Tyra
Grant è ritenuta molto promettente, si è allenata nella stessa
accademia di Jannik Sinner e parteciperà agli Internazionali di Roma
Tyra Caterina Grant al Roland Garros, Parigi, 3 giugno 2024 (Photo by Daniel Kopatsch/Getty Images)
La
tennista italoamericana di 17 anni Tyra Caterina Grant ha scelto di
giocare per l’Italia e non più per gli Stati Uniti, come aveva fatto
finora. Già da qualche settimana si sapeva della sua intenzione di fare questo passaggio, ma giovedì la federazione tennistica degli Stati Uniti lo ha confermato al giornale sportivo The Athletic.
Grant era ambita da entrambe le federazioni perché è ritenuta una delle
tenniste più promettenti della sua generazione e ha ottenuto ottimi
risultati a livello juniores: finora però ha giocato poche partite nei
tornei professionistici, e quindi è ancora difficile farsi un’idea del
suo reale potenziale. Grant giocherà per l’Italia per la prima volta durante gli
Internazionali di Roma, il più importante torneo italiano, che comincia
la prossima settimana: gli organizzatori le hanno dato una wild card
per il torneo di singolare, una sorta di invito speciale che permette
di entrare in tabellone anche se non si ha la posizione in classifica
per farlo e senza passare dalle qualificazioni. In questi giorni invece
Grant sta giocando le qualificazioni per accedere al torneo di doppio,
in coppia con Lisa Pigato. Gli Internazionali sono un torneo della
categoria WTA 1000, la seconda per importanza dopo i quattro tornei del Grande Slam. Tyra Grant è nata a Roma nel 2008 e ha la doppia cittadinanza
statunitense e italiana. È infatti figlia dell’ex cestista statunitense
Tyrone Grant, che ha giocato per diversi anni in Italia, e di Cinzia Giovinco,
che è stata anche la sua prima allenatrice. Dal 2016 al 2023 Grant si è
allenata al Piatti Tennis Center di Bordighera, cioè la scuola dove si è
allenato per anni Jannik Sinner, il tennista italiano che da quasi un
anno è al primo posto della classifica maschile dei migliori tennisti al
mondo.Nel 2023 Grant si era poi trasferita in Florida, negli Stati Uniti,
dove si è fatta notare sempre di più da chi segue il tennis giovanile.
Rappresentando gli Stati Uniti, negli ultimi due anni Grant ha vinto in
doppio tre titoli Slam Juniores (la categoria giovanile dei tornei più
importanti del tennis).
Tyra Grant ai campionati di Wimbledon, 8 giugno 2024 (Photo by Daniel Kopatsch/Getty Images)
Grant ha esordito tra le professioniste durante le qualificazioni
degli US Open 2024, uno dei quattro tornei del Grande Slam, dove è stata
eliminata in semifinale del torneo di doppio misto. Nel 2025 ha poi
giocato i tornei di singolare di Miami e Madrid, entrambi della
categoria WTA 1000: a Miami è stata eliminata al primo turno, mentre a
Madrid ha ottenuto una vittoria notevole contro l’esperta giocatrice
tedesca Tatjana Maria, che è da molti anni nel circuito (ha 37 anni) e
attualmente è all’80esimo posto della classifica mondiale.Al momento Grant è 364esima nella classifica mondiale, ma è un numero
che in questo momento vale poco, come per tutte le tenniste e i
tennisti molto giovani e molto promettenti. Per salire rapidamente in
classifica dovrà cercare di sfruttare le occasioni in cui riceve wild card nei tornei importanti, le sta capitando di recente, e cominciare ad avere con continuità buoni risultati nei tornei minori.The Athletic ha fatto notare che la scelta di
giocare per l’Italia per Grant potrebbe anche essere conveniente da un
punto di vista pratico: molti atleti con doppia cittadinanza scelgono
spesso di non rappresentare gli Stati Uniti, dove la competizione è
molto più alta, c’è più concorrenza per ricevere il sostegno economico
della federazione e ci sono meno possibilità di ottenere ricche
sponsorizzazioni.Nel femminile l’Italia al momento ha una sola tennista d’élite,
Jasmine Paolini, la numero 6 del ranking mondiale: ci sono certamente
più possibilità di ottenere sostegno dalla federazione, wild card
in molti tornei e di farsi notare. Sono comunque tutte ipotesi e
speculazioni: Grant per ora non ha parlato pubblicamente della sua
scelta.
....
repubblica 3\5\2025
Il ping pong di Danilo fenomeno a 14 anni “Vorrei essere Sinner” Nato a Parigi, parla quattro lingue e ora guida la classifica italiana “Niente playstation e cellulare, lasciatemi solo giocare e divertire”
Danilo Faso da qualche giorno
è il numero uno nel ranking
italiano del tennistavolo. Ha
solo 14 anni. Il Sinner del ping
pong, dice chi non frena l’entusiasmo.
Raccontano che la sua qualità
migliore, il tempismo, sia una
storia speciale: legata al suono ipnotico
della pallina che rimbalza.
Tic-toc, tic-toc. Lo ascoltava già
quando era nella pancia della
mamma, la campionessa ucraina
Yulyia Markova, che ha continuato
a giocare e vincere sino al quinto
mese di gravidanza. Anche il padre
di Danilo — Marco, palermitano
— è stato un pongista di buon livello.
Il ragazzo è nato a Parigi, si allena
tra Germania, Ungheria e il
centro federale di Terni, dove vive
con la famiglia (la sorellina Milena,
9 anni, gioca anche lei), è la stella
di un piccolo, orgoglioso club marchigiano:
la Virtus Servigliano.
«Vorrei avere la freddezza di Jannik
nei momenti importanti», dice
di sé. «Ma soprattutto, spero di
viaggiare per il mondo e divertirmi,
come fa lui. Insomma: giocare.
Fino a quando sarò vecchio».
Prima medaglia con la maglia azzurra
(argento) ai Mondiali di categoria
in quasi un secolo di tennistavolo
italiano, prossimo protagonista
agli Europei U21 e poi a quelli
U15, nel nostro campionato affronta
— e supera — avversari che mediamente
hanno il doppio della
sua età. Un piccolo genio sportivo
che, come dice papà, «forse non
potrà essere avvocato, medico o
giornalista: ma parla già quattro
lingue, non ha mai preso in mano
una playstation e usa il telefonino
solo per dirci che sta tornando a casa
». Italiano, italianissimo: tifoso
senza filtri del Palermo. I genitori
si erano trasferiti a Parigi perché il
padre, laureato in lingue, lavorava
a Disneyland. E nel frattempo giocava,
insegnava insieme alla madre.
Che a 19 anni (figlia di un ucraino
e una russa) aveva lasciato la
Crimea per la Sicilia, ingaggiata da
una società di A1 del capoluogo: è
lì che ha conosciuto Marco, tra i migliori
cento atleti italiani. Da Parigi
a Montpellier, poi Nizza. «Papà aveva
nostalgia del sole, si sono spostati
a sud». Altre palestre, stessi tavoli.
Tic-toc, tic-toc. Marco, Yuliya
e Danilo. Che racconta: «Ho cominciato
a camminare, subito ho preso
una racchetta in mano». Chissà
come faceva ad arrivare al tavolo.
«Seguivo le lezioni dei miei genitori,
mi allenavo con i loro allievi dei
diversi turni: dal mattino alla sera.
Mi è sempre sembrato tutto molto
naturale, facile». A 4 anni, il primo
torneo. Vinto. Sì, ma la scuola? «Come
gli altri bambini, quando siamo
tornati in Italia». Durante il Covid
era in quinta elementare. «Tutto
molto strano: un anno chiuso in
casa con la famiglia. Mi sono riposato.
Per fortuna avevamo un tavolo
da gioco, e con la mamma ci siamo
divertiti un po’». Chi è più forte
tra lei e papà? «Uguale. Con mio
padre vado in giro almeno 6 mesi
l’anno». Così però si perde tutta l’adolescenza.
«Ma no: ho fatto l’esame
di terza media, sono iscritto a
un istituto tecnico per il turismo.
Tre ore di studio (e almeno 4 di allenamento)
al giorno. Parlo il francese,
l’inglese, capisco l’ucraino. Ho
buoni amici, tra i giocatori più giovani:
Francesco, che frequenta
con me il centro tecnico di Terni,
poi un colombiano, un giapponese,
un turco. Niente fidanzata». Arrossisce.
Niente playstation. «E il
cellulare, solo per dire che va tutto
bene». Il calcio? «L’altra mia passione.
Tifo Palermo. Spero di andare
a vedere un partita allo stadio».
Danilo gioca e batte gli adulti.
«Hanno esperienza. So di non avere
nulla da perdere. E gli mette
pressione, affrontare un ragazzino
». La vittoria più bella? «Gli Europei
U13. E l’esordio in campionato
con Vladislav Ursu, un moldavo
fortissimo». Giura di non pensare
alle Olimpiadi del 2028. «Preferisco
concentrarmi sul presente. Il
vero obiettivo è la Top 10 mondiale:
non so quanto tempo ci vorrà,
ma voglio farcela. Gli asiatici sono
i migliori, però preferisco la fantasia
di alcuni europei». Il suo punto
forte è la capacità di entrare subito
in partita. «Devo migliorare sul
servizio». Come Sinner. «Vorrei
avere la sua freddezza nei momenti
più difficili». La cosa più bella?
«Quando finalmente torno a casa,
e mamma mi prepara la pasta al ragù
». [.... ]
Per Massimo Costantini, exgiocatore numero 39 del mondo, che da ct ha guidato tre diverse nazionali olimpiche (nel 2004 Italia, nel 2016 Usa, nel 2024 India dove è attualmente head coach e foreign expert), il successo di Faso è merito di una famiglia che gli sta molto dietro. « Suo padre mi portò
Danilo quando aveva 10 anni,voleva avere un parere, è un ragazzo che ha molto talento. E
credo che l’impostazione avuta a Montpellier sia stata determinante, ho parlato anche con il papà dei Lebrun,Stephan, che in passato ho incrociato da giocatore. Lì non ti obbligano a schemi, ti insegnano che quello che senti in quel momento è la soluzione migliore, questo porta freschezza e imprevedibilità
nel gioco, e non stanca i giovani. È presto ancora per dire se Danilo farà strada, ma le premesse ci sono».
La Cina che domina la disciplina non è più vicina, ma a14 anni e 8 mesi non sembra nemmeno così lontana.
IL messaggio di di Gino Cecchettin per cancellare i testi sessisti dai brani dell' «Aperyshow 2025», uno dei più grandi charity festival d’Italia non è solo stato recapitato, ma compreso, assorbito, elaborato da molti degli artisti in scena. Via le parole offensive e di sopraffazione dalle canzoni, scalette modificate: i testi cedono il passo, è più importante condividere una nuova sensibilità, anche se sarà solo per una sera. La lettera di Gino Cecchettin contro la violenza di genere ha fatto breccia nei rapper e trapper, i cui pezzi sono solitamente pieni di riferimenti sessisti e violenti. Certo non bisogna criminalizzare anche se al 98% è spazzatura tutto un genere musicale perchè in mezzo alla 💩 ci sono delle perle perchè « Il vero pericolo è l'impreparazione di chi ascolta e non sa dividere realtà e finzione [...] »( il dj Tommy Vee al quotidiano il corrieredelveneto.corriere.it del 1 maggio 2025 ) e come ha detto Enrico morozzi Il celebre direttore d’orchestra e artista al concertone di Roma
in particolare « [... ] Quando sento queste cose sragiono, perché mi sembra di ridurre al nulla delle discussioni che invece meriterebbero un’analisi molto più approfondita. È molto banale e pericoloso attaccare rapper e trapper [.... ] ». Ma visto il fenomeno che ormai è come i femminicidi emergenza sociale , l'appello di Giulio cecchetin , può essere considerato il puntoi di partenza per una soluzione ad ampio ragio che richiede intervento di tutti artisti compresi e olitiche sociali educative non propaganda e repressione o peggio cose fatte a metà e fatte tanto per fare per far vedere all'opinione pubblica che stai facendo qualcosa per tale problema , o inutili
come l'introduzione dell'educazione sessuale nelle scuole proposta da valditara
Il caregiver familiare è la persona - più spesso la madre, in altri casi il padre, uno dei fratelli o un figlio - che si prende cura gratuitamente a tempo pieno di una persona malata o con disabilità grave, in molti casi decidendo anche per lei. Da anni si discute di una legge che preveda alcune tutele per questa figura senza che però si sia arrivati a un risultato.
La prima definizione di caregiver risale alla legge di bilancio del 2018, e dopo che nella scorsa
legislatura un tentativo di iniziativa legislativa non è andato a buon fine, in quella attuale sono state depositate alla Camera diverse proposte di legge sia di maggioranza sia dell’opposizione. I ministeri della Disabilità e quello del Lavoro dopo aver riunito un tavolo tecnico e audito una serie di esperti nel corso del 2024, nel febbraio di quest’anno hanno illustrato al Consiglio dei ministri e in commissione Affari sociali della Camera le linee guida per un disegno di legge appunto di iniziativa governativa. I nodi da sciogliere, però, sono ancora diversi. A cominciare dal requisito o meno della convivenza, la disciplina delle tutele e dei sostegni da prevedere, la loro graduazione in ragione del grado di impegno, le misure per la conciliazione tra lavoro e assistenza.
«Eravamo lì ad ascoltare i lavori della commissione Affari sociali della Camera, dopo l’audizione della ministra per le Disabilità Alessandra Locatelli, e intanto ci scorrevano nella mente gli impegni della giornata, delle nostre vite di caregiver familiari di figli con una disabilità intellettivo relazionale e del neuro sviluppo. Ripensavamo alle cure quotidiane e alle battaglie per ottenere servizi adeguati, al rapporto con i sanitari e con il mondo della scuola, alle lotte contro i muri della burocrazia e quelli dei pregiudizi delle persone. Avvertivamo sulle nostre spalle la fatica quotidiana, la solitudine, le rinunce, il lavoro abbandonato, la dipendenza economica e il peso della responsabilità di operare – ogni giorno – le scelte sulla vita dei nostri figli, che non saranno mai autonomi. Ecco, mentre ci scorrevano nella mente queste immagini, ascoltavamo discorsi che non avevano corrispondenza con tutti i nostri pensieri. Eppure, si discuteva di una legge proprio per i caregiver familiari, per noi».
Sofia Donato, Erika Coppelli e Cristina Finazzi sono tre caregiver familiari, madri di ragazzi con disabilità intellettiva, e rappresentanti rispettivamente del gruppo nazionale “Caregiver familiari comma 255”, il “Tortellante”, “Comitato uniti per l’autismo”. Sono anche tre dei quattro esperti nominati dalla ministra per le Disabilità al “Tavolo tecnico per l’analisi e la definizione di elementi utili per una legge statale sui caregiver familiari”. E ora sono, diciamo così, un po’ stufe di sentire chiacchiere e di constatare come il dibattito rischi di deragliare prima ancora di arrivare a una prima stazione: mettere a punto un testo di legge base da discutere in Parlamento, dopo anni di tentativi andati a vuoto (vedi box sotto). Perché si confondono i soggetti e i piani di intervento. Perché si rischia di finire a regolamentare l’amore per un figlio anziché riconoscere un ruolo sociale specifico, di fissare dei diritti-doveri nei rapporti interfamiliari anziché tutelare e dare opportunità alle persone. Per tutto ciò, adesso, queste tre donne hanno deciso di prendere posizione pubblicamente.
L’entusiasmo iniziale per la convocazione al tavolo e il lavoro di analisi svolto durante il 2024, infatti, ha lasciato presto spazio alla frustrazione. «Anzitutto – spiegano - per la mancanza di un equilibrio numerico tra le rappresentanze dei caregiver familiari e quelle delle persone con disabilità e di coloro che fanno della rappresentanza una professione, non vivono in prima persona il ruolo di caregiver». Di qui alcune differenze di vedute e soprattutto la difficoltà nel far comprendere la specificità del ruolo del caregiver familiare convivente rispetto al bisogno assistenziale della persona con disabilità. Spesso, infatti, «chi è abituato a difendere i diritti delle persone con disabilità non riesce a considerare il caregiver familiare nella sua individualità e nell’importanza del ruolo sociale che si assume». Il familiare convivente che si prende cura di un figlio o un fratello con disabilità intellettivo relazionale e del neuro sviluppo, infatti, si trova spesso nella condizione di aver dovuto ridurre drasticamente o abbandonare del tutto l’attività lavorativa per la necessità di una presenza continua a fianco del proprio caro, con la conseguenza di una dipendenza economica non desiderata e di fatto la negazione di una vita adulta “autonoma”. «Perché nessuno sceglie di assumere questo ruolo, ti ci trovi catapultata – racconta Sofia Donato -. E spesso fin dal primo momento è necessario assumersi la responsabilità non solo delle cure quotidiane, ma di costruire e sostenere la vita della persona con disabilità. Con tutto il carico di complessità, stanchezza, solitudine quotidiana che questo comporta. Pensi che dovrai occuparti della vita di tuo figlio per 20, 30, 50 anni o fino alla fine. Combatti ogni giorno e in quello stesso giorno pensi a quando tu non ci sarai più, hai paura per il futuro di tuo figlio. Eppure non cedi, non puoi cedere, devi affrontare ogni imprevisto e sostenere una vita sotto continuo “ricatto affettivo”, con la consapevolezza che dalla tua lucidità di caregiver – che si aggiunge a tutti gli altri ruoli che ognuno ricopre nella propria vita - dipende la gestione quotidiana di un figlio e di fatto dell’intera famiglia». Un compito eccezionalmente gravoso nel caso dei nuclei monogenitoriali o monoparentali.
Anche per questo nella legge che si vorrebbe portare finalmente all’esame del Parlamento per le tre esperte è fondamentale che «il riconoscimento del caregiver familiare convivente non venga confuso con i bisogni della persona con disabilità. Così come l’assistenza fisica o infermieristica dovrebbe essere erogata attraverso i servizi preposti, la legge non dovrebbe monetizzare la solidarietà familiare né delegare, o meglio scaricare sul caregiver le carenze dei servizi pubblici».
Sofia Donato, Erika Coppelli e Cristina Finazzi si battono da anni per un cambio di paradigma culturale che riconosca il loro ruolo sociale svolto dai caregiver familiari conviventi e la loro titolarità di diritti soggettivi propri. «Non chiedo assistenza in più per mio figlio come forma di sollievo per me, né voglio che, come già accade in diverse Regioni, il familiare sia costretto a firmare il Pai (Progetto Assistenziale Individualizzato) della persona con disabilità assumendosi specifici compiti quotidiani, affinché vengano riconosciuti i diritti basilari a chi sconta delle disabilità – spiega ancora Sofia Donato -. No, vorrei invece che si riconoscesse che la disabilità intellettivo relazionale e del neuro sviluppo non è un problema solo mio, ma una questione sociale di tutta la comunità. Al di là dell’amore per un figlio o un fratello, che non si regola certo per legge o con un contratto. E quindi riconoscere il ruolo che noi caregiver familiari svolgiamo nella società accanto a persone che si trovano in una condizione di vita irreversibile».
Di qui due richieste sostanziali: la prima quella di avere un riconoscimento economico appunto per il ruolo svolto, individuando bene la platea dei beneficiari, con particolare attenzione a chi è comunque impossibilitato a lavorare. La seconda un affiancamento formativo e un collocamento mirato che possa favorire un’attività esterna alla famiglia, per avere l’opportunità di lavorare e godere di una maggiore indipendenza economica. «Altre previsioni, come i prepensionamenti per chi da adulto si trova a dover accudire genitori con forte decadimento cognitivo o gravi patologie, oppure la previsione di contributi figurativi e il sostegno psicologico possono essere utili ma vengono dopo, non sono la priorità», conclude Sofia Donato.
Complessivamente, in Italia, sono 7 milioni le persone che si prendono cura di un familiare, con differenti gradi di impegno in termini di tempo e risorse personali. Occorre individuare bene le diverse platee e mirare adeguatamente interventi e tutele, compito tutt’altro che facile. Ma una cosa è certa: non si può più ignorare il ruolo che i caregiver familiari svolgono e le scelte nei loro riguardi si sono fatte urgenti.
[.... ] Crescendo, volevo essere una modella e un presentatore televisivo, ma quando ho compiuto 12 anni, ho realizzato le mie prime patch o macchie, la vitiligine. Inizialmente, la mia famiglia e io pensavamo che fossero solo segni di nascita fino a quando le nostre visite in diversi ospedali dentro e fuori dal Ghana non hanno prodotto risultati. Infine, abbiamo dolorosamente concluso che avevo la condizione chiamata VITILIGO
La mia vitiligine continuava a diffondersi e fu allora che decisi di diventare infermiera, perché mi resi conto che essere nel settore sanitario mi avrebbe dato l’opportunità di conoscere meglio la condizione della pelle. A quel tempo, lo stigma legato alla vitiligine era terrificante. Direi che era parte delle ragioni per cui ho deciso inizialmente di non diventare un modello e presentatore televisivo.
L’esperienza infantile è stata per me momenti pessimi e tristi. La maggior parte delle persone ha attribuito la mia condizione di pelle a una maledizione. Non avevo amici durante la mia istruzione di base. Fu durante il liceo che incontrai una signora meravigliosa; siamo diventati amici e sorelle fino ad oggi. È diventata una vera definizione di amicizia. Siamo sempre stati visti insieme. Era praticamente la mia forza. [... ] da : << La mia vita con la vitiligine: un'infermiera di 23 anni racconta la sua storia >> di https://www.modernghana.com/ da cui ho tratto la foto sopra a sinistra
Rotolando verso sud -Negrita
Ieri sul palco del Concertone del Primo maggio i Patagarri gruppo semisconosciuto a chi non segue X factor e simili , ci hanno regalato il momento artisticamente più coraggioso e politicamente più forte.Rivolgendosi al pubblico, Francesco Parazzoli, frontman e trombettista della band, ha pronunciato queste parole importanti: “Pensiamo che, finché ogni popolo non sarà libero di auto-determinarsi e vivere in pace, non potremo essere allegri”.Poi ha intonato più volte “Free Palestine”, “Palestina libera”, sulle note di Hava Nagila canzone popolare ebraica .
Ora tale reinterpretazione puo essere , da pro israeliani ( soprattutto quelli legati acriticamente al sionismo, quelli che identificano l' antisionismo e antisemitismo come un unica cosa , quelli opportunisti e falsi convertiti sulla via di damasco o con un termine a doppio senso farisei ) ma anche no , considerata innoportuna e irrispettosa, l'aver usato Hava Nagila, canzone tradizionale e popolare ebraica, in quanto tale canzone non è solo come in origine per celebrare la vittoria britannica in Palestina al termine dellaprima guerra mondiale, in occasione dellaDichiarazione Balfour ma , spesso cantata e ballata durante le celebrazioni ebraiche come matrimoni e bar mitzvah. Il titolo significa "Rallegriamoci" in ebraico ed è una canzone che trasmette un forte senso di comunità e allegria agli ebrei, per i quali è un elemento identitario. Comprensibile , ma non mi sembra che ci sia antisemitismo in quanto non offende il popolo ebraico e soprattutto israeliano come fanno certi Pro Pal .Infatti io non ho sentito sentito inneggiare alla scomparsa di israele in quel brano. Io ho sentito la richiesta di liberare un popolo dall'annientamento. Hamas va punita, giusto! Ma sterminare tutto il popolo palestinese per colpa di qualche migliaio di individui mi sembra , metaforicamente parlando un tantino esageratoUn’esibizione che ha scatenato la reazione indignata della comunità ebraica di Roma, che è arrivata a parlare addirittura di “esibizione macabra”.Macabra? Macabro sono i 50.000 morti innocenti a Gaza, i giornalisti ammazzati, i soccorrittori trucidati, gli ospedali bombardati, un popolo senza acqua, cibo ed elettricità. Non un inno alla libertà.Se qualcuno si scandalizza per la la “libertà” di un popolo, allora significa solo una cosa: che quel popolo non è “libero”.
E hanno fatto benissimo i Patagarri a ricordarlo e a ricordarcelo ed per questo che si sono attirati la reazione , hanno scatenato l'ira della comunità ebraica di Roma, che per bocca di Victor Fadlun, presidente, suo presidente, ha dichiarato che "appropriarsi della nostra cultura, delle melodie a noi più care, per invocare la nostra distruzione, è ignobile. C'è qualcosa di davvero sinistro, macabro, nell'esibizione dei Patagarri". Mai, ha aggiunto Fadlun, "ce lo saremmo aspettati in un concerto che celebra il lavoro. Soprattutto in un concerto! Come quello del Nova Music Festival, trasformato dai terroristi palestinesi in un massacro che non è finito, con 59 rapiti da Hamas ancora a Gaza".Noemi Di Segni, presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, ha voluto sottolineare che "una canzone ebraica che ha come significato la gioia di stare insieme è stata appositamente stravolta con l'effetto di creare divisioni e generare odio antisemita anziché mettere in campo ogni sforzo per la convivenza tra i popoli, come le Comunità ebraiche in Italia cercano di fare in ogni ricorrenza". E David Parenzo, giornalista e conduttore, dopo aver ammesso di non sapere chi fossero i Patagarri fino a ieri, ha rivendicato la "libertà di dire loro che prendere una nota canzone ebraica e storpiarla con una bieca propaganda pro Pal e contro Israele è semplicemente raccapricciante". E se ora quella canzone venisse usata nei cortei contro Israele e per la Palestina, l'obiettivo dei Patagarri sarebbe pienamente raggiunto. La band sarebbe responsabile di una enorme provocazione nei confronti della comunità ebraica, fortunatamente civile, a differenza di chi li insulta.
"È già tanto che l'evento non sia diventato il palcoscenico dei terroristi palestinesi fondamentalisti di Hamas", ha detto il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, sottolineando che il Concertone "è la prosecuzione della politica con altri mezzi e a spese dei cittadini usando la Rai e il servizio pubblico. La Rai sa che il Concertone dovrebbe avere maggiore attenzione, ma mi pare che sia considerata una sorta di oasi dove ognuno può dire la fesseria che ritiene". Quindi concludo amio avviso non ci sono i pressuposti d'antisemitismo , al massimo se si vuole trovare il pelo nell'uovo , si può parlare d'antisionismo . Cosa , ripeto er l'ultima volta , differente ( anche se sottilissima e labile ) semanticamete e non solo , dall'orrippilante ed abberrante antisemitismo che ha creato solo negli ultim due secoli prima con i progrom e poi con l'ideologia nazifascista quello che noi tutti conosciamo cioè l'oocausto e la Shoah . Allo stesso modo parlare di palestina libera non vuol dire necessarriamente essere pro Hamas .
A 87 anni a piedi da Cagliari a San Francesco di Lula: la storia di Francesco Calledda (Zigheddu)
NUORO – Francesco Calledda, meglio conosciuto come “Zigheddu“, 87enne originario di Aritzo, incarna la tenacia e la profonda fede che animano il pellegrinaggio verso il santuario di San Francesco di Lula. Da ben 40 anni, la sua figura è una presenza costante lungo il cammino, un esempio di vitalità e devozione.Lo abbiamo incontrato all’alba, al suo arrivo al santuario, dove dopo aver salutato i priori uscenti Ivan Mariane e Maura Cavada, una rapida colazione prima di assistere alla santa messa, ci ha raccontato la sua storia. Zigheddu, ex bancario in pensione, celebre per la sua instancabile energia, ha salutato l’arrivo del nuovo anno raggiungendo Punta La Marmora, la vetta più alta della Sardegna, a 1834 metri. Da circa trent’anni, Zigheddu celebra il suo compleanno con un’altra impresa: una lunga camminata da Cagliari, dove risiede, fino ad Aritzo, ripercorrendo le sue radici. Il suo pellegrinaggio annuale in Barbagia inizia all’alba del giorno precedente la festa, partendo dal suo paese natale, Aritzo, attraversando Fonni e Mamoiada per giungere infine a Nuoro, pronto per l’appuntamento tradizionale. E anche ieri, a ottantasette anni portati con la grinta di un giovane, come da consuetudine, ha intrapreso il suo cammino notturno dalla chiesa nuorese del Rosario, per compiere quello che per lui è qualcosa di più di un semplice percorso devozionale.
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Il voto a Santu Franziscu. Paolo Ladu: da oltre 40 anni a piedi e scalzo da Nuoro a Lula
di Salvatore Novellu
giovedì 01 Maggio 2025 - 10:32
L'arrivo al Santuario di San Francesco
NUORO – Sono passati tanti anni da quel giorno del 1978 in cui Paolo Ladu,
appena 13enne, invocò l’aiuto di San Francesco, rivolgendo la preghiera
al piccolo simulacro posto all’ingresso dell’ospedale vecchio, perché
salvasse la vita di sua mamma, ricoverata in punto di morte e già munita
dell’estrema unzione, con sa prommissa che,
se il Santo avesse esaudito la sua preghiera, sarebbe andato per sempre
in pellegrinaggio a piedi al santuario a lui dedicato a Lula. Santu Franziscu
concesse la grazie e la mamma visse fino a 89 anni; lui da allora ha
rispettato la promessa e, anzi, dopo i primi nove pellegrinaggi a piedi,
ha scelto di compiere il cammino scalzo.
L’arrivo al Santuario
Nel 2004, poi l’onore di ricoprire l’incarico di priore, un onore accettato di buon grado, pur rispettando sa prommissa fatta a Santu Franziscu anni prima.
Il lavaggio dei piedi da parte della prioressa uscente Maura Cavada
E anche quest’anno Paolo non ha mancato l’appuntamento, mettendosi in
cammino, stendardo alla mano, un’oretta prima degli altri pellegrini.
La donazione delle offerte a San Francesco
Calata la notte, durante gli oltre trenta chilometri di tragitto,
tutti i pellegrini che lo superano gli lasciano un’offerta, offerte che
poi lui, all’arrivo al santuario, all’incirca un’oretta dopo gli altri
pellegrini, donerà al santo poco dopo la celebrazione liturgica, una
volta espletato il rito del lavaggio dei piedi da parte dei priori
uscenti.
Ognuno decide di fare del proprio corpo ciò che crede. Purtroppo a volte come in quest ultimo caso ci si affida sbagliando a medici o personale poco affidabile ed improvvisato , ma per questo deve essere massacrata di parole cattive ? ( Vedere loScreenshot a sinistra tratto dai commenti della pagina fb cronache dalla Sardegna )
Spero che questa ragazza possa recuperare , sempre che non lo abbia già fatto come si dice in altri commenti,nel migliore dei modi e lasciarci tale vicenda alle spalle .
Io non capisco queste scelte di modificarsi anche quando non ce ne è bisogno. Potrei capire difetti che danno problemi o disagi ma questa ragazza , vededo la foto prima dell'intervento era bella ( giudizio opinionabile ) com era , ora invece .... .Purtroppo stano succedendo sempre più casi come questo di Federica Funi ( foto sopra in altro con prima e dopo l'intervento ) .
[...] una giovane donna romana con un sogno: avere le labbra "alla russa". Per risparmiare decide di contattare un'estetista bulgara conosciuta sui social. Era il 2022.
Federica si reca in un appartamento a Roma vicino al Colosseo che l'estetista aveva affittato per due giorni. Non uno studio medico. Niente di sterilizzato. Nonostante vede che qualcosa non va, si fa iniettare comunque il tanto desiderato filler alle labbra, che dopo qualche mese sarebbe dovuto andare via, pagando 200 euro. Senza fattura, senza neanche sapere il vero nome di chi la stava operando. Dopo l'intervento Federica sente le labbra gonfie e doloranti. Sono piene di pieghe. Fuoriesce il pus. Il filler non va via e la donna nonostante si sia sottoposta a successivi interventi per ripristinare le labbra come le aveva prima, risulta irrimediabilmente sfigurata.
La sua storia è quella di tante persone che si affidano a pseudo medici incompetenti e senza alcun titolo ad operare, magari conosciuti sui social, con il miraggio di risparmiare, quando poi si rischia di restare sfigurate/i o addirittura di morire come accaduto ad altre donne delle quali abbiamo parlato nei recenti fatti di cronaca. È importante affidarsi sempre a strutture e medici certificati, dai quali si spende di più, ma che teoricamente assicurano maggiore attenzione verso il paziente. Tenendo presente che ogni intervento chirurgico ha i suoi rischi, che non devono mai essere sottovalutati .
[...]
Infatti , posto che mi dispiace, non godo delle disgrazie altrui, va capito che ne stanno abusando. Del cambiare per forza connotati , tanto da sfigurarsi. Addirittura ragazzine di età inferiore a 18 anni nel fiore della giovinezza con poca consapevolezza del proprio corpo .Va fatto un buon lavoro educativo e culturale anche se da tutti\e non sono d'accordo in famiglia, a scuola, neicentri d'aggregazione laici e ecclesiastico \ parrocchiali Perchè non deve essere la scuola e basta .
Ma la scuola può essere di aiuto ! Perché se un insegnante , vede atteggiamenti scorretti dei ragazzi o bambini , che deridono per via di difetti fisici o diversità , deve assolutamente correggere! Quindi la scuola può e deve essere parte integrante dell educazione ovviamente dopo la famiglia . Infatti essa non è la sola e unica fonte di educazione. La parte più grande la deve fare sempre la famiglia. Perchè purtroppo è un mondo che da valore estremo all'estetica.Ovviamente coloro , ragazzine \i di ad una certa età non sono nemmeno , o almeno non completamente , consapevoli . Vogliono essere come le altre e avere il successo che hanno quelle della tv, palesemente finte dalla testa ai piedi ma osannate. attenzione quindi cari genitori o tutori ai modelli televisivi e della rete. Quindi cari genitori Se i figli hanno questi problemi già da così giovani oltre a provarci a parlare e comprenderli , ma soprattutto farrgli capire che devono sempre scegliere con la propria testa e mai farsi condizionare dagli altri. Molte volte pensiamo di dover cambiare per piacere agli standard che la società ci impone ma il bello è proprio questo, ognuno di noi è unico, autentico, originale!
e che non si deve per forza cercare in tutti i modi di rientrare nei canoni di ciò che vogliono gli altri che noi siamo noi, ed è questo che ci renderà sempre e semplicemente noi . Se poi non ci si riesce perché adesso sono tutti omologati portali o fateli andare da uno bravo veramente ed evitargli tali problemi
Edito da Futura Editrice e a cura di Ilaria Boiano e Isabella Peretti, raccoglie dieci contributi tra cui un intervento della scrittrice Maria Grazia Calandrone.
L'attivista Tiziana Dal Pra: "E' troppo tardi quando conosciamo i nomi delle vittime. Cominciamo a vederle, cercarle. E' il primo decisivo passo da fare"
Ci siamo già dimenticati di Saman Abbas? E delle altre Saman che vivono in Italia oggi? Così come abbiamo archiviato in fretta le storie di Hina Saleem, Sana Cheema e quelle di tutte le altre donne uccise per onore e di cui, spesso, neppure ci si è presi la briga di imparare i nomi. Quattro anni dopo la morte della giovane 18enne e dopo la sbornia mediatica, con le telecamere si sono spenti anche tanti degli appelli per il cambiamento. Mentre chi si batte contro il patriarcato in tutte le sue forme, continua la lotta e lo fa cercando di trovare spazio per le voci dimenticate delle donne. “Femminicidi d’onore. Dal processo Saman ai diritti negati delle donne migranti” – libro edito da Futura Editrice e a cura di Ilaria Boiano e Isabella Peretti – si fa carico di questo: riportare nel dibattito l’urgenza di una questione ancora troppo spesso liquidata in fretta. E tenere accesa una luce per tutte le altre. Un’opera collettiva, composta da dieci contributi, che nasce dalle esperienze concrete e dalle riflessioni di chi è impegnato in prima linea.
IL femminicidio di Saman Abbas, ricorda nel libro l’attivista per i diritti umani e fondatrice di Trama di Terre Tiziana Dal Pra, è il sesto di un elenco di donne uccise in Italia e che abbiamo dimenticato. Della 18enne appena ammazzata a Novellara, per la cui morte tutta la famiglia è appena stata condannata in appello, e delle “omissioni delle istituzioni che non hanno impedito una fine tragicamente prevedibile”, parlano le avvocate di parte civile Teresa Manente e Rossella Benedetti. “Non stupisce”, scrivono, “che l’Italia sia stata di recente nuovamente condannata dalla Corte Europea dei Diritti Umani per l’inadeguatezza della risposta istituzionale al fenomeno della violenza domestica e per aver omesso di adottare misure operative adeguate e prevenire la violazione del diritto alla vita”. E la domanda, da cui parte l’analisi collettiva, è rivolta alle altre: “Quante Saman ci sono? E dove sono? Sono nelle scuole, nelle famiglie, ragazze che sanno già di essere destinate a un matrimonio non voluto”, scrive Isabella Peretti nell’introduzione. “E quante madri ci sono, assoggettate alla violenza patriarcale, che accompagnano le figlie alla morte, come la madre di Saman?”. Sulla figura di Nazia Shaheen, mamma di Saman condannata all’ergastolo, si concentra l’avvocata Giovanna Fava. “La sua silenziosa presenza pesa come un macigno”, scrive. “Non vi è dubbio alcuno che con l’uccisione della figlia, Nazia uccida anche una parte di sé”. E per cambiare le cose, dice, “non basta raggiungere le ragazze nelle scuole, prima o parallelamente, occorre entrare in contatto con le loro madri, fare in modo che imparino la lingua del paese che le ospita e possano diventare parte integrante della società”, “occorre consentire loro di capire che esistono altre possibilità di scelta anche per loro”. Segue l’intervento di Maria Grazia Calandrone, scrittrice che, tra le varie opere, ha scritto anche la storia della madre, suicida per essere fuggita a un matrimonio violento. E qui presente con un monologo scritto per Terre des Hommes: la storia di Nandhini, giovane donna che ha rifiutato le nozze forzate.
A introdurre l’intervento di Tiziana Dal Pra è una domanda: “Facciamo tutto ciò che possiamo, tutto ciò che dobbiamo?”. L’attivista per i diritti umani inizia con una fotografia: è quella di Hina Saleem, uccisa nel 2006 dal padre e sepolta nel cimitero di Brescia, nel riquadro islamico zona adulti. “Una tomba offerta e pagata da ignoti bresciani, dopo il consenso del fratello e della madre. Questa sepoltura è una tragedia aperta”, scrive Dal Pra, “anche simbolicamente. Per ben tre volte la foto di Hina è stata tolta dalla tomba perché giudicata offensiva e non rispettosa dei dettami religiosi islamici. Il fratello rivendica lo strappo della foto della sorella. Anche da morta Hina fa scandalo. In quella foto sorride e indossa una maglietta fucsia che le lascia fuori una spalla: troppo scoperta, troppo visibile”. Dal Pra continua: “Hina Saleem è la prima ragazza pakistana morta in Italia per un femminicidio d’onore. Ancora fatichiamo in Italia a nominarlo come tale perché forse non vogliamo vedere una radice di violenza che ci riporta troppo indietro, ma così facendo alimentiamo equivoci e alibi nelle nostre azioni di contrasto. Non c’entra l’Islam; e, se c’entra, è dentro un miscuglio di tradizioni. Di sicuro c’entrano il patriarcato e i clan familiari”.
Dal Pra parla della sua esperienza nel sostegno alle giovani che decidono di ribellarsi a destini già segnati. E spesso lo fanno seguendo le proprie emozioni, rifiutandosi di reprimerle: “Alcune ragazze che ho incontrato, sostenuto e accompagnato nel loro percorso di uscita dai matrimoni forzati mi hanno detto: ‘Certo voi siete fortunate, ché potete raccontarvi delle vostre farfalle nello stomaco; per noi queste farfalle sono la nostra condanna a morte’”. E proprio chi decide di seguirle, ha bisogno di tutto il sostegno possibile. Ma soprattutto, ha bisogno di essere “vista”: “E’ troppo tardi quando conosciamo i nomi delle vittime”, scrive Dal Pra. “Scopriamo le loro non-vite solamente nelle aule dei tribunali dove si chiede giustizia per una morte annunciata e una condanna all’ergastolo anche a una ‘madre assassina’. Cominciamo a vederle, cercarle. E’ il primo decisivo passo da fare”.
Vederle e dare loro la parola, questi i gesti che possono essere rivoluzionari. Peretti continua raccontando l’esperienza del Tribunale delle donne per i diritti delle donne in migrazione, che si è svolto nel 2023, “in cui le donne sono diventate testimoni” e “una Giuria non ha giudicato, ma ascoltato”. E’ nato dall’esperienza del Tribunale delle donne di Sarajevo, dove “solo le donne hanno potuto trascendere il conflitto tra nazionalismi e mettersi insieme”. E da quello spunto, è nata l’esperienza di Roma, alla Casa internazionale delle donne. “Perché le testimonianze delle violenze sono un momento cruciale di costruzione della memoria e del diritto”. E, continua Peretti, “avevano tutte una gran voglia di parlare le donne immigrate che hanno partecipato alle sedute”. “Le migranti che parlano in questo libro, donne afghane, pakistane, nigeriane, ivoriane, indiane, e ci raccontano di matrimoni forzati e di fughe, di violenze ai confini e di violenze nella tratta; di discriminazioni religiose e razziste”, ma anche “di audizioni presso le Commissioni per l’asilo in cui le loro storie tragiche non sono credute”. Peretti, infine, affronta una delle domande centrali: “C’è un crinale tra ‘culture barbare’ e un Occidente dei diritti, o piuttosto sono forme diverse, ma pur sempre violente, con cui ovunque si esprime e persiste il patriarcato?”. La sua riflessione si chiude con quello che è anche un punto di partenza: “Il terreno di incontro”, dice, “è la Costituzione italiana”.
Infine, due approfondimenti firmati da Asia Jan e Mursal e Flavia Mariani si focalizzano sulle donne afghane, “recluse in patria e migranti nel mondo”. “Stanno nascendo”, raccontano, “associazioni di attiviste afghane che costrusicono network a livello internazionale, chiedono l’attenzione e il sostegno della società civile e dell’opinione pubblica per portare avanti le loro cause”. Anche per loro, serve una “giustizia femminista”, come sostiene l’intervento di Ilaria Boiano che chiude il libro. “La sfida è creare un ponte tra le testimonianze delle donne e i processi decisionali istituzionali, garantendo che le competenze tecniche non prevalgano sull’ascolto delle esperienze e che la giustizia risponda non solo ai bisogni legali, ma anche a quelli personali e sociali di chi cerca protezione e riconoscimento”. Per tutte le altre Saman Abbas, Hina Saleem, Sana Cheema. Perché non vengano dimenticate. E perché siano le ultime da aver pagato con la vita il loro desiderio di libertà.
Gaia Mela, 24 anni, originaria di Trinità D’Agultu in provincia di Sassari è una forza della natura. La intervisto questa mattina mentre si trova ricoverata al Policlinico Duilio Casula di Monserrato. La giovane donna lotta dallo scorso ottobre contro un tumore al seno.Gaia scopre la malattia casualmente la scorsa estate, quando facendosi la doccia si accorge di avere una pallina tra il seno e l’ascella destra. Ne parla coi genitori, ma non si preoccupa eccessivamente.Ha 23 anni, troppo giovane per pensare che si tratti di un tumore al seno che normalmente sopraggiunge in età più avanzata. Sarà una ghiandola, pensa.Conclude la stagione da bagnina che la aiuta a mantenersi negli studi universitari ed a coltivare il sogno di diventare un’archeologa subacquea. Ma la pallina é sempre lì ed inizia a preoccuparsi.Si rivolge ad una senologa privata e scopre di avere un tumore al seno destro. Si arrabbia con tutti e con sé stessa. Si
incolpa di essersi ammalata perché non ha seguito uno stile alimentare sano, ha trascurato la palestra.Si arrabbia coi genitori, separatisi con una separazione dolorosa, per averla fatta soffrire.Si arrabbia con Dio, pur non essendo neanche credente. Una sera si rivolge direttamente a lui e gli domanda perché abbia scelto proprio lei per sopportare questa prova.Ma, finita la rabbia, diventa grata a Dio per aver scelto lei e non la sorella più piccola, oggi 19enne per avere la croce della malattia. Che lei da persona forte può affrontare meglio della sorella o di altri.Decide di non abbattersi. Decide che deve laurearsi come aveva stabilito nei mesi precedenti alla scoperta della malattia. E nonostante la chemioterapia, gli ospedali, i momenti di frustrazione, in pochi mesi dà tre esami. Le manca solo la tesi.È il 13 marzo 2025. Mentre sta facendo la cemioterapia la penultima infusione delle bianche in day hospital a Monserrato si sente male. Le sale la febbre e viene ricoverata. Trascorre in ospedale anche il suo 24° compleanno, il 28 marzo, che festeggia con una bella torta e con il suo fidanzato tempiese Mario che sta sempre al suo fianco, dormendo su una sedia pur di non lasciarla sola.
In ospedale riscopre la fede ed il suo rapporto con Dio. Inizia a prendere l’eucaristia. Pensa di essere stata dal Signore privilegiata per averla scelta ad affrontare questo momento di dolore.Resta ricoverata sino al 2 aprile e chiede un permesso per andare a discutere la tesi di laurea sulle chiese campestri, presso la Facoltà dei beni culturali di Sassari.Le persone che la circondano le suggeriscono di indossare la cuffia o una parrucca per nascondere la testa completamente calva a causa della malattia
Ma Gaia si rifiuta, vuole farsi vedere esattamente come è in quel momento. I docenti sono al corrente della sua malattia e le vengono incontro facendola laureare senza gli altri candidati, in un aula aereggiata. Tutti i presenti indossano la mascherina.Gaia diventa la Dottoressa Gaia Mela. Ha vinto lei, non il cancro. “Non volevo passasse che fossi malata, mi sono laureata perché avevo deciso di laurearmi e quella laurea è il risultato di tre anni di sacrifici. Volevo farmi vedere esattamente com’ero, anche se senza capelli. Non ho potuto mettere i tacchi, ma poco mi importava”, racconta.Le domando come si vede nel prossimo futuro. “Mi vedo guarita, non ho mai pensato di non farcela, neanche quando ero arrabbiata perché la malattia fosse capitata proprio a me. Mi vedo facendo la laurea magistrale, con a fianco il mio fidanzato Mario, che mi è sempre stato accanto durante la mia malattia, mi ha sempre accompagnato dappertutto ed è sempre qui vicino a me in ospedale. Se mi è vicino adesso, sono certa che lo sarà sempre”, conclude Gaia.
canzoni suggerite L'amore in bocca ., Ho paura di tutto - I santi francesi Bolormaa - Csi
« Nella vita c'è il dolce e l'amaro è un uomo[ e una anche un a dona aggiunta mia ] le deve prendere tutte e due » da Il dolce e l'amaro film italiano del 2007 diretto da Andrea Porporati )
Ma per paura di soffrire e voler essere felici a tutti i costi abbiamo dimenticato o facciamo finita che nella vita \ per costruire un opera d'arte entrambe sono necessarie una all'altra . E .....
Ah, il dolce e l'amaro, un binomio così presente nelle nostre vite!
Esatto
Pensa , come stavo dicedo prima , a come spesso le gioie più intense portino con sé una sottile ombra di malinconia, la consapevolezza che nulla è eterno. Un tramonto mozzafiato, ad esempio, è splendido ma segna anche la fine del giorno. Oppure, il ricordo di una persona cara che non c'è più può scaldare il cuore ma anche stringerlo di nostalgia.
E' vero e quindi ....
Allo stesso modo, a volte le esperienze più difficili possono rivelare inaspettate fonti di forza interiore e portare a una crescita personale che altrimenti non avremmo conosciuto. È come un caffè amaro che, pur non essendo dolce, può risvegliarti e darti la carica per affrontare la giornata.
Questa dualità è intrinseca all'esistenza. Accettare e comprendere questo intreccio di sensazioni opposte può renderci più resilienti e capaci di apprezzare pienamente ogni sfumatura della vita.
Si è svolto a Milano - nella serata di martedì 29 aprile - qui il video integrale - il corteo in ricordo di Sergio Ramelli. Al termine della sfilata, il momento del presente è stato anticipato dalla canzone “Bella ciao” fatta risuonare dai balconi delle case limitrofe. Diversi insulti sono stati rivolti alle persone nelle abitazioni vicine. Il corteo è stato anticipato in mattinata dalla cerimonia ufficiale presso i Giardini Ramelli, con la presenza del Presidente del Senato, Ignazio La Russa, e del sindaco di Milano, Giuseppe Sala. Al termine della cerimonia La Russa è stato protagonista di uno scontro verbale con diversi giornalisti quando gli si è chiesto dei saluti fascisti
Ora L'italia sprofonda sempre più negli ultimi 40 anni nella 💩 .... ehm melma più puzzolente e viscosa mentre il popolino gioca a squadra nera vs squadra rossa con canzoncine nostalgiche secondo alcuni ...poveri noi. Infatti
M_Siniscalchi 🌍🇪🇺🇮🇹
@mariosiniscalchi@mastodon.uno
#antifascismo
Mettere su "bella ciao" durante la merdafistazione alla merdamoria di sergio ramelli è stata una idea che li ha mandati ai matti! Ed è triste dover dire che chi lo ha fatto ha avuto coraggio. Concludo con questa replica a tale post
dopo tante notizie triste ogni tanto qualcuna un po' allegra meglio sempre avvisare 🙄😇✍🏼😛😜.
da msn.it
“Credevo fossi morto”. Una frase che si dice spesso scherzosamente quando non si sente qualcuno per parecchio tempo ma che per Silvia Lodi Pasini – comandante della polizia locale di alcuni Comuni del Pavese – è diventata realtà. A Motta Visconti, in provincia di Milano, una vicina della donna, non vedendola da due giorni, ha temuto il peggio e ha allertato carabinieri, polizia locale, vigili del fuoco e
persino un’ambulanza. Lei era in crociera. Il telefono non prendeva La comandante – molto stimata nella sua città e Cavaliere della Repubblica – si era imbarcata per un viaggio di beneficenza organizzato dal Rotary club di Cairoli (Pavia) nel weekend di Pasqua. Ad un tratto del viaggio il telefono ha smesso di ricevere il segnale e nel comune lombardo è scoppiato letteralmente il caos. «Tra messaggi WhatsApp, chiamate perse e notifiche della segreteria, ho visto i nomi più disparati: la stazione dei carabinieri di Motta Visconti, il maresciallo, il sindaco di Motta e quello del Comune dove presto servizio – racconta Lodi Pasini –. A quel punto ho pensato che fosse successo qualcosa di grave: che mi avessero occupato la casa, che fosse scoppiato un incendio, o addirittura che fosse passato un tornado», le sue parole riportate da Il Giorno. Nulla di tutto ciò. Semplicemente la vicina, avendo perso i contatti e non sentendo i cani della donna, ha temuto che fosse successa una tragedia. Una reazione dettata anche da esperienze traumatiche successe in passato. L’intervento dei soccorsi e il “perdono” di Silvia I soccorritori, arrivati nell’appartamento, hanno trovato tutto in perfetto ordine. L’allarme però, è rientrato soltanto quando la comandante è tornata raggiungibile: intorno all’una di notte. Lodi Pasini, dopo lo spavento iniziale, ha riconosciuto la buona fede della sua amica: «Il gesto è stato dettato dal cuore. Abbiamo un ottimo rapporto, ci vogliamo bene. E anche se mi trovavo in vacanza, non avrei mai immaginato che potesse scatenarsi una mobilitazione del genere. Ma è bello sapere che non si è soli almeno in piccole realtà come quella dove vivo. Dovesse ricapitare, non mancherò di avvisare tutti».