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8.11.25
Bibbiano, le suore organizzano nel convento il corso di autodifesa per le donne: ma non si diceva porgi l'altra guancia ?
ANCORA ESISTE LO ZECCHINO D'ORO ?Parroco sardo don Francesco Marruncheddu allo Zecchino d’Oro: è l’autore del brano “Ci pensa il vento
NUOVA SARDEGNA 8\11\2025
Dalla chiesa alla Tv
Parroco sardo allo Zecchino d’Oro: è l’autore del brano “Ci pensa il vento
La prima volta nella storia della gara canora. A cantare la canzone del sacerdote sarà Emma (9 anni) con l’accompagnamento del Piccolo Coro “Mariele Ventre” dell’Antoniano
C’è anche il parroco della parrocchia di San Giovanni Bosco a Sassari, don Francesco Marruncheddu, tra gli autori di una delle canzoni in gara alla 68esima edizione dello Zecchino d’Oro. Per tre giorni, dal 28 al 30 novembre, lascerà messe, omelie e catechismo nella chiesa di via Washington e sarà all’Antoniano di Bologna dov, in diretta su RaiUno, verrà eseguito il brano “Ci pensa il vento”, di cui Marruncheddu ha scritto il testo. La canzone, musicata dal maestro vicentino Lodovico Saccol, vincitore di tre edizioni dello Zecchino d’Oro, sarà interpretata da Emma (9 anni) una bambina di Monza con l’accompagnamento come per tutte le altre tredici canzoni in gara, del Piccolo Coro “Mariele Ventre” dell’Antoniano, diretto da Margherita Gamberini.
Don Francesco Marruncheddu originario di Oristano, dal 2015 sacerdote dell’arcidiocesi di Sassari, è anche giornalista pubblicista e con la sua partecipazione rompe un religioso silenzio quasi settantennale: è la prima volta, infatti, che un sacerdote compare tra gli autori di un pezzo allo Zecchino d’Oro. «Ci pensa il vento è un brano semplice, ma dal sapore fortemente introspettivo», racconta don Francesco Marruncheddu. «Nasce dalla riflessione su un elemento naturale, il vento, sempre presente e vitale, che tutti pensiamo di conoscere bene, ma che in realtà non controlliamo e non possediamo, e che rimane misterioso e ingovernabile. Tanto presente quanto impalpabile, apportatore di vita e compagno di storie e momenti belli, come quando ci regala ristoro nelle calde giornate estive, ma a volte anche impegnativi quando agita le onde del mare, non permettendo ad esempio di fare il bagno, ma offrendoci comunque sempre scene di una potenza grandiosa e solenne. Il vento, in questa canzone, viene visto anche come un compagno della vita di ogni giorno, quasi personificato, capace di evocare fotogrammi di tempi passati o romantici, proprio come un caro amico».
Lodovico Saccol ha musicato “Ci Pensa il vento" perché colpito dal colore e dalle immagini del testo, immediate e a misura di bambini piccoli, e dalla narrazione del rapporto tra uomo e ambiente. Al 68° Zecchino d’Oro, che vede ancora Carlo Conti alla direzione artistica, “Ci Pensa il vento” sarà una delle 14 canzoni in gara. Anche quest’anno spiccano i nomi di autori storici dello Zecchino, come Mario Gardini, Carmine Spera, Flavio Careddu, Alessandro Visintainer, e nomi del panorama musicale italiano e dello spettacolo, come Stefano Accorsi, Enrico Nigiotti e Filippo Gentili. Anche quest’anno, attraverso Operazione Pane, la manifestazione lanciata da Cino Tortorella (Mago Zurlì della Tv dei ragazzi) si propone di sostenere le mense francescane per i fratelli bisognosi in Italia e in alcune parti del mondo toccate da guerra e povertà: un aiuto concreto, perché la musica dello Zecchino divenga pane e accoglienza per i meno fortunati.
Carla Monni: «Con l’intelligenza artificiale creo ponti tra l’isola e il mondo»L’artista di Orune tra i protagonisti di Connessioni Future 2025 «La tecnologia non sostituisce la creatività, è uno strumento che aiuta l’arte»
da ms.it
C’è un punto d’incontro in cui mito, identità e tecnologia smettono di essere mondi separati e si incontrano, grazie all’intelligenza artificiale. In quel luogo virtuale si trova il lavoro
Di cosa parlerà al pubblico di Connessioni Future?
«Vorrei mostrare che l’intelligenza artificiale può essere un alleato della creatività. Racconterò il mio percorso e i modi alternativi di costruire impresa partendo dall’arte. Monniverse è un progetto nato dal desiderio di democratizzare lo storytelling, di togliere il monopolio ai grandi colossi come Disney e restituire la possibilità di creare anche a chi non dispone di risorse economiche enormi. Monniverse l’ho creata come una nuova Atlantide digitale, ispirata alla Sardegna tra passato e futuro».
Come funziona una mostra di Monniverse?
«Ogni esposizione racconta un diverso “regno” dell’universo che ho immaginato, ognuno legato a un aspetto della Sardegna. L’obiettivo è che chiunque, un sardo, un americano o un coreano, possa riconoscervisi. L’estetica è pop e internazionale, ma dietro c’è la memoria delle leggende sarde. In alcune tappe ho messo a disposizione generatori d’immagini: i bambini potevano creare i propri personaggi e sentirsi parte della storia, un’esperienza immersiva».
Quando ha capito che l’intelligenza artificiale avrebbe cambiato il suo lavoro e il suo modo di fare arte?
«Nel 2018, a Helsinki. In quel periodo si cominciava a parlare di intelligenza artificiale e arte generativa. Ho seguito corsi universitari e mi sono accorta che la tecnologia poteva diventare un’estensione del corpo, quasi un organo nuovo del pensiero. Ho iniziato a concepirla non come una minaccia ma come un’estensione della mente creativa».
Molti temono le conseguenze dell’Ia, lei come la vive?
«È un po’ come avvenne con la rivoluzione industriale: alcuni lavori spariranno, ma ne nasceranno altri. L’intelligenza artificiale è un mezzo potentissimo, il problema non è la macchina ma la gestione dei dati. Bisogna sapere a cosa si acconsente, quando si clicca “ok” sui cookies o si usa il riconoscimento facciale. La responsabilità resta umana. L’etica dovrà essere la bussola delle istituzioni».
C’è il rischio che possa sostituire la creatività umana?
«No. È come se si trattasse di un pennello nuovo. Quando uscì photoshop molti dissero che l’arte digitale non era arte: oggi nessuno lo pensa più. La tecnologia accelera, ma non sostituisce. Due persone possono usare lo stesso modello e produrre risultati completamente diversi: la differenza resta nella mente, non nel codice».
Quale consiglio darebbe a chi vuole sperimentare?
«La cosa più importante è sempre la comunicazione. Bisogna imparare a parlare. Lo dico sul serio: la macchina ti costringe a essere chiaro. Scrivere un buon prompt è come tornare alle analisi logiche di scuola: impari a ordinare le idee, a dare priorità, a tradurre la visione in parole. L’Ia ti insegna a comunicare meglio, e questo migliora anche la creatività».
Come immagina l’intelligenza artificiale nel futuro?
«Ci sarà una fase di crisi. Un’azienda può già creare dieci agenti digitali che gestiscono social, mail, agenda: è inevitabile che molti ruoli scompaiano. Ma poi arriverà un nuovo equilibrio. La cosa più grande che accadrà sarà la democratizzazione del sapere: non serviranno più università costose per imparare. L’accesso all’informazione diventerà sempre più libero, e riuscirà ad abbattere molte barriere sociali».
Cambieranno anche i rapporti tra persone e culture?
«Assolutamente. L’intelligenza artificiale cancella la necessità del luogo fisico. La globalizzazione culturale è già realtà: le nuove generazioni non vedono differenze di nazionalità. Online puoi essere una sirena o un fungo e dialogare con chiunque. È un mondo senza confini, dove l’identità diventa scelta e racconto. Ci saranno rischi, certo, ma anche un’enorme possibilità di connessione».
«Noi in Italia e in Europa siamo privilegiati: altrove una donna può usare il telefono per lavorare o studiare, pur vivendo in un contesto che le nega libertà. Per molte persone la tecnologia non è un gioco, è una via d’uscita. È su questa prospettiva globale che bisogna misurare le paure occidentali verso l’Ia».
Oggi Monniverse è anche un archivio di miti sardi reinterpretati.
«Una delle figure che amo di più è la Surbile, la strega-vampira che, secondo la tradizione, rubava l’anima ai bambini non battezzati. Nel mio mondo è diventata una sirena un po’ folle, ossessionata dal tempo. È il mio modo per dire che le storie antiche possono rinascere e parlare ancora di noi, se usiamo linguaggi nuovi. Mi piace pensare che la tecnologia non allontani ma avvicini. Monniverse è un ponte tra memoria e futuro, tra la mia isola e il mondo. L’arte, oggi, è il modo più potente per costruire connessioni».
Attaccare lei per colpire lui Non sapendo più come prendersela con Zohran Mamdani, le orde di miserabili odiatori si sono riversate sul nuovo obiettivola moglie Rama Duvaji
modo insopportabilmente sessista tre quarti della stampa italiana e mondiale.Rama Duvaji e la sua arte esistono prima di Mamdani e a prescindere da lui. Anzi, loro due insieme, uno a fianco all’altro, non davanti né dietro, in questo momento storico rappresentano un neo pericoloso e meraviglioso al trumpismo e al nazionalismo dominante, dimostrando che esiste - e può esistere anche al potere - un’America diversa, giovane, multietnica, progressista, non bianca, non convenzionale.Rama Duvaji rappresenta tutto ciò che il trumpiano-salviniano medio detesta.Ah, e, per inciso, se proprio insistete, è pure bellissima. Ma pretendere che un trumpino lo capisca, mi rendo conto, è chiedere troppo.>> Infatti tali persone , proprio ,non riescono ad accettare che sia una donna di successo prima e a prescindere dall’exploit di Mamdani, al quale ha dato per altro un contributo decisivo. È stata lei a creare la campagna visual e social ormai già diventata mitica e che avrà epigoni e imitatori in tutto il mondo. Poveri piccoli esseri che per sopportare la loro vita miserabile hanno bisogno di riversare odio verso chi invece vive una vita degna di essere vissuta.infatti Un attacco come quello a Rama Duvaji non racconta nulla di lei e tutto del livello miserabile di chi lo porta avanti. Quando una donna giovane, competente, libera, multiculturale e autorevole entra nello spazio pubblico senza chiedere permesso, il riflesso dei mediocri è sempre lo stesso: provare a riportarla nel recinto degli stereotipi. Sessismo, razzismo, islamofobia, body shaming… è il solito arsenale di chi non ha argomenti ma pretende di fare politica insultando. La verità, che a molti brucia, è che la storia di Rama e Mamdani incrina una narrazione tossica: mostra che esiste un’America capace di includere, innovare, cambiare pelle. Una coppia che non recita il copione patriarcale; una campagna elettorale costruita con creatività, idee e coraggio; una visione che rompe la bolla bianca e nazionalista che certi ambienti vorrebbero eterna. Ora Il punto è semplice. Rama Duvaji non è un accessorio. È una protagonista. Una professionista che si è guadagnata tutto quello che ha con talento e lavoro, non con il cognome di un uomo. Ed è proprio questo che scatena il livore degli odiatori: non riescono a tollerare che la politica possa essere diversa da quella fatta di clan familiari, leaderismi maschili e slogan da salotto televisivo.Chi la attacca soprattutto in questo modo rivela solo la propria paura. Paura di perdere un mondo costruito sulla supremazia di uno standard: bianco, maschio, etero, nazionalista, conservatore. Un mondo che scricchiola sempre di più. Questa vicenda, al netto della miseria umana degli insulti, è un segnale positivo. Vuol dire che il cambiamento non lo stanno solo raccontando. Lo stanno incarnando. E chi vive di odio, quando la realtà si muove davvero, resta sempre un passo indietro.
«Ho sconfitto il cancro grazie alla ricerca e alle cure sperimentali» L’esperienza di Giovanna Manca, vent’anni, nuorese, testimonial dell’Airc: «Vorrei aiutare chi vede tutto nero»
«So che la mia storia può servire a tante famiglie che oggi affrontano ciò che ha vissuto la mia. Spero possa portare un po' di luce e speranza a chi vede tutto nero». C'è la forza e la consapevolezza della malattia sconfitta, nella voce e nel racconto di Giovanna, vent'anni, nuorese, iscritta al secondo anno di Scienze Politiche. La forza di chi ha sconfitto il cancro e scoperto il gusto più amaro della vita in un'età in cui si è forse troppo piccoli per capire ma probabilmente più forti per non pensare al peggio. «Ho iniziato a star male in prima elementare. Avevo sei anni ma ero sempre triste, stanca, con un colorito grigiastro. All'inizio i medici non capirono, parlarono prima di una cistite poi si arrivò alla diagnosi: leucemia linfoblastica acuta, in una forma per quei tempi molto rara. Il giorno dopo mamma e papà mi portarono al Microcitemico». Era il 2012, la chemio e le cure non danno i risultati sperati. I suoi genitori non si rassegnano: continuano a lottare e a cercar risposte. «Mamma scoprì grazie al sito dell'Airc che erano in corso alcune terapie sperimentali. Si mise in contatto con il professor Locatelli del Bambin Gesù, si prese a cuore il nostro caso. Iniziai le cure e poi mi sottoposero a trapianto di midollo che mi donò mia sorella Sofia, risultata compatibile al cento per cento. L'anno dopo, nel 2013, sono ufficialmente guarita e poco per volta mi sono ripresa la vita messa in pausa dal cancro». Dodici anni dopo è la testimonianza vivente che la ricerca è la cura, anche per il cancro.
Quella ricerca che riporta all'Airc, principale organizzazione non profit per la ricerca oncologica indipendente in Italia, e ai sei decenni in prima linea nel rendere le patologie oncologiche più curabili. Anche grazie alla vendita dei cioccolatini, che domani vedrà impegnati migliaia di volontari in centotrenta comuni sardi, con oltre centottanta piazze, quindici scuole e diciotto plessi, dove con una piccola donazione si potrà contribuire a sposare la nobile causa di chi quotidianamente si prodiga nel cercare risposte concrete per far correre la medicina più veloce della malattia che ancora spaventa e porta a 390mila e cento nuovi casi ogni anno. Con la percentuale d'incidenza più alta del tumore al seno, seguita da quello al colon-retto e al polmone. Altra ragione per sostenere la fondazione Airc, così come ha deciso di fare anche il mondo del calcio. Con la serie A che da oggi a domenica inviterà tifosi e appassionati a sostenere il lavoro dei ricercatori. E poi sarà la volta degli Azzurri, a fianco di Airc nelle sfide con Moldavia e Norvegia per accedere ai Mondiali. E nella partita della vita, fuori campo, contro il cancro.
7.11.25
Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco n LVI QUANDO SEI A PASSEGGIO CON IL CANE FIDATEVI DEL SUO ISTINTO
a quanto detto,vedere slide a sinistra , da Antonio Bianco sull'ultimo n del setttimala Giallo vorrei aggiungere che Tra decreti legge, normative, campagne, promesse, iniziative e manifestazioni contro la violenza di genere, non sono poche le donne che adottano cani antiviolenza per la difesa personale. Difesa dalle violenze sessuali, dallo stalking, dalle molestie ed aggressioni.Infatti esistono cani appositamente ‘educati’ da scuole di addestramento speciali per proteggere le donne vittime di violenza. Esemplari di razze selezionate che non esiteranno ad intervenire per difendere le vittime dai loro aggressori. Viene addestrato il cosiddetto ‘cane scorta’ e viene ‘educata’ anche la donna attraverso un particolare allenamento per imparare a controllare gli istinti del cane e la situazione di pericolo.
Di solito, al cane da difesa viene applicata una museruola rivestita in acciaio. Non deve dimostrarsi aggressivo: deve semplicemente immobilizzare l’aggressore al momento giusto per dar modo alla donna di liberarsi da lui e chiedere aiuto. Quando la donna viene aggredita, il cane si lancia sull’aggressore e gli assesta un colpo per bloccarlo e immobilizzarlo. Deve dissuaderlo e fare da scudo della donna che, oltretutto, dispone di GPS per essere localizzata dalla Polizia.
Il cane scorta (come quello che accompagna i non vedenti) è riconosciuto legalmente?
No, ma le autorità dovrebbero farlo, regolarizzare l’importante ruolo dei cani scorta per donne vittime di violenza di genere. Non sono pericolosi o aggressivi ma socievoli, affettuosi, veri e propri angeli custodi. Non vengono, di certo, addestrati per attaccare o, peggio, uccidere persecutori o aggressori. Hanno un forte senso di ‘giustizia’: sanno che il maltrattamento non è ‘giusto’.
La donna che ha già un cane può anche rivolgersi a centri speciali per richiedere l’addestramento del suo compagno a quattro zampe. Si tratta di addestratori professionisti a cui è saggio rivolgersi per ricevere consigli su come addestrare un cane alla difesa senza attaccare, semplicemente per allontanare il pericolo. Un cane di buona taglia e di carattere vivace, tranquillo ed equilibrato, di solito, è addestrabile alla difesa: interverrà solo se sarà il padrone ad ordinarglielo.
Per chi volese approfondire ecco alcuni link
se quello che ha fatto LA 48ENNE INSEGNANTE DI BARI, DANIELA CASULLI, CONOSCIUTA COME “ZIA MARTINA",lo avesse fatto un uomo lo avrebbero linciato
Da "La Zanzara" - Radio24
“La legge mi consente di fare sesso con i 14enni, nessuno è stato costretto” - “Qualcuno ha perso la verginità con me” - “Ho continuato a fare sesso con alcuni di loro anche durante il processo” - “Il profilattico? Non lo usavo sempre, senza è più bello” - “Rifarlo? Adesso no ma ne avrei tutto il diritto, starei più attenta che nessuno filmi con il cellulare” - A La Zanzara su Radio24 parla Daniela Casulli detta “Zia Martina”, assolta in secondo grado per produzione di materiale pedopornografico: “I genitori dei minori? Alcuni padri volevano fare sesso con me, ho rifiutato e poi si sono accaniti contro di me”
Daniela Casulli intervistata a Le iene
- “Tornerei ad insegnare ma vorrei fare l’avvocato” - Poi sul numero di minori con cui avrebbe fatto sesso… A La Zanzara su Radio24 parla Daniela Casulli, conosciuta come “Zia Martina” la maestra - all’epopoca dei fatti 43enne - condannata in primo grado per produzione di materiale pedopornografico e successivamente assolta in secondo grado perché il fatto non costituisce reato “La legge mi consente di fare sesso con minori di 14 anni se non c’è un rapporto di costrizione. Non mi sono pentita, ho sempre ragionato sul fatto che quello che facevo non era una cosa illegale ed erano i ragazzi a proporsi, era tutto molto spontaneo. Io sono stata assolta dall’accusa di produzione di pornografia e non sono mai stata accusata di adescamento proprio perché non li ho mai cercati io, mai chiesto loro di mandarmi contenuti o materiale hot. E comunque se oggi lo volessi rifare ne avrei tutto il diritto, stando attenta che nessuno abbia telefonini anche perchè tutto il casino è uscito per un video di pochi secondi fatto da uno dei ragazzi”.
“Non pensi che quello che hai fatto possa essere stato un trauma per i ragazzi?”, chiede Cruciani
La risposta della Casulli: “Me lo sono chiesto e l’ho chiesto allo psicologo ma mi ha risposto che se hanno vissuto bene la situazione non c’è un danno e che in futuro questa cosa potrebbe dare loro una libertà sessuale più sicura. Non ho mai costretto i ragazzi a fare niente, era tutto spontaneo, negli incontri sessuali una persona può prendere il sopravvento ma io non l’ho mai fatto”. “Qualche volta cercai qualcuno tu?”, chiede il conduttore. Casulli: “No, mi bastava mettere una storia con una mia foto e mi scrivevano anche cento persone, ero più magra e più pin-up”.
“Ma cosa ti spingeva a cercare dei ragazzi ultra minorenni?”, replica Cruciani.
Daniela Casulli e Matteo Viviani - Le iene
Casulli: “È stata una cosa graduale. Tinder - spiega la maestra - ti da la possibilità di cercare uomini sulla base della fascia d’età, ho iniziato con l’età più adulte poi ho abbassato sempre di più. C'erano ragazzi che dicevano di avere 18 anni ma in realtà ne avevano 14. Comunque In quel periodo, fino a quando non mi hanno dato i domiciliari e durante l’anno del processo, avevo a che fare principalmente con loro (minorenni, ndr)”. “Hai fatto sesso con le parti offese, anche questo è vero?” Chiede il conduttore. La risposta della maestra: “Si a metà del processo ho fatto sesso con il ragazzo di 15 anni con cui ho avuto un’amicizia più lunga, per me era uno scopa-amico”
“Qualcuno ha anche perso la verginità con te?”, ancora Cruciani. Casulli: “Sì è capitato. Voglio aggiungere che se al posto mio ci fosse stato un insegnante uomo sarebbe in galera, lo avrebbero condannato o forse non sarebbe nemmeno vivo vista la società in cui siamo adesso. Una donna adulta suscita nei padri l’orgoglio verso i figli, fosse stato un uomo lo avrebbero cercato per ucciderlo” “Mi permetta di dirle che l’idea che ci sia una persona, uomo o donna che sia, di 40 anni che va con quindicenni, a me un po’ fa schifo”. replica Cruciani. Casulli: “Lo capisco ma nelle ricerche la canterò già “teen” e quella “milf” sono quelle più cliccate”.
“Lei ha parlato con i genitori di queste persone?”, ancora Cruciani. Casulli: “I padri mi dicevano che capivano i loro figli e che anche loro alla loro età avrebbero fatto lo stesso. Qualcuno di questi padri avrebbe voluto venire a letto con me ma ho rifiutato e allora si sono quasi rivoltati contro di me. Il problema morale - prosegue la Casulli - nel mio caso non c’è, ci sarebbe se l’insegnante si frequentasse con un alunno di 16 anni ma io non ero la loro insegnante né la loro tutrice, ero solo una donna con una grande differenza di età. Non c’era alcuna sudditanza, erano ragazzi che mi chiamavano con l’idea di fare esperienza”, ha chiosato la Casulli.
“So che lei non vuole dire il numero di persone minori con cui è stata perché sono tante e non vuole essere accusata di essere una “mangia ragazzini”, non vuole dirlo?, chiede Cruciani. Casulli: “No, la cosa si presterebbe a strumentalizzazioni”. “Ha detto che a volte ha usato il profilattico e a volte no, è vero?”, chiede Cruciani. La replica della Casulli: “A volte ho usato il profilattico e altre volte no come è normale che sia, succede spesso che le persone non lo usino. Io sapevo che questi ragazzi frequentavano solo me e io loro, comunque c’era un rapporto di fiducia e poi senza profilattico è più bello” -
Matteo Viviani intervista Daniela Casulli - Le iene
“Potevi anche rischiare di rimanere incinta”, replica il conduttore. Casulli: “Avrei tenuto, sono contro l’aborto”. “Torneresti ad insegnare?”, chiede in conclusione Cruciani. Casulli: “Vorrei fare l’avvocato ma sarei perfettamente in grado di tornare a fare la maestra”, ha chiosato la maestra.
storie speciali per gente normale storie normali per gente speciale che resiste al degrado politico e culturale del nostro paese i casi di : Paolo Cergnar ,Mauro Berruto, David Yambio,
- Ci sono delle storie che danno speranza da Lorenzo Tosa esse sono :
6.11.25
“NON NE POSSO PIÙ DEI PROGRAMMI DI CUCINA CHE SI VEDONO IN TV, HANNO COMBINATO DISASTRI IRREPARABILI” – ALDO GRA SSO SI CUCINA GLI CHEF CHE IMPERVERSANO NEI PALINSESTI TELEVISIVI
alessandro borghese in cacio e pepe
Fino a poco tempo fa eravamo dei «morti di fame» (metafora) adesso siamo diventati così pretenziosi da storcere il naso per l’impiattamento. Sono sincero, non ne posso più dei programmi di cucina che si vedono in tv, convinto come sono che abbiano combinato disastri irreparabili.
Per un certo periodo della sua storia, la tv ha anche insegnato agli italiani come mangiare meglio, come diversificare i cibi […]
antonino cannavacciuolo giorgio locatelli bruno barbieri
L’altra sera, ho seguito un programma di cucina, non importa quale: era una gara fra ristoranti italiani a Lisbona. L’aspetto più sconsolante erano i tre italiani (due donne e un maschio) che tifavano per il loro ristorante preferito, come fosse una seconda casa, un nido materno dove l’emigrato si consola con i sapori di casa. Ma avreste dovuto sentire come discutevano di cibo!
aldo grasso
Capirei se uno desiderasse mangiare una pietanza (buona) contenuta in un piatto normale e non in una forma oblunga e artistica; […] capirei se volesse un tovagliolo di lino; capirei se volesse pane casareccio senza semi di qualcosa, ma mangiare cacio e pepe a Lisbona e discutere degli aspetti estetici mi è parso il segno del ridicolo in cui siamo sprofondati.
È colpa della tv se il cameriere ti versa il vino quando il bicchiere è ancora mezzo pieno (Montanelli teneva il fiasco sotto il tavolo), è colpa della tv se sono sparite le trattorie, è colpa della tv se ti devi sorbire lo storytelling del piatto e se ogni portata dev’essere instagrammata per far sapere che esisti. Viva i cuochi che vanno poco in video e si dedicano alla cucina.
Ora non sono estimatore di Grasso er il suo modo di criticare ( aldo grasso controversie - Cerca con Google ) ma qui , almeno dalla lettura di questo stralcio ,
ogni tanto Aldo Grasso ne dice una giusta . Infatti non se può più nè di pubblicità in cui sono presenti i grandi chef nè di programmi o reality sulla cucina da loro condotti . Peccato che la critica , anche se io preferisco choiamarla sfogo di Grasso non tocchi i vari programmi di cucina tipo è sempre mezzogiorno e simili che ci sono tv
carlo cracco e Iginio Massari
Carlo Cracco
che per usare le parole dello stesso Grasso spettacolarizzano il cibo e il linguaggio che parla di cibo .troppi cuochi(veri o presunti/ improvvisati )presenti in tv , troppi programmi nella tv pubblica e privata che riguardano direttamente o indirettamente il cibo , ormai non se ne può più.
| Antonino Cavannaciulo |
5.11.25
la serie di netflix il mostro di stefano sollima avrà un seguito secondo me si ? occhio SPOILER
. Devo riconoscere che lo stesso Sollima si è superato . Infatti questo mio giudizio trova conferma in quest articolo : « Su Netflix un racconto agghiacciante: una storia vera svelata come mai prima fin nei minimi dettagli » di https://www.libero.it/magazine
[.... ] Il Mostro, le parole dell’avvocato Vieri Adriani sulla serie NetflixSu Netflix il 22 ottobre 2025 arriva Il Mostro, la nuova serie di Stefano Sollima, creata insieme a Leonardo Fasoli. Racconta gli otto duplici omicidi compiuti tra il 1968 e il 1985 nelle colline toscane, attribuiti al Mostro di Firenze. Sedici vittime, un’unica arma mai ritrovata (un calibro 22 con proiettili Winchester), e un clima di terrore che ha attraversato generazioni. Sollima, noto per Romanzo Criminale e Suburra, si concentra sul lato umano epsicologico della vicenda, partendo dal primo delitto del 1968 visto dagli occhi di Natalino Mele, unico testimone bambino. La serie racconta un’Italia rurale degli anni Sessanta, segnata da patriarcato, gelosie e silenzi, in cui si consumano omicidi come quello di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco. Sollima sceglie un approccio realistico e documentato, evitando la mera ricostruzione processuale, con attori non famosi e dialoghi curati. L’avvocato Vieri Adriani, legale dei familiari delle vittime, commenta ai microfoni di Adnkronos : "La ricostruzione storica appare accurata fin nei dettagli, i dialoghi sono verosimili e ben scritti".
Racconta inoltre la prospettiva plurale della serie: "Da un progetto di questo tipo non ci si può aspettare – né sarebbe auspicabile – una ricostruzione processuale pedissequa, che risulterebbe probabilmente anche piuttosto noiosa. La ricostruzione storica della serie Netflix appare accurata fin nei dettagli; i dialoghi sono verosimili e ben scritti; efficace l’adozione di un punto di vista plurale, che consente più interpretazioni senza costringere lo spettatore a parteggiare per una in particolare.La narrazione si modella sull’aspetto umano e psicologico dei personaggi, evidentemente ispirata agli atti processuali, letti e ponderati con attenzione. Chi è in cerca di ‘verità’ farebbe bene a rivolgere le proprie domande ai magistrati, che finora l’hanno distribuita col contagocce Dieci e lode a Sollima per la sceneggiatura, la fotografia, la cura delle ambientazioni e la scelta delle auto d’epoca". La miniserie sarà composta da quattro episodi e mira a ripristinare autenticità e realismo, raccontando la storia dalle prime vittime fino agli ultimi delitti, senza offrire certezze ma mostrando le ombre, gli errori investigativi e le ipotesi rimaste aperte. [...]
non c’è stato alcun finale conclusivo, anzi tutt’altro . Infatti La narrazione si chiude senza un colpevole ufficiale, anche se molti indizi fanno pensare a Salvatore Vinci. Nel finale, Salvatore scompare e riappare misteriosamente, e la serie introduce Pietro Pacciani tramite una lettera anonima alla polizia, lasciando aperta la possibilità a nuovi episodi incentrati su di lui e sui suoi complici. L’assenza di un colpevole, fa pensare e secondo me sperare ,quindi a una possibile seconda stagione
4.11.25
«Franca dall'olio prima Miss Italia sarda nel 1963, ho preferito la scuola alla celebrità»
da la nuova sardegna
Franca Dall’Olio una donna che non ha mai rinunciato alla testa per la bellezza. Dal Poetto a Salsomaggiore, alla politica con An: «Meloni? Mi piaceva, ora meno»
di Andrea Massidda
Cagliari, estate del 1963. Il sole abbaglia la sabbia del Poetto e le onde lambiscono i sogni di adolescenti che scoprono la musica dei Beatles, ascoltano Martin Luther King pronunciare la frase “I have a dream” e assistono stupefatti all’impresa della cosmonauta sovietica Valentina Tereshkova, prima donna al mondo a volare nello spazio. Tra i bagnanti dello stabilimento “Il Lido”, una diciassettenne dalla bellezza sconvolgente legge un libro sotto l’ombrellone. È Franca Dall’Olio, cagliaritana doc: studiosissima, curiosa di tutto, con un sorriso timido e un carattere forte. Non può immaginare che, di lì a poco, sarà incoronata Miss Italia e la sua vita si troverà a un bivio per poi trasformarsi in un mosaico di esperienze e passioni – il mondo dello spettacolo, la laurea in Lettere, l’insegnamento, la politica, la vita familiare – vissute sempre con grazia, intelligenza e una buona dose di ironia.

«Quando uscii dall’acqua dopo aver fatto un tuffo per rinfrescarmi – ricorda lei stessa adesso che sta per compiere 80 anni – si avvicinò un signore elegante che mi disse: “Tu sarai la mia Miss Italia”. Pensai: “Questo è matto, ma che modo è di abbordare una ragazza?”. E gli dissi: “Grazie, ma lei oltre a essere anziano non è proprio il mio tipo”. Mi spiegò che era Enzo Mirigliani, l’organizzatore del concorso. Risposi che non avevo tempo: a fine settembre iniziava la scuola. Ma quando mi parlò del premio – 500mila lire in gettoni d’oro e un’automobile – cominciai a pensarci. Misi soltanto una condizione: che alle preselezioni partecipassero anche le mie amiche sarde. Accettò».
Signora Dall’Olio, lei che tipino era da ragazza?
«Ero orgogliosa e ambiziosa: mi piaceva primeggiare a scuola. Tuttavia non ero la tipica secchiona. Adoravo uscire e andare a ballare».
Ha infranto molti cuori?
«Modestamente, sì».
Dopo l’incontro con Mirigliani che cosa accadde?
«Niente, superai la selezione regionale e poi andai a Salsomaggiore. Mamma impose che mi accompagnassero mia zia, la moglie del pittore Cosimo Canelles, e mio cugino Paolo: una era stanca e se ne rimase in albergo, l’altro davanti a tante bellezze perse la testa e sparì nel nulla. Morale: mollata da sola».
Va bene, ma almeno alla fine diventò davvero Miss Italia.
«Già. Non ero la più bella, va detto, però avevo carattere: un po’ antipatico forse, ma deciso. E poi rispetto alla media delle altre concorrenti sapevo parlare, non sbagliavo i congiuntivi».
Che ambiente trovò lì al concorso di bellezza?
«Molto serio. Noi reginette eravamo super controllate e sottoposte a orari rigidi e disciplina. Tra le concorrenti c’erano tante ragazze molto carine, ma anche molto semplici. I giornalisti le trattavano come delle oche. Ricordo che Orio Vergani, firma famosissima, sbottò dicendo che eravamo tutte ignoranti».
E lei, con il suo caratterino?
«Io presi subito la difesa della categoria. E da brava studentessa del liceo classico chiamai da parte i cronisti per chiedergli di spiegarmi la differenza tra aoristo debole e aoristo forte. Nessuno seppe rispondere. “Ecco – dissi – voi siete ignoranti e non siete nemmeno belli”. Da quel momento mi guardarono con rispetto».
Insieme alla corona ricevette proposte per lo show business?
«Mi proposero subito due sfilate: una a Glasgow e una a Milano, per lo stilista Emilio Schubert. Accettai giusto per curiosità, ma avevo già altre ambizioni: volevo laurearmi. E in più, nonostante i tira e molla, frequentavo già quello che sarebbe diventato mio marito».
Non le offrirono ruoli nel cinema?
«Sì, ma rifiutai. Avevo un difetto di balbuzie e non volevo essere ridicola. Dissi di no al produttore Cristaldi che mi propose di fare un film con Celentano.“Io con quel buzzurro? Mai!”, gli risposi. Poi mi sono pentita: era un artista vero».
Ha conosciuto personaggi famosi?
«Alla Mostra del Cinema di Venezia conobbi Vittorio Gassman: bravissimo, per carità, ma troppo antipatico. E poi rimasi a parlare a lungo con... oddio, come si chiamava? Dai, quell’attore americano con gli occhi azzurri...».
Paul Newman?
«Ecco, bravo: Paul Newman. Bellissimo e gentile. Magari un po’ basso, per i miei gusti» (ride).
Una volta tornata a Cagliari si laureò subito e andò a insegnare Lettere, giusto?
«Sì, per 28 anni. È stata la mia vera passione. Gli studenti mi rispettavano molto, anche se ero severa. Li facevo scrivere tanto, ma poi mi hanno sempre ringraziato».
Mai avuto rimpianti per non aver continuato nello spettacolo?
«Qualche volta, ma senza nostalgia. È stato un momento di giovinezza, poi sono arrivate le responsabilità. Con mio marito ci sono stati periodi difficili, ma il nostro amore è durato 45 anni».
A un certo punto è entrata anche in politica, con Alleanza nazionale.
«Sì. Mio cugino Valentino Martelli mi chiamò e mi disse: “Ci serve una donna per il Comune di Cagliari, tu sei la persona giusta”. Io non volevo, ma poi mi candidò lo stesso. Alla fine venni eletta. Ho lavorato molto: ho portato fondi per restaurare monumenti, musei, chiese. Bella esperienza».
Le piace Giorgia Meloni?
«Mi piaceva, ultimamente un po’ meno. Comunque è una donna determinata».
Cos’è per lei la bellezza?
«È armonia. Non solo esterna, ma anche interiore. La bellezza senza anima non vale nulla».
Dieci anni fa l’orrore in Sud Sudan, Annet: «Vidi morire mio padre, ora rinasco a Cagliari»
da l'unione sarda 4\11\2025
Era una ragazza quando i guerriglieri gettarono nel dramma la sua famiglia: «Sogno il dottorato, poi aiuterò l’Africa»
L’unico modo è raccontarlo come se fosse successo a un’altra. Altrimenti, le parole si soffocano in gola. Così Annet parla, ma dalla mente scaccia le immagini di quella tragedia: «Era il 2015, entrarono a casa all’improvviso, uccisero mio padre quasi subito. Avevo 15 anni e da noi in Sud Sudan la guerra civile spargeva tanto sangue. Erano in abiti civili e armati, nemmeno capimmo a quale fazione appartenessero. Volevano le cinquanta mucche con cui si sostentava la nostra famiglia di dieci persone. Mio padre rifiutò, significava cadere in miseria, e gli spararono davanti a noi: l’ho visto morire per terra. Poi chiesero alla nostra sorella maggiore se preferiva che i guerriglieri uccidessero mamma e tutti gli otto figli o andare in camera da letto con il capo. Non ci pensò nemmeno: si sacrificò per tutti. I guerriglieri se ne andarono con le nostre mucche, lasciandoci solo dolore e miseria. E papà morto per terra. E mia sorella umiliata».
Juan Annet Poni Micheal è una ragazza timida, dolce e garbata. Ora ha 26 anni e racconta quell’orrore con un filo di voce: «Dopo il raid fuggimmo in Uganda, in un campo per rifugiati». Annet, una roccia gentile, non si è lasciata andare: intelligentissima, vince tutte le borse di studio cui partecipa, a partire da quella del campo per rifugiati. L’ultima, in questi giorni, l’ha condotta a Cagliari: così come un ragazzo eritreo, si è aggiudicata la borsa di studio di Unicore (“Corridoi universitari per rifugiati”) per l’Università inclusiva bandita dall’Agenzia Onu per i rifugiati Unhcr e utilizzabile in 33 Atenei italiani, tra cui Cagliari. È un’iniziativa di Farnesina, Caritas diocesana di Cagliari diretta da monsignor Marco Lai, associazioni e fondazioni, oltre che dell’Ateneo anche attraverso l’Ersu. Un’iniziativa che l’arcivescovo del Capoluogo, monsignor Giuseppe Baturi, anche da segretario della Conferenza episcopale italiana, sostiene con forza. E di cui i sardi sanno troppo poco: un loro aiuto economico alla Caritas diocesana consentirebbe di accogliere altri studenti con storie difficili come Annet e Musie, il ragazzo eritreo giunto con lei in città. Da sabato sono ospiti del Campus “Sant’Efisio” nel Seminario arcivescovile in via Cogoni, dove conseguiranno la laurea magistrale: quarto e quinto anno. Per Annet è la terza vita: la prima finì a 15 anni con il blitz di guerriglieri e l’uccisione del padre, la seconda si è conclusa ora con la partenza dal campo di rifugiati in Uganda («sono tanto grata al Paese che ci ha accolti»), la terza inizia ora. In Sardegna.
Com’è capitata a Cagliari?
«L’ho chiesto: è uno dei pochi Atenei che offre il mio corso di studi in inglese e io l’italiano devo ancora impararlo. La mia gratitudine verso la città, l’Ateneo, la Caritas è grande».
Che cosa studia?
«Mi sono iscritta al corso di laurea magistrale in Economia, finanza e analisi dei dati, che conseguirò qui a Cagliari. Voglio anche un Phd, un dottorato di ricerca. Essere una rifugiata non significa che la mia vita è finita: devo farla ripartire. La borsa di studio che ho vinto in Uganda, la Dafi Scholarship, se l’aggiudicano 60 studenti su duemila. Chi ha ucciso mio padre, stuprato mia sorella e reso la mia onestissima famiglia un gruppo di rifugiati, non riuscirà a fermare anche la mia vita. Vado avanti, malgrado quel che ho dietro le spalle».
Lo dice con un filo di voce.
«Perché non è una rivalsa: lo studio è un diritto fondamentale, consente il riscatto e la riconquista della libertà. Ci credo e lo faccio, non mollerò mai, abiterò nei libri fino a quando non otterrò i risultati che mi prefiggo. Lo farò anche grazie a Cagliari, alla sua Università e alla Caritas» .
Possiamo scommetterci. Quanto è stata dura?
«Durissima, ancora lo è, ma devo farcela. Lo devo a papà che ha tentato di proteggerci anche se era impossibile, agli altri miei familiari, a chi mi aiuta qui e a chi l’ha fatto in Uganda, il Paese che ha accolto l’intera mia famiglia. Lo devo a mio cugino che, finché ha potuto, in Uganda ha pagato i miei studi con quel che riusciva a guadagnare, e l’ho ricambiato col massimo impegno. Lo devo a voi che mi ospitate e mi aiutate. Lo devo a me».
Studia per fare che cosa, dopo che avrà la laurea e anche il Phd?
«Non lo so di preciso, ma certo qualcosa che possa aiutare l’Africa, considerato che lo fanno in pochi nel mondo: le nostre guerre hanno meno seguito rispetto ad altre, anche se tutte sono terribili per le popolazioni: ovunque siano. Non sono mai più tornata in Sud Sudan da quando sono una rifugiata, quindi da una decina d’anni. La guerra civile è finita ma ormai è un Paese allo sbando senza legge né polizia. Ora studio, poi utilizzerò il mio sapere e la posizione che mi consentirà di conquistare per impegnarmi anche per il mio Paese e il mio continente. Adesso tanti aiutano me, poi toccherà a me aiutare e certamente non mi nasconderò. Anzi».
Sarà il frutto che verrà grazie a chi ha deciso di investire su di lei.
«Certamente. E poi faccio di tutto per essere un esempio per le persone che hanno perso tanto, a volte tutto: il riscatto è sempre possibile e sto cercando di dimostrarlo prima di tutto a me, con la speranza di motivare anche altri. Non è mai finita, se non lo consenti».
Dovunque studi, lei è tra i migliori. Ad esempio, seconda durante il college.
«Rientra in quel di cui abbiamo appena parlato. Anche al campo dei rifugiati ugandese, dove sono tornata dopo il college, esistono le borse di studio e io, che non ho più niente, ho fatto di tutto per ottenerla. E adesso si è aggiunta quella che mi ha condotto fin qui, a Cagliari, che si avvia a diventare una delle mie patrie. Nel mio futuro vedo senz’altro l’Uganda, così accogliente con i rifugiati. Cercherò di ricambiare quanto ho ricevuto da quel Paese, ma anche da voi».
Annet non è d’acciaio: i momenti difficili ci sono ma ha deciso che, oltre che il padre, i guerriglieri non avrebbe ucciso anche lei: nell’anima. Allora vive, sogna, progetta: non c’è allegria, ma forza sì. L’entusiasmo della Caritas diocesana, dell’arcivescovo e dell’Università nel sostenere il progetto sono energie, e soldi, be n spesi. Da sei anni, ogni anno un ragazzo e una ragazza rifugiati vengono a studiare all’Università di Cagliari (quella di Sassari non aderisce al progetto) e si salvano, cambiano le loro vite con la qualifica di “dottori”. «Caritas e Università di Cagliari hanno scommesso su di me», sospira Annet, «devo dare un senso a questo aiuto. Solo così continueranno a darlo anche ad altri giovani che vivono un inferno. Devo vincere anche per loro».
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