledetta, in particolare quelli dei nostri connazionali che hanno ammazzato bambini, uomini, donne e gratis, gente anziana.

Perché nell’Indiana c’è una tomba in mezzo alla strada? la storia della tromba di Nancy Kerlin Barnett.



Tutti noi riflettiamo sulla nostra mortalità a un certo punto: quando accadrà? Come? Sfortunatamente (o forse per fortuna, a seconda della prospettiva), la maggior parte di noi non avrà le risposte a queste domande fino a quando non sarà troppo tardi. Ma una cosa è certa: prima o poi accadrà. Questo ci dà un'opportunità unica per decidere cosa vorremmo che accadesse al nostro corpo dopo che ce ne saremo andati.
Tuttavia, anche se le nostre ultime volontà sono perfettamente eseguite, non possiamo controllare ciò che il mondo fa con i nostri luoghi di riposo in seguito. Prendiamo il caso di una donna la cui tomba è finita proprio nel mezzo di una strada a due corsie a Franklin, nell'Indiana 

L'articolo Perché nell’Indiana c’è una tomba in mezzo alla strada? trovato su msn.it proviene da Storia Che Passione
 Manuela Chimera • 19 ora/e


Se mai vi capitasse di passare per l’Indiana, fate un giro lungo la County Road 400. Qui, vicino a Sugar Creek, vi imbatterete in un cartello stradale che preannuncia che la strada si divide in due. Il cartello è unico nel suo genere: raffigura una croce cristiana fra due frecce divergenti. E questo perché indica che, poco dopo, la strada letteralmente si divide in due attorno a una singola tomba isolata. Perché lì c’è letteralmente una tomba in mezzo alla strada.
La tomba in mezzo alla strada di Nancy Kerlin Barnett




La tomba in questione appartiene a Nancy Kerlin Barnett. Originaria dell’Indiana, la donna morì nel 1831. La tomba è considerata, fra l’altro, uno dei luoghi più infestati dall’Indiana. Ma il motivo per cui gli operai stradali erano troppo spaventati per pensare di spostare la tomba 100 anni fa quando realizzarono la strada ha ben poco a che fare con i fantasmi o altri eventi sovrannaturali.Anzi, il motivo per cui non spostarono la tomba fu assai terreno e materiale.



Crediti foto: @Festival Country Indiana

Nancy Kerlin sposò William Barnett a soli 14 anni di età. I due ebbero 11 figli e la donna morì a soli 38 anni, nel 1831. La famiglia la seppellì in uno dei suoi posti preferiti, una piccola collinetta che dominava Sugar Creek, ad Amity.
Dopo la sua sepoltura, intorno alla sua tomba si formò un piccolo cimitero privato. Ma questo pittoresco e bucolico cimitero non era destinato a durare a lungo. La contea, infatti, decise che una strada doveva sorgere proprio dove si trovava il cimitero.






Gli operai, su ordine della contea, procedettero così a rimuovere la quasi totalità delle tombe. L’unica eccezione, però, fu la tomba di Nancy Kerlin Barnett. I suoi discendenti, infatti, non volevano che la donna fosse disturbata in alcun modo.
Anzi: per essere sicuri che nessuno spostasse la sepoltura, Daniel, il nipote di Nancy, nato 15 anni dopo
la morte della donna, decise di accamparsi sulla tomba imbracciando un fucile da caccia. Intorno a lui, gli intimoriti operai continuavano a spostare le tombe. Ma non quella di Nancy: il fucile da caccia fu un deterrente molto efficace.
Alla fine la contea dovette cedere e finì col costruire la strada attorno alla tomba. Nel corso del tempo la tomba ha cambiato aspetto. Nel 1912, per esempio, posero una lastra di cemento sopra la tomba, per proteggerla dal traffico.






E poi, nel 1982 un pronipote decise di installare un cippo storico. Generazione dopo generazione, infatti, la discendenza di Nancy assolve ancora alla sua missione: fare in modo che Nancy riposi per sempre nel suo posto prediletto. 




Anche se c’è da dire che quella collinetta tranquilla ormai si è trasformata in una strada trafficata, con le auto che sfrecciano a pochi centimetri di distanza dalla tomba di Nancy che, praticamente, funge da spartitraffico.
Comunque sia, la tomba attira ogni anno tanti curiosi, soprattutto in occasione di Halloween. Anche perché la leggenda vuole che il posto sia infestato dai fantasmi.

10.11.25

Notizie bizzarre Orche cattivissime, avvocatesse distratte, coiffeur elettorali, consegne macabre, copule acrobatiche, messaggi secolari e nomi interminabili

 


Don Modestino, sacerdote dei record: a 102 anni celebra ancora la messa I ricordi del sacerdote di Pau, dove ormai è un’istituzione

unione sarda 10 novembre 2025 alle 14:53

Don Modestino, sacerdote dei record: a 102 anni celebra ancora la messaI ricordi del sacerdote di Pau, dove ormai è un’istituzione

                        Valeria Pinna



Don Modestino Floris celebra la messa (foto archivio Unione Sarda)



Passi lenti, si aiuta con un bastone ma ogni giorno celebra la messa. Non perde nessuna festività e cerca sempre di aiutare nella sua parrocchia. Impegni che don Modestino Floris vive con una leggerezza che a 102 anni non ti aspetti. Ma lui, nato a Pau terra dell’ossidiana, è un vulcano di sorprese e a pieno titolo dà voce a quel patrimonio di centenari (e ultra) che anche nell’Oristanese non è più una rarità.
Nel suo paesino don Modestino è un’istituzione come ripete la sindaca Alessia Valente «è una ricchezza, la nostra memoria storica». E il sacerdote ha memoria da vendere. Lucidissimo, ricorda ogni data e chiacchierare con lui diventa un affascinante viaggio nel tempo. «Sono nato il 15 settembre 1923, a 13 ho iniziato gli studi nella scuola vescovile di Ales, poi il seminario a Villacidro infine a Cuglieri, dove ho concluso gli studi del liceo e l’università». Era il 1935 «eravamo circa 300 seminaristi, io soffrivo terribilmente il freddo, no c’era nemmeno il riscaldamento – racconta – però sono stati anni bellissimi, parlavano in latino anche alle interrogazioni. E avevamo anche un greco fluente». Poi la guerra, il timore dei bombardamenti e di non poter più riabbracciare i propri cari. «Ricordo che i superiori decisero di dipingere il tetto del seminario con i colori del Vaticano per evitare che potesse essere scambiato per un caserma e venisse bombardato».
Don Modestino apre lo scrigno della memoria: «Il 15 agosto 1948 sono stato ordinato sacerdote dal vescovo di Ales Antonio Tedde», poi la prima parrocchia ad Arbus quindi le esperienze a Gonnosfanadiga, San Gavino e Guspini fino ai tre anni come missionario in Messico. «La preoccupazione maggiore era per mia mamma, le dissi che il Messico era vicino, tornai solo un ano dopo per un mese e si tranquilizzò». Di quel periodo ricorda bene le difficoltà iniziali «pensavano fossi una spia , dovevo rinnovare il visto tutti i mesi. In generale era un ambiente molto religioso, noi italiani eravamo rispettati perché ci consideravano vicini al papa». Ma sono scolpiti nella memoria anche i momenti in cui si era ritrovato puntato addosso il fucile da parte delle guardie del Guatemala «ebbi un pochino di paura».


Don Modestino Floris alla cerimonia per i suoi 100 anni (foto archivio Unione Sarda)

Dopo l’avventura all’estero, l’esperienza a Villacidro «dove sono stato parroco per 26 anni». Poi sarebbe dovuta arrivare la meritata pensione ma «ho scelto di continuare nella parrocchia di Zeppara. Altri 20 anni in prima linea». Tutti i giorni faceva la spola con la sua Fiat 600 «ho guidato fino a 94 anni, mi piaceva molto. Ora continuo a celebrare, aiuto in parrocchia». Instancabile, testimone di cambiamenti epocali «oggi si sono persi molti valori, manca il rispetto. E poi questi telefonini: sono utili, lo uso anche io però non si deve esagerare. A volte le persone sono vicine fisicamente ma sono fisse sugli schermi dei cellulari – sostiene – Poi ammiro tantissimo i ragazzini che sanno utilizzare gli smartphone fin da piccoli. Bisogna recuperare certi valori, il dialogo soprattutto fra i giovani». Legge tanto «l'intelligenza va sempre alimentata», ma qual è il segreto della longevità? «Non lo posso dire, è un dono di famiglia – ride di gusto – Eravamo otto figli, sei maschi e due femmine: mio fratello maggiore è morto quado aveva 97 anni, adesso vivo con Anna Maria che ne ha 93, mentre l’altra sorella, Miranda ne ha compiuto 87». Poi regala un consiglio: «Ho sempre cercato di regolare la mia vita, ognuno è medico di sé stesso. Forse mi ha aiutato il Messico, con quel clima e una società diversa». Sorride, con una saggezza solida e attuale.
Don Modestino Floris è un esempio di una vita attiva e impegnata. Come lui anche tanti altri anziani.
L’Istat al 2024 registrava 71 centenari in provincia, solo a Oristano sono 16 (dati aggiornati al 25 ottobre scorso) e sono tutte donne fra loro ci sono anche alcune che hanno raggiunto quota 104 e 103 anni. Nella classifica dei record spiccano i 106 anni di Maurizia Congiu a Sorradile, a Nughedu Santa Vittoria ecco Maria Antonia Tatti, conosciuta come “Bella” per il suo fascino: 105 anni. E tanti altri esperti di elisir dilunga vita a Neoneli, Cabras, Sedilo, Terralba, Morgongiori, Ales, Narbolia, Siapiccia, Bosa, Palmas Arborea, Suni, Ghilarza, Cuglieri, Santu Lussurgiu, Seneghe e ben tre a Scano Montiferro.

Oristano apre il “Festival di sensibilizzazione per il contrasto alla violenza contro le donne”



mancano ancora 15 giorn al 25 novembre è già fioriscono delle iniziative contro i femminicidi come questa .



  unione  sarda  10 novembre 2025 alle 15:26


                                               Marianna Guarna

Oristano apre il “Festival di sensibilizzazione per il contrasto alla violenza contro le donne”Un mese per dire basta alla violenza di genere



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Un mese per dire basta alla violenza di genere. È con questa forza che il Centro Antiviolenza “Donna Eleonora” e l’Associazione Prospettiva Donna, con il sostegno di enti e istituzioni locali, inaugurano la III Edizione del Festival di Sensibilizzazione per il contrasto alla violenza contro le donne.
La città si accende di arte, parole e testimonianze con l’apertura delle mostre fotografiche “Adesso sono viva” di Benedetto Mameli e Simona Arrai, e “Gli occhi delle donne”, realizzata con le ospiti del Centro e della Casa Rifugio. Nello spazio espositivo di via Garibaldi 13 trovano casa anche “Il filo invisibile” e “MeDea”, opere nate dai laboratori creativi del Centro, dove il dolore si trasforma in espressione e rinascita.
Dal 15 novembre si entra nel vivo con incontri, reading, dibattiti e performance. Ad aprire il programma sarà “Volevate il silenzio. Avete la mia voce” di Patrizia Cadau, seguito da giornate tematiche dedicate alla violenza simbolica nei media (21 novembre) e al body shaming con Francesca Spanu e il suo libro “Il corpo sbagliato” (24 novembre). Il 25 novembre, giornata simbolo dell’iniziativa “Orange the World”, l’incontro con la Rete Antiviolenza sarà accompagnato dalle coreografie di Carlo Petromilli e Claudia Tronci, seguite dalla consegna di 300 stelle realizzate nei laboratori BurRumBàlla come gesto di sorellanza e speranza.
Grande attenzione sarà riservata anche ai più giovani, protagonisti di una vera e propria rete educativa. L’11, il 13, il 17, il 19 e il 24 novembre le operatrici del Centro incontreranno studenti e studentesse delle scuole di Bonarcado, Cuglieri, Seneghe, Santu Lussurgiu e Cabras con il progetto “Potere alle parole”, un percorso per riconoscere e superare stereotipi e pregiudizi di genere. Il 12 novembre sarà la volta dell’Istituto Mossa di Oristano con l’iniziativa “Comunicare per crescere”, mentre il 20 gli studenti dell’Istituto Artistico Contini parteciperanno a un laboratorio sulla violenza assistita.
Il Festival proseguirà fino all’11 dicembre tra musica, arte e formazione, coinvolgendo scuole, associazioni e cittadini. Un mese per riflettere, agire e ricordare che sensibilizzare significa cambiare la cultura che ancora oggi permette la violenza.





Alto Oristanese

Oristano

identita e resistenza . Il carnevale di Tempio arriva all’università: giovane lurese gli dedica la tesi di laurea., gli studenti dell'alberghiero tra i le vecchie botteghe che ancora resistono

  fonte  la  nuova  sardegna del  10\11\2025



Il carnevale di Tempio arriva all’università: giovane lurese gli dedica la tesi di laurea
di Mirko Muzzu



◗Valeria Pirisinu dopo la laurea e, a fianco, il rogo di Re Giorgio
Valeria Pirisinu ha analizzato il rito e spiegato il significato sociale


09 novembre 2025 



Tempio Il Carnevale di Tempio diventa una tesi di laurea. È stata Valeria Pirisinu, con il suo percorso in Beni culturali, a portare il Carrasciali Timpiesu dentro l’aula magna del Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione dell’Università di Sassari. Lo ha fatto lo scorso 10 ottobre discutendo, con il professor Cristiano Tallè, una tesi in Antropologia culturale dal titolo “Il carnevale di Tempio Pausania come fase liminale e rito di inversione sociale: uno studio antropologico”. «Volevo dimostrare che il carnevale è una cosa seria e importante, di cui si può e si deve parlare anche in ambito accademico» spiega Pirisinu, che racconta il suo legame con la manifestazione: «Sono di Luras, conosco il carnevale sin da bambina, poi il liceo a Tempio e la scoperta del carnevale “da grande”. Ma è stato quando ho incontrato Tore, il mio compagno, che ho capito davvero quanto lavoro ci sia dietro: mesi di preparativi, passione e impegno». Tore Siazzu, compagno di Valeria, è infatti il capogruppo di Quelli del Karnevale, uno dei gruppi storici del carnevale tempiese.
Dalle pagine della tesi, attraverso i paradigmi dell’antropologia culturale, emergono i significati più profondi del Carrasciali Timpiesu: rito di passaggio, fase liminale in cui l’individuo cambia condizione, e rito di inversione sociale, dove le regole quotidiane si ribaltano, il povero diventa re e il ricco si spoglia dei suoi privilegi. Il rogo di Re Giorgio, che conclude la Sei Giorni, segna simbolicamente la fine del tempo sospeso e il ritorno all’ordine. «È stato un lavoro complesso, in cui non ho potuto dare nulla per scontato – racconta la neodottoressa. –. Sono partita dalla storia del carnevale, dalla sua etimologia e dai riti più antichi. Ho analizzato i carnevali sardi arcaici come quello di Mamoiada e quelli equestri di origine spagnola come la Sartiglia di Oristano, mettendo in evidenza le differenze con il nostro carnevale allegorico. Ho raccontato anche le parti che non si vedono, come la costruzione dei carri, un lavoro lungo che inizia mesi prima».
Il lavoro comprende 5 interviste ai protagonisti del carnevale tempiese, un’ampia raccolta di foto e una rigorosa metodologia di ricerca. «Ho voluto far raccontare a loro gli aspetti più autentici di quello che considero un vero rito collettivo» spiega Pirisinu. L’obiettivo, sottolinea, era unire la conoscenza accademica alla partecipazione emotiva, dare dignità di studio a una tradizione che ogni anno coinvolge l’intera comunità. Sul Carnevale di Tempio si è scritto molto, soprattutto in chiave storica, ma mancava uno studio di taglio antropologico sul presente. Un primo approccio era arrivato nel 2023 con il convegno “Carnevale Tempiese: il mondo al rovescio”, promosso da Isre e Comune di Tempio, che vide tra i relatori l’antropologo Pietro Clemente e l’artista Simone Sanna. Con la sua tesi, Valeria Pirisinu ha compiuto il primo vero studio accademico sul Carrasciali Timpiesu contemporaneo, restituendo alla festa più amata della Gallura anche la dignità di oggetto di ricerca scientifica e di espressione culturale viva, capace di raccontare l’identità di un intero territorio.


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il bar sta perdendo a socialità che aveva un tempo ? Nasce a Torino il bar del caffè a tempo: massimo 15 minuti per consumarlo poi si deve lasciare il tavolo…

da cronache dalla sardegna e non solo





A Torino un noto bar-pasticceria nel corso Duca degli Abruzzi, area Politecnico, da qualche giorno ha esposto un cartello attraverso il quale si dettano i tempi delle consumazioni per i clienti.Quindici minuti per un caffè, venti per la colazione, quarantacinque per il pranzo e massimo un’ora per l’aperitivo. Trascorso il tempo, occorre lasciare il tavolo libero per i successivi clienti.La scelta del bar “a tempo” è del titolare, stufo di vedere clienti che stavano ore consumando niente o usavano il locale come luogo di lavoro.La notizia ha fatto molto discutere: tanti hanno dato ragione al proprietario, altri hanno scritto che almeno quando vanno al bar vogliono rilassarsi e non essere costretti a consumare di fretta.Il cartello è stato esposto anche negli altri due locali dello stesso titolare.Chissà cosa accadrebbe se lo stesso cartello fosse messo in qualche bar in Sardegna, dove notoriamente i tempi sono “lenti”..


IL SESSISMO È NEGLI OCCHI DI CHI GUARDA – BUFERA PER IL MANIFESTO USATO PER PROMUOVERE LA MOSTRA BOVINA DELLA RAZZA PIEMONTESE A FOSSANO, IN PROVINCIA DI CUNEO, CHE RITRAE UNA DONNA MENTRE CONTROLLA UN TORO PER IL NASO

Al giorno d’oggi tutto può risultare sessista, lo sappiamo. 
Sessismo ovunque, anche in una banale fotografia. Basti pensare a quanto accaduto negli ultimi giorni a Fossano in occasione della quarantacinquesima edizione della Mostra nazionale dei bovini della razza Piemontese. 
Ebbene, l’immagine scelta per il manifesto è lo zenit del sessismo. O almeno questa è la versione della sinistra locale. Il motivo? La fotografia ritrae un’allevatrice – “un’attraente ragazza” – e un toro sulla “sabbia”. Un messaggio ritenuto “inappropriato” e appunto “sessista”, riportano vari siti .
O Sulla vicenda è intervenuto anche Giuseppe Cruciani nel corso de "La Zanzara": “Mi giunge notizia che in una fiera del bovino ci sono state accuse di sessismo perché una allevatrice si è fatta una foto con un toro. È stata accusata di sessismo. Avete rotto il c..., lei ha scelto di fare quella foto, non le rompete il c...". .

Ora  durante la mia rassegna web sono capitato in quest'articolo di   https://www.dagospia.com/cronache/



IL SESSISMO È NEGLI OCCHI DI CHI GUARDA – BUFERA PER IL MANIFESTO USATO PER PROMUOVERE LA MOSTRA BOVINA DELLA RAZZA PIEMONTESE A FOSSANO, INPROVINCIA DI CUNEO, CHE RI TRAE UNA DONNA MENTRE CONTROLLA UN TORO PER IL NASO – PER L’OPPOSIZIONE, L’ABBINAMENTO TRA UNA “ATTRAENTE RAGAZZA” E L’ANIMALE È “INAPPROPRIATO E SESSISTA” – LA REPLICA DEL SINDACO LEGHISTA, DARIO TALLONE: “CHIEDETE DI PROPORRE L’IMMAGINE DELLA DONNA NEI CONTESTI PROFESSIONALI IN CUI SI TROVA AD OPERARE? QUINDI DEVE AVERE LA GOBBA, GLI STIVALI, UN ABITO SPORCO? CERCATE VOI DI SUPERARE GLI STEREOTIPI…


estratto dell’articolo di Matteo Borgetto per www.lastampa.it  



Al giorno d’oggi tutto può risultare sessista, lo sappiamo. Sessismo ovunque, anche in una banale fotografia. Basti pensare a quanto accaduto negli ultimi giorni a Fossano in occasione della quarantacinquesima edizione della Mostra nazionale dei bovini della razza Piemontese. Ebbene, l’immagine scelta per il manifesto è lo zenit del sessismo. O almeno questa è la versione della sinistra locale. Il motivo? La fotografia ritrae un’allevatrice – “un’attraente ragazza” – e un toro sulla “sabbia”. Un messaggio ritenuto “inappropriato” e appunto “sessista”, riporta La Stampa.




 

manifesto della mostra bovina di fossano

«L’immagine non è costruita, ma è naturale. È stata scelta da Anaborapi, Arap, insieme al Comune e soprattutto da Alessia Bologna, la bella ragazza fotografata mentre controlla un toro per il naso, allevatrice e neo sposa di Cristopher Dalmasso, fratello di Elia che è presidente Arap. Un regalo, una sorpresa ai novelli sposi, fatta dagli allevatori e dalle associazioni di categoria». 

Così il sindaco di Fossano, Dario Tallone, ha risposto ieri sera (venerdì 7 novembre), in apertura di Consiglio comunale, alla lettera dei rappresentanti di minoranza sul manifesto della 45esima Mostra nazionale dei bovini della razza Piemontese, in programma fino a domenica al Foro boario di piazza Dompè. 

dario tallone, alessia bologna e giorgio bergesio, vicino al manifesto della mostra bovina contestato

L’opposizione ha criticato l’abbinamento tra una «attraente ragazza» e il toro sulla «sabbia», un messaggio ritenuto «inappropriato» e «sessista». In realtà, ha spiegato il primo cittadino, Alessia «non è sulla spiaggia, ma su un ring. Quella non è sabbia, ma segatura e il toro che trascina è Bigbeng, di proprietà della famiglia Dalmasso, un campione internazionale», già vincitore assoluto della Nazionale nel 2023. 

“PERCHÉ UNA RAGAZZA SE I PROTAGONISTI SONO GLI ANIMALI?”

«Secondo voi è inappropriata la foto di un’allevatrice che riesce a governare un toro di 14 quintali a una mostra bovina, come faccio io con Briciola al guinzaglio? - ancora Tallone -. Chiedete di proporre l’immagine della donna nei contesti professionali in cui si trova ad operare? Quindi deve avere la gobba, gli stivali, un abito sporco? Cercate voi di superare gli stereotipi». 

mostra bovina di fossano

E ha concluso: «Abbiate il coraggio di chiedere scusa ad Alessia, a tutte le donne che lavorano in agricoltura, agli allevatori e alle associazioni, tutti molto delusi dal vostro modo sinistro di fare politica. I fossanesi non meritano questa becera pubblicità. Vergognatevi». 

Tra i consiglieri di minoranza, prima a replicare Mirella Brizio: «Ci siamo chiesti, in una mostra dove i protagonisti sono i bovini, perché affiancare l’immagine di una ragazza a quella del muso di un toro. Questo è inappropriato. La comunicazione visiva di un ente istituzionale ha responsabilità che contribuisce a costruire modelli e percezioni. Anche noi abbiamo ricevuto proteste. Fossano non può veicolare immagini che abbiano un messaggio sessista».



 Dario  Talone  alla  mostra  Bovina   di Fossano

Controreplica immediata di Tallone: «I veri protagonisti sono allevatrici e allevatori, che si alzano alle 4 del mattino, vanno in montagna e ci fanno mangiare della carne buona. Smettetela di dire che è un messaggio sessista». […].


Concordo con quanto riportato nell' introduzione di Dagospia ( da cui ho preso l'incipit come titolo del post ). infatti da ex maschio alfa (  ora sulla via di maschio plurale)  e pornodipendente ( quasi sconfitto)   non vedo in questo caso nessuna pubblicità sessista o mercificatoria del corpo o dell'immagine  femminile   Infatti qui la donna non è   nuda  o in intimo , inatteggiamenti provocanti /sensuali  viene rispetto ad altre pubblicità o  eventi promozionali viene usato il corpo o l'immagine fenninile .  Da quel   che  mi   sembra  di capire  la  donna ritratta è una professionista del settore e che l’immagine celebra il suo ruolo, rompendo gli stereotipi che vedono l’allevamento come un mestiere esclusivamente maschile. Ecco  che ho  chiesto  parere   ad  una   mia  compaesana  allevatrice     che    mi  ha  cosi     risposto :
« Tendenzialmente gli allevamenti erano gestiti da uomini, le donne facevano le trasformazioni dei prodotti (in Gallura il formaggio mentre in Barbagia lo facevano anche gli uomini) è un lavoro di forza quindi tendenzialmente l’uomo è strutturato meglio della donna, da diversi anni anche le donne sono entrate in questo mondo e gestiscono bene anche gli animali. L’immagine è molto bella quindi non ci vedo nulla… tra l’altro ognuno porta i propri animali nelle fiere quindi ben venga una foto del genere »  confermando    quanto  ho scritto    nelle  righe  precedenti  
Quindi concludendo finiamola di fare al lupo al lupo  e vedere sessismo  quando  non c'è  oppure è  opinionabile come in questo caso in  quanto  la discussione ruota attorno a come viene rappresentata la donna e perché. In questo   caso   l’intento è valorizzare il lavoro femminile in ambito agricolo, è  quindoi   il messaggio  è   positivo.
 Se invece l’immagine è ,   cosa  che per me  non  sembra  , scelta per attrarre attenzione con elementi estetici , allora può scivolare nel sessismo più  o meno   spinto   o  allusivo  .

9.11.25

I leoni da tastiera? «Gente frustrata» Antonietta Mazzette (Università di Sassari): la logica del capro espiatorio alla base dell’odio social

   ricollegandomi    sia  allas  dibattito   un po' sterile   e  infantile   da  parte   della destra    sugli insulti  sessissti e no alla  Presidentessa  della regiione sarda  sia  al   mio  post  precedente  (  Attaccare lei per colpire lui Non sapendo più come prendersela con Zohran Mamdani, le orde di miserabili odiatori si sono riversate sul nuovo obiettivola moglie Rama Duvaji     )   e  alle reazioni     che ha  suscitato sulla  mia  bacheca  fb   aggiungo che tali persone  oltre  a essere  come  dice  l'articolo   riportato  sotto  che  tali persone    sono  frustrate Infatti   tali   persone  sono   per  un  ben 98 %   frustrati  all'ennessima potenza   in  quanto il loro odio si mescola  alla  :   proaganda  e   a  una  politica  sempre  più   malpancista    che   da 40  avvelena  il  dibattito politico culturale   del paese  con  dìfake  news   ,  disoiformazione   e  post  al veleno 
Infatti  , soprattutto ,   via  email    mi     è stato detto   che  come  la siindaca  di  Genova    stiamo esagerando  la  cosa  o  peggio che   (  commento al mio post    del  post   prima  citato  )

Antonio Deiana
Cosa le hanno detto?
Carciofara?
Pescivendola?
Borgatara?
Bastarda?
Cosa mi sono perso?








riporto  due  articoli soprattutto   il primo (  che  poi    è     quello che da   il  titolo al  post )  .
 di  persone più esperte di me   su tale fenomeno  e  il secondo tramite  il formato  png  ,  non sono   riuscito a  trovarlo online    gratuitamente  

  da  l'unione  sarda  9\11\2025


L’inqualificabile aggressione verbale nei confronti della presidente Alessandra Todde è solo l’ultimo esempio dell’onda d’odio che allaga i social. L’ultimo episodio riguardante una persona nota, perché le pietre vengono scagliate ogni secondo che passa anche contro chi non ha un ruolo pubblico e finisce per dover subire la tempesta senza possibilità di difendersi. Persone attaccate perché donna, gay o transessuale, straniero, ricco, povero, disabile. La piazza senza limiti e confini offerta dal web sta dando voce a chiunque si senta in diritto di scagliare insulti e minacce perlopiù al riparo dell’anonimato. Ma chi sono questi scagliatori di escrementi? C’è un filo rosso che li accomuna?
Il bersaglio preferito
«Alla base del comportamento dei cosiddetti odiatori», spiega Antonietta Mazzette, docente di sociologia urbana dell’Università di Sassari, «c’è la logica del capro espiatorio: di ciò che mi succede è sempre responsabile qualcun altro. Generalmente si tratta di persone frustrate. Persone che hanno problemi, insoddisfazioni, situazioni non risolte, ed è facile riversare sugli altri le proprie incompetenze e il peso delle avversità». Sui social ce n’è per tutti, ma sono le donne il bersaglio privilegiato. Un odio crescente, secondo l’indagine di Vox, l’osservatorio italiano sui diritti, che sottolinea: «Sul totale delle persone colpite da hate speech, le donne sono la metà».
La prevaricazione
«Niente di nuovo, sa?», avvisa Mazzette. «I social amplificano questa situazione, ma prima non era tanto diverso. Credo che non ci sia donna che, per strada o in qualunque altro luogo, non abbia subito una battuta sgradevole o un complimento fintamente galante. “Bisognerebbe accettare l’apprezzamento”, dicono alcuni. Ma non è un apprezzamento, è invece un’espressione di potere. È sempre un’espressione di potere quando si ha a che fare con maschi che prendono di mira le donne». Poi è facile, «arrivare sino agli estremi per chi considera la donna come un oggetto di cui “posso fare quel che voglio, anche ammazzarla” se non risponde ai miei diktat». Il pensiero rivelato o sottotraccia di una società patriarcale. C’è un altro dato molto interessante: il 20,81% dell’odio in rete contro le donne proviene da donne. «Si è passate dall’invidia verso l’altra, che prima si manifestava faccia a faccia, all’insulto amplificato sui social. Le donne vivono nel mondo sociale, culturale ed economico degli uomini, non sono marziane. In secondo luogo, le donne entrano anche in competizione tra loro, accade che si guardino come antagoniste. Non ci dobbiamo stupire».
Il peso delle parole
Il problema di fondo, avverte Luca Pisano, psicologo e psicoterapeuta a Cagliari, «è legato all’analfabetismo funzionale: il 35% degli italiani non è in grado di capire testi lunghi, oltre le due, tre righe, nè di valutare dati di tipo statistico. Uno su tre». Già, ma in pratica cosa significa? In che modo queste carenze finiscono per deflagrare? «Ogni parola è fatta di un significante e un significato. Se io parlo del quadro, e quindi del significante quadro, sono in grado di indicarlo senza confonderlo con la lampada proprio perché ogni significante si collega a un significato. Ora, però, succede che il significante non si lega più a un significato, bensì ad altri che sono determinati dall’ideologia o dalla subcultura». Se, per esempio, «in questa subcultura c’è la misoginia, e nella nostra società c’è una forte dimensione di sessismo e di misoginia», qualunque fatto che riguardi una donna, «può far scattare l’odio». L’odio che, «riguarda le donne, ma anche gli uomini, lo straniero, il disabile eccetera».
I comportamenti tossici
Una recente ricerca Eurispes (“Educazione alla parità e al rispetto”) fatta nelle scuole sarde, rivela in quale bagno di violenza verbale e comportamenti tossici crescono i nostri ragazzi. L’hanno portata avanti Luca Pisano, Marisa Muzzetto e Gerolamo Balata su un campione di ragazzi e ragazze dai 12 ai 19 anni. Ebbene, una quota che va dal 10 al 30% (dai 10mila ai 30mila studenti) ritiene normali la violenza fisica, il revenge porn, il controllo nelle relazioni. «E ben il 60% degli studenti», puntualizza Pisano, «minimizzano o ignorano le implicazioni del linguaggio violento. Soprattutto il suo impatto sulla vita delle persone».



Rallista nel nome del padre . Valentina Demurtas in gara per ricordare Silverio: «Orgogliosa di lui»

   unioe  sarda  9\11\2025




Nel silenzio, a occhi chiusi, sente ancora il respiro di suo padre nell’interfono del casco. Flash di ricordi, veloci, preziosi. Il rombo dei motori, oggi, è la sua colonna sonora preferita. A casa Demurtas la passione per i rally e le auto da corsa è travolgente, le riviste Tuttomotori sono come il vangelo, le vhs raccontano le gesta del pilota Henri Toivonen.
Passione
«Da piccolina, insieme ai miei fratelli maggiori, babbo mi portava a vedere i rally, le cronoscalate, qualsiasi cosa avesse a che fare con le auto – ricorda Valentina Demurtas, 37 anni di Girasole –. Poi un giorno ci ha fatto una sorpresa: ha acquistato una Peugeot 309 per fare le sue gare, il sogno si stava avverando. Esplodevamo di gioia. Forse non l’ho mai detto, ma ero molto orgogliosa di avere un padre così». Da quel momento papà Silverio partecipa alle gare e agli slalom, insieme ai fratelli di Valentina – Luca e Fabio – che gli fanno da navigatore. Ma non sono semplici gare, sono giorni di festa, divertimento e condivisione, il ritrovarsi con vecchi amici. «In queste occasioni era raggiante. Uno dei ricordi più belli che ho è la sua faccia quando usciva di casa per andare a correre. Quel suo sorrisino lo custodisco dentro di me con cura, come il ricordo di quando, nel 2013, mi chiese di fargli da navigatore durante una gara».
Lutto e speranza
A marzo del 2015 Silverio Demurtas, a soli 60 anni, lascia questa vita per un malore improvviso, ma la traccia luminosa della sua grande passione resta in ognuno dei figli. In Valentina l’interesse profondo per i motori nasce grazie a suo padre e, da quando è scomparso, tutto quello che gira intorno alle corse in macchina la fa sentire più vicina a lui, come un filo invisibile e ben stretto. «Dopo quel tragico giorno mi sono ripromessa di tornare a correre e di continuare a coltivare questa passione: è nata con lui, continua per lui e anche per me, perché correre in macchina mi piace da matti. Con i miei fratelli ogni tanto pensavamo di partecipare ad un rally tutti insieme,e poi è successo davvero», racconta.
Emozioni uniche
A ottobre, Luca insieme ad un altro navigatore, e Fabio insieme a Valentina hanno partecipato al Rally Terra Sarda; due auto, l’una sempre dietro l’altra, quasi per proteggersi a vicenda. Un’emozione doppia. «Mi sono guardata intorno: io ero seduta nell’auto, il rombo dei motori mi danzava nelle orecchie ed era fantastico, la gente fuori ci guardava. Ho osservato mio fratello e gli ho detto “Finalmente ci siamo in mezzo anche noi”. Aveva un sorrisino familiare», ricorda Valentina. L’Ogliastra Reacing ogni anno organizza un Memorial dedicato a Silverio Demurtas, un modo per continuare a ricordarlo. Intanto Valentina aspetta il giorno in cui potrà indossare una tuta e correre di nuovo. Chiuderà gli occhi e il respiro di suo fratello nell’interfono del casco si mescolerà a quello di suo padre. Ancora una volta.

8.11.25

Bibbiano, le suore organizzano nel convento il corso di autodifesa per le donne: ma non si diceva porgi l'altra guancia ?

  da :     caffe  ristretto  unione  sarda  , corriere  della sera  tramite   https://www.msn.com/ 

Se non dovesse bastare un Pater Noster per schiantare il bulletto mano morta, ricorrere a una mossa di judo non è peccato neppure per la suora. Il proverbio “aiutati che il ciel ti aiuta” è attualizzato dalle salesiane che a Bibbiano, comune dell’Emilia, suggeriscono alle donne come mettere schiena a terra il delinquente che ci prova. Nei tempi in cui Berta filava l’altra guancia la porgevano le anime pie disposte al martirio, ora il sacrificio suona male: à la guerre comme à la guerre. È più che santo il progetto della direttrice dell’istituto Maria Ausiliatrice suor Paola Della Ciana, laurea in psicoterapia, di promuovere nella palestra della scuola gestita dalle religiose un corso di autodifesa gratuito affidato a un’associazione di judo, rivolto a tutte le ragazze e donne della città, dai 14 anni in su. “Di fronte alla violenza è bene sostenere l’autodifesa, perché la dignità va sempre salvaguarda e protetta. Come dimostrano i femminicidi ci sono situazioni che richiedono una difesa tempestiva e furba”. Rosarium et baculum, per calmare i bollenti spiriti del bollito da una mistura di pastiglie avvelenate. In un tempo in cui le paure sconfinano nel terrore le suore, oltre a far capire quando certe situazioni di pericolo possono sfociare nella violenza, consigliano ciò che serve per calmare gli indemoniati: spada a destra e Vangelo a sinistra.
Infatti è notizia di questi giorni che
Nell’istituto delle figlie di Maria Ausiliatrice, dalla violenza ci si difende e alla violenza si reagisce. Con le mosse di judo.
L’iniziativa è sold out. Le richieste superano di gran lunga i posti disponibili. «Non ci aspettavamo tutto questo interesse e un’adesione così alta», dice suor Paola Della Ciana, la direttrice. E invece. Il connubio religiose-autodifesa si è rivelato vincente.
Dunque. Ore 18:45, mercoledì 5 novembre, inizia il corso di autodifesa per donne organizzato dalle salesiane. Quattro lezioni in tutto (ogni mercoledì) completamente gratuite. Pienone. La location è la palestra dell’istituto. Campagne di Bibbiano, Reggio Emilia. Sì, «quella» Bibbiano.
Correva l’estate populista 2019 quando scattarono gli arresti per un presunto giro di affidi illeciti; ci finì dentro anche l’allora sindaco dem Andrea Carletti: assolto (e non solo lui). La destra cavalcò l’onda. Indimenticabile la t-shirt indossata a Montecitorio dalla senatrice leghista Lucia Borgonzoni: «Parlateci di Bibbiano», c’era scritto.
Parliamone, dunque, oggi. In questa palestra, in questo istituto religioso, i fantasmi dell’inchiesta «Angeli e Demoni» sono un ricordo lontano. E la celebrità inattesa che regala l’iniziativa delle suore è per i bibbianesi un piccolo riscatto. Anche suor Paola sembra pensarla così: «Questa è una comunità sana», rivendica, mentre allieve e istruttori si preparano per la lezione.
Le donne sono sessanta. E ne sono rimaste fuori ben quaranta. «Il 55% ha più di quarant’anni, il 20 fra i trenta e i quaranta, poi ci sono le under trenta», snocciola i dati soddisfatta suor Laura, 37 anni da Livorno. L’idea del corso è sua. Suor Laura insegna alle medie dell’istituto e, spiega, ogni anno organizza qualcosa per il 25 novembre, Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Quest’anno ha voluto fare le cose in grande. Con la benedizione di suor Paola, che è psicoterapeuta e quindi di violenza ne sa qualcosa.
«Avevamo pensato alla fascia d’età 14-60, ma si sono iscritte anche donne più in là con gli anni», precisa. La senior della squadra è Luciana, 69 grintosi anni. Dice di essere qui perché «questo mondo» non le piace. Ma anche per le sue due nipotine: «Voglio apprendere per insegnare loro come difendersi».
L’istruttore è Ettore Franzoni, della scuola Uchi Oroshi Judo di Bibbiano. Ha accettato di farlo gratis perché ci crede. Cominciamo. «Tornerete tutte a casa con i polsi dolenti», premette. Il primo incontro è infatti dedicato alle tecniche per divincolarsi dalla presa dell’aggressore. Come reagire se ti afferra un polso? E se li afferra tutti e due? «In questo caso dobbiamo chiedere a suor Laura - sorride Ettore - perché non ci resta che pregare». Le donne lo guardano smarrite. Ma lui subito precisa: «Nel senso che la tecnica è quella delle mani giunte, come in preghiera». Sollievo. Le allieve si organizzano a coppie e fanno le prove. «Dovete essere più decise, non tentennate», le sprona l’istruttore. E loro ci danno dentro.
Per riprendere fiato un po’ di teoria. «Quando siete in giro da sole la prima regola è mantenere un atteggiamento attento, avere l’ambiente sotto controllo», spiega il Sensei. «Se qualcuno si avvicina con far sospetto, dobbiamo per prima cosa capire chi abbiamo difronte», prosegue. E via così. Qualcuna prende appunti. Qualcuna registra. Tutte ascoltano in religioso - è il caso di dire - silenzio. Grate. E pronte per la prossima lezione.
«Una precisazione importante - dice suor Paola prima di congedarsi -. Il nostro ordine è stato fondato da don Bosco, ma anche da santa Maria Domenica Mazzarello, donna che nessuno cita mai». La parità di genere si costruisce anche così.
« La prevenzione è » come dichiarato a Vanity Fair Italia « un pilastro della nostra missione. In questo caso significa aiutare le donne a rafforzare fiducia e consapevolezza di sé, riconoscendo la propria dignità in ogni situazione». Educazione, fede e responsabilità civile: parte da qui il corso gratuito di autodifesa al femminile organizzato dalle suore salesiane di Suor Maria Ausiliatrice di Bibbiano (Reggio Emilia). Un'iniziativa nata con l'obiettivo specifico di fornire risposte concrete di contrasto alla violenza di genere. I corsi si tengono nella palestra dell'Istituto che ospita le scuole dell'infanzia, le primarie e le medie. Qui le religiose fanno educazione all'affettività. «Qui è lo spazio dove si combatte la violenza di genere grazie ad un progetto educativo che parte dalla scuola».
A guidare gli incontri sono quattro maestri esperti dell’associazione sportiva Uchi Oroshi Judo, che hanno scelto di mettere gratuitamente a disposizione la loro professionalità. Il loro obiettivo, ha spiegato al Resto del Carlino il maestro Ettore Franzoni, cintura nera 8° Dan, è di insegnare alle donne prima di tutto a mettersi al sicuro, a togliersi dall’imbarazzo di un’aggressione o di una minaccia.Incredule per il riscontro e la risonanza del corso le religiose. L'idea era nata l'estate scorsa da suor Laura Siani, 37 anni, insegnante ed educatrice, che dopo aver testato l'interesse verso il corso da parte degli animatori del Grest poi ha sviluppato il progetto insieme alla direttrice dell’Istituto, suor Paola Della Ciana proponendo l’esperienza per tutta la comunità, in coincidenza con il mese dedicato alla Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Il corso è andato sold out in pochi giorni: secondo un’analisi interna condotta dalle religiose, il 30% delle iscritte ha tra i 40 e i 50 anni, il 25% tra i 50 e i 60, il 23% tra i 25 e i 40 e il 15% tra i 14 e i 24.

ANCORA ESISTE LO ZECCHINO D'ORO ?Parroco sardo don Francesco Marruncheddu allo Zecchino d’Oro: è l’autore del brano “Ci pensa il vento

   NUOVA  SARDEGNA  8\11\2025

Dalla chiesa alla Tv

Parroco sardo allo Zecchino d’Oro: è l’autore del brano “Ci pensa il vento


La prima volta nella storia della gara canora. A cantare la canzone del sacerdote sarà Emma (9 anni) con l’accompagnamento del Piccolo Coro “Mariele Ventre” dell’Antoniano

C’è anche il parroco della parrocchia di San Giovanni Bosco a Sassari, don Francesco Marruncheddu, tra gli autori di una delle canzoni in gara alla 68esima edizione dello Zecchino d’Oro. Per tre giorni, dal 28 al 30 novembre, lascerà messe, omelie e catechismo nella chiesa di via Washington e sarà all’Antoniano di Bologna dov, in diretta su RaiUno, verrà eseguito il brano “Ci pensa il vento”, di cui Marruncheddu ha scritto il testo. La canzone, musicata dal maestro vicentino Lodovico Saccol, vincitore di tre edizioni dello Zecchino d’Oro, sarà interpretata da Emma (9 anni) una bambina di Monza con l’accompagnamento come per tutte le altre tredici canzoni in gara, del Piccolo Coro “Mariele Ventre” dell’Antoniano, diretto da Margherita Gamberini.
Don Francesco Marruncheddu originario di Oristano, dal 2015 sacerdote dell’arcidiocesi di Sassari, è anche giornalista pubblicista e con la sua partecipazione rompe un religioso silenzio quasi settantennale: è la prima volta, infatti, che un sacerdote compare tra gli autori di un pezzo allo Zecchino d’Oro. «Ci pensa il vento è un brano semplice, ma dal sapore fortemente introspettivo», racconta don Francesco Marruncheddu. «Nasce dalla riflessione su un elemento naturale, il vento, sempre presente e vitale, che tutti pensiamo di conoscere bene, ma che in realtà non controlliamo e non possediamo, e che rimane misterioso e ingovernabile. Tanto presente quanto impalpabile, apportatore di vita e compagno di storie e momenti belli, come quando ci regala ristoro nelle calde giornate estive, ma a volte anche impegnativi quando agita le onde del mare, non permettendo ad esempio di fare il bagno, ma offrendoci comunque sempre scene di una potenza grandiosa e solenne. Il vento, in questa canzone, viene visto anche come un compagno della vita di ogni giorno, quasi personificato, capace di evocare fotogrammi di tempi passati o romantici, proprio come un caro amico».
Lodovico Saccol ha musicato “Ci Pensa il vento" perché colpito dal colore e dalle immagini del testo, immediate e a misura di bambini piccoli, e dalla narrazione del rapporto tra uomo e ambiente. Al 68° Zecchino d’Oro, che vede ancora Carlo Conti alla direzione artistica, “Ci Pensa il vento” sarà una delle 14 canzoni in gara. Anche quest’anno spiccano i nomi di autori storici dello Zecchino, come Mario Gardini, Carmine Spera, Flavio Careddu, Alessandro Visintainer, e nomi del panorama musicale italiano e dello spettacolo, come Stefano Accorsi, Enrico Nigiotti e Filippo Gentili. Anche quest’anno, attraverso Operazione Pane, la manifestazione lanciata da Cino Tortorella (Mago Zurlì della Tv dei ragazzi) si propone di sostenere le mense francescane per i fratelli bisognosi in Italia e in alcune parti del mondo toccate da guerra e povertà: un aiuto concreto, perché la musica dello Zecchino divenga pane e accoglienza per i meno fortunati.

Carla Monni: «Con l’intelligenza artificiale creo ponti tra l’isola e il mondo»L’artista di Orune tra i protagonisti di Connessioni Future 2025 «La tecnologia non sostituisce la creatività, è uno strumento che aiuta l’arte»

 da  ms.it 

C’è un punto d’incontro in cui mito, identità e tecnologia smettono di essere mondi separati e si incontrano, grazie all’intelligenza artificiale. In quel luogo virtuale si trova il lavoro

di Carla Monni artista sarda che sarà tra i protagonisti di Connessioni Future 2025. Racconterà come l’intelligenza artificiale possa diventare strumento creativo e, insieme, leva imprenditoriale per chi ha idee ma non dispone per forza di budget hollywoodiani.

Di cosa parlerà al pubblico di Connessioni Future?
«Vorrei mostrare che l’intelligenza artificiale può essere un alleato della creatività. Racconterò il mio percorso e i modi alternativi di costruire impresa partendo dall’arte. Monniverse è un progetto nato dal desiderio di democratizzare lo storytelling, di togliere il monopolio ai grandi colossi come Disney e restituire la possibilità di creare anche a chi non dispone di risorse economiche enormi. Monniverse l’ho creata come una nuova Atlantide digitale, ispirata alla Sardegna tra passato e futuro».

Come funziona una mostra di Monniverse?
«Ogni esposizione racconta un diverso “regno” dell’universo che ho immaginato, ognuno legato a un aspetto della Sardegna. L’obiettivo è che chiunque, un sardo, un americano o un coreano, possa riconoscervisi. L’estetica è pop e internazionale, ma dietro c’è la memoria delle leggende sarde. In alcune tappe ho messo a disposizione generatori d’immagini: i bambini potevano creare i propri personaggi e sentirsi parte della storia, un’esperienza immersiva».

Quando ha capito che l’intelligenza artificiale avrebbe cambiato il suo lavoro e il suo modo di fare arte?
«Nel 2018, a Helsinki. In quel periodo si cominciava a parlare di intelligenza artificiale e arte generativa. Ho seguito corsi universitari e mi sono accorta che la tecnologia poteva diventare un’estensione del corpo, quasi un organo nuovo del pensiero. Ho iniziato a concepirla non come una minaccia ma come un’estensione della mente creativa».

Molti temono le conseguenze dell’Ia, lei come la vive?
«È un po’ come avvenne con la rivoluzione industriale: alcuni lavori spariranno, ma ne nasceranno altri. L’intelligenza artificiale è un mezzo potentissimo, il problema non è la macchina ma la gestione dei dati. Bisogna sapere a cosa si acconsente, quando si clicca “ok” sui cookies o si usa il riconoscimento facciale. La responsabilità resta umana. L’etica dovrà essere la bussola delle istituzioni».

C’è il rischio che possa sostituire la creatività umana?
«No. È come se si trattasse di un pennello nuovo. Quando uscì photoshop molti dissero che l’arte digitale non era arte: oggi nessuno lo pensa più. La tecnologia accelera, ma non sostituisce. Due persone possono usare lo stesso modello e produrre risultati completamente diversi: la differenza resta nella mente, non nel codice». 

Quale consiglio darebbe a chi vuole sperimentare?
«La cosa più importante è sempre la comunicazione. Bisogna imparare a parlare. Lo dico sul serio: la macchina ti costringe a essere chiaro. Scrivere un buon prompt è come tornare alle analisi logiche di scuola: impari a ordinare le idee, a dare priorità, a tradurre la visione in parole. L’Ia ti insegna a comunicare meglio, e questo migliora anche la creatività».

Come immagina l’intelligenza artificiale nel futuro?
«Ci sarà una fase di crisi. Un’azienda può già creare dieci agenti digitali che gestiscono social, mail, agenda: è inevitabile che molti ruoli scompaiano. Ma poi arriverà un nuovo equilibrio. La cosa più grande che accadrà sarà la democratizzazione del sapere: non serviranno più università costose per imparare. L’accesso all’informazione diventerà sempre più libero, e riuscirà ad abbattere molte barriere sociali».

Cambieranno anche i rapporti tra persone e culture?
«Assolutamente. L’intelligenza artificiale cancella la necessità del luogo fisico. La globalizzazione culturale è già realtà: le nuove generazioni non vedono differenze di nazionalità. Online puoi essere una sirena o un fungo e dialogare con chiunque. È un mondo senza confini, dove l’identità diventa scelta e racconto. Ci saranno rischi, certo, ma anche un’enorme possibilità di connessione».
«Noi in Italia e in Europa siamo privilegiati: altrove una donna può usare il telefono per lavorare o studiare, pur vivendo in un contesto che le nega libertà. Per molte persone la tecnologia non è un gioco, è una via d’uscita. È su questa prospettiva globale che bisogna misurare le paure occidentali verso l’Ia».

Oggi Monniverse è anche un archivio di miti sardi reinterpretati.
«Una delle figure che amo di più è la Surbile, la strega-vampira che, secondo la tradizione, rubava l’anima ai bambini non battezzati. Nel mio mondo è diventata una sirena un po’ folle, ossessionata dal tempo. È il mio modo per dire che le storie antiche possono rinascere e parlare ancora di noi, se usiamo linguaggi nuovi. Mi piace pensare che la tecnologia non allontani ma avvicini. Monniverse è un ponte tra memoria e futuro, tra la mia isola e il mondo. L’arte, oggi, è il modo più potente per costruire connessioni».

Pietro Sedda il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti

   Dopo  la  morte  nei  giorno scorsi  all'età  di  80 anni   di  Maurizio Fercioni ( foto sotto  a  sinistra )  considerato il primo t...