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24.1.25

il 27 gennaio non è solo Shoah ma anche olocausti diversi parte I. Gli omosessuali

Molti , sottoscritto compreso  , si sono concentrati parlando del 27 gennaio solo   sulla  shoah   dimenticandosi   ( ma   per  fortuna mi sono  corretto in  tempo )   che   nei campi  nazisti non finirono  solo  gli Ebrei e  che  si deve  parlare anche  di  Olocausto . Infatti  Per estensione, il termine "olocausto" è a volte riferito a tutte le vittime di persecuzioni sistematiche e omicidi di massa nazisti, incluso lo sterminio dei popoli romanì o room , l'uccisione di civili polacchi e di altre popolazioni slave, l'uccisione dei prigionieri di guerra sovietici, degli oppositori politici, dei dissidenti religiosi come Testimoni di Geova e pentecostali, le uccisioni e le violenze contro omosessualipersone con disabilità mentali o fisiche e i neri europei.
Oggi  parlerò  degli Omosessuali appunto  .  Ma prima  d'avervi    dato alcuni  url 
 per  approffondire

Tra il 1933 e il 1945, il regime nazista portò avanti una campagna contro gli uomini omosessuali e li perseguitò. Come parte della campagna, il regime nazista chiuse i bar e i luoghi di ritrovo per gay, sciolse associazioni per gay e chiuse i giornali e le pubblicazioni gay. Il regime nazista inoltre arrestò e processò migliaia di uomini gay ai sensi del Paragrafo 175
del Codice Penale tedesco. Per gran parte del ventesimo secolo fu difficile portare alla luce le storie degli uomini gay durante l’epoca nazista a causa del continuo pregiudizio nei confronti dei rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso e perché l’applicazione da parte dei tedeschi del Paragrafo 175 continuò anche nel dopoguerra.e fu abolito se non ricordo male con l'unificazione tedesca
Prima che i nazisti salissero al potere nel 1933, le comunità e i circuiti gay erano numerosi, in particolare nelle grandi città, e questo nonostante in Germania le relazioni sessuali tra uomini fossero criminalizzate.Ma erano tollerate . Poi a partire dal 1933, il regime nazista cominciò a perseguitare e smantellare le comunità gay in Germania. Il regime arrestò un gran numero di uomini gay ai sensi del Paragrafo 175, la legge del Codice penale tedesco che vietava le relazioni sessuali tra uomini.
Durante l’epoca nazista, tra 5.000 e 15.000 uomini furono imprigionati nei campi di concentramento come criminali “omosessuali” (“homosexuell”). Questo gruppo di prigionieri doveva indossare un triangolo rosa sulle divise del campo come parte del sistema di classificazione dei prigionieri. Infati nella Germania nazista qualunque uomo avesse relazioni sessuali con un altro uomo doveva accettare la possibilità di venire arrestato, a prescindere dalla sua sessualità.
Il fatto di identificarsi come gay non era esplicitamente criminalizzato in Germania. Tuttavia, la campagna nazista contro l’omosessualità e la rigorosa applicazione del Paragrafo 175 da parte del regime rese la vita nella Germania nazista pericolosa per gli uomini gay.
Gli uomini gay in Germania non erano un gruppo uniforme e il regime nazista non li vedeva come tali. Essere gay spesso poteva significare essere perseguitati. Tuttavia, anche altri fattori condizionarono la vita degli uomini gay durante l’epoca nazista. Tra questi fattori c’erano la presunta identità razziale, le attitudini politiche, la classe sociale e le aspettative culturali su come dovessero comportarsi gli uomini e le donne (in altre parole, le norme legate al genere sessuale d’appartenenza). Questa diversità significò un’ampia gamma di esperienze per gli uomini gay nella Germania nazista. Ad esempio, gli uomini gay che partecipavano a movimenti politici antinazisti rischiavano di essere arrestati come oppositori politici. E gli uomini gay ebrei dovettero anche subire la persecuzione nazista e l’omicidio di massa degli ebrei.


Uomini gay nei primi anni del regime nazista, 1933~1934

 

I nazisti salirono al potere il 30 gennaio 1933 e provarono subito a eliminare le manifestazioni visibili e smantellare i circuiti gay che si erano sviluppati durante la Repubblica di Weimar. Una delle prime azioni naziste contro le comunità gay fu la chiusura dei bar e dei luoghi di ritrovo gay. Ad esempio, a fine febbraio/inizio marzo del 1933, in risposta a un ordine nazista, la polizia di Berlino chiuse numerosi bar. Tra di loro c’era l’Eldorado, che era diventato un noto simbolo della cultura gay di Berlino. Chiusure simili dei luoghi di ritrovo gay furono implementate in tutta la Germania. Tuttavia, in città come Berlino e Amburgo, alcuni bar gay riconosciuti riuscirono a restare aperti fino alla metà degli anni Trenta. I luoghi di ritrovo gay clandestini rimasero aperti anche più a lungo. Tuttavia, le chiusure attuate dai nazisti e la sorveglianza maggiore da parte della polizia resero più difficile per i gay incontrarsi. 

Un’altra tra le prime azioni portate avanti dal regime nazista fu l’eliminazione di giornali, riviste e case editrici gay. I giornali erano uno dei primi mezzi di comunicazione nelle comunità gay in Germania. Il regime nazista inoltre obbligò le associazioni gay a sciogliersi. Nel maggio del 1933, i nazisti vandalizzarono l’Istituto per le Scienze Sessuali di Hirschfeld e lo obbligarono a chiuderlo. Parte di quell’azione incluse la distruzione degli scritti di Hirschfeld che furono dati alle fiamme dai nazisti. I roghi di libri prendevano di mira le opere scritte da noti intellettuali, pacifisti e autori di sinistra ebrei. La distruzione dell’istituto fu un chiaro segno che i nazisti non avrebbero tollerato le politiche sessuali riformiste promosse dall’istituto. 

A partire dalla fine del 1933 e l’inizio del 1934, i nazisti usarono nuove leggi e pratiche di polizia per arrestare e detenere senza processo un certo numero di uomini gay. Questo faceva parte di uno sforzo più ampio da parte dei nazisti per ridurre la criminalità. Il regime nazista diede indicazioni alla polizia di arrestare le persone precedentemente condannate per crimini sessuali quali esibizionismo, relazioni sessuali con un minore e incesto. Tali crimini erano definiti nei Paragrafi 173~183 del Codice penale tedesco. Gli arresti riguardarono diversi uomini gay, alcuni dei quali furono imprigionati nei primi campi di concentramento del regime. 

Nell’autunno del 1934, la Gestapo di Berlino (polizia politica) diede indicazioni alle forze di polizia locali di inviare loro le liste di uomini ritenuti coinvolti in comportamenti sessuali con altri uomini. La polizia in diverse parti della Germania aveva compilato e mantenuto tali liste per molti anni. Tuttavia, la centralizzazione delle liste nelle mani della Gestapo di Berlino era una novità. Inoltre, la Gestapo specificò che gli uffici locali dovevano assicurarsi di annotare se questi uomini erano membri di organizzazioni naziste e se erano stati precedentemente condannati ai sensi del Paragrafo 175. Tali liste diventarono famose come “liste rosa”, anche se non erano chiamate così dai nazisti e dalla polizia. 

Queste prime misure rappresentarono soltanto l’inizio della campagna nazista contro l’omosessualità. Le azioni naziste subirono un’escalation nella seconda metà degli anni Trenta.

Escalation della persecuzione degli uomini gay, 1934~1936

 

Tre eventi negli anni 1934~1936 radicalizzarono la campagna del regime nazista contro l’omosessualità e portarono a un’oppressione più sistematica degli uomini gay.

Il primo fu l’omicidio di Ernst Röhm e altri leader delle SA nel giugno-luglio del 1934. Questi omicidi cambiarono il modo in cui la propaganda parlava dell’omosessualità. Röhm e altri leader delle SA furono uccisi su ordine di Hitler come parte di una lotta di potere ai più alti livelli del governo tedesco e del partito nazista. Dopo la purga, la propaganda nazista usò la sessualità di Röhm per giustificare gli omicidi. Nel farlo, i nazisti sfruttarono il diffuso pregiudizio della popolazione tedesca contro le relazioni sessuali tra persone dello stesso sesso. 

Il secondo evento fu la revisione da parte dei nazisti, nel giugno del 1935, del Paragrafo 175, la legge del Codice penale tedesco che vietava le relazioni sessuali tra uomini. Ai sensi della nuova versione della legge, moltissimi comportamenti intimi e sessuali potevano essere, ed erano in effetti, puniti come atti criminali. Inoltre, la revisione nazista sancì che gli atti non consensuali e coercitivi tra uomini potevano comportare una condanna fino a 10 anni di lavori forzati in prigione. La revisione della legge fornì al regime nazista gli strumenti necessari per perseguire e perseguitare gli uomini coinvolti in relazioni sessuali con altri uomini in numeri ben più grandi di prima. 

Infine, nel 1936, Heinrich Himmler, capo delle SS e della polizia tedesca, fondò l’Ufficio centrale del Reich per la lotta all’omosessualità e all’aborto (Reichszentrale zur Bekämpfung der Homosexualität und der Abtreibung). L’ufficio faceva parte della Kripo (polizia penale) e lavorava a stretto contatto con la Gestapo (polizia politica). Himmler era notoriamente omofobo e vedeva l’omosessualità e l’aborto come minacce al tasso di nascita tedesco e quindi al destino del popolo tedesco. 

Alla fine del 1936, c’erano le condizioni per consentire al regime nazista di intensificare la campagna contro l’omosessualità. 

Il picco della campagna nazista contro l’omosessualità

 

La campagna nazista contro l’omosessualità si intensificò nel 1935~1936. Da qui in avanti, il regime si concentrò meno sulla chiusura dei luoghi di ritrovo gay e diede priorità, invece, all’arresto di uomini ai sensi del Paragrafo 175. Nella visione nazista, questi uomini erano criminali “omosessuali” (“homosexuell”) e quindi nemici dello stato. Himmler riteneva che la persecuzione di tali uomini fosse necessaria per la protezione, il rafforzamento e la crescita demografica del popolo tedesco. Himmler ordinò alla Kripo e alla Gestapo di condurre una campagna capillare contro l’omosessualità. Quelle forze di polizia usarono irruzioni, denunce, duri interrogatori e persino la tortura per trovare e arrestare gli uomini che secondo loro avevano violato il Paragrafo 175. 

Irruzioni 

A metà e alla fine degli anni Trenta, la polizia organizzò irruzioni nei bar e in altri luoghi di ritrovo che riteneva fossero popolari tra gli uomini gay. La polizia creava cordoni intorno ai bar e altri luoghi e interrogava chiunque sembrasse sospetto. Alcuni uomini presi durante le irruzioni venivano poi liberati se non c’erano prove contro di loro. Gli uomini ritenuti colpevoli dalla polizia venivano poi processati per violazione del Paragrafo 175 o, in alcuni casi, inviati direttamente nei campi di concentramento. 

Le irruzioni della polizia erano pubbliche e vennero evidenziate nella campagna nazista contro l’omosessualità. Tramite le irruzioni, la polizia minacciava e intimidiva le comunità e gli individui gay. Tuttavia, le irruzioni non erano particolarmente efficaci e non furono il mezzo principale attraverso cui la polizia rintracciò gli uomini sospettati di aver violato il Paragrafo 175.

Denunce 

La Kripo e la Gestapo facevano affidamento sulle soffiate e sulle denunce per raccogliere informazioni sulla vita intima degli uomini e scoprire potenziali violazioni del Paragrafo 175. Vicini, conoscenti, colleghi, amici o familiari potevano comunicare alla polizia i loro sospetti. Il linguaggio usato dalle persone nelle denunce rendeva chiaro che questi tedeschi tendevano a essere d’accordo con le attitudini dei nazisti nei confronti dell’omosessualità. Chi denunciava faceva riferimento alle persone denunciate come “effeminati” e “perversi”. A differenza delle irruzioni, le denunce erano uno strumento di repressione molto efficace. Le denunce portarono a decine di migliaia di arresti e condanne.

Interrogatori 

La Gestapo e la Kripo interrogavano gli uomini catturati nelle irruzioni, nonché quelli denunciati. Durante questi interrogatori, che spesso erano fisicamente e psicologicamente brutali, la polizia spesso insisteva per ottenere confessioni complete. Messi sotto pressione con duri interrogatori e metodi di tortura, gli uomini venivano obbligati a fare il nome dei loro partner sessuali. La polizia poteva così identificare altri uomini per arrestarli e interrogarli. In questo modo, la polizia catturò intere reti di uomini gay.

Il destino degli uomini arrestati 

Non tutti gli uomini arrestati ai sensi del Paragrafo 175 condivisero lo stesso destino. Generalmente, l’arresto era seguito da un processo in tribunale. Il tribunale poteva assolvere o condannare l’imputato e condannarlo al carcere per un determinato periodo di tempo. Il tasso di condanna era di circa il 50%. Molti uomini condannati venivano rilasciati dopo aver scontato la loro pena in prigione. In rari casi, la Kripo o la Gestapo inviavano un uomo direttamente al campo di concentramento come criminale “omosessuale” (“homosexuell”). Generalmente, ma non sempre, gli uomini inviati nei campi di concentramento in questo modo avevano condanne multiple o altre circostanze attenuanti.  

Il sistema penale tedesco nazista introdusse anche la castrazione come pratica legale. Alla fine del 1933, i tribunali potevano ordinare la castrazione obbligatoria per alcuni reati sessuali. Tuttavia, per lo meno all’inizio, gli uomini arrestati ai sensi del Paragrafo 175 non potevano essere castrati senza il loro consenso. In alcuni casi, gli uomini imprigionati ai sensi di questa legge venivano rilasciati prima se accettavano volontariamente la castrazione. 

Durante la Seconda Guerra Mondiale, il numero di uomini arrestati ai sensi del Paragrafo 175 diminuì. La necessità di una guerra totale aveva la precedenza sulla campagna nazista contro l’omosessualità. Molti uomini condannati ai sensi del Paragrafo 175 si unirono all’esercito tedesco o furono obbligati a farlo. L’esercito aveva bisogno di uomini e in molti casi considerava la sessualità di un soldato di secondaria importanza. Tuttavia, gli arresti e le condanne ai sensi del Paragrafo 175 continuarono per tutto il periodo della guerra. 

Gli studiosi stimano che durante il regime nazista circa 100.000 persone furono arrestate ai sensi del Paragrafo 175. Più della metà di questi arresti (circa 53.400) risultarono in condanne. 

Uomini gay nei campi di concentramento

 

Tra 5.000 e 15.000 uomini furono imprigionati nei campi di concentramento come criminali “omosessuali” (“homosexuell”). Questo gruppo di prigionieri doveva indossare un triangolo rosa sulle divise del campo come parte del sistema di classificazione dei prigionieri. Molti di questi prigionieri identificati con il triangolo rosa, ma non tutti, si consideravano gay. 

Il triangolo rosa identificava questi prigionieri come un gruppo diverso all’interno del sistema del campo di concentramento. Secondo i racconti di molti sopravvissuti, i prigionieri identificati dal triangolo rosa erano tra i gruppi più abusati nei campi. A volte gli venivano assegnati i lavori più estenuanti e faticosi nel sistema del campo di lavoro. Spesso erano oggetto di abusi fisici e sessuali da parte delle guardie del campo e degli altri prigionieri. In alcuni casi, venivano picchiati e umiliati pubblicamente. Nel campo di concentramento di Buchenwald, alcuni prigionieri identificati dal triangolo rosa furono oggetto di esperimenti medici disumani. A partire dal novembre del 1942, i comandanti dei campi di concentramento avevano ufficialmente il potere di ordinare la castrazione forzata dei prigionieri identificati dal triangolo rosa.

Avendo paura di diventare “colpevoli per associazione”, gli altri prigionieri, che già avevano pregiudizi, evitavano i prigionieri identificati dal triangolo rosa, i quali si trovavano così isolati e impotenti nella gerarchia dei prigionieri. Le reti create dai prigionieri fornivano strumenti per la sopravvivenza, come cibo e vestiti, per molti compagni del campo. Il fatto che molti prigionieri identificati dal triangolo rosa parlassero tedesco fornì loro una certa protezione, ad esempio dando loro accesso a lavori meno onerosi in posizioni amministrative. Tuttavia, generalmente la situazione di isolamento di questi prigionieri rendeva la loro sopravvivenza molto più difficile. Nei campi di concentramento morì un numero sconosciuto di prigionieri identificati dal triangolo rosa. 

Gli uomini gay potevano essere imprigionati e perseguitati nei campi di concentramento per motivi che andavano oltre la loro sessualità. Alcuni uomini gay erano portati nei campi di concentramento come oppositori politici, ebrei o membri di altre categorie di prigionieri. In questi casi, la loro sessualità era generalmente un fattore secondario rispetto al motivo per cui erano stati imprigionati e indossavano lo stemma che corrispondeva alla loro categoria ufficiale di prigionieri. 

Durante l’Olocausto, fu ucciso un numero sconosciuto di uomini gay ebrei. 

Le risposte degli uomini gay alla persecuzione nazista

 

Gli uomini gay risposero alla persecuzione nazista in diversi modi. Non tutti gli uomini gay presero le stesse decisioni e non tutti avevano le stesse opportunità. Ad esempio, gli uomini gay classificati come ariani dal regime nazista avevano a loro disposizione molte più opzioni rispetto a quelli classificati come ebrei o rom (zingari). Gli uomini ebrei e rom dovevano affrontare soprattutto la persecuzione razziale. 

Alcuni uomini gay, in particolare quelli con risorse finanziarie, potevano provare a nascondere la loro sessualità e a fare finta di conformarsi. Alcuni chiusero i contatti con i loro circoli di amici o si ritirarono dalla sfera pubblica. Altri si trasferirono in nuove città, in campagna o addirittura in altri paesi. Alcuni uomini gay decisero di sposarsi per convenienza.  

Ci furono casi di uomini gay che si assunsero il rischio di opporsi allo stato nazista per motivi politici e personali. Alcuni uomini gay si unirono a gruppi di resistenza antinazisti o aiutarono gli ebrei a nascondersi. 

Documentazione e commemorazione delle esperienze degli uomini gay 

 

Nella primavera del 1945, i soldati Alleati liberarono i campi di concentramento e i prigionieri, tra cui quelli identificati dal triangolo rosa. Tuttavia, la fine della guerra e la sconfitta del regime nazista non comportarono necessariamente un senso di liberazione per gli uomini gay, che rimasero emarginati nella società tedesca. In particolare, le relazioni sessuali tra uomini restarono illegali in Germania per gran parte del ventesimo secolo.
 Questo significò che molti uomini che scontavano pene perché sospettati di aver violato il Paragrafo 175 rimasero in prigione anche dopo la guerra. Altre decine di migliaia di uomini furono condannati nel dopoguerra. 

Per gran parte del ventesimo secolo fu difficile conoscere le storie degli uomini gay durante l’epoca nazista a causa del continuo pregiudizio nei confronti dei rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso e dell’applicazione da parte dei tedeschi del Paragrafo 175. Molti uomini gay avevano il timore di condividere le loro testimonianze o di scrivere delle autobiografie. Tuttavia, gli studiosi hanno cercato di documentare le esperienze vissute dagli uomini gay servendosi dei registri di polizia, tribunali e campi di concentramento.

Gli sforzi di studiosi e di organizzazioni per i diritti gay tedeschi hanno consentito di portare a conscenza dell’opinione pubblica la persecuzione degli uomini gay da parte dei nazisti. Negli anni Novanta, il governo tedesco riconobbe gli “omosessuali perseguitati” (“verfolgten Homosexuellen”) come vittime del regime nazista. Nel 2002, il governo ribaltò le condanne di epoca nazista relative al Paragrafo 175. Per la prima volta, gli uomini gay che avevano sofferto a causa dei nazisti potevano richiedere un risarcimento monetario al governo tedesco per le ingiustizie commesse nei loro confronti. 

All’inizio del ventunesimo secolo, il governo tedesco aprì quattro memoriali nel centro di Berlino dedicati alle vittime del nazismo. Il più grande è il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, aperto nel 2005. Pochi anni dopo, nel maggio del 2008, il Memoriale per gli omosessuali assassinati dal nazismo (Denkmal für die im Nationalsozialismus verfolgten Homosexuellen) fu aperto vicino al parco di Tiergarten nel centro di Berlino. 

Gli studiosi continuano a fare ricerche sulla campagna nazista contro l’omosessualità e la persecuzione degli uomini gay da parte del regime.

Il percorso transgender di Ludovica Satta: «Essere donna è una conquista»

 

la  nuova sardegna  23\1\2025

Sassari 
La voce all’inizio trema, è normale, non è cosa da tutti i giorni rispondere a un’intervista e raccontarsi. «Iniziamo, vuoi sapere che belva mi sento?», ride Ludovica Satta, sentendosi un po’ ospite di Francesca Fagnani seduta sullo sgabello.
Guardarsi attorno Ludovica è una ragazza transgender di 25 anni e vive a Olbia. È nata maschio ma sono passati ormai dieci anni da quando per la prima volta ha realizzato che sì,

dentro si sentiva femmina e voleva vedersi tale. Il percorso è stato lungo ed è ancora in itinere, ma il suo è il racconto di una persona che finalmente si piace, si sente a proprio agio e un punto di riferimento.
«Diciamo che ho spianato la strada ad altre persone – spiega Ludovica Satta –, parlo di chi in questi anni mi ha conosciuta e mi ha chiesto consigli. Mi sono sempre sentita un punto di riferimento almeno in città. Quando ho cominciato il percorso di transizione avevo 16 anni e attorno non conoscevo nessuno a cui poter chiedere». Per questo motivo Ludovica – richiamare il nome di battesimo non le piace e in effetti ormai non ha più senso – aveva mosso i primi passi sul web, con i video di una youtuber americana che, raccontando le sue vicende, era diventata la sua guida. Questione di tempismo: da oltreoceano c’è un neo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che nel suo discorso d’insediamento ha sentito di dover evidenziare l’esistenza di due soli generi, maschio e femmina, mettendo al bando l’intera comunità transgender.
Prima e dopo «Per me è stata come una vocazione, la chiamerei così», sostiene “Lù”. «Da piccola ero un bambino che si faceva delle domande, ma mai mi sarei immaginata di diventare una donna – rivela –. L’ho scoperto e l’ho realizzato nel giro di un anno, da adolescente. Ho cominciato a immaginarmi in modo femminile». Si parte sempre dalle piccole cose, «e io banalmente quando vedevo una coppia etero al bar, mi rivedevo nei panni della ragazza, volevo essere lei». I primi passi sono i più lunghi, «mi sono rivolta a una psicologa, per un anno e mezzo mi sono sottoposta a test su test», dopodiché una relazione le attesta che è pronta a iniziare la terapia ormonale. Dal piano psicologico a quello fisico, con un endocrinologo. E poi il piano burocratico, che è forse la montagna più alta da superare. Con il lasciapassare stavolta di uno psichiatra e poi assistita da un avvocato, Ludovica comincia nel 2019 l’iter per il cambio dei documenti e i permessi per sottoporsi agli interventi chirurgici, l’ok arriva solo nel 2021.
L’era dell’apparire La ragazza è scettica, «oggi vedo tanta apparenza». In che senso? «Non è il trucco o un vestito corto a farti donna. Vedo ragazzi vestirsi da donna e chiamarsi al femminile, io quel “lei” me lo sono guadagnata. Oppure ragazzi che pur parlando di femminilità rifiutano di sottoporsi a un percorso psicologico ed endocrinologo. Allora puoi dire di essere una “ladyboy”, ma non mettiamo tutte le cose sullo stesso piano», sostiene. Poi si guarda indietro, sul piedistallo dell’apparenza ci è salita anche lei: «Per me era importante apparire il più femminile possibile, e riconosco di essere stata esagerata. Mi sono rifugiata negli eccessi, tra cui l’alcol, e in ogni uscita con le amiche cercavo l’amore nello sguardo di un ragazzo. Per me la sopravvivenza era sentirmi amata e voluta». Però dice una grande verità, Ludovica Satta, con alle spalle un’esperienza che l’ha forgiata, quando riflette: «L’importante è sentirsi bene con se stessi. Riuscire a stare da soli, a non aver paura dei propri pensieri».
Capelli biondi, labbra carnose, un seno importante, «so di essere diventata molto carina», poi si corregge: «Sono proprio una bella ragazza». Ride imbarazzata, non vuole sembrare vanitosa «però ho un fisico che mi piace e che piace ai ragazzi». È cambiata la prospettiva: prima quando postava su Instagram una foto provocante «era per il bisogno di mostrare la mia femminilità», adesso quando le capita di condividere uno scatto sexy «è perché ho voglia di farlo e basta, senza secondi fini». I suoi genitori – e questa è stata una grande fortuna – sono sempre stati dalla sua parte e l’hanno supportata. Il resto della famiglia meno, «qualche zia ora è invidiosa». Le tracce di bullismo si fermano agli anni antecedenti alla transizione, ora «non ho mai ricevuto sguardi o gesti sgradevoli, in pochi si ricordano di me prima». E il sollievo di non dover dare alcuna spiegazione a chi ha di fronte è una grande libertà. «Comunque vuoi sapere che belva mi sento? Un gatto».

quando la toppa è peggio del buco . il probabile sostituto della santachè

Immagine creata con l’AI






Il giorno che riusciranno a levarla a pedate dalla carica di ministro, è altamente probabile che dovranno buttarla via insieme alla poltrona.Il senso della Santanché per il potere.


Ma   il  probabile      sostituto   della  santanchè    Lucio   Malan  è peggio     della  pitonessa   









  Dico  probabile   perchè (  ecco perchè  la  Melonoi sta  proivando in silenzio  a    farla  dimettere  entro  il   28   gennaio   )  la   lunga serie sulla vicenda politico-giudiziaria di Daniela Santanchè avrà degli episodi supplementari. Ad assicurarlo è stata la stessa ministra del Turismo che parlando con la stampa a Verona la mattina del 24 gennaio ha detto che nessuno dal governo le ha chiesto di dimettersidopo il suo rinvio a giudizio per false comunicazioni sociali, come ex amministratrice della società Visibilia. Santanchè così ha spento per il momento le voci su un’imminente uscita dal governo, che si erano rincorse per giorni, dopo la decisione dei magistrati. Il caso dentro l’esecutivo Meloni però è tutt’altro che chiuso. I filoni giudiziari che coinvolgono Santanchè infatti sono diversi. Quello politicamente più delicato – per stessa ammissione della “Pitonessa” –  riguarda la presunta truffa all’Inps sui contributi Covid, ricevuti da Visibilia nel periodo della pandemia. Su questo fronte, già nei prossimi giorni sono attese novità, che potrebbero costringere la ministra al passo indietro. La data cerchiata in rosso è quella del 29 gennaio, il giorno in cui la Cassazione  deciderà se mantenere il procedimento a Milano o spostarlo a Roma, come chiesto dagli avvocati di Santanchè. Nel caso in cui venisse riconosciuta la competenza  al tribunale della capitale, le procedure dovrebbero ripartire quasi daccapo e l’esponente di Fratelli d’Italia guadagnerebbe diversi mesi, prima del possibile rinvio a giudizio.  

23.1.25

Il pentimento di Pam, la "nonna alla riscossa" del 6 gennaio 2021: rifiuta la grazia di Trump e "Via da Geova per essere una donna libera"

dal portale  https://www.msn.com/it-it/ d'oggi più precisamente   i canali   di :  RaiNews  per  la prima  , quello   di Quotidiano.Net/ per  la  seconda  

 

 Fa discutere il caso di Pam Hemphill, meglio conosciuta come “Maga Granny”, la nonna del movimento Make America Great Again, il principale gruppo di pressione che supporta il neopresidente Donald Trump. Quello stesso Maga che si è reso principale protagonista dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 e i cui membri sono stati graziati dal tycoon appena ritornato alla Casa Bianca, con uno dei primi ordini esecutivi siglati a poche ore dal giuramento.Fra le migliaia di assalitori del Capitol (circa 1600 persone) di quella giornata tristemente indimenticabile c’era anche la settantenne Pam, condannata a due mesi di carcere, che però inaspettatamente, con un gesto di pentimento, ha rifiutato la grazia presidenziale: “Quel giorno abbiamo avuto torto, sappiamo bene che sono tutti colpevoli” ha dichiarato Maga Granny, riferendosi ai suoi “compagni d’assalto”, dopo essersi già dichiarata colpevole in tribunale per i fatti del 6 gennaio. Accettare il perdono di POTUS (l’acronimo che indica il capo della Casa Bianca, President Of The United States, ndr), infatti, equivarrebbe a insultare “gli ufficiali di polizia del Campidoglio, lo stato di diritto e naturalmente il Paese”, ha dichiarato la “nonna alla riscossa” pentita. Accettare la grazia, ha aggiunto Pam, “contribuirebbe al loro gaslighting e alla loro falsa narrazione”, in riferimento alla tesi per cui il voto del 2020 era stato “rubato” dai democratici e dal presidente Biden.
Ripensando al 6 gennaio, inoltre, Pam Hemphill ha spiegato: “Avevo perso il mio pensiero critico. Ora so che era una setta, e io ero in una setta”, denunciando un “tentativo di riscrivere la Storia”. Pam ha fatto un’anticipazione: “Le conseguenze di questo decreto saranno terribili, sono delle persone molto pericolose”, ha detto citando i membri degli Oath Keepers e dei Proud Boys, due dei gruppi che parteciparono all’assalto al Congresso.

......

"Via da Geova per essere una donna libera"

La Verità da una parte e il mondo dall’altra. Fuori, escluso. Per immolare la vita a Geova, ai suoi diktat, alle rinunce e alle privazioni che diventano illusioni di libertà. Alessandra è una bambina senza Natale né compleanni; Alessandra è una ragazzina lontana dalle mode, dalla musica, dall’amore e dalla sessualità. Le Spice Girls sono "delle

meretrici", i Placebo l’incarnazione di Satana. Alessandra è infine una donna che con coraggio sceglie di dissociarsi, di fuoriuscire e di vivere quella vita che sin dalla sua venuta al mondo le era stata negata. Nasce così Il Dio che hai scelto per me (HarperCollins, 2025), esordio letterario di Martina Pucciarelli, romanzo che a partire dall’esperienza personale dell’autrice racconta di un distacco radicale, quello dalla comunità religiosa dei Testimoni di Geova, con tutto il vissuto doloroso che ha portato a quell’addio, arrivando quasi ad annientare sé stessa, fino pure a desiderare di morire. A chiusura di ogni capitolo, una serie di parole chiave che raccontano il viaggio: abbandono, paura, tradimento, disamore, perdita, vuoto, separazione, libertà, rabbia per arrivare a "riscatto".

Alessandra non è Martina, ma il vissuto è comune: com’è stato per lei scrivere ma soprattutto portare fuori una storia così forte e dolorosa?

"Probabilmente non ero preparata a quel che sarebbe potuto succedere. Ho ricevuto tanti messaggi di solidarietà da persone che hanno seguito il mio stesso percorso. Mi fa piacere che questo libro possa far sentire più comprese e meno smarrite quelle stesse persone".

E lei, cos’ha sofferto di più in questa rigidità imposta da Geova? E com’è riuscita a conciliare quei due pezzi di sé, quello nel mondo e quello nella fede?

"La cosa che pesa di più ad Alessandra nel romanzo è sicuramente il non sentirsi vista e valorizzata. Per Alessandra come per me tutto veniva dopo Geova. L’amore verso un figlio, verso un padre e una madre. Vengono dopo Geova anche i tuoi desideri, bisogni. Tutto. Conciliazione? Quella non avviene mai. Quei mondi sono e restano distinti".

Nelle note di chiusura del libro lei scrive: "Il tempo della rabbia e del dolore è finito". Ha dovuto perdonarsi qualcosa o perdonare qualcuno?

"Il perdono è sempre un incontro. Ovvero, perdonare comporta riconoscere di aver sbagliato. In un saggio meraviglioso letto un paio d’anni fa, l’autrice, Chandra Livia Candiani, scriveva del perdono come di un atto di superiorità. Ecco, non è di quel perdono che ho bisogno. È molto di più scegliere di non odiare, di non provare rancore".

La figura della madre di Alessandra appare centrale nelle dinamiche di famiglia. Emerge con lei anche il ruolo della donna secondo Geova: sottomessa, casta, discreta…

"Nell’educazione di Alessandra la donna svolge comunque un ruolo importantissimo, pur in quella sottomissione. È così, annullandosi, che la donna sostiene l’uomo. Niente che abbia a che vedere con l’emancipazione, per quel suo stare costantemente un passo indietro. Proprio in queste ore ho ricevuto il messaggio di una testimone di Geova. Mi ha detto di essere avvocata, avviata alla carriera. Mi ha detto che generalizzo. Credo che la sua sia un’eccezione. È ovvio che in qualche modo occorre adattarsi al mondo che avanza, ma il principio della dottrina è quello: sottomissione. In un passaggio della Bibbia si racconta di quando l’angelo in veste di viandante annuncia ad Abramo che diventerà padre. Sara, sua moglie, ascolta di nascosto quel dialogo e nel suo cuore ride, dicono le Scritture, e chiama Abramo ‘mio signore’. Ecco, Sara nella dottrina di Geova è l’esempio perfetto di sottomissione per quel suo dimostrarsi devota all’uomo persino nei pensieri: ‘mio signore’".



22.1.25

«Lavoro da anni in terapia intensiva e ho ascoltato i rimpianti dei pazienti terminali: ecco cosa pensano prima di morire»

da leggo tramite msn.it

Perdere una persona non è facile soltanto per i suoi familiari, ma anche per gli stessi medici che hanno assistito il paziente. Lo racconta Julie McFadden, un'infermiera che nel corso della sua carriera ha assistito diversi malati ricoverati in terapia intensiva. «Il mio
obiettivo è quello di aiutare le persone ad accettare che la loro vita sta per finire prima di comprenderlo da sole o che a dirglielo sia un parente - ha raccontato al podcast Disruptors di Rob Moore - e nel corso del tempo ho capito che c'è sempre una situazione che accomuna i pazienti terminali». 

 

Il desiderio dei pazienti

«Vorrei non aver sottovalutato la mia salute». Questa è soltanto una delle frasi che Julie McFadden si è sentita dire mentre lavorava nel reparto di terapia intensiva di un ospedale della California. L'infermiera è conosciuta sui social per condividere contenuti inerenti alla propria esperienza nei reparti, nei quali ha avuto modo di parlare con diverse persone che avevano mali terminali. Un fatto che, come ha dichiarato più volte, l'ha «resa più forte» perché nel corso degli anni «le ha permesso di riflettere sulla prospettiva della vita e della morte».«Parlando con i pazienti, diversi mi hanno detto che avrebbero preferito apprezzare di più le cose piccole della vita - ha spiegato Julie - in tanti avrebbero desiderato fare più passeggiate o stare di più in famiglia. E proprio i parenti sono la loro maggiore preoccupazione, perché chi non può permettersi le cure o addirittura il funerale tende a chiedere aiuti finanziari alle persone vicine. Ho capito che, chi vive una condizione economica più adagiata, affronta la morte con meno stress». L'obiettivo dell'infermiera è quello di sensibilizzare riguardo gli ultimi momenti, perché a suo parere tutti dovrebbero sapere cosa succede prima di affrontare una realtà complessa e spesso difficile da digerire, ovvero il fatto di essere giunti alla fine del propri percorso. 

SHOAH E MEMORIA LA LEZIONE DI LEVI e come spiegarla ai bambini e a quei 14 per cento che dicono che non esiste




Inizialmente non volevo più celebrarlo e smettere di scrivere post in merito visto l'alto tasso di retorica , di strumentalizzazione dei pro israeliani sopratutto dopo il 7 ottobre e la richiesta di silenzio ( vedere post precedente ) ho deciso dopo aver letto l'articolo di Gad Lener  che trovate  sotto   di farlo ancora . Visto il ritorno ( in realtà non sono neppure del tutto scomparsi ne cancellati ) dei nuovi fascismi e dei nuovi nazismi sotto nuove forme più pericolose di quelle originarie classiche. Ma soprattutto perchè in un’Italia che si trova di fronte alla Giornata della Memoria, il 27 gennaio, e a un’inquietante recrudescenza di episodi di antisemitismo, emerge un dato preoccupante: il 14% degli italiani, secondo l’ultimo Rapporto Italia dell’Eurispes, non crede che la Shoah sia mai avvenuta. quello che molti considerano un “vecchio tema”, relativo alla memoria della Shoah, sembra essere riemerso prepotentemente nella coscienza collettiva italiana, e non solo. Secondo il Rapporto Italia, il 15,9% degli italiani minimizza la portata della Shoah, affermando che non avrebbe prodotto così tante vittime, mentre il 14,1% nega totalmente che lo sterminio sia mai avvenuto. Dati inquietanti, che si collegano a una crescente diffusione di teorie complottiste e di discorsi revisionisti, veicolati non solo dai soliti ambienti estremisti, ma anche da frange della politica e dei social media.

Non si tratta di una crisi improvvisa, ma di un processo strisciante che si è acuito negli ultimi decenni. Nel 2004, sempre secondo Eurispes, solo il 2,7% degli italiani metteva in dubbio l’Olocausto. Oggi quella percentuale è quintuplicata, dimostrando come il tempo, anziché consolidare la consapevolezza storica, abbia aperto la strada a narrazioni distorte.
Questo deterioramento del senso storico non è privo di conseguenze. Il negazionismo non è solo una negazione del passato, ma una ferita aperta per le comunità ebraiche e un pericoloso sintomo di una società che fatica a riconoscere i propri errori e le proprie responsabilità. Il rischio è evidente: la Shoah, da tragedia universale, rischia di essere relegata al ruolo di semplice oggetto di dibattito, perdendo il suo valore di monito e insegnamento per le generazioni future.Purtroppo, quanto emerso dall’indagine dell’Eurispes non è un caso isolato. Le credenze distorte sugli ebrei, come il presunto controllo del potere economico o la capacità di determinare le politiche occidentali, continuano a radicarsi tra la popolazione. Se nel 2004 il 2,8% degli italiani negava il diritto all’esistenza di Israele, oggi quella percentuale è salita al 18,8%. La banalizzazione della Shoah, il crescere di opinioni che minimizzano o addirittura negano l’orrore subito dal popolo ebraico, è un fenomeno che può avere effetti devastanti sulla coesione sociale e sul rispetto dei diritti umani.


Il Fatto Quotidiano  21 Jan 2025   GAD LERNER


FOTO ANSA   Tracce di storia Pietre d’inciampo a Napoli
ricordano gli ebrei deportati ad Auschwitz 

EQUIPARARE L’ORRORE Sembra che gli ebrei abbiano esaurito il credito che fu loro concesso a suo tempo in quanto popolo vittima dell’olocausto Anche per questo la ricorrenza del 1945 resta una celebrazione necessaria


Piaccia o non piaccia, come e più dell’anno scorso, il Giorno della Memoria esercita una funzione scomoda.
Nel reclamare la dovuta attenzione sui milioni di ebrei sterminati in Europa fra il 1941 e il 1945, sospinge l’opinione pubblica a un confronto con la malasorte dei milioni di palestinesi che l’“ebreo nuovo”, scampato all’estinzione, si è ritrovato per vicini di casa. Dentro e fuori i confini dello Stato d’israele sorto nel 1948.
È una forzatura logica, alimentata dal risorgere di antichi pregiudizi? Un paragone che vilipende chi in famiglia reca ancora i segni delle sofferenze patite ottant’anni fa? Siamo sinceri. Fatichiamo a disgiungere nella nostra sensibilità queste due tragedie in apparenza così lontane, benché la loro incommensurabilità numerica dovrebbe risultare evidente: milioni di innocenti persero la vita nell’industria dello sterminio pianificato nei lager; decine di migliaia sono le persone uccise a Gaza dai soldati israeliani in una sorta di punizione collettiva ininterrotta di 15 mesi.
Se non bastassero le reciproche accuse di “nazismo” che i due nemici inferociti si scagliano addosso, perduto “ogni senso di affinità umana”, per dirla con Primo Levi, a rendere ancor più difficile eludere tale connessione mentale è sopraggiunta una circostanza che ha del clamoroso: lunedì 27 gennaio, ottantesimo anniversario della liberazione del campo di Auschwitz a opera dell’armata Rossa sovietica, è improbabile che alla cerimonia ufficiale convocata in quel luogo possa presenziare il primo ministro israeliano, soggetto com’è a un mandato di cattura internazionale, perché fortemente indiziato di crimini di guerra. Ci sarà re Carlo d’inghilterra mentre non sono invitati i russi. Parleranno solo gli ultimi sopravvissuti perché la politica mondiale oggi non è in grado di ritrovarsi unita neppure nella promessa infranta troppe volte del “Mai più Auschwitz”.
Inutile girarci intorno. L’insistenza con cui molte persone (che si offenderebbero a essere tacciate di antisemitismo) pretendono, in particolare da noi ebrei e ancor più dai sopravvissuti alla Shoah, l’uso della parola “genocidio” riferita a Israele, quasi che fosse lo strumento con cui misurare la sincerità o meno dell’indignazione nostra nei confronti dei crimini di guerra perpetrati in risposta al 7 ottobre, segnala il punto di non ritorno a cui siamo arrivati.
Orribile a dirsi, ma sembrerebbe che gli ebrei abbiano esaurito il credito loro concesso a suo tempo in quanto popolo vittima della Shoah. Basta, credito esaurito. Con sollievo autoassolutorio di chi manteneva il vecchio sospetto che gli ebrei fossero dei privilegiati. Una svolta che elettrizza perfino gli ammiratori della brutalità d’israele interpretata come se fosse una virtù connaturata agli ebrei da assumere come modello. Naturalmente l’esaurirsi del credito concesso alle vittime della Shoah si porta dietro la seconda domanda scomoda sempre più in voga man mano che il conflitto si estendeva e inferociva: un mondo senza Israele non sarebbe forse un mondo migliore? Interrogativo mendace ma insidioso che non riguarda solo il futuro di sette milioni di ebrei nati laggiù, ma la possibilità stessa che prosperino in pace società multietniche e multiculturali.
Mi sono sentito dire di recente da persona bene addentro nell’establis h m en t di Netanyahu: “Con questa g u e r r a Israele si è messo al sicuro. Decapitato Hamas, in malaparata gli Hezbollah, l’iran costretto sulla difensiva, caduto il regime siriano di Assad, uomini affidabili al vertice dello Stato libanese... i palestinesi continueremo a tenerli a bada e Trump ci coprirà le spalle. I problemi ce li avrete voialtri ebrei della diaspora perché ricadrà sulle vostre spalle l’odio sempre più diffuso per Israele e la nuova ondata di antisemitismo che ne deriva”.
In apparenza sembra un ragionamento cinico di realpolitik che non fa una grinza. Affaracci vostri, ebrei che vi ostinate a non capire che in futuro solo in Israele potrete star sicuri. La pensa così chi è convinto che – tregua o non tregua – questa guerra debba continuare perché fa parte di una guerra mondiale più grande. E insiste nell’illusione che bastino i rapporti di forza militari e tecnologici per garantirsi la sicurezza. Come se il 7 ottobre non gli avesse insegnato nulla. E come se bastasse una scrollata di spalle per levarsi di dosso il discredito caduto su Israele.
Se questo è il clima, ben si capisce perché il Giorno della Memoria (istituito in Italia su proposta del nostro caro Furio Colombo) accumuli un gran numero di detrattori: da chi lo liquida come inutile esercizio di retorica, ignorando l’ottimo lavoro preparatorio che tante scuole gli dedicano; a quelli che non ne possono più di “rendere omaggio” agli ebrei per riceverne in cambio nuove accuse; a non pochi esponenti delle stesse Comunità ebraiche che ormai lo vivono come un boomerang, pretenderebbero che la celebrazione venisse depurata da qualsivoglia riferimento all’attualità di Gaza e Cisgiordania o meglio ancora che venisse polemicamente abolita.
Dopo avere riletto i due testi fondamentali del principale testimone della Shoah in Italia (e non solo), cioè Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati di Primo Levi, mi sono convinto del contrario. Non solo il Giorno della Memoria va celebrato, ma deve servire proprio ad affrontare le domande più scomode che per tutta la sua vita Primo Levi ripropose martellanti nei suoi testi circa la ripetibilità e la comparabilità dell’orrore di cui era stato testimone ad Auschwitz.
Il riconoscimento del sistema concentrazionario nazista come unicum non solo non gli impedì, ma lo spronò a studiare il riproporsi successivo di forme di crudeltà di massa basate su meccanismi analoghi. Levi non adopera mai la parola “genocidio”, neanche riguardo allo sterminio degli ebrei, ma quando deve descrivere “i diligenti esecutori di ordini disumani” ci tiene a precisare che “non erano aguzzini nati, non erano (salvo poche eccezioni) dei mostri: erano uomini qualunque”... “fatti della nostra stessa stoffa”... “non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male”.
Educati male. Nell’appendice a Se questo è un uomo pubblicata nel 1976, paragona i nazisti ai “militari francesi di vent’anni dopo, massacratori in Algeria” e ai “militari americani di trent’anni dopo, massacratori in Vietnam”. Altrove elenca gli “imitatori” dei nazisti “in Unione Sovietica, in Cile, in Argentina, in Cambogia, in Sudafrica”. E potrei continuare. Ignoriamo, certo, se avrebbe inserito in un simile elenco Israele con cui manteneva un rapporto “affettuoso e polemico” fondato su “un nostro appoggio sempre condizionato”.
Di certo, Primo Levi non ha fatto che scriverlo e ripeterlo: “È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire. Può accadere, e dappertutto”. Se poi qualcuno pensasse che Levi escludesse a priori gli ebrei dal novero dei potenziali “educati male”, lui stesso replica: “Non è facile né gradevole scandagliare questo abisso di malvagità, eppure io penso che lo si debba fare, perché ciò che è stato possibile perpetrare ieri potrà essere nuovamente tentato domani, potrà coinvolgere noi stessi o i nostri figli”.
Infatti Il 27 gennaio, Giornata della Memoria, ( ma  non solo   )  è un momento di riflessione collettiva per ricordare le vittime dell’Olocausto e tramandare i valori fondamentali della pace, del rispetto e dell’inclusione. Spiegare questa ricorrenza ai più piccoli non è semplice, ma è essenziale per educarli alla consapevolezza storica e ai principi che ci aiutano a costruire un futuro migliore
La Giornata della Memoria spiegata ai bambini rappresenta un’opportunità per introdurre temi importanti con delicatezza e sensibilità, un compito cruciale che spetta a genitori e insegnanti.
Parlare della Shoah ed olocausto ai più piccoli significa non solo raccontare una pagina oscura della nostra storia, ma anche insegnare il valore della memoria come guida per evitare che errori simili si ripetano. Ecco perché è importante affrontare questo tema e farlo in modo accessibile.
Perché è importante parlarne ai bambini  ?  
Educare alla memoria: un dovere verso le nuove generazioni  La memoria storica non è solo un dovere nei confronti delle vittime della Shoah e dell'olocausto , ma anche uno strumento per educare le nuove generazioni alla consapevolezza e alla responsabilità. Parlare della Shoah ai bambini permette loro di comprendere il valore della giustizia, dell’empatia e del rispetto per il prossimo, pilastri fondamentali per una società inclusiva.

Come raccontare la Shoah e l'olocausto ai bambini allora ?

È fondamentale adattare il linguaggio in base all’età:
  • Per i più piccoli (6-8 anni): si possono introdurre concetti come la giustizia e il rispetto attraverso storie semplici che trasmettono messaggi positivi.
  • Per i bambini più grandi (9-12 anni): si può invece iniziare a fornire un contesto storico, parlando della Shoah in modo comprensibile, ma senza entrare in dettagli  non  troppo  traumatici.

Infatti, raccontare la Shoah ai bambini significa affrontare argomenti difficili con un approccio elementare, utilizzando storie e linguaggi che rispettino la loro sensibilità.

Un libro speciale per spiegare la Shoah ai bambini: un aiuto prezioso per raccontare la memoria con delicatezza

libri possono essere uno strumento particolarmente efficace per affrontare il tema della Shoah con i bambini. Tra i libri sulla Giornata della Memoria per bambini, La giostra si distingue per la sua capacità di trasmettere messaggi importanti in modo delicato e coinvolgente
La storia segue la curiosa amicizia tra Sara, una bambina ebrea, e Teo, il cavallino di una giostra. Un’amicizia ostacolata dall’arrivo della guerra e dall’allontanamento di Sara, prima confinata nel ghetto ebraico e poi portata via in un campo di concentramento. 

 Tra i libri sulla Shoah per bambini, La giostra

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è un esempio di come la narrazione possa avvicinare i più piccoli a una realtà complessa senza spaventarli, ma anzi incoraggiandoli a riflettere. Questo libro, infatti, non solo rende la Shoah comprensibile ai bambini, ma li aiuta anche a sviluppare empatia verso le persone colpite dalle discriminazioni.


Come utilizzare un libro sulla Shoah a scuola o a casa: idee pratiche per leggere e discutere con i bambini

Leggere insieme ai bambini un libro sulla Shoah è un’opportunità per parlare di valori universali, come il rispetto per gli altri e il rifiuto dell’intolleranza. In questo modo, il libro diventa un ponte tra passato e presente, capace di stimolare conversazioni profonde in un ambiente sicuro.

A scuola:

  • Organizza una lettura condivisa in classe di La giostra, seguita da un laboratorio creativo. I bambini potranno disegnare o scrivere un breve pensiero ispirato al libro, e questo li aiuterà a interpretare i messaggi in modo personale.
  • Collega la lettura di La giostra alla Giornata della Memoria. Avvia un momento di riflessione guidata dove gli alunni possano esprimere le loro emozioni e discutere su temi come il rispetto e la diversità. Questo approccio è particolarmente efficace nella scuola primaria, dove è possibile spiegare la Shoah ai bambini attraverso queste attività partecipative.

A casa:

  • I genitori  almeno quelli che  non limitano  a scaricare  \  delegare   agli insegnanti   e    alla  scuola tale  compito  ,  possono leggere con i bimbi La giostra usandolo come spunto di riflessione. Utilizzare un libro sulla Shoah come punto di partenza per dialoghi aperti può essere un’opportunità per trasmettere ai più piccoli i valori promossi dalla Giornata della Memoria.

Parlare di tali  eventi   ai bambini, quindi, è un atto di responsabilità che genitori e insegnanti devono abbracciare con sensibilità e consapevolezza. Spiegare la Giornata della Memoria ai bambini è l’occasione per trasmettere valori fondamentali attraverso strumenti come libri e attività creative.Incoraggiamo tutti a condividere questo articolo e a lasciare un commento con le proprie esperienze su come affrontare questo tema delicato con i più piccoli

 La memoria è il ponte che ci collega a un futuro migliore: camminiamoci insieme.

21.1.25

Gaza, prigionieri “terroristi” e ostaggi “innocenti”: la narrazione che oscura la verità

 

 Bellissimo articolo, questo  di  M Alessandra Filippi per    affaritaliani   , finalmente lontano dalla becera narrazione corrotta dalla propaganda Sionista ed occidentale. Sono rimasto affascinato nel leggerlo, a tratti incredulo. Incredulo che la censura non abbia addomesticato questa voce.



Quando si parla di Palestina, la disinformazione è un’arma potente che perpetua lo status quo. Da decenni, la narrazione del conflitto israelo-palestinese è dominata da una distorsione sistematica della realtà, radicata nel linguaggio e nelle scelte editoriali dei media. L’esempio più recente è avvenuto su Radio3, durante la rassegna stampa di Prima pagina, quando il giornalista incaricato della lettura dei giornali per questa settimana ha presentato la questione dei prigionieri palestinesi attraverso un doppio standard: gli ostaggi israeliani sono "innocenti", mentre i prigionieri palestinesi sono tutti "terroristi".
Prima di ogni cosa, va ricordato che i palestinesi detenuti nelle carceri israeliane non sono tutti necessariamente terroristi e, in molti casi, sono rinchiusi senza un valido motivo. Inoltre, gli accordi per il cessate il fuoco escludono dal rilascio i prigionieri condannati per gravi reati di terrorismo, sebbene contemplino alcuni condannati al carcere a vita. Presentare questa complessa realtà come una semplice dicotomia tra "buoni" e "cattivi" è fuorviante e mistifica i fatti.
Un ascoltatore ha giustamente osservato che il valore della vita non può essere separato dal contesto in cui si svolge la sofferenza. La repressione israeliana verso il popolo palestinese, che lotta da oltre 76 anni per il riconoscimento dei propri diritti e la fine dell’occupazione, si inserisce in un quadro storico, culturale e sociale complesso. Questa visione binaria, che riduce la realtà a un banale scontro tra buoni e cattivi, è un atto di violenza narrativa.
Il termine "terroristi" non rende giustizia alla condizione di molti prigionieri palestinesi. Migliaia di loro sono detenuti in condizioni che violano i diritti umani, spesso privati della libertà senza accuse formali né processo, attraverso il meccanismo della detenzione amministrativa. Questo sistema non solo condanna senza prove e senza processo, ma rende invisibili agli occhi dell’opinione pubblica internazionale uomini, donne e ragazzi, come parte di una strategia di repressione e disumanizzazione. Inoltre, la detenzione amministrativa è uno strumento di controllo utilizzato per reprimere il dissenso politico e mantenere il potere sulle popolazioni indigene senza rispettare il diritto internazionale.
Mentre, per esempio, la liberazione di Romi GonenEmily Damari e Doron Steinbrecher, tutte in buone condizioni di salute, è stata raccontata con tale dovizia di particolari che adesso quasi conosciamo se preferiscono il caffè dolce o amaro, non altrettanto si può dire delle 69 donne palestinesi e 21 minori, provenienti dalla Cisgiordania e da Gerusalemme, rilasciati nelle prime ore di lunedì 20 gennaio. Le loro storie non hanno ricevuto la stessa attenzione: di loro sappiamo ben poco. Sono numeri, senza nome e senza volto, ai quali non viene riconosciuta dignità di identità.
Fra le donne rilasciate c’è una irriconoscibile Khalida Jarrar, la cui salute è tutt’altro che buona. Parlamentare e dirigente del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), è stata arrestata più volte per la sua attività a difesa dei diritti palestinesi. Negli ultimi sei mesi è stata sottoposta a isolamento in una cella di 2 metri per 1,5 e ad altre misure punitive imposte per i prigionieri politici palestinesi dal ministro israeliano per la Sicurezza, Itamar Ben-Gvir, come misura ritorsiva dopo l’attacco del 7 ottobre. Arrestata nel dicembre 2023 con l'accusa di "sostegno al terrorismo", è stata trattenuta in detenzione amministrativa senza processo.
Un'altra è la giornalista di Watan NewsRula Hassanein, arrestata dalle forze israeliane il 19 marzo 2024 – nel corso di un raid notturno durante il quale sono stati effettuati arresti di massa -, con l’accusa di incitamento alla violenza sui social per post che, a quanto si dice, manifestavano la sua frustrazione per la sofferenza dei palestinesi a Gaza. Il video in cui Hassanein, con le lacrime agli occhi, riabbraccia la figlia che era stata costretta a lasciare quando aveva solo 8 mesi, non risulta sia stato diffuso dai media mainstream.
Abdelaziz Atawneh, un ragazzo di 19 anni, arrestato il 21 ottobre 2023, ai giornalisti ha detto: "Ho lasciato l'inferno e ora sono in paradiso. Siamo tutti fuori dall'inferno. Ci violentavano, ci picchiavano, ci lanciavano gas lacrimogeni". Il più giovane fra gli scarcerati, Mahmoud Aliwat, ha 15 anni.
Secondo la Commissione palestinese per gli affari dei detenuti e degli ex detenuti e la Società dei prigionieri palestinesi, sono 10.400 i palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane, escludendo quelli arrestati a Gaza negli ultimi 15 mesi di guerra, di molti dei quali si sono perse le tracce. Tra questi, il caso emblematico è quello del dottor Hussam Abu Safiya, primario di pediatria e direttore del Kamal Adwan Hospital di Beit Lahiya, arrestato dall’esercito israeliano il 27 dicembre 2024 insieme ad altro personale medico e alcuni pazienti, durante l’attacco che ha distrutto l’ultima struttura ospedaliera parzialmente funzionante nel nord della Striscia. La foto che lo ritrae, solo, col camice bianco, mentre avanza su una montagna di macerie verso i carri armati israeliani, ha fatto il giro del mondo.
Da allora, sono state lanciate decine di petizioni per chiederne il rilascio, compresa una di Amnesty International, ma di lui non si sa più nulla. "Arrestandolo arbitrariamente, rifiutando di rivelare dove si trovi e di concedergli l’accesso a un avvocato, le forze israeliane hanno commesso gravi violazioni del diritto internazionale, compreso il reato di sparizione forzata", ha scritto Amnesty Italia in un post su Instagram, cinque giorni fa.
Il problema non è solo il trattamento differenziato fra "prigionieri" e "ostaggi", ma la complicità dei media nel perpetuare una narrativa distorta. Non si tratta di semplici errori, ma di una negligenza grave che alimenta la retorica della "legittima difesa" israeliana, ignorando la violenza sistematica inflitta a milioni di palestinesi sotto occupazione. Le accuse contro molti prigionieri includono il lancio di pietre o la partecipazione a manifestazioni politiche. In che misura queste attività possono essere definite terrorismo?

Il doppio standard non è solo nelle parole, ma permea immagini, retorica e discorsi pubblici. La narrativa israeliana viene adottata acriticamente anche quando distorce concetti fondamentali. Si ripete, per esempio, che "Israele ha il diritto di esistere", e chi lo contesta? Israele esiste dal 14 maggio 1948, è riconosciuto a livello internazionale. Il punto cruciale è un altro: è la Palestina ad avere il diritto di esistere, e il suo popolo ad autodeterminarsi.
L’incapacità di una fetta considerevole dei media, e dei politici, di analizzare il contesto fa sorgere il dubbio si tratti di una strategia mirata a sostenere l’occupazione e delegittimare la lotta palestinese. Ogni narrazione che equipara oppressori e vittime contribuisce al caos e camuffa la verità. Ma la verità, per quanto scomoda, è l’unica strada verso una giustizia reale, un dialogo costruttivo e una pace duratura. Come diceva Nelson Mandela nel 1977, "Sappiamo troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza quella dei Palestinesi".

il giorno dellla ( settimana ) della memoria regalateci il silenzio e non strumentalizzate la shoah e l'olocausto mettendo sullo stesso piano antisionismo e antisemitismo

 Approssimandosi la rituale scadenza del 27 gennaio, noi come la redazione del sito InOltre ci domandiamo in quale contesto si possa svolgere quest'anno il Giorno della Memoria dopo il 7 ottobre e la disumana reazione israeliana che a creato un aumento dell'antisemtismo



e  nel  considerare      tutto il popolo israeliano    come  Benjamin Netanyahu e i coloni 

Infatti   Da Auschwitz a Milano: la Giornata della Memoria più difficile. Si temono strumentalizzazioni
Per gli 80 anni della liberazione del campo di sterminio non ci sarà nessun intervento "politico". Anche la comunità ebraica italiana s'interroga su come ricordare l'Olocausto. Pesano i bombardamenti a Gaza e le guerre in corso

La Giornata della Memoria del 2025 sarà una delle più importanti degli ultimi anni, ma anche una delle più difficili da affrontare, specialmente per il popolo ebraico. Importante perché il 27 gennaio prossimo sarà l’anniversario  degli 80 anni della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz probabilmente l’ultimo a cifra tonda con la partecipazione dei sopravvissuti. Difficile perché il contesto in cui viviamo, segnato dall’indignazione per le decine di migliaia di morti a Gaza per mano dell’esercito israeliano e dal conseguente e crescente clima di discriminazione e antisemitismo, spinge a interrogarsi su come commemorare la Shoah riconoscendone la specificità senza sminuire tutte le altre sofferenze e tragedie del nostro tempo, questione palestinese compresa.
Le criticità del presente hanno spinto la stessa Ucei (Unione delle comunità ebraiche in Italia) a domandarsi se fosse opportuno continuare a prendere parte alle commemorazioni pubbliche, rischiando così trovarsi a condividere lo spazio con altri soggetti che potrebbero cercare di strumentalizzarlo, o se non fosse meglio lasciare il campo e limitarsi a una commemorazione più intima nei giorni che ricordano le violenze contro ciascuna comunità e nel Yom HaShoah, il “Giorno di ricordo dell’Olocausto” che si celebra in Israele il ventisettesimo giorno del mese di Nisan (nel 2025 cadrà il 24 aprile). Un dibattito interno che è sintomo delle difficoltà che sta vivendo la comunità ebraica in Italia e la cui posizione finale “è che bisogna esserci”, come ha sottolineato in un incontro con la stampa la presidente dell’Ucei Noemi Di Segni. “La sfida è capire il come”.
La prossima, infatti, sarà già la seconda Giornata della Memoria dal 7 ottobre 2023, ma l’esaurimento dell’onda lunga della solidarietà rispetto all’attentato subito e l’imponenza della distruzione perpetrata dall’Idf a Gaza rendono più delicata la scelta delle parole e il posizionamento nello spazio pubblico del ricordo di quello che è avvenuto durante la Seconda guerra mondiale. “Dobbiamo spiegare l’unicità della Shoah, è fondamentale che questo messaggio sia sottolineato”, ha aggiunto Di Segni. “Non è per sottovalutare i massacri e gli stermini di altri popoli”, anzi “per rispetto tragedie degli altri bisogna dedicare loro altri spazi e non mischiare le cose”.
La facilità con cui, in relativamente poco tempo dal 7 ottobre, la coscienza di ciò che è stato lo sterminio degli ebrei impone, secondo il rav Roberto Della Rocca, già direttore del Dipartimento educazione e cultura dell’Ucei, un cambio di approccio. “La pure e semplice commozione non ha saputo sensibilizzare l’altro, non abbiamo saputo mettere la Shoah in un contesto presente”. Il risultato è o “un gelatinoso conformismo”, un’“omologazione banalizzante delle memorie” per cui si finisce per essere tutti vittime, “il che significa che nessuno è vittima”. Oppure è la strumentalizzazione della memoria per colpire Israele accusandolo a sua volta di genocidio. “Ci troviamo in una situazione imbarazzantissima. Non possiamo condividere il ricordo della Shoah con chi non condanna attacchi a popolo ebraico”, ha concluso Della Rocca.
A testimonianza delle difficoltà che ruotano oggi attorno alla Giornata della Memoria, il direttore del Museo di Auschwitz ha annunciato che nel corso della commemorazione ufficiale non ci saranno interventi di politici. Ufficialmente, la decisione è dovuta alla volontà di dare spazio alla memoria dei sopravvissuti, per questioni anagrafiche sempre meno (in Italia sono solo cinque). Tuttavia, è facile pensare che abbia avuto un peso non indifferente la volontà di non prestare il fianco ad  eventuali strumentalizzazioni di sorta, in un senso e nell’altro, e alle conseguenti critiche che ci sono state, pur per altri motivi, già in passato.

20.1.25

Cosa rischia il 15enne che dal pc di casa ha deviato le rotte delle navi e ha cambiato i suoi voti scolastici



confermo quello che dicevo precedentemente dobbiamo creare con la scuola un uso   consapevole di internet e del web







Un ragazzo di 15 anni di Cesena è riuscito dal pc della sua cameretta a deviare le rotte di alcune navi nel Mediterraneo, soprattutto petroliere. Non solo: è riuscito a entrare nel registro elettronico della sua scuola e ad alzarsi i voti da 5 a 6. Un giovane hacker che ora è finito nei guai. A scoprirlo e a denunciarlo per una serie di reati informatici è stata la polizia postale. Ma quanto rischia ora questo ragazzino? A Fanpage.it lo ha spiegato Paolo Di Fresco, avvocato penalista del Foro di Milano  ( foto  a  sinistra  )  .
Avvocato di che tipo di reati parliamo? Cosa rischia il minorenne? Di primo acchito, direi che il ragazzo ha commesso il reato di accesso abusivo a sistema informatico, che è punito con la reclusione da tre a dieci anni quando l’intrusione abusiva abbia ad oggetto un sistema informatico o telematico di interesse
pubblico come, in questo caso, è quello scolastico. E anche il reato di falso in atto pubblico, dal momento che ha modificato il registro elettronico che è a tutti gli effetti un documento ufficiale. In base ai principi generali in materia di imputabilità, la pena è però diminuita di un terzo quanto il fatto sia commesso da chi ha compiuto i quattordici anni ma non ancora i diciotto. Il giovane hacker sarà giudicato dal Tribunale per i minorenni il cui obiettivo, però, non è quello di punire il minore ma, nei limiti del possibile, favorirne una piena rieducazione. Di solito, il processo viene sospeso per consentire la messa alla prova del ragazzo, cioè la sua partecipazione a un programma di risocializzazione sotto il controllo dei servizi sociali. Dal punto di vista scolastico invece cosa rischia? Con ogni probabilità, il ragazzo sarà raggiunto da una sanzione disciplinare. Considerata la gravità dei fatti, il Consiglio d’istituto potrebbe disporne l’allontanamento dalla comunità scolastica per un certo numero di giorni e, d’intesa con i genitori, prevedere lo svolgimento di lavori socialmente utili. Aver deviato le rotte delle navi nel Mediterraneo può essere ritenuto anche un procurato allarme? No, il reato di procurato allarme si configura quando annunciando disastri, infortuni o pericoli inesistenti sia suscitato allarme presso l’Autorità o, in generale, presso enti o persone che esercitano un pubblico servizio. Non mi sembra questo il caso. Piuttosto, si potrebbe forse ipotizzare il reato di attento alla sicurezza dei trasporti previsto dall’art. 432 c.p. Il ministero dell’Istruzione e del Merito ha precisato che il 15enne è riuscito ad accedere solo al registro elettronico e non ai sistemi informativi: questo a livello giuridico cambia qualcosa? No, non cambia granché dal punto di vista penale. La precisazione del Ministero è, comunque, rassicurante: ci sarebbe davvero da preoccuparsi se un ragazzino, per quanto abile, riuscisse a violare facilmente un sistema informatico del governo. I genitori cosa rischiano?
Nulla. Pare sia stato già accertato che erano all’oscuro di tutto. Qualche anno fa, però, in una vicenda analoga a questa, i genitori furono inizialmente indagati per concorso nei reati di accesso abusivo a sistema informatico e falso perché titolari delle utenze telefoniche usate dai figli per connettersi al server scolastico e modificare i voti sul registro. Sul piano civile, invece, potrebbero rispondere dei danni cagionati dal fatto illecito commesso dal figlio a meno che non provino di non avere potuto impedire il fatto.

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