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30.8.25
“Il sionismo fallimento totale dell’ebraismo, che ipocrisia su Israele unica democrazia in Medio Oriente”, parla Moni Ovadia
Moni Ovadia è tante cose. Attore, cantante, musicista, scrittore. Soprattutto, è uno spirito libero, coscienza critica che sa andare controcorrente, alla faccia del pensiero unico veicolato dalla comunicazione mainstream. Su Israele, ad esempio.
A Gaza è una mattanza senza fine. I gazawi muoiono sotto i bombardamenti, per fame, per mancanza di cure mediche, ma in Italia si disserta sulla Mostra di Venezia e se è corretto l’uso del termine genocidio per Gaza. Che Italia è questa, Moni Ovadia?
Un Paese che vive di falsa coscienza, retorica, ipocrisia e provincialismo infinito. Un Paese irredimibile
da questo punto di vista. È più grave la parola che lo sterminio. Questi siamo noi. Non tutti, grazie a Dio. L’Italia è un Paese strano: la sua classe politica è devastante, ma una parte della sua gente è straordinaria. Sai che il 66% degli italiani è convinto che la guerra in Ucraina sia stata provocata dagli Stati Uniti e dalla Nato? Il 66%! È una indagine del Censis, roba seria.
In tutto questo, quanto c’è di responsabilità anche della comunicazione e della stampa?
Totale. Ti faccio il caso mio, ma ti prego di prenderlo con tutta la modestia possibile e immaginabile. Io credo di essere una persona che si sia occupata di questa questione da sempre. Non hanno il coraggio di invitarmi a un talkshow. Mi tengono fuori. Ci sono io, c’è Luisa Morgantini di Assopace Palestina più ancora di me. Ma non ci chiamano. Chiamano le compagnie di giro.
Perché?
Perché sono vigliacchi. Sono pavidi vigliacchi. Avrai letto il testo, che condivido parola per parola, di Ariel Toaff. Cosa gli ha detto alla fine: adesso provate a bannarmi, vigliacchi miserabili. Gente che crede di salvarsi facendo tacere le voci di quelli che hanno il coraggio di dire cose scomode.
Qual è per Moni Ovadia la cosa più scomoda che oggi andrebbe detta alla diaspora ebraica?
La cosa più scomoda? Che il sionismo è il più grande fallimento di tutta la storia ebraica. Dall’11 al 13 agosto c’è stato a Vienna il primo Congresso mondiale degli Ebrei antisionisti. Naturalmente nessuno ne ha dato notizia. Eppure, sarebbe stato interessante coglierne gli umori, riportarne le motivazioni, anche criticamente se vuoi. Niente di niente. Io sono abbastanza d’accordo con le due linee dell’ortodossia ebraica che dicono che lo Stato sionista è blasfemo sul piano ebraico e criminale sul piano umanitario. Più fallimento di così! Guarda che l’antisionismo è fondato nel Talmud: gli ebrei non devono avere una sovranità nazionale. Perché il sogno di Eretz Israel è tutt’altro che una nazione. Sai cos’è Eretz Israel? È una Terra dove vivi da straniero tra gli stranieri. Per questo diventa Santa. I sionisti hanno scambiato l’idea della Terra promessa con la promessa di una Terra. Che è tutt’altro. C’è un versetto del Levitico, quello in cui Dio disse agli ebrei di creare il Giubileo, una specie di rivoluzione sociale ogni cinquant’anni. Il versetto dice anche (Moni lo recita in ebraica in una cantilena armoniosa, ndr): “La Terra non verrà venduta in perpetuità, perché la Terra è mia. La Terra è di Dio, non dell’uomo”. E poi prosegue rivolgendosi al popolo ebraico: “Tu vi abiterai come soggiornante straniero, insieme agli stranieri che godranno dei tuoi stessi statuti. Ricordati che sei stato in terra d’Egitto!”. E l’ultimo pezzettino del verso dice: “Perché voi tutti davanti a me siete solo stranieri soggiornanti”. Un brillante traduttore delle Scritture, proprio questa estate, ha tradotto in italiano: “Perché voi tutti, davanti a me, siete solo meticci avventizi”. La parola straniero, Gher in ebraico, in ebraico biblico vuol dire straniero, residente e convertito. I sionisti sostengono che si riferisce solamente al convertito. Io dico no, perché c’è scritto: ricordati che fossi straniero in terra d’Egitto. Gli ebrei non erano convertiti in terra d’Egitto, erano stranieri, schiavi. Il sionismo è proprio il fallimento totale dell’ebraismo. Totale.
Da cittadino del mondo, da ebreo antisionista, da uomo di cultura, cosa provi di fronte alle immagini di quei bambini di Gaza ridotti a scheletri umani?
Come essere umano provo lo stesso orrore di quando ho saputo della Shoah. Lo stesso orrore. Vedo riprodursi la logica e la mentalità nazista. L’aveva già detto un grande sionista, Yeshayau Leibowitz. Nel 1968, Leibowitz, un fervente sionista grande studioso dell’ebraismo, disse, dopo la Guerra dei Sei giorni: “Restituite quei territori immediatamente, altrimenti questo Paese assisterà alla nascita del giudeonazismo”. Non ti dico la valanga d’improperi che gli vomitarono addosso. Lui aveva capito tutto. Come essere umano vedo lo stesso orrore. E come ebreo sento il più grande tradimento che io abbia ricevuto nella mia vita.
Eppure, c’è ancora chi, in Italia, definisce Israele l’unica democrazia in Medio Oriente.
Quando ti dicevo della retorica, dell’ipocrisia. Questa è una grande cavolata, per usare un eufemismo. Una democrazia non si comporta così. Anche se oramai l’Occidente ha accettato che l’importante è che tu vada a votare ogni quattro-cinque anni, se poi stermini un popolo, pazienza. Questo sarebbe la democrazia! L’Occidente è fallito. E noi che sosteniamo il popolo palestinese, i gazawi, noi stiamo combattendo per la salvezza dell’umanità, altrimenti l’umanità sprofonderà nella più abissale barbarie in cui abbia mai vissuto.
Tu che giri l’Italia, sia per i tuoi spettacoli teatrali sia per tanti dibattiti, che rispondenza stai trovando su questo tema soprattutto da parte dei giovani?
Ottima. I giovani che incontro sono molto vivi. Vedi, io avevo un sentimento, sapevo che facevo parte di una gente che era sopravvissuta ad uno sterminio. Ma sai quando c’è stata la svolta della mia vita?
Quando e perché?
Quando Luciano Segre, professore di storia nella mia scuola, ero al primo liceo, fu incaricato di fare la commemorazione del 25 Aprile, dagli altoparlanti che avevano appena installato. E lui fece un’ora memorabile, mettendo la resistenza antifascista in relazione con la lotta di classe. La mia vita svoltò di colpo. Avevamo maestri allora, grandi maestri. I giovani hanno bisogno di maestri del genere. A loro ripeto: chi è indifferente è già colpevole. Schierarsi è un dovere morale. L’ho scritto e lo ripeto a te che scrivi su un giornale che su Gaza ha preso coraggiosamente posizione. Un giorno, quando i peggiori dittatori del futuro compiranno crimini indicibili con apparente legittimità, e qualcuno proverà a invocare i diritti umani, essi potranno rispondere: “Zitti, buffoni. Cosa avete fatto con la Palestina?”. E avranno ragione. Non avremo più titolo per parlare. Dobbiamo riconquistarci quel titolo, ricostruire la nostra credibilità morale. L’umanità ha impiegato secoli per arrivare alla Dichiarazione universale dei diritti umani. I cosiddetti democratici occidentali l’hanno calpestata. Hanno fatto carne di porco della legalità internazionale. Io non ho ricette in tasca. Ma so una cosa: dobbiamo alzare la voce, e farlo con forza. Basta understatement, basta diplomazie. C’è una sola soluzione, limpida, netta, necessaria: uno Stato unico per tutti gli abitanti della Palestina storica. Tutti con gli stessi diritti. Tutti, fino all’ultimo. Persino il diritto di camminare deve essere garantito. non si illudano gli indifferenti. Gramsci, che de l’Unità è stato il fondatore, ce l’ha insegnato: sono i più detestabili, i più codardi, perché non si assumono la responsabilità della storia.
Cosa si prova quando – se si intraprendono certe battaglie e si definisce quello che accade a Gaza un genocidio – si è tacciati di antisemitismo?
Guarda, le parole nella società occidentale hanno perso il loro senso. C’è stato uno sterminio delle parole. La mia amica Valentina Pisanty ha scritto in proposito un bellissimo saggio, La parola bloccata, in rapporto all’antisemitismo. È uno strumento micidiale che è usato strumentalmente, in maniera vergognosamente cinica, per distruggere il pensiero critico. Io combatto questa accusa, come se mi dicessero fascista. E ti dico un’altra cosa, a proposito dell’uso strumentale di questa parola, così come della Shoah (la peggiore forma di blasfemia): i sionisti sono antisemiti. Vuoi un esempio?
Certo che sì.
Quando ci fu l’attentato al Bataclan, a Parigi, e contemporaneamente al supermarket kosher, Netanyahu corse a Parigi a esibirsi e disse agli ebrei francesi: venite in Israele, non siete più sicuri qui. Questa cosa fece incavolare alla grande il rabbino capo francese, perché gli ebrei francesi stanno benone lì dove sono. Aldilà di questo episodio, comunque emblematico, scrissi in un mio libro che c’era una latenza antisemita nel sionismo. Io dissi che Bibi vuole finire il lavoro di Hitler: niente ebrei in Europa. Ma perché, un ebreo non può vivere dove pare a lui? La linea revisionista del sionismo, quella da cui proviene Netanyahu, prese contatto con i nazisti, dicendo: noi abbiamo lo stesso obiettivo, voi volete cacciare gli ebrei dall’Europa, non li vogliamo prendere nella Terra d’Israele.
C’è chi ha scritto e detto che a Gaza è morta l’umanità. A Gaza sta morendo anche la speranza?
Se non sta morendo è in condizioni disperate. Il 31 agosto partirà dall’Italia la Global Sumud Flotilla, centinaia e centinaia di imbarcazioni che vengono da quaranta Paesi. È una iniziativa di straordinaria significanza che va sostenuta in ogni dove. Vedi, il mio sogno sarebbe una marcia di tre-quattro milioni di persone che si muovono verso Gaza.
In Israele c’è chi scende in piazza contro Netanyahu e il suo governo...
Sostanzialmente per gli ostaggi. Hai visto sventolare bandiere della Palestina o ascoltato slogan per i palestinesi? In Israele ci sono minoranze illuminate, coraggiose, ma sono piccole. Israele o capisce che la sua storia è finita e accetta uno Stato binazionale o finirà in una guerra civile.
Riconoscere lo Stato palestinese. Se non ora, quando?
Riconoscere una virtualità…Comunque va benissimo. L’importante è non fermarsi all’enunciazione, ma agire di conseguenza fintantoché quello Stato non sia realizzato nei territori stabiliti dall’Onu con risoluzioni che Israele ha bellamente ignorato. E poi, come chiede il movimento pacifista, l’Italia come minimo dovrebbe porre fine alla ignobile vendita di armi a Israele, bloccare ogni accordo commerciale, come si fece per l’apartheid in Sudafrica. E qui è molto più grave che in Sudafrica.
29.8.25
DIARIO DI BORDo n 145 BIS ANNO´III IL vitalizio o per chiara vigo la maestra del bisso ., Da San simplicio ( Olbia ) a Bonaria ( cagliari ) , Monica e Marco i primi pellegrini del Cammino sardo Da Arezzo hanno scelto l’Isola per un’esperienza «indimenticabile» .,
Ecco un Uso corretto del vitalizio . Uno dei pochissimi casi in cui non viene destinato a i politicanti già ricchi che godono non solo dalla pensiuone da parlamentari ( e va bene ) ma anche del cumulo con lòa pensione della loro attività precedente alla carica di parlamentare \ senatori

| Chiara Vigo, la maestra del bisso di Sant’Antioco, ritorna agli onori della cronaca, grazie alla Presidente del Consiglio dei ministri Giorgia Meloni che ha proposto e ottenuto l’approvazione per lei di un assegno straordinario, come previsto dalla legge Bacchelli. Un vitalizio riconosciuto a cittadini illustri che si siano contraddistinti in diversi settori, compresa l’arte e la cultura, che versino in stato particolare. |
| L’emozione |
| Nella sua casa in Via Regina Margherita, Chiara Vigo apprende la notizia con grande emozione e incredulità. «Non me l’aspettavo. Sono molto emozionata - dice - con tutta probabilità, questa cosa arriva perché qualcuno ha parlato di me alla Presidente e mi emoziona ancora di più il fatto di ricevere, in quanto donna, questo riconoscimento da un Presidente donna. Questo gesto, oltre a riconoscere l’importante significato che ha la mia vita, il tramandare un’arte che arriva da molto lontano, mi permette di continuare a vivere, nella mia umile casa, portando ancora avanti quelle che sono le mie conoscenze, la mia tessitura attraverso il bisso, la seta del mare». Una tradizione per la quale ancora oggi, a Sant’Antioco arrivano tantissime persone che cercano la maestra del bisso. Lei mostra come realizzare i filamenti, lo fa mentre recita preghiere e rituali, raccontando l’antica arte della tessitura del filamento che si ricavava dalle “naccare”, la pinna nobilis. Come tutti i maestri custodi d’arte, annovera anche qualche contestatore, ma lei lascia correre e va avanti col suo percorso, e raccoglie risultati. Di certo, Chiara Vigo rientra tra le persone che più di altri è riuscita a pubblicizzare il nome della cittadina lagunare nel mondo. A metà degli anni ‘90, la maestra del bisso interviene a “Mastros” a Porto Cervo, poi a Basilea per la realizzazione in bisso dello stemma della città. Nel 2008 è stata insignita del titolo di Commendatore della Repubblica italiana per il suo impegno nel tutelare la tradizione e lìambiente marino. Infatti è fra i pochi , forse l'unica che riesce a estrarre senza danneggiare e rompere il mollusco ( sempre piuù raro ) << Il bisso una fibra tessile di origine animale, una sorta di seta naturale marina ottenuta dai filamenti secreti da una specie di molluschi bivalvi marini (Pinna nobilis) endemica del Mediterraneo e volgarmente nota come nacchera o penna, la cui lavorazione è stata sviluppata esclusivamente nell'area mediterranea [ .... Bisso - Wikipedia ] >> |
| sempre secondo l'unione Ha ricevuto premi come “Donna Fidapa” e il riconoscimento “Un bosco per Kyoto” per la sua dedizione nel difendere l’ambiente e la cultura. La sua arte è stata proposta all’Unesco come Patrimonio Immateriale dell’Umanità. Le sue opere sono state esposte in musei prestigiosi (Museum der Kulturen di Basilea, Museo Nazionale delle Arti di Roma, persino il Louvre) e una cravatta di bisso realizzata per il presidente Bill Clinton. «Esprimo tanta gratitudine - dice Chiara Vigo - e potrò serenamente occuparmi della continuazione storica delle arti. L’unica mia preoccupazione, il futuro per le giovani generazioni». |
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Da San simplicio a Bonaria, Monica e Marco i primi pellegrini del Cammino sardoDa Arezzo hanno scelto l’Isola per un’esperienza «indimenticabile

«Dobbiamo ancora metabolizzare ciò che abbiamo fatto». Con queste parole, tra stupore e gratitudine, Monica Arrighi e Marco Bidini raccontano la loro impresa: sono i primi pellegrini ad aver completato il Cammino di Bonaria, il nuovo itinerario che attraversa la Sardegna da Olbia a Cagliari. Lei, 55 anni, libera professionista, lui, 62, pensionato: una coppia di grandi camminatori che da Arezzo ha scelto l’Isola per un’esperienza che definisce «indimenticabile».
Il viaggio è iniziato il 13 agosto dalla cattedrale di San Simplicio a Olbia. Quattordici tappe, una al giorno, fino all’arrivo il 26 agosto, alle ore 14, davanti alla basilica di Bonaria. «Mostrare i timbri è stato emozionante – spiegano – perché in quel momento ci siamo resi conto di aver compiuto qualcosa di davvero grande».
Monica ricorda con emozione la ripartenza dal Monte Ortobene, con l’alba che illuminava la statua del Redentore, e la scoperta della Marmilla, «una terra nuova per noi, i campi di grano ci hanno riportato alle colline senesi». Marco, invece, sottolinea la sorpresa dell’entroterra: «Da quarant’anni veniamo in Sardegna, ma sempre lungo la costa. Questo cammino ci ha mostrato un volto inedito dell’Isola».
La decisione di partire è maturata grazie ad Antonello Menne, conosciuto sulla Via Francigena: «Ci aveva detto che il Cammino era quasi pronto. Due giorni dopo avevamo già prenotato il volo, senza neppure conoscere il percorso. Ci siamo fidati e non abbiamo sbagliato».
«Di corsa racconteremo la Sardegna»
La sfida: il giro dell’Isola in cinque giorni con una staffetta tra cinque runnerSettecentocinquanta chilometri a piedi in cinque giorni per completare il perimetro della Sardegna e mostrare a tutti le bellezze naturali dell’Isola, anche quelle nascoste. È la “pazza impresa” di cinque ragazzi appassionati di running. L’idea è partita da Fabio Mulas, 31 anni, carrozziere di Muravera e fondatore del ClubEffe (il gruppo di appassionati di corsa). Con lui, sempre di Muravera, Stefano Schirru, 30 anni, militare, e Alberto (Bebo) Macis, 31 anni, sviluppatore software. E poi Davide Pinna, 28 anni, agente penitenziario di Capoterra e Alan Delpero (nome d’arte Edgar Delpo), 32 anni, interprete di Trento.
«Ho vissuto per 9 anni a Parigi – spiega Fabio Mulas – e avevo visto che negli Stati Uniti stavano organizzando un’iniziativa simile, e cioè scoprire gli States correndo in gruppo. Mi sono detto: perché non farlo in Sardegna, la mia terra?». Nei mesi scorsi il via alla preparazione: «Ci stiamo allenando da giugno sotto la guida del coach Stefano Pisu – aggiunge Mulas – e stiamo curando tutti i dettagli per riuscire nell’impresa. Noi di Muravera corriamo fra gli agrumeti, cercando di conciliare questa passione con il lavoro. Non è facile». Partenza l’8 ottobre da Costa Rei per poi, in senso antiorario, percorrere il perimetro della Sardegna e ritornare nel Sarrabus entro il 12 di ottobre.La corsa è a staffetta: ciascun componente del gruppo percorrerà ogni giorno trenta chilometri per un totale di circa 150 chilometri. La base logistica è un camper (alla guida Nicola Mulas) e poi c’è un ciclista (Federico Sanna) che supporterà gli atleti durante la corsa e – in caso di infortuni – sostituirà uno dei cinque.«Non saremo soli – chiarisce Mulas – perché runner e appassionati locali in ogni tappa si uniranno a noi per percorrere anche solo pochi chilometri. Vogliamo coinvolgere quante più persone possibile. Racconteremo questa avventura minuto per minuto con video, foto e dirette social grazie ad altri due compagni di viaggio esperti di comunicazione e fotografia, e cioè Elisa Lasagno e Francesco Zedda. Riteniamo che anche questo sia uno dei modi per promuovere la nostra isola, viverla lentamente in mezzo alla gente e mostrare le meraviglie che abbiamo in casa».
L’itinerario
Dodici, oltre Muravera e Costa Rei, i centri che saranno toccati: Arbatax, Dorgali, Orosei, Olbia, Palau, Castelsardo, Sassari, Alghero, Bosa, Oristano, Cagliari e Villasimius. Numerosi gli sponsor privati che stanno dando una mano al team ClubEffe. Un altro supporto potrebbe arrivare dalla Regione del Trentino (anche se manca l’ufficialità) mentre sembra più difficile che arrivi dalla Regione Sardegna (domanda inoltrata ma ancora nessuna risposta). Come dire, l’idea di promuovere così la Sardegna (per ora) piace molto al Trentino.
Settecentocinquanta chilometri a piedi in cinque giorni per completare il perimetro della Sardegna e mostrare a tutti le bellezze naturali dell’Isola, anche quelle nascoste. È la “pazza impresa” di cinque ragazzi appassionati di running. L’idea è partita da Fabio Mulas, 31 anni, carrozziere di Muravera e fondatore del ClubEffe (il gruppo di appassionati di corsa). Con lui, sempre di Muravera, Stefano Schirru, 30 anni, militare, e Alberto (Bebo) Macis, 31 anni, sviluppatore software. E poi Davide Pinna, 28 anni, agente penitenziario di Capoterra e Alan Delpero (nome d’arte Edgar Delpo), 32 anni, interprete di Trento.
«Ho vissuto per 9 anni a Parigi – spiega Fabio Mulas – e avevo visto che negli Stati Uniti stavano organizzando un’iniziativa simile, e cioè scoprire gli States correndo in gruppo. Mi sono detto: perché non farlo in Sardegna, la mia terra?». Nei mesi scorsi il via alla preparazione: «Ci stiamo allenando da giugno sotto la guida del coach Stefano Pisu – aggiunge Mulas – e stiamo curando tutti i dettagli per riuscire nell’impresa. Noi di Muravera corriamo fra gli agrumeti, cercando di conciliare questa passione con il lavoro. Non è facile». Partenza l’8 ottobre da Costa Rei per poi, in senso antiorario, percorrere il perimetro della Sardegna e ritornare nel Sarrabus entro il 12 di ottobre.La corsa è a staffetta: ciascun componente del gruppo percorrerà ogni giorno trenta chilometri per un totale di circa 150 chilometri. La base logistica è un camper (alla guida Nicola Mulas) e poi c’è un ciclista (Federico Sanna) che supporterà gli atleti durante la corsa e – in caso di infortuni – sostituirà uno dei cinque.«Non saremo soli – chiarisce Mulas – perché runner e appassionati locali in ogni tappa si uniranno a noi per percorrere anche solo pochi chilometri. Vogliamo coinvolgere quante più persone possibile. Racconteremo questa avventura minuto per minuto con video, foto e dirette social grazie ad altri due compagni di viaggio esperti di comunicazione e fotografia, e cioè Elisa Lasagno e Francesco Zedda. Riteniamo che anche questo sia uno dei modi per promuovere la nostra isola, viverla lentamente in mezzo alla gente e mostrare le meraviglie che abbiamo in casa».
L’itinerario
Dodici, oltre Muravera e Costa Rei, i centri che saranno toccati: Arbatax, Dorgali, Orosei, Olbia, Palau, Castelsardo, Sassari, Alghero, Bosa, Oristano, Cagliari e Villasimius. Numerosi gli sponsor privati che stanno dando una mano al team ClubEffe. Un altro supporto potrebbe arrivare dalla Regione del Trentino (anche se manca l’ufficialità) mentre sembra più difficile che arrivi dalla Regione Sardegna (domanda inoltrata ma ancora nessuna risposta). Come dire, l’idea di promuovere così la Sardegna (per ora) piace molto al Trentino.
si fa ma non ci si vanta Jannik Sinner ha acquistato di nascosto tutti i vecchi campi da tennis nel cuore della Val Bang a San Candido e li ha rimessi a disposizione in un sito d'allenamento gratuito
Gli allenatori del sito hanno confermato che il progetto è già operativo, con decine di bambini che si allenano ogni giorno. questo atto di altruismo silenzioso rafforza il suo status non solo come atleta di élite, ma anche come figura ispiratrice. Il centro nella valle Bang non porta il suo nome, ma porta il suo spirito: un simbolo di resilienza e gratitudine che vivrà oltre la sua carriera. I bambini che ora calpestano quei campi non sanno forse chi li ha resi possibili, ma il loro futuro ne sarà per sempre segnato.
28.8.25
Chi lo ha detto che il fiocco di un neonato debba,essere per forza rosa o azzuro Padova, l'assessore Margherita Colonello appende in Comune fiocchi arcobaleno per il figlio appena nato: «Deciderà lui chi essere»
fonte corriere sella sera e corriere veneto
Margherita Colonnello, assessora al Sociale del Comune di Padova, ha affisso cinque fiocchi arcobaleno sulla porta del suo ufficio per celebrare la nascita del suo primogenito Aronne.
Il gesto era stato preannunciato dalla stessa amministratrice a fine maggio, sul palco del Padova Pride, quando ancora non conosceva il sesso del nascituro: «Ti regalerò un fiocco arcobaleno perché i colori sono tutti bellissimi. E poi sceglierai tu: sarà il rosa, sarà il blu, o il verde, il rosso o il giallo».
Ed ecco che sulla porta del suo ufficio sono apparsi alcuni giorni fa cinque fiocchi arcobaleno. La scelta è stata criticata dalla consigliera comunale Eleonora Mosco, della Lega, secondo cui il bimbo è stato «trasformato, appena nato, in un manifesto ideologico. La natura non è un catalogo: si nasce maschio o femmina, punto. Difendere i bambini significa proteggerli dalla confusione che certa sinistra vuole imporre, negando buonsenso e realtà».
Colonnello, in prima linea nella difesa dei diritti civili e di quelli della vasta comunità LGBTQIA+, ha deciso di lasciare il suo bambino libero di scegliere: «Farò in modo di aiutarti ad avere coraggio, perché se ce l’avrai — aveva detto l’assessore dal palco del Pride — conoscerai il mondo non secondo il bianco o il nero, ma secondo i mille colori della bellezza».

L’aveva promesso tre mesi fa. Ed è stata di parola. Lo scorso 31 maggio, dal palco di piazza De Gasperi, al termine del corteo del Padova Pride l’assessore al Sociale, Margherita Colonnello, incinta al sesto mese e non avendo voluto conoscere in anticipo il sesso del suo primogenito, aveva affermato: «Cara bambina, caro bambino, quando verrai al mondo, non ti regalerò il fiocco rosa né azzurro, ma te lo regalerò arcobaleno, perché i colori sono tutti bellissimi. E poi deciderai tu. Spero solo che tu non scelga mai i colori della paura, nè di diventare xenofoba oppure omofobo».L’aveva promesso tre mesi fa. Ed è stata di parola. Lo scorso 31 maggio, dal palco di piazza De Gasperi, al termine del corteo del Padova Pride l’assessore al Sociale, Margherita Colonnello, incinta al sesto mese e non avendo voluto conoscere in anticipo il sesso del suo primogenito, aveva affermato: «Cara bambina, caro bambino, quando verrai al mondo, non ti regalerò il fiocco rosa né azzurro, ma te lo regalerò arcobaleno, perché i colori sono tutti bellissimi. E poi deciderai tu. Spero solo che tu non scelga mai i colori della paura, nè di diventare xenofoba oppure omofobo».
I mille colori della bellezza
Ebbene, detto, fatto. Lunedì, sulla porta d’ingresso del suo ufficio a Palazzo Moroni, a distanza di undici giorni dalla nascita di Aronne (era il 14 agosto, grande gioia per lei e il marito Cosimo Cacciavillani, assistente dell’europarlamentare Cristina Guarda), sono stati affissi cinque fiocchi
arcobaleno e due disegni con la classica cicogna. L’assessore aveva spiegato così il nome del piccolo: «Viene da lontano, attraversando secoli e culture, sa di ulivo, vite e vento del Mar Mediterraneo. È quello di un ragazzo che ha partecipato alle barricate antifasciste dell’Oltretorrente a Parma, cioè il bis-bis nonno di nostro figlio e così, affidandoglielo, gli auguriamo che possa scegliere sempre la luce, la speranza e l’amore». Colonnello, da sempre in prima linea nella difesa dei diritti civili e in particolare di quelli della vasta comunità LGBTQIA+, ha deciso di lasciare il suo bambino libero di scegliere. «Farò in modo di aiutarti ad avere coraggio, perché se ce l’avrai — aveva ancora detto l’assessore dal palco del Pride con a fianco, tra i tanti, il vicesindaco Andrea Micalizzi e l’europarlamentare Alessandro Zan — conoscerai il mondo non secondo il bianco o il nero, ma secondo i mille colori della bellezza».
Le critiche: «Lasci stare i bambini»
Una posizione che era stata fortemente criticata dal consigliere regionale uscente della Lista Zaia, Luciano Sandonà: «Ricordo all’assessore che è la Natura a farci maschi o femmine e, se non le va bene, se la prenda pure con Dio, ma lasci stare i bambini». Quindi, l’affondo: «Mi sembra che Colonnello sia pure un’educatrice scolastica e in questo senso — aveva scandito l’esponente zaiano — mi auguro che non diffonda il suo pensiero distorto tra i piccoli alunni». Un rimbrotto al quale la destinataria aveva reagito con una semplice alzata di spalle.
ma questi che attaccano il sindaco di Bologna perchè applica una politica sulle tossicodipendenze di riduzione del danno sanno di cosa si tratta o applicano solo repressione ?
da Lorenzo Tosa
chiunque conosca per sommi capi il tema: se non ti posso far smettere, faccio in modo che la consumi in modo più sicuro e consapevole sui danni e le terapie. Da una parte ci sono un sindaco e un’assessora che studiano e si approcciano a una piaga come questa con un approccio laico, senza pregiudizi e nell’esclusivo interesse della comunità e delle persone marginalizzate. Questo fa una sinistra ( in quesro caso ) degna di questo nome.Dall’altra una pletora di agitatori da bar che non sanno, non studiano e solleticano le viscere di un popolino ignorante quasi quanto loro insultando e facendo disinformazione.E questo è quello che fa quotidianamente la destra-destra in Italia.Massima solidarietà e stima al sindaco Lepore e all’assessora Madrid, costretti ad abbassarsi a rispondere a un livello rasoterra.Vadano avanti. E, perché no, denuncino chi dà loro degli spacciatori. È il minimo.I bolognesi hanno già ampiamente dimostrato da che parte sanno.
Diario di Bordo n 145 anno III Giulia Tofana creatrice dell'acqua tofana uccise più di 600 uomini eroina contro i mariti violenti o serial killer ? anche l'italia ha i suo cammino di Santiago ., anche gli oggetti hanno una loro storia ed identità Il Mediterraneo ai piedi, storia delle espadrillas .,
fonte principale il portale msn.it poi sotto prima di ogi post i vari siti portali degli articoli
Geopop
Chi era Giulia Tofana, la donna che nel 1600 uccise circa 600 uomini grazie al suo veleno trasparente
C
Nel cuore dell’Italia del Seicento circolava un nome che ancora oggi suscita fascino e inquietudine: Giulia Tofana. Orfana e poverissima, proveniva dai bassifondi palermitani e fu Cortigiana della corte di Filippo IV di Spagna, ma era conosciuta da molte donne come fattucchiera. La sua fama nacque grazie alla sua invenzione mortale, l’Acqua Tofana, un veleno trasparente quasi insapore in grado di uccidere lentamente senza lasciare traccia. Tra il 1630 e il 1655, con questo intruglio sarebbero morti oltre seicento uomini, probabilmente tutti mariti violenti.
Le cronache la descrivono con due volti opposti: da un lato la “Vergine Nera”, spietata assassina che seminò morte nell’Europa barocca; dall’altro una sorta di alleata delle donne, capace di offrire un’arma invisibile contro un sistema patriarcale che non lasciava loro scampo. La verità, come spesso accade, si muove probabilmente tra i due estremi.
L’Acqua Tofana, il veleno che si mascherava da cosmetico
Il veleno veniva presentato come cosmetico o acqua santa, ma conteneva una miscela letale di arsenico, antimonio, belladonna e piombo. Bastavano poche gocce al giorno, versate nel vino o nella minestra, per uccidere senza destare sospetti: i sintomi imitavano malattie naturali (vomito e febbre) e lasciavano roseo il colorito del morto. Grazie alla sua intelligenza pratica e alla propensione per gli esperimenti, Giulia perfezionò la formula fino a renderla perfetta per la somministrazione discreta. Molte delle sue acquirenti erano donne intrappolate in matrimoni imposti o violenti, prive di protezione dalla legge o dalla Chiesa, e l’Acqua Tofana rappresentava per loro l’unica via di fuga.
Giulia Tofana, l'ultima strega bruciata a Roma: il suo veleno per i "matrimoni infelici" e la battaglia femminista.
Chi era
Giulia, pur agendo in modo spregiudicato, non perseguiva un diretto guadagno personale, ma creava un mezzo per consentire a queste donne di liberarsi di mariti crudeli. Non agiva mai da sola: attorno a lei ruotava una rete di farmaciste, levatrici e complici che distribuivano il veleno con discrezione. Con il tempo, anche la sua figliastra, Girolama Spana, avrebbe iniziato ad agire al suo fianco nella produzione e nella distribuzione del veleno. I flaconi erano decorati con l’immagine di San Nicola (l'immagine di un santo famoso e venerato, infatti, gli conferiva l'aria di una reliquia o di un'acqua miracolosa) circolarono per oltre vent’anni, trasformando l’attività in una vera e propria industria clandestina.
I clienti aumentavano rapidamente, consentendole di lasciare il malfamato quartiere del Papireto (inizialmente abitava infatti a Palermo) insieme alla sorella di latte Girolama. Successivamente, grazie a un frate amante, Giulia si trasferì a Roma, dove visse nel rione Trastevere, imparò a scrivere e si vestì come una dama d’alto rango.
La caduta e la condanna
Il destino di Giulia cambiò quando una cliente, la contessa di Ceri, contrariamente alle istruzioni, versò l’intera boccetta nella minestra del marito, uccidendolo subito e attirando i sospetti della famiglia. La polizia indagò, scoprendo la rete di Giulia. Durante il processo, che coinvolse anche centinaia delle sue clienti, molte spose furono condannate a morte e murate vive nel palazzo dell’Inquisizione a Porta Cavalleggeri (Roma). Tra le vittime di questa storia ci fu anche la figliastra Girolama, che finì impiccata a Campo dei Fiori il 5 luglio 1659 assieme ad altre quattro donne che la aiutavano a produrre e distribuire la pozione letale. Giulia, invece, sottoposta a tortura, sembra che sia fuggita dalla sua cella grazie all’intervento del suo amante frate, e di lei non si è più saputo nulla. La sua difesa in tribunale? Quei preparati erano cosmetici, e non era affare suo se le clienti li usavano diversamente.
L’Acqua Tofana continuò a circolare anche dopo la sua scomparsa. Pochi mesi prima di morire, nel 1791, Mozart confidò a sua moglie di sospettare di essere stato avvelenato proprio con questo veleno, testimonianza della fama e del timore che la miscela aveva suscitato quasi due secoli dopo la sua creazione. Oggi Giulia Tofana resta sospesa tra due figure: prima serial killer d’Europa o eroina silenziosa in un mondo che negava giustizia alle donne
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Runner's World Italia
È chiamato il Piccolo cammino di Santiago d’Italia e a settembre è perfetto
© Gina Pricope - Getty Images
Quante volte hai pensato di intraprendere il cammino di Santiago e poi per i più diversi motivi hai rinunciato? Ci vuole parecchio tempo, la preparazione fisica giusta, il suo costo non può essere sottovalutato e tanti altri piccoli fattori che alla fine ti hanno convinto a rimandare.
Ma certe situazioni, si sa, o le si prendono di petto oppure si finisce sempre per spostare la data un po’ più in là e diventa quasi una scusa quella che “intanto lo farò l’anno prossimo”. In attesa che quell’anno prossimo arrivi davvero, una soluzione te la diamo noi. Un’alternativa decisamente più alla portata di tutti che potrebbe essere il trampolino giusto per decidersi. Già, perché non tutti sanno che c’è un’escursione chiamato il Piccolo cammino di Santiago d’Italia e settembre può essere il mese perfetto per affrontarla.
Ecco dove si trova il Piccolo cammino di Santiago d’Italia, perfetto per settembre
Il Piccolo cammino di Santiago d’Italia è un percorso naturalistico lungo un centinaio di chilometri abbondanti, ma anche un'escursione storica dal sapore spirituale perché segue le orme di un santo. Si trova nel Trentino tra la Valle dell’Adige e le Dolomiti del Brenta, collega Trento a Madonna di Campiglio ed è formato da un’antica via romana. Stiamo parlando del Sentiero di San Vili, che prende il nome proprio da San Vigilio, un vescovo martire che nel IV secolo d.C. si incamminò su questo tracciato per un’opera di evangelizzazione.
Se sei un appassionato della natura, della storia, della religione e se ami il trekking questo percorso fa per te. E affrontarlo a settembre può essere un’ottima idea. Camminerai in mezzo alla natura incontrando boscaglie, tipici laghi montani e borghi storici che ti permetteranno di conoscere la loro storia affascinante e assaggiare prodotti tipici con sapori davvero unici. Proprio questo insieme di esperienze, che invitano alla riflessione e al viaggio spirituale (seppure se non è nato con funzione religiosa) grazie alle numerose chiese che si incontrano, ha fatto sì che il Sentiero di San Vili prendesse anche il nome di Piccolo cammino di Santiago d’Italia.Il Piccolo cammino di Santiago d’Italia va percorso in sei tappe
E per tenere fede a quello più famoso in tutto il mondo, anche il Piccolo cammino di Santiago si divide in tappe, per la precisione sei, con la possibilità però di scegliere un itinerario più impegnativo (definito “Alto”) adatto a esperti di trekking e uno più agevole che attraversa più centri abitati e ha un minore dislivello (definito “Basso”). Inoltre lo puoi percorrere in entrambi i sensi da Trento a Madonna di Campiglio e viceversa.
Il Sentiero di San Vili è stato inaugurato la prima volta nel 1988 dalla SAT, Società Alpinisti Tridentini. La prima tappa prende il via dal sobborgo trentino di Vela per raggiungere Covelo con un dislivello di circa 700 metri. La seconda tappa si conclude a Moline, nel comune di San Lorenzo in Banale, ed è particolarmente spirituale perché incontrerai numerose chiesette, oltre che le Gole del Sarca, canyon all’interno di un fiume. La terza tappa ti farà arrivare al borgo medievale di Irone, abbandonato a seguito della peste che nel Seicento colpì l’intera Europa. La quarta tappa, invece, ti condurrà al Passo Daone. È forse la più impegnativa, ma anche quella che ti regalerà panorami meravigliosi. La quinta farà capolino a Pinzolo con numerosi punti attrattivi tra cui la Pieve di San Vigilio, in val Rendena presunto punto dove il Santo fu martirizzato. Infine la sesta tappa con arrivo a Madonna di Campiglio, il luogo più turistico di tutto il cammino.
Marie Claire Italia
Il Mediterraneo ai piedi, storia delle espadrillas
Che una scarpa così umile custodisca una storia sorprendente, fatta di arte, guerra e rivoluzione, potrebbe sembrare poco probabile, e invece le espadrillas – o espardenyas, per rispettare il loro antico nome catalano – nascono nel XIV secolo in Spagna come calzatura da lavoro, resistente ed economica, adatta a soldati, contadini e a chiunque avesse bisogno di praticità prima che di stile.
Il termine stesso, in ogni sua variazione, rimanda allo sparto, l’erba mediterranea utilizzata per intrecciare la suola. Allora era il risultato di produzione artigianale quasi corale, tra chi realizzava la tomaia in lino (oggi per lo più cotone), chi intrecciava e pressava le suole nei laboratori, chi cuciva a mano i punti ornamentali e chi sigillava tutto con la pece, oggi sostituita dalla gomma.
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Col tempo, ogni regione aveva sviluppato il proprio stile, così si vedevano ai piedi espadrillas con nastri lunghi da avvolgere intorno al polpaccio, altre che si distinguevano per i pompon o le finiture a contrasto. E seppure indossate da entrambi i sessi, a consacrarle è stata la danza - la Sardana -, simbolo dell’identità catalana, eseguita in cerchio da ballerini con berretti rossi ed espadrillas ai piedi legate da nastri alti fino al ginocchio. Per secoli sono rimaste un affare esclusivamente spagnolo, diffuse tra i contadini della Catalogna e dei Paesi Baschi, ma a partire dal XIX secolo, complici il commercio internazionale e il nazionalismo, hanno iniziato a diffondersi, prima a Mauléon, nei Pirenei francesi, dove si è sviluppata un’industria fiorente, poi in Sud America, complice il clima tropicale che le ha rese un vero un successo.
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Hanno cambiato ruolo con l’ascesa dei movimenti indipendentisti, diventando parte dell’abbigliamento popolare anche tra i combattenti baschi e catalani. Economiche, traspiranti e facili da sostituire, erano ideali per chi viveva in montagna o combatteva in clandestinità. Durante la Guerra Civile Spagnola le espadrillas si sono diffuse tra i repubblicani: molti marciavano contro l’esercito franchista con ai piedi le stesse scarpe che usavano nei campi. Non erano scarpe da battaglia, ma la penuria di equipaggiamento rendeva necessario l’uso di qualsiasi calzatura disponibile, e nemmeno Franco ne era rimasto indifferente, perché negli anni Trenta aveva requisito la fabbrica Castañer per convertire la produzione a uso militare. Un dettaglio che testimonia quanto questa calzatura fosse al tempo stesso radicata nella vita quotidiana e nelle lotte di un paese.
La storia della maison Castañer era iniziata nel 1927 a Girona, con Luis Castañer e suo cugino Tomàs Serra. Lavoravano lo sparto, cucivano a mano, vendevano localmente. Nel dopoguerra Salvador Dalì ne fece il proprio, se non ennesimo, dettaglio eccentrico, indossandole con i calzini rossi e un copricapo da giullare. Rita Hayworth le aveva sfoggiate in La signora di Shanghai (1947), mentre in L'isola di corallo (1948) Lauren Bacall, con camicia bianca, gonna dirndl ed espadrillas ai piedi, aveva lanciato un look che non è mai davvero passato di moda. Erano anche fisse nei guardaroba estivi di Audrey Hepburn e Gabrielle Chanel. Durante le sue fughe in Costa Azzurra, Coco ne portava spesso un paio in tela abbinate a uno o più giri di perle, un cappello da marinaio e l’aria di chi ha inventato il less is more senza doverlo mai dire. È stato però l’incontro con Yves Saint Laurent, nel 1972, a consacrare Castañer - insieme i due marchi hanno creato il primo modello con la zeppa e da lì in poi le espadrillas sono diventate parte dell’eleganza francese, perfette sia per le Baleari che per la Costa Brava, simbolo di un’estetica vacanziera e disinvolta.
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Decenni dopo, è stato Karl Lagerfeld a recuperarle per la maison: le espadrillas Chanel hanno fatto il loro debutto con la collezione Primavera/Estate 2013. Il modello in tela pastello, con punta quasi dorata e le doppie C intrecciate, sembrava una ballerina con la licenza di prendersi una vacanza, e come accade sempre con Lagerfeld, poco dopo sono arrivate tutte le variazioni possibili, in pelle liscia, in tweed, in denim, in velluto trapuntato. Oggi le espadrillas Chanel sono considerate un’istituzione estiva quanto la 2.55 e la giacca bouclé, un classico off-duty, un ibrido perfetto tra informalità e savoir-faire.
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A contribuire in maniera meno vistosa, e forse più radicale, al mito delle espadrillas fu Pablo Picasso, che amava indossarle durante le sue vacanze a Juan-les-Pins o sulla spiaggia di Dinard, abbinate a camicie di lino e pantaloni larghi. Il mercante e mecenate Paul Rosenberg, vero regista del suo successo mondano, si preoccupava personalmente che l’artista ricevesse regolarmente i modelli giusti, quelli più morbidi, con la suola flessibile. Quando nel 1919 Picasso era partito per Londra con i Ballets Russes, è stata la moglie di Rosenberg a spedirgli un paio di espadrillas nuove insieme a qualche consiglio su come arredare il soggiorno con eleganza. Quindi non sorprende che, tra i codici del “basque chic”, ci siano proprio le espadrillas, che con i loro colori bruciati – gialli, ocra, rossi terracotta – sono il simbolo stilistico di una Francia rurale e colta allo stesso tempo.
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Dal lino coltivato nei Paesi Baschi alle righe dei pescatori dell’Atlantico, fino ai berretti alla marinara, è tutto parte di un’estetica sobria, assolutamente riconoscibile, a cui Picasso ha contribuito in modo decisivo, sia con i suoi quadri che con il modo in cui abitava il mondo. Di questi tempi la maggior parte delle espadrillas è prodotta in Bangladesh, con metodi industriali e materiali sintetici, eppure ci sono ancora laboratori che resistono, come Castañer e Naguisa, a Barcellona, dove si lavora secondo metodi autentici - la suola in sparto è ancora modellata a mano, la tela ancora tagliata in due pezzi distinti, cuciti e poi fissati con cura maniacale. Un lavoro artigianale e di fino che, seppur invisibile, farà tutta la differenza.
Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata n XXXVIII. - per gestire stress ed ansia allenate la respirazione
Quindi è meglio praticare degli esercizi per controllarla e restare vigili davanti a situazioni di pericolo . Non so che altro aggiungere se non di suggerire di nuovo l'articolo citato nella puntata precedente di Centro Ànemos - Lesmo (MB).
27.8.25
diario di bordo n 145 anno III “Ha giustificato l’assassinio di giornalisti a Gaza”: la clamorosa rottura della fotografa Valerie Zink con Reuters., Per i romani, c'era una punizione peggiore persino della morte o della schiavitù
facendomi la mia solita rasegna stama web ho trovato tramite msn.it un 'articolo : << Ha giustificato l’assassinio di giornalisti a Gaza”: la clamorosa rottura della fotografa Valerie Zink con Reuters >> su InsideOver.
Un tesserino giornalistico strappato a metà, indicante chiaramente uno dei loghi più iconici dei media globali: l’agenzia Reuters. A corredo, un post durissimo: così la fotografa canadese Valerie Zink ha annunciato, dopo otto anni, la fine unilaterale del suo rapporto con l’importante agenzia britannica, adducendo come responsabilità della stessa Reuters il ruolo che avrebbe giocato nel giustificare la continua uccisione di giornalisti a Gaza da parte delle forze armate israeliane.
Zink è una reporter canadese che ha pubblicato importanti scatti riguardanti le grandi pianure del suo Paese natale, le eredità del colonialismo sui territori indigeni, il rapporto tra l’uomo e il suo spazio. Di fronte al massacro di Gaza, in cui un popolo è stato preso a bersaglio nella sua stessa terra, una logica di dominio è stata esercitata usando la risposta ai drammatici attentati di Hamas del 7 ottobre 2023 come pretesto e una campagna di pulizia etnica messa in atto, Zink ha visto probabilmente cadere molte sue certezze.
L’uccisione di giornalisti e il presunto lassismo di Reuters nel condannarle hanno fatto traboccare il vaso: “è diventato impossibile per me mantenere un rapporto con Reuters, dato il suo ruolo nel giustificare e consentire l’assassinio sistematico di 245 giornalisti a Gaza”, scrive Zink su Facebook, aggiungendo che “devo almeno questo ai miei colleghi in Palestina, e molto di più”.
La guerra di Gaza è ad oggi il conflitto che, di gran lunga, ha ucciso più giornalisti nella storia e, secondo la fotografa, ad aggravere la responsabilità dei media ci sarebbe l’assenza di deontologia nel gestire le problematiche notizie che riportano di sempre nuove uccisioni di reporter e fotografi: “Quando Israele ha assassinato Anas Al-Sharif, insieme all’intera troupe di Al-Jazeera, a Gaza City il 10 agosto, Reuters ha scelto di pubblicare l’affermazione del tutto infondata di Israele secondo cui Al-Sharif fosse un agente di Hamas – una delle innumerevoli bugie che organi di stampa come Reuters hanno diligentemente ripetuto e dignitosamente sostenuto”, scrive Zink. Non finisce qui.
Nella giornata di ieri proprio l’agenzia di proprietà canadese ha pianto una vittima, il cameraman e collaboratore Hossam al-Masri, ucciso all’ospedale Nasser di Gaza. Per la fotografa canadese la mattanza è stata favorita dall’impunità accordata ai media occidentali alle azioni di Israele, indicando come presunti “membri di Hamas” o danni collaterali le vittime.
Per la Zink “ripetendo le invenzioni genocide di Israele senza stabilire se abbiano credibilità – abbandonando volontariamente la responsabilità più elementare del giornalismo – i media occidentali hanno reso possibile l’uccisione di più giornalisti in due anni su una piccola striscia di terra che nella prima e nella seconda guerra mondiale e nelle guerre di Corea, Vietnam, Afghanistan, Jugoslavia e Ucraina messe insieme, per non parlare del fatto di aver fatto morire di fame un’intera popolazione, di aver fatto a pezzi i suoi bambini e di aver bruciato vive le persone”.
Di fronte a tanto dolore e tanto spaesamento si potrà perdonare a Zink di essere calata in maniera tanto netta su un sistema di potere e informazione intero. E si deve cogliere indubbiamente un grido d’allarme e di rabbia circa il tradimento di una deontologia altamente rispettabile da parte di un’ampia fetta delle alte sfere dell’editoria occidentale. A cui, purtroppo, molti stuoli di collaboratori e professionisti sono chiamati a uniformarsi pena la rinuncia a prospettive lavorative e di carriera. Valerie Zink dimostra che si può scegliere anche di chiamarsi fuori da questo tritacarne.
Una bella lezione nei giorni in cui in Italia direttori di giornali si presuppongono esperti di leucemie per provare a dimostrare che una giovane palestinese non si è ammalata ed è morta per la carestia indotta di Israele (e assolvere Tel Aviv) o editorialisti di peso si mettono a cavillare sul fatto che, no, Israele e gli Usa di Donald Trump non ritengono che la prevista evacuazione dei gazawi debba esser “forzata” perché nei documenti ufficiali queste parole mancano.
Certo, c’è da dire che il declino riguarda principalmente la stampa anglosassone e che esistono notevoli eccezioni: su Gaza ci sono testate come The Guardian, una parte consistente della stampa francese e i media di stampo cattolico legati al Vaticano (dal network Vatican News a L’Osservatore Romano e, in Italia, “Avvenire”) che hanno coperto con attenzione e competenza i massacri di Gaza e le problematiche politiche ad essi collegate. Noi di InsideOver siamo per la costruzione di ponti e riteniamo che finché c’è voce per l’informazione sana ci sarà speranza. Ma queste voci sono sempre meno udibili. E Valerie Zink fa bene a ricordarcelo.
Per i romani, c'era una punizione peggiore persino della morte o della schiavitù
-© Antikensammlung Berlin
Gli imperatori romani spesso finivano la loro vita nel peggiore dei modi, traditi e uccisi dai loro uomini di fiducia e persino dai loro stessi familiari. Ma anche così, esisteva una punizione peggiore della morte: comportarsi come se non fossero mai esistiti. Il loro nome veniva cancellato dalle iscrizioni, il loro volto scalpellato dalle statue, le loro monete fuse e i loro ritratti sostituiti... Questo, nell'antica Roma, era chiamato damnatio memoriae, letteralmente «condanna della memoria».
La damnatio memoriae era una cancellazione deliberata di ogni iscrizione o oggetto che dimostrasse l'esistenza di una persona. L'obiettivo non era solo quello di umiliare il condannato, ma di estirparlo dal tessuto della storia romana. costituivano l’equivalente della memoria pubblica: se venivano eliminati, il ricordo di qualcuno svaniva nel giro di pochi decenni.
Diversi imperatori ne furono vittime. Nerone, nonostante la sua iniziale popolarità, fu cancellato dalla storia dopo la sua deriva verso la stravaganza. Commodo, che si credeva la reincarnazione di Ercole, venne assassinato e la sua memoria cancellata dal senato. Geta venne cancellato da tutti i ritratti per ordine del proprio fratello, Caracalla. Ma forse il caso più eclatante è quello di Domiziano: dopo la sua morte nel 96, il senato non solo ordinò la distruzione delle sue statue, ma proibì anche qualsiasi menzione ufficiale del suo nome. Paradossalmente, molti di questi imperatori che si volle cancellare dalla storia sono oggi tra i più ricordati.
Il processo era meticoloso e, allo stesso tempo, approssimativo. Non era regolato da una legge formale, ma il senato o il nuovo imperatore potevano ordinarlo nel caso in cui il sovrano appena eliminato avesse lasciato un ricordo molto negativo. Le iscrizioni su pietra venivano raschiate, lasciando vuoti sospetti. Le statue, a volte, venivano “riciclate”: il volto del condannato veniva scalpellato e sopra veniva scolpito quello di un nuovo imperatore. Le monete, più difficili da distruggere, venivano fuse o limate per eliminare l'effigie. Il messaggio era chiaro: l'individuo aveva cessato di far parte di Roma.
La memoria che non si poteva cancellare
Eppure, la damnatio memoriae aveva un effetto collaterale ironico. Cancellando qualcuno, si creava la prova che era esistito. Quei segni di scalpello, quelle statue con il volto strappato, sono oggi indizi preziosissimi per archeologi e storici proprio perché invitano a indagare. In un certo senso, il tentativo di oblio assoluto è stato un fallimento totale: ricordiamo i “dimenticati” proprio perché qualcuno ha cercato di cancellarli.
Questo meccanismo non era esclusivo di Roma. Nell'antico Egitto, faraoni come la regina Hatshepsut vennero cancellati dai rilievi e dalle liste reali dai loro successori. E se facciamo un salto in avanti di molti secoli, nell'URSS dopo le purghe di Stalin, le foto ufficiali venivano ritoccate per eliminare chi era caduto in disgrazia. Anche oggi, grazie alla facilità di modificare le immagini, persiste questa pulsione a riscrivere la memoria.
La damnatio memoriae ci lascia una lezione importante: il potere non solo detta il presente, ma cerca anche di plasmare il passato. Ma, come dimostrano i vuoti nei muri di Roma o le effigi scolpite nei templi egizi, l'oblio imposto raramente è completo. A volte, ciò che viene cancellato è ciò che attira maggiormente l'attenzione. E forse, in questo atto involontario, i condannati hanno ottenuto la loro piccola vendetta: essere ricordati per sempre, spesso più di coloro che hanno voluto cancellarli.
A 92 anni corre come una ventenne: il caso straordinario di Emma Mazzenga atleta dei record a 92 anni: «Sveglia alle 5 e vino tutti i giorni. Mi studiano, ho l'ossigenazione di una ventenne»
fonti Corriere.it del 27\8\2025
Emma Mazzenga, atleta dei record a 92 anni: «Sveglia alle 5 e vino tutti i giorni. Mi studiano, ho l'ossigenazione di una ventenne»
La padovana detiene il record del mondo nei 200 metri per over 90 e ha vinto 11 titoli mondiali: «Un consiglio? Non restare mai dentro casa un giorno intero»
Il cellulare squilla. Lei, che è in vacanza in montagna, non poteva essere altrove: su un sentiero in salita, direzione rifugio. Col respiro incredibilmente regolare avvisa: «Sentiamoci più tardi». Emma Mazzenga, padovana di 92 anni, è campionessa di atletica e detiene 11 titoli mondiali (ma anche 31 europei e 115 italiani). Corre praticamente da sempre. O meglio, l’ha fatto quando era giovane e poi si è fermata per riprendere a livello agonistico quando di anni ne aveva già 53. Oggi ha un fisico a tal punto invidiabile da essere diventato oggetto di studio di diverse università (la Marquette University di Milwaukee e l’Università di Pavia). «Mi hanno detto che ho i muscoli di una settantenne e l’ossigenazione cellulare di una ventenne — scherza lei — mi sembra incredibile. Una cosa è certa: io ferma non ci sono stata mai».
Ci racconta la sua giornata tipo?
«Ho sempre dormito poco. Quando andavo a scuola (ha insegnato scienze al liceo scientifico, ndr) preparavo le lezioni dalle 5 alle 7 di mattina. E anche oggi, alle cinque, mi faccio il caffè, poi torno a letto a leggere. Faccio colazione alle otto, con un panino al prosciutto. Poi esco».
Dove va?
«A fare la spesa al mercato oppure faccio un po’ di pulizie. Dopo pranzo mi riposo un paio d’ore leggendo e poi esco nuovamente per andare al cinema, al gruppo lettura, per incontrarmi con le amiche o per allenarmi. La sera guardo la televisione, vado a letto verso le 23».
Cosa si mangia per restare così in forma fino a 92 anni?
«Un po’ di tutto. Adesso che sono anziana limito le porzioni. A pranzo mi preparo 30 o 40 grammi di pasta o riso, cui aggiungo un secondo e la verdura cotta. Alterno carne e pesce. La sera invece mi basta un po’ di verdura e un pezzetto di formaggio. Ah, ogni giorno bevo mezzo bicchiere di vino rosso a pranzo e mezzo a cena. E ogni tanto mi faccio qualche ricetta veneta».
Si muove a piedi?
«Sì, quasi sempre. Ma è sempre stato così. Anche oggi adopero l’auto solo due volte a settimana per andare ad allenarmi. La mia vita non è mai stata sedentaria. Con mio marito che era istruttore di roccia d’estate andavamo in montagna, d’inverno a sciare. Perfino durante il Covid correvo nel corridoio di casa mia. Dopo un’ora di allenamento, quando mi faccio la doccia, mi sento benissimo».
E quando piove?
«Non si può usare il meteo come scusa. Ci vuole volontà. Anch’io, a volte, rimarrei seduta sul sofà, ma so che se esco poi mi sentirò benissimo».
E poi vince pure i titoli mondiali.
«Sì, ma diciamocelo, ora ho poche concorrenti (sorride). A gennaio 2024 ho stabilito un nuovo record mondiale nei 200 metri per la categoria W90 (over 90 anni) e a giugno dello stesso anno ho abbassato di oltre un secondo il tempo. Vorrei dirlo a tutti: non è mai troppo tardi!».
Per allenarsi?
«Non solo. Non siamo tutti atleti. Intendo dire che non è mai troppo tardi per la socialità e il movimento. Io sono rimasta vedova a 55 anni, la corsa mi ha aiutato moltissimo. È una questione chimica, sono le endorfine. Ma è anche legato al benessere che ti dà stare con gli altri».
Se dovesse dare un’indicazione per l’elisir di lunga vita?
«Alzarsi dal divano. Non rimanere mai a casa un giorno intero. Stare chiusi tra quattro mura porta tristezza, depressione e non aiuta né la mente né il corpo».
e tgcom24 tramite msn.it
A 92 anni non trascorre le giornate sul divano o al telefono con i figli, ma correndo in pista e allenandosi con costanza. Emma Mazzenga non è la nonna che ci si aspetta. Padovana, ex insegnante di chimica, è oggi una leggenda dell’atletica master: vanta 11 titoli mondiali, 31 europei e ben 115 titoli italiani. Il suo spirito competitivo e la sua forma fisica eccezionale hanno attirato l’attenzione della comunità scientifica internazionale. Un team di ricercatori italiani e statunitensi sta conducendo studi approfonditi sul suo corpo: muscoli, nervi e mitocondri vengono analizzati per comprendere come sia possibile mantenere prestazioni atletiche simili in età così avanzata.
Record e prestazioni da primato La carriera sportiva di Emma è iniziata tardi. Dopo una giovinezza
dedicata allo studio e alla famiglia, ha ripreso a correre con serietà solo dopo i 50 anni. E da allora non si è più fermata. Attualmente detiene quattro record mondiali di categoria e ha recentemente battuto due volte il primato dei 200 metri. “Il segreto è non fermarsi mai” dichiara la nonna dei record.
Secondo uno studio citato dal Washington Post, le sue fibre muscolari sono comparabili a quelle di una settantenne in salute, mentre la sua ossigenazione muscolare è simile a quella di una ventenne. In particolare, la funzione mitocondriale - ovvero la capacità delle cellule di produrre energia - risulta straordinariamente ben conservata.
Il segreto? Mai smettere di muoversi Emma ha sempre creduto nel potere rigenerante dello sport. Nonostante gli impegni familiari e professionali, ha mantenuto un legame costante con l’attività fisica. Oggi si allena regolarmente e invita tutti, soprattutto gli anziani, a non rinunciare mai al movimento, anche nei limiti delle proprie capacità. "Non serve essere atleti agonisti. Basta evitare di restare fermi tutto il giorno chiusi in casa” afferma con semplicità.
Un caso da manuale per la scienza La sua alimentazione è equilibrata ma semplice: pasta, riso, pesce, carne e mezzo bicchiere di vino fanno parte della sua dieta quotidiana. A ciò aggiunge controlli medici regolari e una grande attenzione al proprio benessere interiore, alimentato dal piacere di fare sport. Tra i ricercatori che stanno studiando il "caso Mazzenga" c’è anche Chris Sundberg, coinvolto in una ricerca sul rallentamento dell’invecchiamento muscolare. Secondo lui, Emma rappresenta un esempio raro in cui la comunicazione tra cervello, nervi e muscoli si mantiene attiva e sana, a differenza di quanto avviene normalmente nella popolazione over 90. Anche Marta Colosio, ricercatrice alla Marquette University, si dice sbalordita: “Non ho mai visto nulla di simile. Sta invecchiando, certo, ma riesce a compiere azioni che per altri, alla sua età, sono impossibili”.
Il 3 agosto Emma ha festeggiato il suo 92° compleanno. Ma non ha alcuna intenzione di rallentare. Dopo la prossima gara, in programma a ottobre, sarà nuovamente sottoposta ad analisi da parte degli studiosi dell’Università di Padova e di altri enti statunitensi. Il suo messaggio è chiaro e potente: “Vivo alla giornata, ma mi diverto ancora”.
«Agli ebrei ritirate l’amicizia su Facebook, facciamoli sentire soli», il consiglio del prof Luca Nivarra dell’Università di Palermo. Scoppia la polemica
Lo so,come ho replicato tempo fa suqueste pagine dell'errore che feci con una battuta dove si confondeva antisemitismo con antisionismo , che il confine tra i due termini è soprattutto in situazione come questa labissimo . Ma Questo post è atisemitismo puro . Infatti come dice su quest articolo di https://www.huffingtonpost.it/ il commento di
Andrea__gdSXfrt16 ore faEcco, questa è follia pura. Un discorso è addossare all'elettorato Israeliano (paese peraltro composto anche di non ebrei per almeno il 25%) la responsabilità di aver eletto e di sostenere il macellaio Netanyahu.Altro discorso è prendersela con "gli ebrei" in generale, la maggior parte dei quali non è nemmeno cittadino israeliano e quindi non ha responsabilità in quel che succede.La prima è una legittima posizione politica, sebbene magari discutibile... la seconda è lurido e vergognoso antisemitismo, ne più ne meno.Ciò detto, vista la quantità di "brava gente" che sui social ti toglie amicizia perché la dai a un albanese, la cosa non mi meraviglia proprio... purtroppo siamo quella roba lì, e il mito dell'Italia non razzista, ammesso che sia mai stato più di un mito, è comunque morto da un pezzo
Le dichiarazioni del professore Nivarra non offendono solo il popolo ebraico ma tutti coloro che si riconoscono nei valori del rispetto e della convivenza civile – ha detto Bernini – Le parole del rettore Midiri rappresentano una presa di distanza netta e doverosa da affermazioni inaccettabili, rendendo onore all’intera comunità accademica palermitana. I conflitti si superano con il dialogo, non con l’isolamento, ed è solo attraverso questa via che si può costruire un autentico percorso di pace, obiettivo al quale l’Italia e la comunità internazionale continuano a dedicare il proprio impegno».
«Mi rivolgo a chi, intervenendo sulla mia pagina, mi ha coperto di insulti e minacce, di cui, sinceramente, mi curo assai poco, anzi nulla. Potete continuare a sbraitare e a ricorrere ad un vocabolario da adolescenti a corto di fantasia; potete darmi dell”antisemita quando io non lo sono affatto. Ma una cosa è certa: che tra me e gli artefici di questi orrori c’è una distanza insuperabile; mentre per voi, nella migliore delle ipotesi, sono israeliani che sbagliano. Adesso potete riprendere a snocciolare il vostro rosario di insulti e minacce; nulla rispetto al rischio cui siete esposti voi, di avere qualcosa a che fare, anche così, solo alla lontana, con questi assassini».
perchè s'è vero che chi tace è complice ci sono anche se in minoranza purtroppo in israele ebrei che non la pensano come i sionisti . Nient'altro d'aggiungere
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