28.1.14

Wilhelm Brasse, fotografo di Auschwitz, cheper lo shock non riuscì più a fare il suo lavoro

 concludo i miei post     sulla  giornata del 27    con questa  storia   , che     vale   per tutti\e  quelle persone  che  hanno  vissuto  orrori simili  di  ideologia malate   ed astruse  
da  http://en.wikipedia.org/wiki/Wilhelm_Brasse
La  storia   che riporto  è quella  del fotografo polacco, deportato ad Auschwitz, a documentare l'orrore nazista,Il suo nome era Wilhelm Brasse foto a sinistra  )  ed era nato nel 1917 a Zywiec. Lo avevano internato perché aveva rifiutato di arruolarsi nell'esercito tedesco. Era destinato alle camere a gas, ma la sua abilità di fotografo lo salvò. I nazisti gli affidarono l'ufficio identificativo e ritrasse migliaia di prigionieri. Fotografò anche esecuzioni, cataste di morti, e soprattutto i risultati degli esperimenti medici di Josef Mengele e Paul Kremer. Rischiò la vita ogni giorno per nascondere parte di quel terribile materiale e portarlo all'esterno, perché il mondo «doveva sapere».
Ebbene l'eccezionale   storia di un uomo temerario, scomparso ultranovantenne nel 2012, ora è un libro. Luca Crippa e Maurizio Onnis, scrittori e consulenti editoriali, hanno ricostruito l'esistenza de“Il fotografo di Auschwitz” (Piemme, 278 pp.14,90 euro).

da  l'unione sarda del  27.1.2014  


Chi era Brasse quando fu deportato?
«Un giovane pieno di vita avviato a una professione rara: era un artista della fotografia. Finì ad Auschwitz e divenne uno dei massimi testimoni dei misfatti del nazismo».
Come avete ricostruito la sua vita?
«Abbiamo incontrato i figli, un medico e una casalinga. Ci hanno confermato molte notizie e fornito documenti inediti. Abbiamo poi lavorato su due importanti interviste nelle quali racconta episodi che non ha mai dimenticato, e sono la trama del nostro libro».
I più interessanti?
«Gli incontri con molti prigionieri, ma anche con kapò e ufficiali delle SS. Svolgeva il suo lavoro con occhio sensibile anche quando documentava gli esperimenti medici».
Materiale scioccante?
«Brasse raccontava in lacrime: quei ricordi lo hanno lacerato. Gran parte delle foto sull'Olocausto, custodite ad Auschwitz e Gerusalemme, le ha scattate lui. Lavorò per la resistenza polacca. Ma la sua azione più importante è stata salvare le fotografie».
Una volta libero?
«Cambiò mestiere e fece il salumiere. Non riuscì più a fotografare»
Francesco Mannoni

27.1.14

Verba volant / Memoria di Luca Billi 27 gennaio 2014


Memoria, sost. f.

Secondo la mitologia greca Mnemosine era la dea della memoria. Si tratta di una divinità molto antica, nata prima di Zeus e degli dei olimpii. Esiodo infatti racconta che era figlia di Urano, il Cielo, e di Gea, la Terra, e quindi sorella diCrono, il padre di Zeus, e dei Titani. Sempre l’autore della Teogonia racconta che Mnemosine – che nella lotta tra gli dei e i Titani si era schierata con i primi – venne amata da Zeus, che le apparve sotto forma di pastore. Da quelle nove notti d’amore sui monti della Pieria nacquero le nove Muse.
Diodoro Siculo, nel libro V della Bibliotheca historica, spiega che Mnemosine aveva scoperto il potere della memoria e che lei stessa aveva assegnato i nomia molti oggetti e alle cose astratte che servono agli uomini per capirisi durante le conversazioni. Per questo, in qualche modo, Mnemosine è anche la dea di questo dizionario.
Mnemosine esercita un potere arbitrario quando assegna i nomi alle cose e infatti la memoria è qualcosa di fondamentalmente arbitrario.
Parlate con uno dei vostri vecchi di casa e vi accorgerete che spesso non sono in grado di ricordare cosa hanno fatto pochi giorni fa, ma vi sanno descrivere – con un’incredibile dovizia di particolari – un episodio capitato cinquant’anni fa; naturalmente non avete nessuna possibilità di verificare quei particolari e non potete far altro che confidare della memoria di chi ve li ha raccontati.
Fondamentalmente è per questa stessa ragione che le memorie sono il genere storiografico più infido e carico di menzogne. Chi scrive a volte mente intenzionalmente, anche se per lo più lo fa inconsciamente: è davvero convinto che le cose siano andate proprio come le lui le ricorda, anche se non è vero.
Io sono uno che cerca di esercitare il più possibile la memoria, ovunque ne ho l’occasione e specialmente attraverso il mio blog e i miei post sui social network, ma anche la mia memoria è deliberatamente e dichiaratamente arbitraria. Ricordo a me stesso e a chi mi legge quello che penso sia importante ricordare e che ritengo ingiustamente dimenticato. Per questo motivo non manco di ricordare le stragi di piazza Fontana e della stazione di Bologna, non perdo gli anniversari della morte di Antonio Gramsci e di Giacomo Matteotti, ricordo lacaduta del muro di Berlino e la fine dell’apartheid in Sudafrica. E molto altro – come avete spesso la pazienza di vedere.
L’importante è essere consapevoli che si tratta di scelte, in questo caso le mie scelte, perché questa è appunto la mia memoria.
Ad esempio, l’11 settembre la memoria mainstrem ricorda l’attentato alle Twin towers; io sono uno di quelli che ricorda invece il golpe americano in Cile e l’uccisione di Salvador Allende. Ci sono memorie più o meno importanti ? Per me sì e mi assumo il rischio di fare queste scelte. Ciascuno di noi lo fa, nella sua vita privata come in quella pubblica. Ciascuno di noi ricorda gli episodi della sua vita che vuole ricordare, magari migliorandoli e trasformandoli un po’, e ne dimentica altri.
Anche per questo io diffido come la peste da chi parla di memoria condivisa. La memoria condivisa è una menzogna: è solo il modo per chi è al potere di imporre agli altri la propria memoria. E per annebbiare – o annullare del tutto – le altre memorie. Infatti è importante dire che la memoria è sempre plurale.
Oggi è il Giorno della Memoria: è un giorno importante, di quelli cheapparentemente ricordiamo quasi tutti, vincitori e vinti, qualunque sia la nostra convinzione etica e politica. Non è assolutamente mia intenzione “rovinare” la festa, penso siano importanti tutte le manifestazioni, anche quelle fatte soltanto per obbligo istituzionale, credo sia importanti tutte le parole dette oggi, anche quelle dette senza convinzione e solo per puro esercizio retorico.


La memoria infatti è sempre più forte di noi, dei nostri tentativi di manipolarla e di usarla. La memoria è una dea, molto antica, più antica degli altri dei, di quelli che tengono il potere e di quelli che presiedono alle altre arti. E quindi si può far beffe di questi piccoli maneggi dei mortali.

26.1.14

adesso anche i cinesi aggiustano tutto a quando gli italiani ?



dall'unione sarda del  26.1.2014





La scommessa di una piccola azienda pronta a lanciare il nuovo prodotto in ItaliaLa rivoluzione del pecorinoIl formaggio senza lattosio per chi ha intolleranze alimentari

OSILO Una pecora da adottare, la ricotta tutto l'anno e il primo pecorino di Osilo senza lattosio. La crisi si evita giocando d'anticipo sul mercato. Con idee e coraggio. L'allevamento ovino ha tradizione plurisecolare nella famiglia Pulinas, ma l'attività di produzione del pecorino di Osilo (o meglio prodotto a Osilo, visto che si attende ancora la denominazione IGP o DOP) si era interrotta tra il 1997 e il 2004 a causa del costo del latte. E l'azienda Truvunittu era finita fuori dal mercato dei formaggi.Ma ha saputo rientrarci prepotentemente. «Abbiamo ripreso nel 2005 con nuove e diverse forme di promozione e produzione», spiega Gavino Pulinas  ( foto sotto al centro preda  insieme all'articolo dall'unione sarda del 26.1.2014  ) , che conduce insieme ai figli Giuliano e Daniele l'azienda agricola, a metà strada tra Sassari e Osilo.



Con la consulenza della figlia Giulia, neo laureata in Veterinaria che sta seguendo la specializzazione in Igiene degli Alimenti. Quattro lavoratori per una piccola aziende a conduzione familiare con un fatturato annuo di 110mila euro. «La prima scelta è stata quella di avere un gregge meno numeroso, da 550 a 400 pecore, sempre di razza sarda selezionata, per poter sfruttare un pascolo naturale di quasi quaranta ettari. Poi siamo riusciti a spostare il parto delle pecore, in avanti e indietro nel tempo, in modo da avere latte e formaggio di qualità per tutto l'anno. Riusciamo a produrre la ricotta artigianale già a settembre».Sul piano della commercializzazione, niente intermediari, ma solo vendita diretta e promozione: metà della produzione in Sardegna, metà in Italia. Nel 2009 è stata proposta con successo l'iniziativa “adotta una pecora a distanza” che consente di ricevere in cambio formaggio e ricotta versando una quota annuale per coprire parte delle spese di mantenimento. «Abbiamo anche un punto vendita estivo a Portobello di Gallura che è servito ulteriormente per farci conoscere fuori dalla Sardegna». Risultato: dei 120 quintali di pecorino di Osilo (tre prodotti: fresco da gustare arrosto, semistagionato e stagionato) la metà soddisfano il mercato di Sassari, Alghero e Castelsardo, l'altra metà viene venduto in Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte. «Il prodotto artigianale, lavorato a latte crudo garantisce un sapore migliore e che non stanca mai. A Nord preferiscono in genere il pecorino fresco o semistagionato, perché sono abituati al formaggio dolce vaccino. Invece in Puglia hanno palati in grado di apprezzare anche il nostro pecorino stagionato».Ma il vero boom è per la ricotta: «Ne vendiamo circa 100 quintali ma siamo in difficoltà a soddisfare la domanda. A Sassari abbiamo il 90% di prenotazioni, addirittura per la ricotta “mustia” abbiamo prenotazioni sin da novembre». Una specialità riconosciuta e premiata: l'Azienda Truvunittu ha avuto la valutazione massima (tre spicchi) nella guida del Gambero Rosso, “Formaggi: i migliori d'Italia 2012”.Ma avere successo non basta, bisogna prevenire il mercato. Da qui l'idea di sperimentare un pecorino senza lattosio. Ma non con il già testato sistema del fungo che consente di avere un caglio vegetale anziché animale. «Vengono utilizzati degli enzimi che trasformano il lattosio in zucchero e quindi il formaggio è destinato anche a chi ha intolleranze alimentari. In Sardegna non è mai stato fatto per il pecorino di Osilo. Inoltre si punta anche sul “toscanello”, un pecorino con pasta tagliata più grossa, da consumare fresco e pure sulla ricotta senza lattosio. La sperimentazione viene seguita da un tecnico caseario, Bastianino Piredda, e dall'Università di Sassari per le analisi e i test».È un prodotto di nicchia, che necessita di una lavorazione leggermente più lunga e di particolare cura nella separazione del latte depurato dal lattosio da quello normale. Inizialmente la famiglia Pulinas pensa di destinare non oltre il 10% della produzione annuale e quindi intorno ai 10-12 quintali. «Ma bisogna prevenire il movimento del mercato, non seguirlo: le intolleranze sono in aumento. Se tutto va bene, contiamo di portarlo sui banconi in Primavera». Una sfida alla crisi tre le piccole imprese dell'Isola felice.
Giampiero Marras

Commento

Il ruolo vitale della piccola impresa di famiglia

Camaleonti al contrario in un mondo di grandi predatori. Le aziende a conduzione familiare di cui è ricca la Sardegna cambiano il colore della pelle per distinguersi, non per mimetizzarsi. Piccolo è bello. Ma anche meno difficile se la crisi si combatte con armi collaudate: materie prime a chilometri zero e qualità. Con un pizzico di fantasia. E il coraggio di saper scegliere in corsa nuove strategie di vendita, mercati di riferimento e prodotti. Senza mai rinunciare al valore aggiunto della tradizione. Per ritagliarsi uno spazio vitale nel settore agroalimentare.Tre dipendenti, un consulente, 120 quintali di formaggio, 110 mila euro di fatturato all'anno con 400 pecore, formaggi senza lattosio destinati a chi soffre di intolleranze alimentari. Non servono grandi capitali o capitani d'industria per superare un momento difficile. Nella Sardegna dell'autocommiserazione, Gavino Pulinas sembra un marziano, un imprenditore venuto da un altro pianeta. In realtà, non è l'unico rappresentante di quell'Isola felice capace di arginare la crisi con intelligenza e senza le stampelle economiche della Regione. Lui, come tanti altri piccoli imprenditori sardi, rischia di suo, ci mette soldi e faccia.Tre posti di lavoro, pochi, tanti? Dipende dal punto di osservazione. Se il mercato del lavoro non offre niente di meglio, forse sarebbe il caso di fare un pensierino al settore agroalimentare. Per non finire in pasto ai call center, i nuovi predatori di giovani disoccupati in una regione disperata. ( st. sa. )



Ecco le Auschwitz italiane di cui non sappiamo nulla o quasi o quasi perchè noi italiani gli ignoriamo o li abbiamo ( salvo eccezioni ) rimossi




Quest'anno voglio ricordare il  27  gennaio  lontano dai  crismi  della retorica   e dell'ufficialità   di  stato . Smentendo cosi il mito d'italiani  buona  gente  e  del fatto che la legislazione razziale italiana  fu solo blanda o applicata  all'acqua  di  rose  e  no dal regime  fascista  ma dalla R.S.I  e\o passivamente  come  servi  della  Germania  nazista (  vedere  i campi    di Fossoli e  la  Risiera di san saba  ) 
Ho messo come tag   10 febbraio  perchè  è  a  causa  di siffatte  violenze e brutalità che ebbe origine l'altrettanto brutale ed abberrante pulizia etnica delle foibe e poi del regime di Tito . Infatti : << [...] la storia va raccontata “a parte intera” e “tutta intera”. Questo non ha fatto gran parte del sistema culturale italiano, soprattutto nei suoi organi di diffusione di massa (ovvero televisione e stampa a grande tiratura).[....] >>  ( da   giorno del ricordo o  del mezzo ricordo ?  di David Bidussa - 9 febbraio 2013 http://www.linkiesta.it/  ) 

E sempre dallo stesso sito due interessantissimi articoli sulla shoa ed olocausto commessi dagli Italiani




Rab, la Auschwitz dimenticata dagli italiani

Alzi la mano chi ha mai sentito parlare del campo di internamento di Arbe (oggi Rab). Oppure di quelli di Gonars, Monigo, Renicci. Nel 1941 l'Italia invade la Jugoslavia e si annette una parte del territorio, nelle attuali Slovenia e Croazia. Fu creata una rete di campi d’internamento. A Rab morirono circa 1.500 sloveni, diecimila furono gli internati. Nessuna istituzione italiana, dal 1945 a oggi, è mai andata a deporre una corona di fiori, prendendo le distanze dalle efferatezze dell’Italia fascista nei Balcani.

                                                         campo  di Rab

Alzi la mano chi ha mai sentito parlare del campo di internamento di Arbe (oggi Rab  foto  a  destra  ). Oppure di quelli di Gonars, Monigo, Renicci. Nel 1941 l'Italia invade la Jugoslavia e si annette una
parte del territorio, nelle attuali Slovenia e Croazia. Fu creata una rete di campi d’internamento. A Rab morirono circa 1.500 sloveni, diecimila furono gli internati. Nessuna istituzione italiana, dal 1945 a oggi, è mai andata a deporre una corona di fiori, prendendo le distanze dalle efferatezze dell’Italia fascista nei Balcani.
Mettiamola così: se un Paese mettesse in piedi un campo di concentramento rinchiudendovi in meno di 14 mesi circa 10mila persone, e facendone morire 1.500, passerebbe alla storia come aguzzino (il tasso di mortalità, del 15 per cento, è pari a quello del lager di Buchenwald). Se lo fa l'Italia, invece, niente.

Alzi la mano chi ha mai sentito parlare del campo di internamento di Arbe.
Oppure di quelli di Gonars, Monigo, Renicci e vari altri. Probabilmente quasi nessuno. Eh già, perché l'Italia preferisce l'oblio quando il passato è imbarazzante. E invece bisogna ricordare. Anche gli italiani hanno commesso efferatezze, hanno ammazzato, hanno rinchiuso nei campi vecchi, donne e bambini facendoli morire di fame e di malattie.

Nel 1941 l'Italia invade la Jugoslavia e si annette una parte del territorio, nelle attuali Slovenia e Croazia. Alle popolazioni locali l'idea di essere dominati da una potenza straniera non piace granché e dopo quasi un anno di situazione relativamente tranquilla, comincia una furiosa guerriglia partigiana. La reazione italiana è durissima: rastrellamenti, fucilazioni, deportazione delle popolazioni civili dai villaggi delle zone dove sono attivi i partigiani. 
Viene creata una rete di campi di internamento (per chi volesse approfondire: Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce, Einaudi) dove sistemare le popolazioni deportate. Uno di questi campi sorge sull'isola di Arbe, nel golfo del Quarnero (oggi Rab, Croazia). Rispetto agli altri ha avuto un triste primato: quello di essere il più duro, quello dove sono morte più persone. È gestito dal Regio esercito, non da camice nere, milizie o quant'altro; non è un campo strettamente “fascista”, è un campo “italiano”.

                                                   Bambini internati a Rab

                                      
Il primo gruppo di internati (240) ci arriva esattamente settant'anni fa, nel luglio 1942, poi ne giungono altri a gruppi, a fine agosto arrivano mille minori di 16 anni, tutti assieme. Quasi tutti sono vittime dei rastrellamenti in Slovenia, pochi i croati. Il campo sorge nel vallone di Sant'Eufemia, sul fondo della baia di Campora (Kampor), su un terreno paludoso, sottoposto all'azione dell'alta marea e a rischio inondazione (Arbe, contrariamente al resto della Dalmazia, è ricchissima d'acqua dolce).
Gli internati, come detto soprattutto vecchi, donne e bambini, vengono sistemati all'interno di tende. Le condizioni di vita sono durissime: «Campo di concentramento non significa campo di ingrassamento», annota il generale Gastone Gambara, comandante dell'XI corpo d'armata che aveva giurisdizione sulla zona (naturalmente è morto senza mai dover rispondere delle sue azioni nei Balcani, e dopo esser stato reintegrato nell'esercito nel 1952). Condizioni di vita aggravate dal sadico comportamento del comandante del campo, il tenente colonnello dei carabinieri Vincenzo Cuiuli (condannato a morte dai partigiani, si taglierà le vene la notte prima dell'esecuzione). Gli interrogatori degli internati, dopo la liberazione del campo da parte degli jugoslavi, l'8 settembre 1943, sottolineeranno anche la crudeltà del cappellano, don Enzo Mondini, mentre rimarcheranno i tentativi messi in atto dagli ufficiali medici per alleviare almeno di un po' le pene.





                                                 Internati nel campo di Rab


Gli internati di Arbe muoiono per denutrizione (la razione era 80 grammi di pane al giorno, più una brodaglia cucinata in ex bidoni di benzina), per malattie (il generale Gambara, enuncia il principio «internato ammalato uguale internato tranquillo» e fa distribuire paglia infestata dai pidocchi) e per calamità naturali. L'episodio più grave avviene nella notte tra il 29 e il 30 settembre 1942 quando un furioso temporale provoca un'inondazione alta un metro che devasta il settore femminile, trascinando in mare tende, donne e bambini. Il giorno dopo vengono recuperati dalla baia decine di corpicini galleggianti. La sezione femminile e quella maschile sono divise da un ruscello che però è talmente infestato dai pidocchi da rendere impossibile non solo berne l'acqua, ma persino usarla per lavarsi. 
Gli internati inscheletriti dalla fame, cotti dal sole, sporchi all'inverosimile, suscitano l'intervento del Vaticano che cerca di alleviarne le spaventose condizioni, viene costruita qualche baracca, ma nulla più. Herman Janez, allora un bambino di sette anni, ricorda il terribile inverno passato sull'isola: «Le guardie ogni giorno facevano l’appello di noi ragazzini per poi portarci nella rada di mare antistante al campo e farci fare il bagno. Ci nascondevamo, ma poi questi ci stanavano e ci costringevano ad andare in acqua. Eravamo già deboli, pieni di zecche e di pidocchi, di piaghe purulente, puzzavamo di sterco nostro e altrui, e dopo questi bagni un semplice mal di gola ha portato tanti di noi al camposanto». La mortalità maggiore si registra quando il freddo pungente della bora porta via gli internati a grappoli. 

80 grammi di pane al giorno
                                      80 grammi di pane al giorno

Non si sa esattamente quanti siano stati gli internati. Le stime vanno da 7.500 a 15.000. Teniamoci su una prudente via di mezzo e diciamo attorno ai 10mila. I morti accertati, con nome e cognome, sono 1.435, ma quasi certamente sono di più perché i sopravvissuti hanno testimoniato che poteva capitare di seppellire due salme in una tomba e che gli internati nascondessero il corpo di qualche deceduto per dividersi la sua porzione di brodaglia.
Gli ebrei, per lo più scampati agli ustascia croati, erano trattati meglio perché il Regio esercito non li considerava nemici, come invece accadeva per gli sloveni. Per esempio vivevano in baracche e non in tenda e non subivano le persecuzioni riservate agli altri. Evelyn Waugh li menziona in un suo racconto, “Compassione”: «Con improvvisa veemenza la donna, la signora Kanyi, tacitò i consiglieri e si mise a raccontare la sua storia. Quelli là fuori, spiegò, erano i sopravvissuti di un campo di concentramento italiano sull'isola di Rab. Per la maggior parte erano cittadini jugoslavi, ma alcuni, come lei, erano rifugiati dall'Europa centrale. Alla fuga del re, gli ustascia avevano cominciato a massacrare gli ebrei. E gli italiani li avevano radunati trasferendoli sull'Adriatico. Con la resa dell'Italia, i partigiani avevano tenuto la costa per qualche settimana, riportando gli ebrei sul continente, reclutando tutti quelli giudicati utilizzabili, e imprigionando il resto».





Rab, il cimitero

Dal 1945 a oggi, mai un rappresentante ufficiale dello stato italiano è andato ad Arbe a deporre una corona di fiori, mai il console italiano della vicina Fiume (Rijeka) è andato a pronunciare un'orazione funebre, mai l'ambasciatore italiano a Zagabria ha sentito il dovere di chiedere scusa. Soltanto una volta un rappresentante dell'allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, è andato in forma ufficiale alle commemorazioni del campo di Gonars, in provincia di Udine. Ma mai l'Italia repubblicana ha preso definitivamente le distanze da quanto commesso ad Arbe e nei Balcani dall'Italia fascista.

                                                  Renicci ( Toscana  )
                                        renicci prigionieri in marcia

I campi di internamento allestiti dagli italiani per i civili rastrellati nei territori jugoslavi annessi nel 1941 (provincia di Lubiana e di Dalmazia) e per gli “allogeni” cioè sloveni e croati della Venezia Giulia,  erano in totale 28. Dei quali 14 in Italia, tra Friuli, Umbria, Veneto, Toscana, Liguria e Sardegna, dove gli internati morivano di fame e freddo. A parte il lavoro di pochi storici, su questi lager è calata un’impenetrabile cortina di silenzio. 

Non solo Arbe. Quello dell'isola dalmata che oggi si chiama Rab, aperto esattamente settant'anni fa, nel luglio 1942, è stato il più terribile e mortale fra i campi di internamento “per slavi” messi in piedi dall'Italia (soprattutto dal Regio esercito) durante l'occupazione della Jugoslavia. Ma certo non era l'unico. Già il termine “per slavi” la dice lunga. Il fatto che sia un concetto sbagliato (slavi infatti sono tutti i popoli che parlano lingue slave, dai russi ai bulgari) probabilmente non occupava le menti di chi ha concepito quei lager. È invece molto probabile che fossero ben consci dell'accezione negativa e velatamente razzista che la parola ha assunto – allora come oggi – in seguito all'uso e all'abuso fattone dai nazionalisti italiani (e che in precedenza invece non aveva, basti pensare alla veneziana riva degli Schiavoni, uno dei luoghi più prestigiosi della città).
I campi di internamento allestiti per ricevere i civili rastrellati dalle territorio jugoslavi annessi nel 1941 (provincia di Lubiana e di Dalmazia) e “allogeni” (sloveni e croati della Venezia Giulia, divenuti cittadini italiani dopo la Prima guerra mondiale) erano in totale 28: 14 in Italia e altrettanti nel territorio annesso. L'elenco è ricavato dal libro di Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce (Einaudi). Il Friuli-Venezia Giulia ospitava sei campi: Cighino, Gonars, Visco, Fossalon, Poggio Terzarmata (Zdravščine) e Piedimonte (Podgora); tre l'Umbria: Colfiorito, Pietrafitta e Ruscio; due il Veneto: Monigo e Chiesanuova; uno ciascuno la Toscana, la Liguria e la Sardegna: Renicci, Cairo Montenotte e Fertilia. I campi nei territori annessi si trovavano tutti nell'attuale Croazia, con l'eccezione di quello sull'isola di Mamula, oggi in Montenegro.
Oltre al già citato campo di Arbe (Rab), ce n'erano a Buccari (Bakar), Portoré (Kraljevica), Fiume (Rijeka), Melada (Molat), Zlarino (Zlarin), Scoglio Calogero (Ošljak), Morter (Murter), Zaravecchia (Biograd), Vodizza (Vodice), Divulje, Prevlaka e (Uljan). Ques'ultimo è stato aperto nell'agosto 1943 e ha ospitato 300 persone solo per pochi giorni, fino all'armistizio dell'8 settembre 1943, quando tutti gli internati sono stati liberati (ma non tutti i lager hanno cessato di funzionare). I primi campi erano stati aperti tra l'inverno e la primavera 1942, per deportarvi la popolazione civile delle zone dov'era maggiore l'attività partigiana.
Le condizioni di vita variavano da campo a campo e da periodo a periodo, potevano andare dal sopportabile al disumano. Il numero maggiore di vittime si è registrato ad Arbe (1435 vittime accertate su 10mila internati); dieci volte minore è la mortalità di Renicci (in provincia di Arezzo), con 159 deceduti su un numero di internati più meno uguale; mentre a Gonars (Udine) si contano 453 morti su 7mila internati. Abbiamo una documentazione abbastanza completa solo per i campi più grandi (Arbe, Gonars, Monigo, Chiesanuova, Renicci e Visco) mentre su altri sappiamo piuttosto poco. La maggior parte dei campi era gestita dal Regio esercito, alcuni ricadevano sotto la giurisdizione del ministero dell'Interno e in questi secondi le condizioni di vita erano generalmente migliori.
Diciamolo subito: non c'era un disegno esplicito né di torture o maltrattamenti fisici, né tantomeno di sterminio (certo, è vero che affamare i reclusi equivale a una tortura). I regolamenti non prevedevano punizioni corporali, ma in alcuni campi venivano praticate: a Gonars era stato issato un palo dove legare i puniti. Si sono registrate alcune uccisione arbitrarie (sempre a Gonars Rudolf Kovač fu ucciso dalla fucilata di una sentinella senza apparenti motivi, a Renicci l'anarchico Umberto Tommasini venne ammazzato a colpi di pistola da un ufficiale per aver intonato l'Internazionale dopo la caduta di Mussolini). Non c'erano lavori forzati, solo qualche internato era occupato in attività d'ufficio e infermieristiche. Tuttavia erano stati costituiti tre campi di lavoro, uno per “ex jugoslavi” e uno per “allogeni” dove le condizioni di vista erano generalmente migliori che nei campi d'internamento.
Gli internati, invece, morivano di fame, di malattie e di freddo. «Caratteristiche pressoché costanti in questi campi furono la fame e la denutrizione generalizzate che determinarono l'alto tasso di mortalità», scrive Capogreco. Le razioni erano volutamente insufficienti e gli internati venivano alloggiati in tende senza tavolacci e quindi costretti a dormire sulla nuda terra, il che innalzava in modo consistente l'incidenza di malattie, soprattutto tra gli anziani. Arbe, Melada e Zlarin erano collocati in riva al mare, il primo addirittura su un terreno paludoso.
In Italia furono allestiti anche altri tipi di campi – per prigionieri di guerra o per internati politici o quant'altro – ma Capogreco sottolinea che le tendopoli adriatiche dei campi “per slavi” sono lontane «anni luce» dalle strutture per internati gestite dal ministero dell'Interno. Il modello era piuttosto costituito dai campi di prigionia in Libia. I reclusi vestivano e calzavano indumenti propri e, poiché l'arresto li aveva colti di sorpresa, buona parte di loro non disponeva d'altro che degli abiti indossati al momento del fermo. Solo ad alcuni più bisognosi, a inverno inoltrato, vennero forniti indumenti e scarpe di tipo militare. Si potevano ricevere pacchi, ma i disservizi e l'ostruzionismo rendevano la possibilità solo teorica: quando i pacchi arrivavano, e se arrivavano, il cibo era ormai immangiabile per la lunga giacenza nei magazzini. Da registrare un'eccezione: il servizio pacchi nella Dalmazia meridionale, organizzato dal 120° fanteria della Divisione Emilia che consegnò oltre 10 mila pacchi nei due campi di Mamula e Prevlaka.
Il racconto di un ex internato di Renicci ricostruiva le precarie condizioni di vita nelle tende: «La terra era molto umida e così abbiamo cercato delle frasche da sistemare sul fondo, per poi poggiarvi le coperte. Ma i guardiani non ce l'hanno permesso e chi veniva sorpreso a spezzare rami dalle querce passava dei guai molto seri con loro. Così, la maggior parte di noi ha dovuto mettere direttamente sul fango le proprie coperte e, in poco tempo, si è così ammalata. Io ho vissuto sotto una tenda sino alla primavera del '43: in ogni tenda stavamo quindici o venti persone, ma poi hanno allestito anche tendoni per sessanta internati».
La fame era accentuata dall'antica, e non interrotta, tradizione italica di fare la cresta sulle provviste. Ivan Branko, evaso da Gonars il 30 agosto 1942, riferiva che le razioni erano forse sufficienti per sopravvivere, ma «prima di arrivare agli internati, finivano per ridursi a un quarto, poiché dovunque veniva rubato, al comando e poi lungo le tappe intermedie della gerarchia del potere».
Parecchi morti nei vari campi erano internati trasferiti da quello di Arbe quando ormai si trovavano in condizioni disperate. È il caso dei 232 reclusi deceduti della caserma “Cadorin”, di Monigo (Treviso). «I medici dell'ospedale di Treviso, dove venivano ricoverati gli internati quando erano ormai allo stremo, restavano esterrefatti davanti al quadro clinico di completa denutrizione», sottolinea Capogreco. Il professor Menenio Bortolozzi, al tempo primario anatomo-patologo, osservava: «Dal campo li mandavano al nosocomio quando ormai era troppo tardi: si è riusciti a salvarne pochi, sono morti anche bambini di un anno, di pochi mesi, vecchi ottantenni, persino uno di 92 anni. Morti di fame».
E Mario Cordaro, ex ufficiale medico a Gonars, riferiva: «Il nostro lavoro era divenuto bestiale, ma purtroppo non potevamo fare altro che constatare la nostra impotenza. Il cimitero di Gonars non poteva più contenere i morti che si contavano a varie decine ogni giorno e così fu in fretta costruito un nuovo cimitero». Camillo Croce, medico a Melada, ancora nel 2001 testimoniava: «Quando le condizioni di salute erano molto gravi, proponevo il ricovero all'ospedale San Demetrio di Zara, al quale facevamo capo per le varie emergenze».
  Il campo di Gonars
Le condizioni di vita furono un po' alleviate dall'intervento ecclesiastico. Il vescovo di Lubiana e quello di Veglia (sloveni e croati sono cattolici) andarono personalmente da Pio XII che fece pressioni sul governo italiano. Nella sua risposta il generale Mario Roatta, comandante militare dei Balcani, non negava la mortalità, ma cercava di farla apparire casuale. Comunque l'intervento vaticano ottenne il trasferimento dei bambini e di gran parte delle donne da Arbe a Gonars. Dal febbraio 1943 operò a Cairo Montenotte (Savona) un campo riservato alla minoranza slovena e croata della Venezia Giulia. Per fortuna fu un campo a bassa mortalità, ma la situazione non era di certo facile.



 Monumento in ricordo delle vittime a Gonars
Gonars, internati appena arrivati
Il vescovo di Trieste e Capodistria, Antonio Santin, andò a visitare quelli che erano in buona parte abitanti della sua diocesi. Si scontrò con un generale che li considerava tutti delinquenti. «Pregai il generale di segnalare in alto la scarsità di cibo: avevo visto coi miei occhi e appreso dal colonnello quanto ricevono. Hanno fame», scrisse il vescovo.
Su tutto questo, nel dopoguerra, è scesa un'impenetrabile cortina di silenzio. Solo il caparbio lavoro di pochi storici e ricercatori ha permesso di conoscere almeno in parte le atrocità di cui si sono macchiati gli italiani nei Balcani.

perchè ricordo l'olocausto \i e la shoah parte II

inizio il post  con  questo post  di  http://ipensieridiprotagora.blogspot.it/  più  precisamente  questo 


Alena Synkovà scrisse questa poesia quando era una bambina, nel campo di concentramento di Terezin; aveva 16 anni quando fu liberata; solo un centinaio di bambini sopravvissero al lager

Vorrei andare sola

dove c'è un'altra gente migliore

in qualche posto sconosciuto

dove nessuno più uccide.
Ma forse ci andremo in tanti
verso questo sogno,
in mille forse
e perché non subito?



 ti potrebbe interessare  la mia presa  di posizione   in merito al revisionismo estremo e negazionismo

IL post precedente  ( trovate  url  sopra  ) mi ha  riportato alla mente  le varie domande   che mi arrivano  via email da  10 anni a questa parte  ai miei post   ne  approfitto per  rispondere  alle  principali   e  le  più  ripetute   spero una  volta per  tutte  

1)  E' basta  n. non si se ne può più  . non basta  quanto   la  testa  che ci fanno   fra il 20 ed  31 gennaio con il culmine  proprio il  27  


Vero  vi capisco   non avete  tutti i torti  . Infatti  leggo sulle  pagine  182-183   del televideo rai   e  di cui riporto integralmente  questa intervista  all'autrice  in questione  dedicate  al  27  gennaio   che è uscito 



da poche settimane nelle librerie, un libro dal titolo polemico [e provocatorio ]  ,sul tema del- la Shoah, o meglio,"Contro il giorno della Memoria", Add editore. Ne è autrice la scrittrice e studiosa di Ebraistica, Elena Loewenthal, che in meno di cento pagina esprime il dubbio che la maggiore tragedia del XX secolo, la Shoah, confinata nel ricordo di una Giornata come "risarcimento" per gli Ebrei, banalizzi quanto accaduto. "Che cosa sta diventando questo Giorno della Memoria?-si domanda-Una cerimonia stanca, un momento di finta riflessione che parte da premesse sbagliate per approdare a uno sterile rituale".  che in  meno di cento pagina esprime il dubbio 
 che la maggiore tragedia del XX secolo, la Shoah, confinata nel ricordo di una  Giornata come risarcimento" per gli    Ebrei, banalizzi quanto accaduto.   

Dichiararsi contro il Giorno della Me moria è "politicamente scorretto". Che  cosa la disturba di più, chiediamo alla  studiosa Elena Loewenthal. Di principio

 non sono contro la ricorrenza. In que sto libro, dal titolo effettimante provocatorio,cerco di spiegare le ragioni 
 per cui celebrare così la memoria non   funziona. C'è ridondanza nelle celebrazioni, troppa retorica,il senso vero si  perde. Ma grazie alle tante iniziative 

 messe in campo la consapevolezza è cresciuta o no? Certo di Shoah si sa di    più rispetto ad anni fa.Ma di pari pas so c'è più propensione al banalizzare,  al manipolare la storia.Le derive antisemite sono il lato oscuro della cele brazione.Lo vediamo anche in queste ore

La Shoah non è la storia degli ebrei.Ma  forse allora non è sbagliato aver isti tuito un Giorno per ricordare all'Umanità l'orrore di cui è stata capace? E' giustissimo che si ricordi la memoria    di quanto è accaduto. Ma nello spirito  di farla propria,non di rendere omaggio ad altri-cioè agli ebrei.La storia della Shoah appartiene all'Europa,all'Italia. Non  [solo ]agli ebrei.  
 Lei parla di diritto all'oblio, che intende? L'oblio è stato spesso un meccanismo di sopravvivenza individuale e    collettiva. Naturalmente nel libro la   invoco per me mi piacerebbe poter dimenticare questa storia, che sento come  un peso-ma non per la coscienza civile. 

 Un'ultima domanda all'autrice di "Contro il Giorno della Memoria".      

 C'è una frase nel suo libro che merita  una spiegazione: "Ricordare non porta   con sè alcuna speranza. Se anche non    dovesse accadere mai più, non sarà per  merito della memoria, ma del caso".     Per l'appunto, chiamo in causa l'oblio  come stimolo a una riflessione che non  si può fare a meno di fare: siamo così  sicuri che ricordare "serva"? Che ci    renda migliori? Che sia morale? Non è   detto che sia così.  
             
Ma è ’ nostro preciso compito e dovere portare il testimone della Memoria alle nuove generazioni, ai nostri figli, a coloro che stanno costruendo con noi il domani, perché cresca in loro, sano e forte, il senso vero ed intimo della nostra umanita”.
IL VALORE DELLA MEMORIA - “La Memoria è un valore fondamentale della nostra cultura e della nostra civiltà che deve essere coniugato quotidianamente, perchè pregiudizio e discriminazione sono mali ancora troppo diffusi fra noi – ha spiegato – mossi dall'ignoranza sono insidie che alimentano paura, sospetto; fratture che purtroppo sopravvivono nei sotterranei della nostra societa”. “E’ con vivo piacere che oggi, in occasione della Giornata della Memoria, la Città di Venezia per la prima volta espone la bandiera internazionale Rom, segno di rispetto verso un popolo e la sua storia; segno della forte identità che contraddistingue la Città di Venezia – ha detto Orsoni – il riconoscimento dell’Altro, della sua cultura, della sua religione. Venezia e i suoi cittadini, hanno sempre vissuto in una amalgama di diverse culture e da questa hanno tratto la loro ricchezza, e cosi’, crediamo, dovrà’ essere nell'avvenire”. Ecco quindi che  ricordare   evitando di cadere  nel  solito rituale  ed  a senso unico  solo  quella del popolo ebraico   ,  può essere  un modo   per   guardare  avanti con la  consapevolezza  del passato   ed evitare  , scusatemi se   mi ripeto ,   la bugia  diventi  verità e  la verità  diventi  bugia  .

2)  sminuisci  la tragedia degli ebrei  . offendi l'italia  , in italia    molti aderirono perchè  obbligati dal fascismo  . Gi italiani non sono mai stati nazisti 

Non credo   che raccontare   che  accanto allo sterminio sistematico degli ebrei,che fece circa sei milioni di  vittime, il nazismo estese il genocidio  ad altri gruppi etnici e religiosi con siderati "indesiderabili", come Rom (    che noi chiamiamo   zingari ) , Sinti , Testimoni di Geova  ed  altre religioni , agli omo-  
 sessuali, ai portatori di handicap, agli oppositori politici.Tragedie  che i media  ufficiali  ricordano ( quando le ricordano  )  in tono minore, tanto da essere spesso definite "olocausti  dimenticati",come quello dei Rom, "por- rajmos" (divoramento) per loro.Le cifre  ufficiali ( ma  , mi chiedo  che  importanza  ha  se  sono poche  a  molte  ?  è più  importante  quello che hanno subito non credete  ?  )   parlano di centinaia di migliaia di vittime in tutta Europa, molte di più secondo alcuni, nei campi di  concentramento e non solo.
Niente  di  più  falso  . i miti sono difficili da  sminuire  anche  documenti  . Vero che  ci  fu  anche    chi vi aderi perchè   come tutti i  regimi   in cui   : la stampa  e i gruppi giovanili  sono in mano  al regime   e  senza  opposizione o voci dissidenti   (  o quando ci sono     represse   ed  incarcerate o  all'esilio )  logico  che  per  connivenza (  ci credi   attivamente     )   convivenza  ( ci credi   passivamente  )  logico  che  ci credi  e  ti bevi    nolente  o dolente    tutto quello che  ti viene  propinato  

N.B   termini difficilmente distinguibili   visto l'umore    mutevole ( per la maggior parte  )  dopo il crollo  della dittature

Infatti   ci sono  alcuni libri ben documentati con documenti dell'epoca   che testimoniano il contrario .In particolare  suggerisco   un libro appena  uscito  (   su https://www.facebook.com/leggirazziali   trovate   le date    delle varie presentazioni  ) 








di  Mario Avagliano, giornalista e storico, è membro dell’Istituto Romano per la Storia d’Italia dal Fascismo alla Resistenza, della Sissco e del comitato scientifico dell’Istituto Galante Oliva, e direttore del Centro Studi della Resistenza dell’Anpi di Roma-Lazio. Collabora alle pagine culturali de «Il Messaggero» e «Il Mattino». Tra i suoi libri più recenti: Generazione ribelle. Diari e lettere dal 1943 al 1945(2006) e, con Marco Palmieri, Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945 (2009), Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia (2010) e Voci dal lager. Diari e lettere di deportati politici 1943-1945 (2012). Con Baldini&Castoldi ha pubblicato:Il partigiano Montezemolo. Storia del capo della resistenza militare nell’Italia occupata (2012), Premio Fiuggi Storia 2012.
  e  Marco Palmieri, giornalista e storico, è membro dell’Istituto Romano per la Storia d’Italia dal Fascismo alla Resistenza e della Sissco. Ha pubblicato tra l’altro, con Mario Avagliano: Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945 (2009), Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia (2010) e Voci dal lager. Diari e lettere di deportati politici 1943-1945 (2012). 
  edito dalla  Baldini & Castoldi (   http://www.baldinicastoldi.it/ ) 

per  chi volesse  saperne  di più  c'è con un sacco di  approfondimenti  interessanti   http://www.bibliolab.it/landolfi_shoah/shoahitalia/  fra  le  tante pagine  a  cui rimando   segnalo   questa  in
particolare  questa    http://www.bibliolab.it/landolfi_shoah/shoahitalia/deportazioneebrei10.htm

OVVIAMENTE   SENZA  GENERALIZZARE PERCHE'  IN MEZZO ALLA MER.... EHM... INDIFFERENZA  E  COLLABORAZIONE  ATTIVA ( PRINCIPALMENTE   )  E PASSIVA   CI FURONO   VEDERE NEL PORTALE  CITATO PRIMA   IL LINK CON L'ELENCO DEI GIUSTI ( COLORO  S'OPPOSERO ATTIVAMENTE  A TALI SCHIFEZZA    E VERGOGNA )  ITALIANI  .
Come di Giacomo Sonnino, oggi 79 enne, che all'età di 8 anni venne salvato dalla deportazione perché nascosto nei sotterranei del Policlinico di Roma dal suo medico.
L’uomo in questione era il professor Giuseppe Caronia, rettore dell’università ”La Sapienza” di Roma dal 1944 al ’48, destinatario dell'onorificenza di ”Giusto fra le nazioni”, istituita dallo Yad Vashem, l’ente israeliano nato per ricordare eroi e martiri dell’Olocausto.
 o questi  finanzieri fra  cui alcuni   sardi


Concludo parafrasando  la  domanda   che  viene fatta  a  gli ospiti della trasmissione   di storia su rai  3  "Il tempo e la storia"Libro.  film , luogo


Luogo



  da  http://storiedimenticate.wordpress.com/category/personaggi-e-storie/



Libro  

qui  è  un po' difficile  perchè  ne  sono stati  e  credo che  ne saranno  scritti  altrettanti   sull'argomento  voglio però suggerire  due fumetti   che  sono quelli che  insieme alle  puntate  di   mixer  (  trasmissione tv    degli anni 80  )  sono quelli  che  hanno  formato   e  mi portano a parlarne   qui  sul  blog




Albo n. 83 (Agosto 1993)
Soggetto: Tiziano Sclavi
Sceneggiatura: Tiziano Sclavi
Disegni: Gianluigi Coppola
Lettering: Renata Tuis
Copertina: Angelo Stano





  •                    Data pubblicazione1 gennaio 1986 
  •                     AutoreArt Spiegelman
  •                     GeneriBiografiaAutobiografia, graphic novel, fumetto


  • FILM


     ce ne sarebbero parecchi fra i più belli , ovviamente gusti personali . : La chiave di Sara (Elle s'appelait Sarah) 2010 diretto da Gilles Paquet-Brenner. Tratto dall'omonimo romanzo di Tatiana de Rosnay ed Anita B di roberto faenza appena uscito e ma dal trailer e dalle anticipazioni sembra buono e racconta tali eventi sotto una prospettiva diversa dal solito canone i post lager proprio la tregua 1997 di Francesco Rosi ( tratto dall'opera omonima di primo levi )

    la mamma è sempre la mamma Si sposano tutte e 3 insieme per esaudire l'ultimo desiderio della madre morente !



      
     È un album di nozze (  vedere   le altre  foto  )  straordinariamente commovente quello che tre sorelle americane hanno deciso di condividere. Le giovani si sono infatti sposate anticipatamente nello stesso giorno, per fare in modo che la madre morente potesse partecipare: il lieto evento ha altresì costituito l’ultima apparizione della donna, morta appena 12 ore dopo la celebrazione.
    In questo modo le ragazze hanno esaudito l’ultimo desiderio della propria madre, circondata da amici e parenti. Le foto del matrimonio, scattate da Colors of Life Photograph, rivelano quanto siano state profondamente commoventi quelle ore e come, purtroppo, il ricevimento si sia tenuto quando la donna era già morta, in un clima che solamente questi scatti riescono a comunicare.







    25.1.14

    dalla vita non sai mai cosa t'aspetti ecco perchè lotto per mantenermi vivo ed ho rinuciato ai propositi suicidi

    In sottofondo due  canzoni
      la  prima  A. Delogu - Ebbè Peppì com'è? - Arr. Giacomo Spano (2014)
    la seconda  Il Figlio del re-Piero Marras@Juannusai


    Come dal titolo la vita è imprevedibile. Infatti  ho avuto occasione  di verificare sulla mia pelle  che  i proverbi e  detti di saggezza  popolare  molto spesso contengono un fondo di verità  . Ecco  cosa mi è  successo  di recente  .

    Quattro anni  anni avevo  litigato con *****  mia  amica  e  compagna  di strada  di   facebook    sia  a causa    di fake  che  m'avevo rubato l'identità   e  s'era spacciato  per  me  ed  insultava  ( lei compresa )   gli altri \e   miei  contatti e  i  loro amici\che  sia  a causa mia .
    Provai a ricercarla prima al cellulare  ma non avevo più il numero  ,  più  volte  su fb  , ma   non rispondeva .Cosi  per  3  anni . Poi nei giorni scorsi  ho fatto un ultimo tentativo , trovando il suo nuovo account  ,   ho lasciato un commento   ed inaspettatamente  (  mi sarei aspetto  una risposta  d'insulti  )  ho ricevuto  la richiesta da parte sua  di contatto
     Non  chiedetemi ulteriori particolari   perchè  non mi va  di  riaprire   vecchie ferite ( chi  mi segue  su fb fin dal 2009     ricorderà e saprà  )   mi basta  averla  ritrovata  ed   riaverla fra i miei contatti e  aver   eliminato dei fantasmi  (  rimorsi e sensi di colpa ) .
    Felice   come   non mai  , ho detto  fra me e  me  , ho fatto 30   facciamo  31  e  ho scritto  a ***** un altra amica  con cui  avevo litigato  . E  gli avevo anche dedicato   anche  questa  canzone



     perchè , maledetto orgoglio maschile  , mi aveva   , ma non la biasimo non aveva  tutti i torti  in fondo  , trattato  di schifo  )   gli ho scritto avendo il primo account  di fb  bloccato  dal secondo  account  di fb


    16:57
    Nei giorni scorsi ho fatto un sogno ( anche   se  in realtà  era  più un incubo  )  , come la trama del film http://it.wikipedia.org/wiki/My_Life_-_Questa_mia_vita ne ho parlo con il mio analista è mi ha consigliato di aprirmi e liberarmi dei sensi colpa \ rimorsi . Ecco che ho deciso di farlo . Quindi ti chiedo scusa per come mi sono comportato nei tuo e ( e di tua sorella ) confronti qualche tempo fa . vorrei se che accettassi queste mie scuse e se è possibile che mi diate una seconda possibilità . Appena mi sbloccano l'account principale www.facebook.com/redbeppeulisse1 vi rimando il contatto li , se vi va , altrimenti pazienza . Ma almeno mi sentirò meglio senza pesi sulla coscienza . Con amicizia Giuseppe

    ecco la sia riposta
    ****** Stai tranquillo giuseppe!! Ho accettato l'amicizia!! ci vediamo ci venerdi al corso di fotografia !!! Buona serata !!!


    ecco che e proprio vero che a volte è proprio vero che il tempo cancella e porta l'oblio di tutte le ferite il tempo cancella e porta l'oblio di tutte le ferite E che questa a differenza rimarrà una cicatrice e poi pian piano magari scomparirà , in quanto era si profonda  ma  a    differenza  di quando le ferite  sono profonde non guariscono mai, al massimo si formano cicatrici che quando il tempo cambia, fanno male da morire , il tempo o la fortuna chissà  l'hanno rimossa  senza   bruciare troppo e  senza   che  finisse   come stava   per  succedere in ossessione  .

    Grazie  Dio  per    questo dono inaspettato ed  improvviso  . Buonannotte  a  tutti\e  a presto  sulla strada  





    in tempo di crisi e di fame busa e non si vuole emigrare meglio addattarsi a tutti i tipi di lavoro anche queli per cui non abbiamo studiato la storia di La scommessa di Paolo Ladu, noto “Cipolla”: lava vewtri da 40 anni

      dala nuova  sardegna   9\1\2025  di Valeria Gianoglio Nuoro La bottega di Paolo Ladu, noto “Cipolla  "è un furgone vissuto, un ampio...