Sento alla radio ridacchiare Mario Blandini, il procuratore dell’Avvocatura Generale dello Stato: «Quello che dovevano fare l’abbiamo fatto. Il nostro compito era quello di effettuare un’indagine preliminare su un eventuale procedimento disciplinare nei confronti dei finanzieri. Non dovevamo studiare le dichiarazioni del generale Speciale, che per noi era solo un elemento di contorno».
Ridacchia: «Dalla deposizione di Speciale e dall’esame di altri finanzieri che abbiamo sentito, non sono emersi, in modo prepotente, gli estremi per una comunicazione di reato a carico di Visco».
Ma quale abuso d’ufficio, ridacchia il procuratore: è stato Speciale a trasferire i finanzieri, e «così ha negato di fatto di essere vittima di un abuso d’ufficio. Altrimenti non doveva dare seguito a un trasferimento che riteneva illegittimo, e fare denuncia».
Come se la ride, il procuratore.
Lui si stava occupando di mettere sotto accusa i finanzieri, mica Visco.
Contro Visco, gli indizi non sono emersi «in modo prepotente», tanto da dover «fare rapporto all’autorità giudiziaria».
Il che ci dice: non ci sarà un’altra Mani Pulite.
Perché allora, e con quanta «prepotenza», i procuratori che s’occupavano di un fatto A, appena emergeva anche il minimo indizio, o la più vaga testimonianza, di un possibile reato socialista o democristiano, aprivano un procedimento B!
Inviavano il fascicolo agli altri procuratori, «obbligatorietà dell’azione penale», e ai giornali in tempo per l’edizione straordinaria!
Nessuna deposizione di un ufficiale era tenuta per «elemento di contorno».
Anzi!
Come prepotentemente estraevano deposizioni, sbattendo in galera preventiva i testimoni, tanto da indurne diversi al suicidio!
A quei tempi, un generale Speciale, che trasferisce i finanzieri come richiestogli da Visco sotto minaccia, sarebbe stato considerato uno che ha «ceduto» a un abuso di potere, non come uno che «ha negato di fatto» l’abuso (perché si sa, anche un generale tutto d’un pezzo è pur sempre un italiota: un pezzo di pastafrolla).
E gli indizi emergevano, emergevano in modo prepotente!
Tanto che gli avvisi di reato e gli arresti preventivi fioccavano come una nevicata.
E finivano subito in prima pagina de Il Corriere, come l’avviso a Berlusconi premier al vertice di Napoli!
Oggi, Il Corriere, il fatto di Visco lo mette a pagina 22.
Segno che anche i poteri forti non spingono più di tanto.
Questo prova ciò che capimmo allora: che la magistratura stava stroncando DC e PSI per mandare al potere la casta di cui fa parte, il blocco dei parassiti pubblici e dei miliardari di Stato che si autodefinisce «la sinistra di governo», e da cui si sente garantita.
L’una garantisce gli altri.
Eccome garantita.
Benchè si detesti dar ragione a Montezemolo, occorre citare il suo discorso all’Assemblea di Confindustria:
«La politica è la prima azienda italiana, con 180 mila eletti».
Eletti stipendiati, da 2-4 mila euro mensili dei consiglieri di zona in sù.
Nessun’altra azienda ha tanti «lavoratori».
Il mestiere della politica è il solo che non conosca crisi né ridimensionamenti.
E’ la sola grande industria rimasta, il solo grande pagatore.
«Il costo della rappresentanza politica nel suo complesso in Italia è pari a quello di Francia, Germania, Regno Unito e Spagna messi insieme».
«Il solo sistema dei partiti costa al contribuente 200 milioni di euro l’anno, contro i 73 milioni della Francia. E mi riferisco solo ai contributi diretti. Stime recenti parlano di un costo complessivo della politica di 4 miliardi di euro. In quale altro Paese i partiti politici sono così ‘pesanti’ e così numerosi?».
Solo la Cina ha più deputati dei nostri, che sono mille.
Quattro miliardi di euro, ottomila miliardi di lire l’anno per mantenere prebende d’oro di irresponsabili, che non sono mai chiamati a rispondere.
Paghiamo noi contribuenti.
Quelli di noi che paghiamo tutto, si capisce.
Perché «Su 40,6 milioni di contribuenti IRPEF, è inaccettabile che solo il 5% del totale dichiari un reddito complessivo superiore ai 40 mila euro e solo lo 0,8% sopra i 100 mila euro».
Ovviamente il Montezemolo non dice che proprio questo è lo scopo dell’Irpef, per questo è stata concepita: per colpire esclusivamente i ceti medi, i dipendenti agiati.
I veri ricchi non pagano l’IRPEF, semplicemente.
Non è per loro.
Ancora Luchino: «Le aziende italiane sono le più tassate d’Europa. O lo saranno quando, in gennaio, in Germania, andrà in vigore la riforma che riduce di 9 punti l’aliquota fiscale sui profitti».
L’aliquota media europea «è più bassa di ben 8 punti».
«Ridurre la pressione fiscale. La via è abbattere il debito pubblico, tagliare la spesa improduttiva e spingere la crescita dell’economia».
«Un conto è rispettare la politica e i suoi costi, altro è far finta di niente rispetto alla duplicazione delle strutture, degli incarichi, delle prebende in carico alla collettività, a tutta una serie di privilegi che molti politici si autoassegnano, fino ai funerali gratis agli assessori del Veneto».
«La riforma delle istituzioni, della macchina amministrativa e della politica viene prima di tutto».
«L’Italia non può continuare ad essere il Paese dei veti - dai rifiuti alla TAV, dai riclassificatori alle autostrade - ma deve diventare il Paese delle decisioni!».
Anche questo discorso - condivisibile punto per punto - ci dice che non si farà nulla, alla fine. Proprio perché ormai dello scandalo italiota, di questo scandalo primario delle burocrazie inadempienti e dei miliardari pubblici, che torchiano una società in via di tragico impoverimento, parlano ormai tutti.
Tutti, di colpo, hanno «preso coscienza».
La Chiesa.
L’Istat.
Confindustria.
Matrix e Ballarò.
Tutti a lodare i libro di Gianantonio Stella, tutti a scoprire qualche altra magagna e furto dei parassiti e dei privilegiati, tutti a calcolare i costi della politica… tutti attaccati ai loro privilegi di casta e gruppo, ai loro «incentivi» e finanziamenti di lobby o di cosca, sicurissimi che non accadrà nulla a loro.
Che nessun procuratore aprirà un fascicolo.
Che nessunissima riforma sarà avviata.
Del resto, chi ha mai visto nella storia una burocrazia che si autoriforma, un blocco parassitario che si autoriduce spontaneamente le prebende?
Tutto questo è diventato, direbbe Amleto, «Solo il discorso di un pazzo, pieno di furore e di foga, e che non significa nulla».
Continueremo a pagare 8 mila miliardi di lire l’anno, a mantenere 5 mila dipendenti ricchissimi del Quirinale, a pagare il presidente italiota dieci volte più del presidente francese, a pagare le autoblù e i consiglieri di zona che lo fanno di mestiere: 4 mila euro al mese, non li prenderebbero volentieri anche i giovani disoccupati o precari, magari con laurea in ingegneria?
Ma loro hanno commesso un errore: dovevano darsi alla «politica».
Studiare «teoria e pratica di Mastella».
Farsi assumere dalla più grande azienda italiota rimasta, quella delle burocrazie pubbliche e dei parassiti a spese dell’erario.
Difatti Prodi ha detto dopo il discorso di Montezemolo: «Si commenta da solo».
La tracotanza del gangster, di chi si sa intoccabile e protetto dal blocco di magistrati e sindacati.
Visco non si dimette, figurarsi.
E’ «efficace» nello spremere, per i bisogni insaziabili del blocco parassitario e privilegiato. L’esazione aumenterà.
Matrix non ne parlerà più.
Altri argomenti incalzano: nozze gay e simili, più urgenti, più concreti.
L’Unione Europea ha dato un ultimatum: ancora due mesi per decidere la TAV, o l’Italia perde i finanziamenti comunitari: Agnoletto esulta: «Basta resistere due mesi, e la TAV è morta!».
Fra venti o trent’anni, i figli e i nipoti tagliati fuori della modernizzazione, anzi dall’Europa, non sapranno nemmeno chi dovranno ringraziare.
Agnoletto è un medico pubblico e un partitante, fa parte anche lui del blocco parassitario e strangolatore.
A quell’ora sarà in pensione (anticipata).
Le due Italie si corrispondono: la tracotanza dei parassiti impunibili con la secessione minima dei gruppuscoli minoritari, ciascuno con la sua idea fissa e la sua rivendicazione locale o di cosca, che vuole immediatamente soddisfatta contro il bene generale, contro la collettività.
Gli uni e gli altri intendono la collettività come la tasca da spremere, la vacca da mungere, e l’asino da inceppare mentre tira la carretta, e in più da bastonare.
I tempi sono questi.
Tanto tristi, che si ricava qualche speranza da Sarkozy.
Il neocon filo-americano, il liberista salutato come quello che porterà la Francia nel liberismo globale, che accelererà il mercato comune euro-americano, in nome del mercato-mondo, ha parlato a Bruxelles con la voce della Francia di De Gaulle.
«L’Europa deve proteggere i suoi cittadini» non gettarli nel mercato-mondo, ha detto.
«La globalizzazione non può essere il cavallo di Troia dentro l’Europa. L’Europa deve prepararsi per la globalizzazione, non esservi trascinata».
Il Financial Times ha notato acido che queste frasi sono l’esatto contrario della «Europa aperta»
(a tutti i venti della competizione globale) auspicata da Barroso, il superburocrate.
Ma Sarkozy parla con la forza della legittimità che gli viene dal voto popolare e diretto, è questa la differenza.
Le sue dichiarazioni, si allarma il giornale della finanza britannica, «fanno prevedere che Sarkozy continuerà a perseguire il deciso atteggiamento francese in Europa, il che lo può porre in conflitto con tutti i fautori del libero mercato, compresa Angela Merkel».
«La appassionata difesa degli agricoltori francesi preoccupa i partner europei, che speravano un Sarkozy più flessibile di Chirac sui tagli ai sussidi agricoli. [Invece] il presidente francese ha criticato la Commissione per aver dato troppe concessioni alla liberalizzazione dell’agricoltura nei colloqui sul commercio mondiale. ‘E’ finita l’epoca della ingenuità’, ha detto. Ha aggiunto che non tollererà tagli agli aiuti ai contadini europei finchè le controparti USA beneficeranno di simili sussidi. Non svenderò l’agricoltura».
Insomma, per quanto neocon e mezzo ebreo, Sarkozy parla con la voce della Francia.
«Protezionismo», strilla il Financial Times.
«La fortezza Europa» di De Gaulle, teme ad alta voce Barroso, il servo delle potenze extra-europee che noi paghiamo e che non abbiamo votato.
Avere una nazione dietro, anziché un pullulare di secessionismi e privilegi indebiti, fa la differenza.
Avere un chiaro interesse nazionale da difendere, questo rende decisionisti; e non arbitrariamente, ma nel solco di una tradizione.
Di una patria.
Maurizio Blondet
dal sito http://www.effedieffe.com