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8.11.25

Bibbiano, le suore organizzano nel convento il corso di autodifesa per le donne: ma non si diceva porgi l'altra guancia ?

  da :     caffe  ristretto  unione  sarda  , corriere  della sera  tramite   https://www.msn.com/ 

Se non dovesse bastare un Pater Noster per schiantare il bulletto mano morta, ricorrere a una mossa di judo non è peccato neppure per la suora. Il proverbio “aiutati che il ciel ti aiuta” è attualizzato dalle salesiane che a Bibbiano, comune dell’Emilia, suggeriscono alle donne come mettere schiena a terra il delinquente che ci prova. Nei tempi in cui Berta filava l’altra guancia la porgevano le anime pie disposte al martirio, ora il sacrificio suona male: à la guerre comme à la guerre. È più che santo il progetto della direttrice dell’istituto Maria Ausiliatrice suor Paola Della Ciana, laurea in psicoterapia, di promuovere nella palestra della scuola gestita dalle religiose un corso di autodifesa gratuito affidato a un’associazione di judo, rivolto a tutte le ragazze e donne della città, dai 14 anni in su. “Di fronte alla violenza è bene sostenere l’autodifesa, perché la dignità va sempre salvaguarda e protetta. Come dimostrano i femminicidi ci sono situazioni che richiedono una difesa tempestiva e furba”. Rosarium et baculum, per calmare i bollenti spiriti del bollito da una mistura di pastiglie avvelenate. In un tempo in cui le paure sconfinano nel terrore le suore, oltre a far capire quando certe situazioni di pericolo possono sfociare nella violenza, consigliano ciò che serve per calmare gli indemoniati: spada a destra e Vangelo a sinistra.
Infatti è notizia di questi giorni che
Nell’istituto delle figlie di Maria Ausiliatrice, dalla violenza ci si difende e alla violenza si reagisce. Con le mosse di judo.
L’iniziativa è sold out. Le richieste superano di gran lunga i posti disponibili. «Non ci aspettavamo tutto questo interesse e un’adesione così alta», dice suor Paola Della Ciana, la direttrice. E invece. Il connubio religiose-autodifesa si è rivelato vincente.
Dunque. Ore 18:45, mercoledì 5 novembre, inizia il corso di autodifesa per donne organizzato dalle salesiane. Quattro lezioni in tutto (ogni mercoledì) completamente gratuite. Pienone. La location è la palestra dell’istituto. Campagne di Bibbiano, Reggio Emilia. Sì, «quella» Bibbiano.
Correva l’estate populista 2019 quando scattarono gli arresti per un presunto giro di affidi illeciti; ci finì dentro anche l’allora sindaco dem Andrea Carletti: assolto (e non solo lui). La destra cavalcò l’onda. Indimenticabile la t-shirt indossata a Montecitorio dalla senatrice leghista Lucia Borgonzoni: «Parlateci di Bibbiano», c’era scritto.
Parliamone, dunque, oggi. In questa palestra, in questo istituto religioso, i fantasmi dell’inchiesta «Angeli e Demoni» sono un ricordo lontano. E la celebrità inattesa che regala l’iniziativa delle suore è per i bibbianesi un piccolo riscatto. Anche suor Paola sembra pensarla così: «Questa è una comunità sana», rivendica, mentre allieve e istruttori si preparano per la lezione.
Le donne sono sessanta. E ne sono rimaste fuori ben quaranta. «Il 55% ha più di quarant’anni, il 20 fra i trenta e i quaranta, poi ci sono le under trenta», snocciola i dati soddisfatta suor Laura, 37 anni da Livorno. L’idea del corso è sua. Suor Laura insegna alle medie dell’istituto e, spiega, ogni anno organizza qualcosa per il 25 novembre, Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Quest’anno ha voluto fare le cose in grande. Con la benedizione di suor Paola, che è psicoterapeuta e quindi di violenza ne sa qualcosa.
«Avevamo pensato alla fascia d’età 14-60, ma si sono iscritte anche donne più in là con gli anni», precisa. La senior della squadra è Luciana, 69 grintosi anni. Dice di essere qui perché «questo mondo» non le piace. Ma anche per le sue due nipotine: «Voglio apprendere per insegnare loro come difendersi».
L’istruttore è Ettore Franzoni, della scuola Uchi Oroshi Judo di Bibbiano. Ha accettato di farlo gratis perché ci crede. Cominciamo. «Tornerete tutte a casa con i polsi dolenti», premette. Il primo incontro è infatti dedicato alle tecniche per divincolarsi dalla presa dell’aggressore. Come reagire se ti afferra un polso? E se li afferra tutti e due? «In questo caso dobbiamo chiedere a suor Laura - sorride Ettore - perché non ci resta che pregare». Le donne lo guardano smarrite. Ma lui subito precisa: «Nel senso che la tecnica è quella delle mani giunte, come in preghiera». Sollievo. Le allieve si organizzano a coppie e fanno le prove. «Dovete essere più decise, non tentennate», le sprona l’istruttore. E loro ci danno dentro.
Per riprendere fiato un po’ di teoria. «Quando siete in giro da sole la prima regola è mantenere un atteggiamento attento, avere l’ambiente sotto controllo», spiega il Sensei. «Se qualcuno si avvicina con far sospetto, dobbiamo per prima cosa capire chi abbiamo difronte», prosegue. E via così. Qualcuna prende appunti. Qualcuna registra. Tutte ascoltano in religioso - è il caso di dire - silenzio. Grate. E pronte per la prossima lezione.
«Una precisazione importante - dice suor Paola prima di congedarsi -. Il nostro ordine è stato fondato da don Bosco, ma anche da santa Maria Domenica Mazzarello, donna che nessuno cita mai». La parità di genere si costruisce anche così.
« La prevenzione è » come dichiarato a Vanity Fair Italia « un pilastro della nostra missione. In questo caso significa aiutare le donne a rafforzare fiducia e consapevolezza di sé, riconoscendo la propria dignità in ogni situazione». Educazione, fede e responsabilità civile: parte da qui il corso gratuito di autodifesa al femminile organizzato dalle suore salesiane di Suor Maria Ausiliatrice di Bibbiano (Reggio Emilia). Un'iniziativa nata con l'obiettivo specifico di fornire risposte concrete di contrasto alla violenza di genere. I corsi si tengono nella palestra dell'Istituto che ospita le scuole dell'infanzia, le primarie e le medie. Qui le religiose fanno educazione all'affettività. «Qui è lo spazio dove si combatte la violenza di genere grazie ad un progetto educativo che parte dalla scuola».
A guidare gli incontri sono quattro maestri esperti dell’associazione sportiva Uchi Oroshi Judo, che hanno scelto di mettere gratuitamente a disposizione la loro professionalità. Il loro obiettivo, ha spiegato al Resto del Carlino il maestro Ettore Franzoni, cintura nera 8° Dan, è di insegnare alle donne prima di tutto a mettersi al sicuro, a togliersi dall’imbarazzo di un’aggressione o di una minaccia.Incredule per il riscontro e la risonanza del corso le religiose. L'idea era nata l'estate scorsa da suor Laura Siani, 37 anni, insegnante ed educatrice, che dopo aver testato l'interesse verso il corso da parte degli animatori del Grest poi ha sviluppato il progetto insieme alla direttrice dell’Istituto, suor Paola Della Ciana proponendo l’esperienza per tutta la comunità, in coincidenza con il mese dedicato alla Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Il corso è andato sold out in pochi giorni: secondo un’analisi interna condotta dalle religiose, il 30% delle iscritte ha tra i 40 e i 50 anni, il 25% tra i 50 e i 60, il 23% tra i 25 e i 40 e il 15% tra i 14 e i 24.

ANCORA ESISTE LO ZECCHINO D'ORO ?Parroco sardo don Francesco Marruncheddu allo Zecchino d’Oro: è l’autore del brano “Ci pensa il vento

   NUOVA  SARDEGNA  8\11\2025

Dalla chiesa alla Tv

Parroco sardo allo Zecchino d’Oro: è l’autore del brano “Ci pensa il vento


La prima volta nella storia della gara canora. A cantare la canzone del sacerdote sarà Emma (9 anni) con l’accompagnamento del Piccolo Coro “Mariele Ventre” dell’Antoniano

C’è anche il parroco della parrocchia di San Giovanni Bosco a Sassari, don Francesco Marruncheddu, tra gli autori di una delle canzoni in gara alla 68esima edizione dello Zecchino d’Oro. Per tre giorni, dal 28 al 30 novembre, lascerà messe, omelie e catechismo nella chiesa di via Washington e sarà all’Antoniano di Bologna dov, in diretta su RaiUno, verrà eseguito il brano “Ci pensa il vento”, di cui Marruncheddu ha scritto il testo. La canzone, musicata dal maestro vicentino Lodovico Saccol, vincitore di tre edizioni dello Zecchino d’Oro, sarà interpretata da Emma (9 anni) una bambina di Monza con l’accompagnamento come per tutte le altre tredici canzoni in gara, del Piccolo Coro “Mariele Ventre” dell’Antoniano, diretto da Margherita Gamberini.
Don Francesco Marruncheddu originario di Oristano, dal 2015 sacerdote dell’arcidiocesi di Sassari, è anche giornalista pubblicista e con la sua partecipazione rompe un religioso silenzio quasi settantennale: è la prima volta, infatti, che un sacerdote compare tra gli autori di un pezzo allo Zecchino d’Oro. «Ci pensa il vento è un brano semplice, ma dal sapore fortemente introspettivo», racconta don Francesco Marruncheddu. «Nasce dalla riflessione su un elemento naturale, il vento, sempre presente e vitale, che tutti pensiamo di conoscere bene, ma che in realtà non controlliamo e non possediamo, e che rimane misterioso e ingovernabile. Tanto presente quanto impalpabile, apportatore di vita e compagno di storie e momenti belli, come quando ci regala ristoro nelle calde giornate estive, ma a volte anche impegnativi quando agita le onde del mare, non permettendo ad esempio di fare il bagno, ma offrendoci comunque sempre scene di una potenza grandiosa e solenne. Il vento, in questa canzone, viene visto anche come un compagno della vita di ogni giorno, quasi personificato, capace di evocare fotogrammi di tempi passati o romantici, proprio come un caro amico».
Lodovico Saccol ha musicato “Ci Pensa il vento" perché colpito dal colore e dalle immagini del testo, immediate e a misura di bambini piccoli, e dalla narrazione del rapporto tra uomo e ambiente. Al 68° Zecchino d’Oro, che vede ancora Carlo Conti alla direzione artistica, “Ci Pensa il vento” sarà una delle 14 canzoni in gara. Anche quest’anno spiccano i nomi di autori storici dello Zecchino, come Mario Gardini, Carmine Spera, Flavio Careddu, Alessandro Visintainer, e nomi del panorama musicale italiano e dello spettacolo, come Stefano Accorsi, Enrico Nigiotti e Filippo Gentili. Anche quest’anno, attraverso Operazione Pane, la manifestazione lanciata da Cino Tortorella (Mago Zurlì della Tv dei ragazzi) si propone di sostenere le mense francescane per i fratelli bisognosi in Italia e in alcune parti del mondo toccate da guerra e povertà: un aiuto concreto, perché la musica dello Zecchino divenga pane e accoglienza per i meno fortunati.

Carla Monni: «Con l’intelligenza artificiale creo ponti tra l’isola e il mondo»L’artista di Orune tra i protagonisti di Connessioni Future 2025 «La tecnologia non sostituisce la creatività, è uno strumento che aiuta l’arte»

 da  ms.it 

C’è un punto d’incontro in cui mito, identità e tecnologia smettono di essere mondi separati e si incontrano, grazie all’intelligenza artificiale. In quel luogo virtuale si trova il lavoro

di Carla Monni artista sarda che sarà tra i protagonisti di Connessioni Future 2025. Racconterà come l’intelligenza artificiale possa diventare strumento creativo e, insieme, leva imprenditoriale per chi ha idee ma non dispone per forza di budget hollywoodiani.

Di cosa parlerà al pubblico di Connessioni Future?
«Vorrei mostrare che l’intelligenza artificiale può essere un alleato della creatività. Racconterò il mio percorso e i modi alternativi di costruire impresa partendo dall’arte. Monniverse è un progetto nato dal desiderio di democratizzare lo storytelling, di togliere il monopolio ai grandi colossi come Disney e restituire la possibilità di creare anche a chi non dispone di risorse economiche enormi. Monniverse l’ho creata come una nuova Atlantide digitale, ispirata alla Sardegna tra passato e futuro».

Come funziona una mostra di Monniverse?
«Ogni esposizione racconta un diverso “regno” dell’universo che ho immaginato, ognuno legato a un aspetto della Sardegna. L’obiettivo è che chiunque, un sardo, un americano o un coreano, possa riconoscervisi. L’estetica è pop e internazionale, ma dietro c’è la memoria delle leggende sarde. In alcune tappe ho messo a disposizione generatori d’immagini: i bambini potevano creare i propri personaggi e sentirsi parte della storia, un’esperienza immersiva».

Quando ha capito che l’intelligenza artificiale avrebbe cambiato il suo lavoro e il suo modo di fare arte?
«Nel 2018, a Helsinki. In quel periodo si cominciava a parlare di intelligenza artificiale e arte generativa. Ho seguito corsi universitari e mi sono accorta che la tecnologia poteva diventare un’estensione del corpo, quasi un organo nuovo del pensiero. Ho iniziato a concepirla non come una minaccia ma come un’estensione della mente creativa».

Molti temono le conseguenze dell’Ia, lei come la vive?
«È un po’ come avvenne con la rivoluzione industriale: alcuni lavori spariranno, ma ne nasceranno altri. L’intelligenza artificiale è un mezzo potentissimo, il problema non è la macchina ma la gestione dei dati. Bisogna sapere a cosa si acconsente, quando si clicca “ok” sui cookies o si usa il riconoscimento facciale. La responsabilità resta umana. L’etica dovrà essere la bussola delle istituzioni».

C’è il rischio che possa sostituire la creatività umana?
«No. È come se si trattasse di un pennello nuovo. Quando uscì photoshop molti dissero che l’arte digitale non era arte: oggi nessuno lo pensa più. La tecnologia accelera, ma non sostituisce. Due persone possono usare lo stesso modello e produrre risultati completamente diversi: la differenza resta nella mente, non nel codice». 

Quale consiglio darebbe a chi vuole sperimentare?
«La cosa più importante è sempre la comunicazione. Bisogna imparare a parlare. Lo dico sul serio: la macchina ti costringe a essere chiaro. Scrivere un buon prompt è come tornare alle analisi logiche di scuola: impari a ordinare le idee, a dare priorità, a tradurre la visione in parole. L’Ia ti insegna a comunicare meglio, e questo migliora anche la creatività».

Come immagina l’intelligenza artificiale nel futuro?
«Ci sarà una fase di crisi. Un’azienda può già creare dieci agenti digitali che gestiscono social, mail, agenda: è inevitabile che molti ruoli scompaiano. Ma poi arriverà un nuovo equilibrio. La cosa più grande che accadrà sarà la democratizzazione del sapere: non serviranno più università costose per imparare. L’accesso all’informazione diventerà sempre più libero, e riuscirà ad abbattere molte barriere sociali».

Cambieranno anche i rapporti tra persone e culture?
«Assolutamente. L’intelligenza artificiale cancella la necessità del luogo fisico. La globalizzazione culturale è già realtà: le nuove generazioni non vedono differenze di nazionalità. Online puoi essere una sirena o un fungo e dialogare con chiunque. È un mondo senza confini, dove l’identità diventa scelta e racconto. Ci saranno rischi, certo, ma anche un’enorme possibilità di connessione».
«Noi in Italia e in Europa siamo privilegiati: altrove una donna può usare il telefono per lavorare o studiare, pur vivendo in un contesto che le nega libertà. Per molte persone la tecnologia non è un gioco, è una via d’uscita. È su questa prospettiva globale che bisogna misurare le paure occidentali verso l’Ia».

Oggi Monniverse è anche un archivio di miti sardi reinterpretati.
«Una delle figure che amo di più è la Surbile, la strega-vampira che, secondo la tradizione, rubava l’anima ai bambini non battezzati. Nel mio mondo è diventata una sirena un po’ folle, ossessionata dal tempo. È il mio modo per dire che le storie antiche possono rinascere e parlare ancora di noi, se usiamo linguaggi nuovi. Mi piace pensare che la tecnologia non allontani ma avvicini. Monniverse è un ponte tra memoria e futuro, tra la mia isola e il mondo. L’arte, oggi, è il modo più potente per costruire connessioni».

Attaccare lei per colpire lui Non sapendo più come prendersela con Zohran Mamdani, le orde di miserabili odiatori si sono riversate sul nuovo obiettivola moglie Rama Duvaji

Leggo e concordo ( non sapevo che il termine frst lady fosse maschilista \ sessista ) a Lorenzo Tosa che << Non sapendo più come prendersela con Zohran Mamdani, le orde di miserabili odiatori si sono riversate sul nuovo obiettivo: Rama Duvaji, 28 anni, tra e dopo le mille altre cose notevoli, moglie del neo sindaco di New York.In queste ore stanno riversando su questa donna una centrifuga spaventosa di sessismo, misoginia, islamofobia, body shaming violentissimo.“Mariangela di Fantozzi?”“Viene fuori da un centro sociale?”Dai che tra poco a Wall Street contratteranno i prezzi dei cammelli”.“Sarà la schiava di questo talebano malefico “Fa pandan con il bidone a fianco”. Solo per citare quelli pubblicabili. [...] Ma, per favore, non chiamatela “first lady”, come già sta facendo in
modo insopportabilmente sessista tre quarti della stampa italiana e mondiale.
Rama Duvaji e la sua arte esistono prima di Mamdani e a prescindere da lui. Anzi, loro due insieme, uno a fianco all’altro, non davanti né dietro, in questo momento storico rappresentano un neo pericoloso e meraviglioso al trumpismo e al nazionalismo dominante, dimostrando che esiste - e può esistere anche al potere - un’America diversa, giovane, multietnica, progressista, non bianca, non convenzionale.Rama Duvaji rappresenta tutto ciò che il trumpiano-salviniano medio detesta.Ah, e, per inciso, se proprio insistete, è pure bellissima. Ma pretendere che un trumpino lo capisca, mi rendo conto, è chiedere troppo.>> Infatti tali persone , proprio ,non riescono ad accettare che sia una donna di successo prima e a prescindere dall’exploit di Mamdani, al quale ha dato per altro un contributo decisivo. È stata lei a creare la campagna visual e social ormai già diventata mitica e che avrà epigoni e imitatori in tutto il mondo.  Poveri piccoli esseri che per sopportare la loro vita miserabile hanno bisogno di riversare odio verso chi invece vive una vita degna di essere vissuta.infatti Un attacco come quello a Rama Duvaji non racconta nulla di lei e tutto del livello miserabile di chi lo porta avanti. Quando una donna giovane, competente, libera, multiculturale e autorevole entra nello spazio pubblico senza chiedere permesso, il riflesso dei mediocri è sempre lo stesso: provare a riportarla nel recinto degli stereotipi. Sessismo, razzismo, islamofobia, body shaming… è il solito arsenale di chi non ha argomenti ma pretende di fare politica insultando. La verità, che a molti brucia, è che la storia di Rama e Mamdani incrina una narrazione tossica: mostra che esiste un’America capace di includere, innovare, cambiare pelle. Una coppia che non recita il copione patriarcale; una campagna elettorale costruita con creatività, idee e coraggio; una visione che rompe la bolla bianca e nazionalista che certi ambienti vorrebbero eterna. Ora Il punto è semplice. Rama Duvaji non è un accessorio. È una protagonista. Una professionista che si è guadagnata tutto quello che ha con talento e lavoro, non con il cognome di un uomo. Ed è proprio questo che scatena il livore degli odiatori: non riescono a tollerare che la politica possa essere diversa da quella fatta di clan familiari, leaderismi maschili e slogan da salotto televisivo.Chi la attacca soprattutto in questo modo rivela solo la propria paura. Paura di perdere un mondo costruito sulla supremazia di uno standard: bianco, maschio, etero, nazionalista, conservatore. Un mondo che scricchiola sempre di più. Questa vicenda, al netto della miseria umana degli insulti, è un segnale positivo. Vuol dire che il cambiamento non lo stanno solo raccontando. Lo stanno incarnando. E chi vive di odio, quando la realtà si muove davvero, resta sempre un passo indietro.

«Ho sconfitto il cancro grazie alla ricerca e alle cure sperimentali» L’esperienza di Giovanna Manca, vent’anni, nuorese, testimonial dell’Airc: «Vorrei aiutare chi vede tutto nero»

La lotta contro i.l cancro ed i tumori non ha etàe genere . Questa storia di oggi , una delle tante , lo dimostra . Essa è anche una risposta di come le cure sperimentali non sono solo dannose . Ma soprattuytto è , anzi dovrebbe essere , una risposta a chi vede nella sperimentazioni di cure ( vedi vaccino contro il covid ) solo un qualcosa di negativo . Ma ora basta parlare io . Eccovi la storia in questione  .
                                                Sara marci  unione sarda del 7\11\2025

 «Se oggi sono viva è grazie alla ricerca». La diagnosi a sei anni: quella spietata, che ti porta via la leggerezza dell'infanzia e ti ruba i sorrisi. Intanto iniziano le trasferte da Nuoro al Microcitemico di Cagliari e l'appuntamento con la chemio. I capelli vanno via, ciocca dopo ciocca, ma i risultati non arrivano e portano Giovanna Manca e i suoi genitori a bussare alle porte del Bambin Gesù di Roma.
La svolta nella Capitale è una terapia sperimentale. Funziona. Così come funziona il trapianto di midollo che lei, allora bambina, riceve dalla sua sorellina Sofia, di appena tre anni: «Se oggi posso raccontare la mia storia è grazie ai progressi della medicina, grazie all'Airc e ovviamente a mia sorella». Una testimonianza preziosa, a ridosso dal nuovo appuntamento della Fondazione italiana per la ricerca sul cancro, che dopo la tappa al Quirinale torna in piazza ed entra anche nelle scuole con i cioccolatini della ricerca. Ultimo evento del sessantesimo anniversario e occasione imperdibile per fare in modo che le storie di chi ce l'ha fatta diventino sempre di più.
«So che la mia storia può servire a tante famiglie che oggi affrontano ciò che ha vissuto la mia. Spero possa portare un po' di luce e speranza a chi vede tutto nero». C'è la forza e la consapevolezza della malattia sconfitta, nella voce e nel racconto di Giovanna, vent'anni, nuorese, iscritta al secondo anno di Scienze Politiche. La forza di chi ha sconfitto il cancro e scoperto il gusto più amaro della vita in un'età in cui si è forse troppo piccoli per capire ma probabilmente più forti per non pensare al peggio. «Ho iniziato a star male in prima elementare. Avevo sei anni ma ero sempre triste, stanca, con un colorito grigiastro. All'inizio i medici non capirono, parlarono prima di una cistite poi si arrivò alla diagnosi: leucemia linfoblastica acuta, in una forma per quei tempi molto rara. Il giorno dopo mamma e papà mi portarono al Microcitemico». Era il 2012, la chemio e le cure non danno i risultati sperati. I suoi genitori non si rassegnano: continuano a lottare e a cercar risposte. «Mamma scoprì grazie al sito dell'Airc che erano in corso alcune terapie sperimentali. Si mise in contatto con il professor Locatelli del Bambin Gesù, si prese a cuore il nostro caso. Iniziai le cure e poi mi sottoposero a trapianto di midollo che mi donò mia sorella Sofia, risultata compatibile al cento per cento. L'anno dopo, nel 2013, sono ufficialmente guarita e poco per volta mi sono ripresa la vita messa in pausa dal cancro». Dodici anni dopo è la testimonianza vivente che la ricerca è la cura, anche per il cancro.
Quella ricerca che riporta all'Airc, principale organizzazione non profit per la ricerca oncologica indipendente in Italia, e ai sei decenni in prima linea nel rendere le patologie oncologiche più curabili. Anche grazie alla vendita dei cioccolatini, che domani vedrà impegnati migliaia di volontari in centotrenta comuni sardi, con oltre centottanta piazze, quindici scuole e diciotto plessi, dove con una piccola donazione si potrà contribuire a sposare la nobile causa di chi quotidianamente si prodiga nel cercare risposte concrete per far correre la medicina più veloce della malattia che ancora spaventa e porta a 390mila e cento nuovi casi ogni anno. Con la percentuale d'incidenza più alta del tumore al seno, seguita da quello al colon-retto e al polmone. Altra ragione per sostenere la fondazione Airc, così come ha deciso di fare anche il mondo del calcio. Con la serie A che da oggi a domenica inviterà tifosi e appassionati a sostenere il lavoro dei ricercatori. E poi sarà la volta degli Azzurri, a fianco di Airc nelle sfide con Moldavia e Norvegia per accedere ai Mondiali. E nella partita della vita, fuori campo, contro il cancro.

7.11.25

Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco n LVI QUANDO SEI A PASSEGGIO CON IL CANE FIDATEVI DEL SUO ISTINTO

 

a quanto detto,vedere slide a sinistra ,    da Antonio Bianco sull'ultimo n del setttimala Giallo vorrei aggiungere che Tra decreti legge, normative, campagne, promesse, iniziative e manifestazioni contro la violenza di genere, non sono poche le donne che adottano cani antiviolenza per la difesa personale. Difesa dalle violenze sessuali, dallo stalking, dalle molestie ed aggressioni.Infatti esistono cani appositamente ‘educati’ da scuole di addestramento speciali per proteggere le donne vittime di violenza. Esemplari di razze selezionate che non esiteranno ad intervenire per difendere le vittime dai loro aggressori. Viene addestrato il cosiddetto ‘cane scorta’ e viene ‘educata’ anche la donna attraverso un particolare allenamento per imparare a controllare gli istinti del cane e la situazione di pericolo.
Di solito, al cane da difesa viene applicata una museruola rivestita in acciaio. Non deve dimostrarsi aggressivo: deve semplicemente immobilizzare l’aggressore al momento giusto per dar modo alla donna di liberarsi da lui e chiedere aiuto. Quando la donna viene aggredita, il cane si lancia sull’aggressore e gli assesta un colpo per bloccarlo e immobilizzarlo. Deve dissuaderlo e fare da scudo della donna che, oltretutto, dispone di GPS per essere localizzata dalla Polizia.
Il cane scorta (come quello che accompagna i non vedenti) è riconosciuto legalmente?
No, ma le autorità dovrebbero farlo, regolarizzare l’importante ruolo dei cani scorta per donne vittime di violenza di genere. Non sono pericolosi o aggressivi ma socievoli, affettuosi, veri e propri angeli custodi. Non vengono, di certo, addestrati per attaccare o, peggio, uccidere persecutori o aggressori. Hanno un forte senso di ‘giustizia’: sanno che il maltrattamento non è ‘giusto’.
La donna che ha già un cane può anche rivolgersi a centri speciali per richiedere l’addestramento del suo compagno a quattro zampe. Si tratta di addestratori professionisti a cui è saggio rivolgersi per ricevere consigli su come addestrare un cane alla difesa senza attaccare, semplicemente per allontanare il pericolo. Un cane di buona taglia e di carattere vivace, tranquillo ed equilibrato, di solito, è addestrabile alla difesa: interverrà solo se sarà il padrone ad ordinarglielo.
Per   chi  volese    approfondire   ecco  alcuni link 

se quello che ha fatto LA 48ENNE INSEGNANTE DI BARI, DANIELA CASULLI, CONOSCIUTA COME “ZIA MARTINA",lo avesse fatto un uomo lo avrebbero linciato


 

Da "La Zanzara" - Radio24

 

Daniela Casulli

“La legge mi consente di fare sesso con i 14enni, nessuno è stato costretto” - “Qualcuno ha perso la verginità con me” - “Ho continuato a fare sesso con alcuni di loro anche durante il processo” - “Il profilattico? Non lo usavo sempre, senza è più bello” - “Rifarlo? Adesso no ma ne avrei tutto il diritto, starei più attenta che nessuno filmi con il cellulare” - A La Zanzara su Radio24 parla Daniela Casulli detta “Zia Martina”, assolta in secondo grado per produzione di materiale pedopornografico: “I genitori dei minori? Alcuni padri volevano fare sesso con me, ho rifiutato e poi si sono accaniti contro di me”

 




Daniela Casulli intervistata a Le iene

- “Tornerei ad insegnare ma vorrei fare l’avvocato” - Poi sul numero di minori con cui avrebbe fatto sesso… A La Zanzara su Radio24 parla Daniela Casulli, conosciuta come “Zia Martina” la maestra - all’epopoca dei fatti 43enne - condannata in primo grado per produzione di materiale pedopornografico e successivamente assolta in secondo grado perché il fatto non costituisce reato “La legge mi consente di fare sesso con minori di 14 anni se non c’è un rapporto di costrizione. Non mi sono pentita, ho sempre ragionato sul fatto che quello che facevo non era una cosa illegale ed erano i ragazzi a proporsi, era tutto molto spontaneo. Io sono stata assolta dall’accusa di produzione di pornografia e non sono mai stata accusata di adescamento proprio perché non li ho mai cercati io, mai chiesto loro di mandarmi contenuti o materiale hot. E comunque se oggi lo volessi rifare ne avrei tutto il diritto, stando attenta che nessuno abbia telefonini anche perchè tutto il casino è uscito per un video di pochi secondi fatto da uno dei ragazzi”.

 “Non pensi che quello che hai fatto possa essere stato un trauma per i ragazzi?”, chiede Cruciani

daniela casulli

La risposta della Casulli: “Me lo sono chiesto e l’ho chiesto allo psicologo ma mi ha risposto che se hanno vissuto bene la situazione non c’è un danno e che in futuro questa cosa potrebbe dare loro una libertà sessuale più sicura. Non ho mai costretto i ragazzi a fare niente, era tutto spontaneo, negli incontri sessuali una persona può prendere il sopravvento ma io non l’ho mai fatto”. “Qualche volta cercai qualcuno tu?”, chiede il conduttore. Casulli: “No, mi bastava mettere una storia con una mia foto e mi scrivevano anche cento persone, ero più magra e più pin-up”.
“Ma cosa ti spingeva a cercare dei ragazzi ultra minorenni?”, replica Cruciani.

 

Daniela Casulli e Matteo Viviani - Le iene

 Casulli: “È stata una cosa graduale. Tinder - spiega la maestra - ti da la possibilità di cercare uomini sulla base della fascia d’età, ho iniziato con l’età più adulte poi ho abbassato sempre di più. C'erano ragazzi che dicevano di avere 18 anni ma in realtà ne avevano 14. Comunque In quel periodo, fino a quando non mi hanno dato i domiciliari e durante l’anno del processo, avevo a che fare principalmente con loro (minorenni, ndr)”. “Hai fatto sesso con le parti offese, anche questo è vero?” Chiede il conduttore. La risposta della maestra: “Si a metà del processo ho fatto sesso con il ragazzo di 15 anni con cui ho avuto un’amicizia più lunga, per me era uno scopa-amico”

 

daniela casulli

“Qualcuno ha anche perso la verginità con te?”, ancora Cruciani. Casulli: “Sì è capitato. Voglio aggiungere che se al posto mio ci fosse stato un insegnante uomo sarebbe in galera, lo avrebbero condannato o forse non sarebbe nemmeno vivo vista la società in cui siamo adesso. Una donna adulta suscita nei padri l’orgoglio verso i figli, fosse stato un uomo lo avrebbero cercato per ucciderlo” “Mi permetta di dirle che l’idea che ci sia una persona, uomo o donna che sia, di 40 anni che va con quindicenni, a me un po’ fa schifo”. replica Cruciani. Casulli: “Lo capisco ma nelle ricerche la canterò già “teen” e quella “milf” sono quelle più cliccate”.

 

“Lei ha parlato con i genitori di queste persone?”, ancora Cruciani. Casulli: “I padri mi dicevano che capivano i loro figli e che anche loro alla loro età avrebbero fatto lo stesso. Qualcuno di questi padri avrebbe voluto venire a letto con me ma ho rifiutato e allora si sono quasi rivoltati contro di me. Il problema morale - prosegue la Casulli - nel mio caso non c’è, ci sarebbe se l’insegnante si frequentasse con un alunno di 16 anni ma io non ero la loro insegnante né la loro tutrice, ero solo una donna con una grande differenza di età. Non c’era alcuna sudditanza, erano ragazzi che mi chiamavano con l’idea di fare esperienza”, ha chiosato la Casulli.

 

daniela casulli

“So che lei non vuole dire il numero di persone minori con cui è stata perché sono tante e non vuole essere accusata di essere una “mangia ragazzini”, non vuole dirlo?, chiede Cruciani. Casulli: “No, la cosa si presterebbe a strumentalizzazioni”. “Ha detto che a volte ha usato il profilattico e a volte no, è vero?”, chiede Cruciani. La replica della Casulli: “A volte ho usato il profilattico e altre volte no come è normale che sia, succede spesso che le persone non lo usino. Io sapevo che questi ragazzi frequentavano solo me e io loro, comunque c’era un rapporto di fiducia e poi senza profilattico è più bello” -

 

Matteo Viviani intervista Daniela Casulli - Le iene

“Potevi anche rischiare di rimanere incinta”, replica il conduttore. Casulli: “Avrei tenuto, sono contro l’aborto”. “Torneresti ad insegnare?”, chiede in conclusione Cruciani. Casulli: “Vorrei fare l’avvocato ma sarei perfettamente in grado di tornare a fare la maestra”, ha chiosato la maestra.

storie speciali per gente normale storie normali per gente speciale che resiste al degrado politico e culturale del nostro paese i casi di : Paolo Cergnar ,Mauro Berruto, David Yambio,


 Davanti al   degrado politico, culturale, morale del Paese  sempre   più  evidente     che  può essere riassunto da  tale  foto 


e   da  come dice Soumaila Diawara : « Questa immagine è il manifesto del fallimento di una classe dirigente che ha trasformato la politica in farsa e il dibattito pubblico in fango. L’ex ministro rappresenta un Paese che ha smarrito la vergogna, la competenza e il senso del limite. Altro che guida: è il simbolo di una degenerazione che ha contaminato tutto.»

  • Ci  sono       delle     storie     che danno speranza    da   Lorenzo Tosa esse  sono : 


Paolo Cergpnar è un vigile del fuoco e un sindacalista. Uno di quelli che porta con orgoglio l’uniforme da pompiere. Talmente orgoglioso che, lo scorso 22 settembre, in occasione dello sciopero generale per Gaza, lui, in qualità di rappresentante sindacale Usb, è salito sul palco per denunciare il genocidio con quella divisa indosso. Ha parlato del senso ultimo del suo mestiere: salvare vite umane. Lo ha detto chiaramente: “Salviamo i bambini palestinesi. Siamo ambasciatori di buona volontà dell’UNICEF e portiamo sul petto l’emblema dell’UNICEF e dobbiamo garantire a tutti i bambini la sicurezza e la Pace”. Eppure, per aver detto tutto questo con indosso una divisa da vigile del fuoco, Cergnar ha ricevuto un avviso di procedimento disciplinare e rischia sanzioni disciplinari che vanno dal richiamo a, addirittura, il licenziamento. In un Paese minimamente diritto, Paolo andrebbe ringraziato, e pure premiato. Premiato per Umanità, per aver incarnato il senso profondo di quella divisa. Qui invece è diventato un obiettivo, un simbolo da colpire. “Non mi stanno attaccando come delegato sindacale ma come pompiere, applicando il regolamento di disciplina a una manifestazione sindacale, e questo viola i diritti costituzionalmente garantiti” ha detto pochi giorni fa. In molti si sono uniti e si stanno unendo a sostegno di Paolo Cergnar, con semplici messaggi e anche una petizione, per chiedere che venga revocata qualunque sanzione. E io mi unisco a loro. 


 Mauro Berruto è una delle persone più belle, serie e preparate che abbiamo in questo Paese. Per 25 anni allenatore di volley, e per cinque anche Ct della Nazionale maschile, che ha guidato fino al bronzo olimpico a Londra 2012. Pochi minuti fa, dopo dieci anni di stop, ha appena annunciato l’incarico più bello, stimolante e umanamente commovente della sua carriera. Diventerà per qualche giorno, a
novembre, commissario tecnico della Nazionale Palestinese di volley. Glielo ha chiesto il Comitato olimpico palestinese, e lui non ci ha pensato un attimo. Un atto simbolico potentissimo, in un momento come questo, all’interno di una missione che mette insieme sport, diplomazia, umanità. Condurrà gli allenamenti, parteciperà a incontri sullo sviluppo dello sport e sulla diplomazia sportiva, parlerà di diritti e di diritto internazionale, lui che nei mesi scorsi aveva lanciato la raccolta firme per chiedere l’esclusione di Israele da ogni competizione internazionale. “Allenare una nazionale, in qualunque parte del mondo, è sempre un privilegio. Allenare quella palestinese, oggi, è qualcosa di più grande: è un atto di fiducia nello sport come respiro di libertà. Torno in palestra, dopo dieci anni, per restituire un po’ di quel dono che lo sport mi ha fatto per tutta la vita: la possibilità di credere che anche nei luoghi più difficili, un campo da gioco possa ancora essere luogo di coraggio e speranza nel futuro” ha detto Berruto. Abbiamo bisogno di persone e storie come queste. 
  
L'ultima   è  quella  di  David Yambio, è stato torturato, picchiato, umiliato da Almasri e dai suoi aguzzini. E ora, dopo l’arresto di Almasri ieri a Tripoli, l’attivista sud-sudanese fa una cosa semplicissima: ha annunciato che denuncerà e chiederà un risarcimento al governo italiano per averlo liberato e rispedito in patria con tanto di volo di Stato. Il suo racconto mette i brividi. “Sono stato torturato da lui e dai suoi uomini.
Mi ha preso a calci, mi ha chiamato schiavo e mi ha picchiato con i tubi. Ha anche sparato a delle persone davanti a me sia a Jadida che a Mitiga” ha raccontato a “Repubblica”. Non solo. Yambio, per aver denunciato Almasri, ha vissuto costantemente con la paura, si è dovuto nascondere per timore di ritorsioni. Anche per questo ha deciso di fare causa al governo Meloni con la sua ong Refugees in Lybia. Lo ha spiegato lui stesso con una chiarezza assoluta, dando a Meloni, Nordio e Piantedosi una vera e propria lezione di diritto e di dignità. “Da una parte l’arresto di ieri è una grande vittoria. Dall’altra fa ancora più rabbia quello che è successo in Italia. Almasri è stato arrestato e poi liberato e riportato a casa. Meloni e i suoi ministri, invece di proteggere e rispettare le istituzioni per cui sono stati eletti, hanno scelto di inchinarsi alle milizie che li ricattano. E hanno deciso che le ragioni di“opportunità politica” pesano più del contrasto ai crimini contro l’umanità». Questa è la realtà fuori dalla propaganda meloniana. Questa la vita vera e le conseguenze reali sulla pelle delle persone. Ne risponda Almasri, ma anche chi lo ha scandalosamente protetto. Una ferita indelebile di questo Paese.

6.11.25

cambiamento climatico in sardegna e non solo c'erano una volta i mandorli distrutti da da caldo e siccità ., adesso vanno mango , avocado e noce pecan

 


“NON NE POSSO PIÙ DEI PROGRAMMI DI CUCINA CHE SI VEDONO IN TV, HANNO COMBINATO DISASTRI IRREPARABILI” – ALDO GRA SSO SI CUCINA GLI CHEF CHE IMPERVERSANO NEI PALINSESTI TELEVISIVI

facendo zapping su internet durante le interruzioni pubblicitarie di una giornata particolare di cazzullo su la7 leggo su dagopia questo   Estratto dell’articolo di Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” (  qui l'articolo integrale N.b purtroppo  è  a pagamento  ma  che  potete  leggere  qui su  msn.it  )  

 

alessandro borghese in  cacio e pepe



Fino a poco tempo fa eravamo dei «morti di fame» (metafora) adesso siamo diventati così pretenziosi da storcere il naso per l’impiattamento. Sono sincero, non ne posso più dei programmi di cucina che si vedono in tv, convinto come sono che abbiano combinato disastri irreparabili.
Per un certo periodo della sua storia, la tv ha anche insegnato agli italiani come mangiare meglio, come diversificare i cibi […]

 

antonino cannavacciuolo giorgio locatelli bruno barbieri

Poi sono arrivati gli «spadellatori» che ci hanno trascinato in una deriva: spettacolarizzazione del cibo e del linguaggio che parla di cibo, cuochi diventati all’improvviso maître à penser, sempre in tv a fare soldi con i programmi per pagare i debiti dei loro ristoranti stellati. Ma quel che è peggio, hanno diseducato il pubblico, lo hanno reso saccente e borioso.
L’altra sera, ho seguito un programma di cucina, non importa quale: era una gara fra ristoranti italiani a Lisbona. L’aspetto più sconsolante erano i tre italiani (due donne e un maschio) che tifavano per il loro ristorante preferito, come fosse una seconda casa, un nido materno dove l’emigrato si consola con i sapori di casa. Ma avreste dovuto sentire come discutevano di cibo!

 

aldo grasso

Capirei se uno desiderasse mangiare una pietanza (buona) contenuta in un piatto normale e non in una forma oblunga e artistica; […] capirei se volesse un tovagliolo di lino; capirei se volesse pane casareccio senza semi di qualcosa, ma mangiare cacio e pepe a Lisbona e discutere degli aspetti estetici mi è parso il segno del ridicolo in cui siamo sprofondati.
È colpa della tv se il cameriere ti versa il vino quando il bicchiere è ancora mezzo pieno (Montanelli teneva il fiasco sotto il tavolo), è colpa della tv se sono sparite le trattorie, è colpa della tv se ti devi sorbire lo storytelling del piatto e se ogni portata dev’essere instagrammata per far sapere che esisti. Viva i cuochi che vanno poco in video e si dedicano alla cucina.



Ora non sono estimatore di Grasso er il suo modo di criticare ( aldo grasso controversie - Cerca con Google ) ma qui , almeno  dalla lettura     di questo stralcio ,   
ogni tanto Aldo Grasso ne dice una giusta .  Infatti  non se    può più nè di  pubblicità  in cui    sono  presenti  i grandi chef nè di  programmi o reality sulla cucina  da  loro condotti  . Peccato che  la critica  , anche se  io preferisco choiamarla  sfogo  di Grasso  non  tocchi  i  vari programmi   di cucina    tipo  è sempre  mezzogiorno e  simili che  ci  sono     tv    


carlo cracco e Iginio Massari



Carlo Cracco

che per usare le parole dello stesso Grasso spettacolarizzano il cibo e il linguaggio che parla di cibo  .troppi cuochi(veri o presunti/ improvvisati )presenti in tv , troppi programmi nella tv pubblica e privata che riguardano direttamente o indirettamente il cibo , ormai non se ne può più.

Antonino  Cavannaciulo  
Tutto ciò mi ha fatto venire in mente la scena [ non sono riuscito a trovare in video ], del film sono tornato di Luca minero , dove Mussolini fa zapping in tv e vede sconfortato l'alto numero di trasmissioni dedicate al cibo alla cucina . Comunque Grasso ha avuto merito di mettere se pur parzialòmente anche chi è contrario a tale suo editoriale .Infatti : « [...] Il rischio, semmai, è che una eccessiva teatralizzazione della vita di cucina possa sì avvicinare ad un mestiere umile ma esaltandone smisuratamente lustrini e paillettes a discapito dell’olio di gomito (elemento primo e non sostituibile di ogni cucina).[...]  » da  Aldo Grasso sbaglia a stroncare gli chef in tv. Però, a ben vedere… di   https://www.intravino.com/

5.11.25

la serie di netflix il mostro di stefano sollima avrà un seguito secondo me si ? occhio SPOILER



ho finito di vedere su netflix Il Mostro di Firenze, miniserie in quattro episodi diretta da Stefano Sollima e dedicata a uno dei casi di cronaca più raccapriccianti in Italia potesse conquistare il mondo. Invece, è finita in testa alla classifica globale di Netflix con 9,6 milioni di visualizzazioni nella settimana dal 20 al


26 ottobre. la serie il mostro di firenze di Stefano Sollima . Bella ed intrigante  con una  clonna  sonora    perfetta    a tale racconto   e  angosciante  al punto  giusto  ed  inevitabilmente  davanti a   talik fatti     purtropppo  realmente    avvenuti
. Devo riconoscere che lo stesso Sollima si è superato . Infatti questo mio giudizio trova conferma in quest articolo : « Su Netflix un racconto agghiacciante: una storia vera svelata come mai prima fin nei minimi dettagli » di https://www.libero.it/magazine
 [.... ] Il Mostro, le parole dell’avvocato Vieri Adriani sulla serie Netflix
Su Netflix il 22 ottobre 2025 arriva Il Mostro, la nuova serie di Stefano Sollima, creata insieme a Leonardo Fasoli. Racconta gli otto duplici omicidi compiuti tra il 1968 e il 1985 nelle colline toscane, attribuiti al Mostro di Firenze. Sedici vittime, un’unica arma mai ritrovata (un calibro 22 con proiettili Winchester), e un clima di terrore che ha attraversato generazioni. Sollima, noto per Romanzo Criminale e Suburra, si concentra sul lato umano e
psicologico della vicenda, partendo dal primo delitto del 1968 visto dagli occhi di Natalino Mele, unico testimone bambino. La serie racconta un’Italia rurale degli anni Sessanta, segnata da patriarcato, gelosie e silenzi, in cui si consumano omicidi come quello di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco. Sollima sceglie un approccio realistico e documentato, evitando la mera ricostruzione processuale, con attori non famosi e dialoghi curati. L’avvocato Vieri Adriani, legale dei familiari delle vittime, commenta ai microfoni di Adnkronos : "La ricostruzione storica appare accurata fin nei dettagli, i dialoghi sono verosimili e ben scritti".
Racconta inoltre la prospettiva plurale della serie: "Da un progetto di questo tipo non ci si può aspettare – né sarebbe auspicabile – una ricostruzione processuale pedissequa, che risulterebbe probabilmente anche piuttosto noiosa.                                                                 La ricostruzione storica della serie Netflix appare accurata fin nei dettagli; i dialoghi sono verosimili e ben scritti; efficace l’adozione di un punto di vista plurale, che consente più interpretazioni senza costringere lo spettatore a parteggiare per una in particolare.
 La narrazione si modella sull’aspetto umano e psicologico dei personaggi, evidentemente ispirata agli atti processuali, letti e ponderati con attenzione. Chi è in cerca di ‘verità’ farebbe bene a rivolgere le proprie domande ai magistrati, che finora l’hanno distribuita col contagocce Dieci e lode a Sollima per la sceneggiatura, la fotografia, la cura delle ambientazioni e la scelta delle auto d’epoca". La miniserie sarà composta da quattro episodi e mira a ripristinare autenticità e realismo, raccontando la storia dalle prime vittime fino agli ultimi delitti, senza offrire certezze ma mostrando le ombre, gli errori investigativi e le ipotesi rimaste aperte. [...] 

 Infatti   il suo non è un punto di vista che ha l’obiettivo di offrire un colpevole, quanto più di presentare il clima di sospetto e paura che avvolse l’Italia di quegli anni. come  conferma  la recensione  ( che  poi  è   quella  insieme  ad anteprime  lette  sui  giornali   locali  nuova  sardegna ed  unione  sarda    a  vedermi la  serie  )  di  :  « Il Mostro, la recensione della serie tv di Sollima sul Mostro di Firenze presentata a Venezia  »  di  Sky TG24 . La serie ruota attorno alla figura di Silvia Della Monica (interpretata da Liliana Bottone), magistrato che si occupò in prima persona delle indagini. Una figura quasi unica in questa vicenda, poiché all’epoca fu la sola donna in una squadra investigativa dominata da uomini, e la sua presenza diventa simbolo di un cambiamento sociale lento ma necessario.
Sollima riesce nel difficile compito di creare un’atmosfera cupa e densa, fatta di sguardi sospettosi e verità taciute. In ogni episodio, il confine tra vittima e carnefice si fa sottile e confuso, ma per chi crede che egli tratti solo una parte delle vicende, purtroppo la ridotta durata degli episodi finisce inevitabilmente per limitare la profondità del racconto. In sole quattro puntate, effettivamente, molte sfumature del caso vengono solo accennate o, in alcuni casi, del tutto omesse. Per questo Esso ha ricevuto numerose critiche alcune secondo me un po' frettolose . Infatti molti non devono aver visto la serie completa o si aspettavano che la serie avrebbe abbracciato i un unica stagione tutti gli aspetti e le numerose piste dell’indagine, mentre invece ci si concentra quasi esclusivamente sulla cosiddetta Pista Sarda. Quel filone che vide coinvolti alcuni uomini originari della Sardegna trasferitisi in Toscana, tra cui Stefano Mele (marito di una delle due prime vittime) e i fratelli Vinci, Salvatore e Francesco.. Ma, quello che chi come me lo visto tutto fine alla fine ha notato che
Infatti  è nutile negarlo, negli ultimi giorni in molti si sono chiesti (e continuano a chiedersi) se ci sarà una seconda stagione de Il Mostro, su Netflix, o se la serie sul Mostro di Firenze si conclude qui. La storia ripercorre diciassette anni di terrore e indagini sugli otto duplici omicidi tra il 1968 e il 1985, concentrandosi sulle giovani coppie uccise nelle campagne intorno a Firenze. La serie parte dal duplice omicidio del 1982 di Paolo Mainardi e Antonella Minervini e torna poi al caso del 1968 di Antonio Lo Bianco e Barbara Locci; esplora la pista sarda e mostra i primi sospetti su Francesco Vinci, Salvatore Vinci e Giovanni Mele., ciene quindi analizzata e tratta solo fra le tante piste solo quella sarda poiché al momento, non ci sono   come  ho detto    nelle  righe  precedenti   conferme ufficiali su una nuova stagione. La produzione, infatti, non ha né annunciato né smentito il progetto, e il pubblico che come  me   ha seguito la vicenda non attende altro che nuovi aggiornamenti.
Nonostante  il dubbio   se  continuerà   o meno  e   le  critiche     tipo :  la serie non accenna minimamente ad altre piste o sospettati che hanno occupato le cronache per decenni, rendendo il tutto abbastanza parziale e frammentario. "Sì ma non mi potete lasciare così sul finale e non parlare dei compagni di merende" , ecc la  serie  garantisce compattezza narrativa, anche  se dall’altro lato esclude per forza di cose numerosi aspetti decisamente interessanti della vicenda e che per numerosi spettatori sarebbero stati meritevoli di menzione.Comunque   un buon risultato  . Aspetto  con ansia   il  seguito che  sicuramente  visti  i  precedenti   di  Sollima  sarà un  altro  probabile  successo . Ma soprattutto  sono curioso i vedere come , come credo anche  voi ,    di vedere   come S affronterà  la pista dei compagni di merende e le altre piste  se , secondo il mio  intuito \  sesto senso  ,     decide   di fare  un lavoro seriale   di più  stagioni  .  Che  altro dire  ?  se  non  buona  visione   se  non  lo  aveste  ancora  visto . 


 approfondimenti


4.11.25

stranezze della crisi economica in sardegna

 






«Franca dall'olio prima Miss Italia sarda nel 1963, ho preferito la scuola alla celebrità»


da la nuova sardegna

Franca Dall’Olio una donna che non ha mai rinunciato alla testa per la bellezza. Dal Poetto a Salsomaggiore, alla politica con An: «Meloni? Mi piaceva, ora meno»

                                       di  Andrea Massidda

Cagliari, estate del 1963. Il sole abbaglia la sabbia del Poetto e le onde lambiscono i sogni di adolescenti che scoprono la musica dei Beatles, ascoltano Martin Luther King pronunciare la frase “I have a dream” e assistono stupefatti all’impresa della cosmonauta sovietica Valentina Tereshkova, prima donna al mondo a volare nello spazio. Tra i bagnanti dello stabilimento “Il Lido”, una diciassettenne dalla bellezza sconvolgente legge un libro sotto l’ombrellone. È Franca Dall’Olio, cagliaritana doc: studiosissima, curiosa di tutto, con un sorriso timido e un carattere forte. Non può immaginare che, di lì a poco, sarà incoronata Miss Italia e la sua vita si troverà a un bivio per poi trasformarsi in un mosaico di esperienze e passioni – il mondo dello spettacolo, la laurea in Lettere, l’insegnamento, la politica, la vita familiare – vissute sempre con grazia, intelligenza e una buona dose di ironia.




«Quando uscii dall’acqua dopo aver fatto un tuffo per rinfrescarmi – ricorda lei stessa adesso che sta per compiere 80 anni – si avvicinò un signore elegante che mi disse: “Tu sarai la mia Miss Italia”. Pensai: “Questo è matto, ma che modo è di abbordare una ragazza?”. E gli dissi: “Grazie, ma lei oltre a essere anziano non è proprio il mio tipo”. Mi spiegò che era Enzo Mirigliani, l’organizzatore del concorso. Risposi che non avevo tempo: a fine settembre iniziava la scuola. Ma quando mi parlò del premio – 500mila lire in gettoni d’oro e un’automobile – cominciai a pensarci. Misi soltanto una condizione: che alle preselezioni partecipassero anche le mie amiche sarde. Accettò».

Signora Dall’Olio, lei che tipino era da ragazza?
«Ero orgogliosa e ambiziosa: mi piaceva primeggiare a scuola. Tuttavia non ero la tipica secchiona. Adoravo uscire e andare a ballare».

Ha infranto molti cuori?
«Modestamente, sì».

Dopo l’incontro con Mirigliani che cosa accadde?
«Niente, superai la selezione regionale e poi andai a Salsomaggiore. Mamma impose che mi accompagnassero mia zia, la moglie del pittore Cosimo Canelles, e mio cugino Paolo: una era stanca e se ne rimase in albergo, l’altro davanti a tante bellezze perse la testa e sparì nel nulla. Morale: mollata da sola».

Va bene, ma almeno alla fine diventò davvero Miss Italia.

«Già. Non ero la più bella, va detto, però avevo carattere: un po’ antipatico forse, ma deciso. E poi rispetto alla media delle altre concorrenti sapevo parlare, non sbagliavo i congiuntivi».

Che ambiente trovò lì al concorso di bellezza?
«Molto serio. Noi reginette eravamo super controllate e sottoposte a orari rigidi e disciplina. Tra le concorrenti c’erano tante ragazze molto carine, ma anche molto semplici. I giornalisti le trattavano come delle oche. Ricordo che Orio Vergani, firma famosissima, sbottò dicendo che eravamo tutte ignoranti».

E lei, con il suo caratterino?
«Io presi subito la difesa della categoria. E da brava studentessa del liceo classico chiamai da parte i cronisti per chiedergli di spiegarmi la differenza tra aoristo debole e aoristo forte. Nessuno seppe rispondere. “Ecco – dissi – voi siete ignoranti e non siete nemmeno belli”. Da quel momento mi guardarono con rispetto».


Insieme alla corona ricevette proposte per lo show business?
«Mi proposero subito due sfilate: una a Glasgow e una a Milano, per lo stilista Emilio Schubert. Accettai giusto per curiosità, ma avevo già altre ambizioni: volevo laurearmi. E in più, nonostante i tira e molla, frequentavo già quello che sarebbe diventato mio marito».

Non le offrirono ruoli nel cinema?
«Sì, ma rifiutai. Avevo un difetto di balbuzie e non volevo essere ridicola. Dissi di no al produttore Cristaldi che mi propose di fare un film con Celentano.“Io con quel buzzurro? Mai!”, gli risposi. Poi mi sono pentita: era un artista vero».

Ha conosciuto personaggi famosi?

«Alla Mostra del Cinema di Venezia conobbi Vittorio Gassman: bravissimo, per carità, ma troppo antipatico. E poi rimasi a parlare a lungo con... oddio, come si chiamava? Dai, quell’attore americano con gli occhi azzurri...».

Paul Newman?
«Ecco, bravo: Paul Newman. Bellissimo e gentile. Magari un po’ basso, per i miei gusti» (ride).

Una volta tornata a Cagliari si laureò subito e andò a insegnare Lettere, giusto?
«Sì, per 28 anni. È stata la mia vera passione. Gli studenti mi rispettavano molto, anche se ero severa. Li facevo scrivere tanto, ma poi mi hanno sempre ringraziato».

Mai avuto rimpianti per non aver continuato nello spettacolo?

«Qualche volta, ma senza nostalgia. È stato un momento di giovinezza, poi sono arrivate le responsabilità. Con mio marito ci sono stati periodi difficili, ma il nostro amore è durato 45 anni».

A un certo punto è entrata anche in politica, con Alleanza nazionale.
«Sì. Mio cugino Valentino Martelli mi chiamò e mi disse: “Ci serve una donna per il Comune di Cagliari, tu sei la persona giusta”. Io non volevo, ma poi mi candidò lo stesso. Alla fine venni eletta. Ho lavorato molto: ho portato fondi per restaurare monumenti, musei, chiese. Bella esperienza».

Le piace Giorgia Meloni?
«Mi piaceva, ultimamente un po’ meno. Comunque è una donna determinata».


Cos’è per lei la bellezza?
«È armonia. Non solo esterna, ma anche interiore. La bellezza senza anima non vale nulla».

Dieci anni fa l’orrore in Sud Sudan, Annet: «Vidi morire mio padre, ora rinasco a Cagliari»

   da  l'unione  sarda 4\11\2025 


 Era una ragazza quando i guerriglieri gettarono nel dramma la sua famiglia: «Sogno il dottorato, poi aiuterò l’Africa»





L’unico modo è raccontarlo come se fosse successo a un’altra. Altrimenti, le parole si soffocano in gola. Così Annet parla, ma dalla mente scaccia le immagini di quella tragedia: «Era il 2015, entrarono a casa all’improvviso, uccisero mio padre quasi subito. Avevo 15 anni e da noi in Sud Sudan la guerra civile spargeva tanto sangue. Erano in abiti civili e armati, nemmeno capimmo a quale fazione appartenessero. Volevano le cinquanta mucche con cui si sostentava la nostra famiglia di dieci persone. Mio padre rifiutò, significava cadere in miseria, e gli spararono davanti a noi: l’ho visto morire per terra. Poi chiesero alla nostra sorella maggiore se preferiva che i guerriglieri uccidessero mamma e tutti gli otto figli o andare in camera da letto con il capo. Non ci pensò nemmeno: si sacrificò per tutti. I guerriglieri se ne andarono con le nostre mucche, lasciandoci solo dolore e miseria. E papà morto per terra. E mia sorella umiliata».
Juan Annet Poni Micheal è una ragazza timida, dolce e garbata. Ora ha 26 anni e racconta quell’orrore con un filo di voce: «Dopo il raid fuggimmo in Uganda, in un campo per rifugiati». Annet, una roccia gentile, non si è lasciata andare: intelligentissima, vince tutte le borse di studio cui partecipa, a partire da quella del campo per rifugiati. L’ultima, in questi giorni, l’ha condotta a Cagliari: così come un ragazzo eritreo, si è aggiudicata la borsa di studio di Unicore (“Corridoi universitari per rifugiati”) per l’Università inclusiva bandita dall’Agenzia Onu per i rifugiati Unhcr e utilizzabile in 33 Atenei italiani, tra cui Cagliari. È un’iniziativa di Farnesina, Caritas diocesana di Cagliari diretta da monsignor Marco Lai, associazioni e fondazioni, oltre che dell’Ateneo anche attraverso l’Ersu. Un’iniziativa che l’arcivescovo del Capoluogo, monsignor Giuseppe Baturi, anche da segretario della Conferenza episcopale italiana, sostiene con forza. E di cui i sardi sanno troppo poco: un loro aiuto economico alla Caritas diocesana consentirebbe di accogliere altri studenti con storie difficili come Annet e Musie, il ragazzo eritreo giunto con lei in città. Da sabato sono ospiti del Campus “Sant’Efisio” nel Seminario arcivescovile in via Cogoni, dove conseguiranno la laurea magistrale: quarto e quinto anno. Per Annet è la terza vita: la prima finì a 15 anni con il blitz di guerriglieri e l’uccisione del padre, la seconda si è conclusa ora con la partenza dal campo di rifugiati in Uganda («sono tanto grata al Paese che ci ha accolti»), la terza inizia ora. In Sardegna.

Com’è capitata a Cagliari?

«L’ho chiesto: è uno dei pochi Atenei che offre il mio corso di studi in inglese e io l’italiano devo ancora impararlo. La mia gratitudine verso la città, l’Ateneo, la Caritas è grande».

Che cosa studia?

«Mi sono iscritta al corso di laurea magistrale in Economia, finanza e analisi dei dati, che conseguirò qui a Cagliari. Voglio anche un Phd, un dottorato di ricerca. Essere una rifugiata non significa che la mia vita è finita: devo farla ripartire. La borsa di studio che ho vinto in Uganda, la Dafi Scholarship, se l’aggiudicano 60 studenti su duemila. Chi ha ucciso mio padre, stuprato mia sorella e reso la mia onestissima famiglia un gruppo di rifugiati, non riuscirà a fermare anche la mia vita. Vado avanti, malgrado quel che ho dietro le spalle».

Lo dice con un filo di voce.

«Perché non è una rivalsa: lo studio è un diritto fondamentale, consente il riscatto e la riconquista della libertà. Ci credo e lo faccio, non mollerò mai, abiterò nei libri fino a quando non otterrò i risultati che mi prefiggo. Lo farò anche grazie a Cagliari, alla sua Università e alla Caritas» .

Possiamo scommetterci. Quanto è stata dura?

«Durissima, ancora lo è, ma devo farcela. Lo devo a papà che ha tentato di proteggerci anche se era impossibile, agli altri miei familiari, a chi mi aiuta qui e a chi l’ha fatto in Uganda, il Paese che ha accolto l’intera mia famiglia. Lo devo a mio cugino che, finché ha potuto, in Uganda ha pagato i miei studi con quel che riusciva a guadagnare, e l’ho ricambiato col massimo impegno. Lo devo a voi che mi ospitate e mi aiutate. Lo devo a me».

Studia per fare che cosa, dopo che avrà la laurea e anche il Phd?

«Non lo so di preciso, ma certo qualcosa che possa aiutare l’Africa, considerato che lo fanno in pochi nel mondo: le nostre guerre hanno meno seguito rispetto ad altre, anche se tutte sono terribili per le popolazioni: ovunque siano. Non sono mai più tornata in Sud Sudan da quando sono una rifugiata, quindi da una decina d’anni. La guerra civile è finita ma ormai è un Paese allo sbando senza legge né polizia. Ora studio, poi utilizzerò il mio sapere e la posizione che mi consentirà di conquistare per impegnarmi anche per il mio Paese e il mio continente. Adesso tanti aiutano me, poi toccherà a me aiutare e certamente non mi nasconderò. Anzi».

Sarà il frutto che verrà grazie a chi ha deciso di investire su di lei.

«Certamente. E poi faccio di tutto per essere un esempio per le persone che hanno perso tanto, a volte tutto: il riscatto è sempre possibile e sto cercando di dimostrarlo prima di tutto a me, con la speranza di motivare anche altri. Non è mai finita, se non lo consenti».

Dovunque studi, lei è tra i migliori. Ad esempio, seconda durante il college.

«Rientra in quel di cui abbiamo appena parlato. Anche al campo dei rifugiati ugandese, dove sono tornata dopo il college, esistono le borse di studio e io, che non ho più niente, ho fatto di tutto per ottenerla. E adesso si è aggiunta quella che mi ha condotto fin qui, a Cagliari, che si avvia a diventare una delle mie patrie. Nel mio futuro vedo senz’altro l’Uganda, così accogliente con i rifugiati. Cercherò di ricambiare quanto ho ricevuto da quel Paese, ma anche da voi».

Annet non è d’acciaio: i momenti difficili ci sono ma ha deciso che, oltre che il padre, i guerriglieri non avrebbe ucciso anche lei: nell’anima. Allora vive, sogna, progetta: non c’è allegria, ma forza sì. L’entusiasmo della Caritas diocesana, dell’arcivescovo e dell’Università nel sostenere il progetto sono energie, e soldi, be n spesi. Da sei anni, ogni anno un ragazzo e una ragazza rifugiati vengono a studiare all’Università di Cagliari (quella di Sassari non aderisce al progetto) e si salvano, cambiano le loro vite con la qualifica di “dottori”. «Caritas e Università di Cagliari hanno scommesso su di me», sospira Annet, «devo dare un senso a questo aiuto. Solo così continueranno a darlo anche ad altri giovani che vivono un inferno. Devo vincere anche per loro».

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