Barbara Bartolotti nel 2003 è stata colpita con martellate al cranio, coltellate all'addome (con perdita del feto che portava in grembo), calci e pugni al fine di sfigurarla, ed è stata data a fuoco da un collega geloso del fatto che lei avesse un marito e lo avesse rifiutato. La forza di questa donna l'ha portata a fingersi morta per poi scappare sulla tangenziale per chiedere aiuto, mentre era mezza carbonizzata.
Dopo 10 giorni di coma, 6 mesi di ospedale, 27 interventi e la paura di morire è rinata più forte di prima.Il collega di lavoro avrebbe dovuto fare 25 anni di galera per tentato omicidio della donna.
Reo confesso e dopo vari patteggiamenti, gli danno 4 anni di domiciliari. Con L’ indulto non ne ha scontato nemmeno uno.
Lei non trova più lavoro: le dicono che non la vogliono perché "fa impressione". Lui lavora in banca, ha fatto carriera e si è sposato. Lei è stata licenziata da quella banca, perché tra i vari capi c'era lo zio dell'aggressore. Nel 2016, Barbara ha fondato l'associazione Libera di Vivere.
Qualche mese fa ero in un liceo di Milano per dialogare con gli studenti durante l’autogestione. Avevo scelto di raccontare alcuni episodi della Resistenza durante la Seconda guerra mondiale. All’inizio dell’incontro ho chiesto dove fosse stato esposto il cadavere di Mussolini, il 29 aprile 1945. “Piazzale Loreto!”, mi hanno risposto in coro. “Bravi. Ora qualcuno mi sa dire perché è stato scelto proprio quel punto?” Davanti a me si sono materializzate facce stranite, occhi in cerca di un’imbeccata. Dopo qualche secondo, si sono alzate un paio di braccia. “Perché lì erano stati uccisi degli operai, mi pare” ha detto un ragazzo.
Il 10 agosto 1944 incombeva su Milano un caldo afoso, nonostante il cielo limpido. I fascisti scelsero piazzale Loreto come luogo dimostrativo, perché era lo snodo principale dei tram che portavano gli operai nelle fabbriche. Da lì, insomma, passavano ogni giorno migliaia di cittadini. C’era da eseguire una rappresaglia. Due giorni prima era saltato un camion delle SS in viale Abruzzi, ed erano morti alcuni passanti, e il giorno prima i partigiani avevano ucciso un fascista nell’attuale piazza Ascoli, ferendone un secondo. Le SS volevano impartire una lezione ai milanesi. Quindici uomini furono svegliati alle 4.30 nel carcere di San Vittore. Erano operai, impiegati, un ingegnere, un poliziotto, un insegnante,tutti accomunati dall’antifascismo. Furono caricati su camion, trasportati in piazzale Loreto e lì, davanti a una staccionata di legno su cui venivano affissi i cartelloni degli spettacoli teatrali in programma, vennero trucidati da un plotone di uomini della Legione Muti, una delle squadre nere più fanatiche della repubblica di Salò.Si chiamavano: Gian Antonio Bravin, Giulio Casiraghi, Renzo Del Riccio, Andrea Esposito, Domenico Fiorani, Umberto Fogagnolo, Tullio Galimberti, Vittorio Gasparini, Emidio Mastrodomenico, Angelo Poletti, Salvatore Principato, Andrea Ragni, Eraldo Soncini, Libero Temolo, Vitale Vertemati.
Nel libro “I giorni della libertà” (Mondadori) racconto la storia di donne e uomini che in quegli anni hanno combattuto il fascismo. Tra questi Libero Temolo, uno dei quindici, la cui vicenda umana mi è stata raccontata dal figlio Sergio. Due anni fa Sergio mi ha aperto la porta di casa, mi ha raccontato della sua giovinezza, fatta di giochi per strada, dell’amicizia con Franco Loi, che sarebbe diventato un celebre poeta e scrittore, della banda di via Teodosio e via Casoretto, delle scuole frequentate in via Mercalli, e della sua vita da staffetta partigiana. Il padre, Libero, andava alle riunioni segrete nella casa di Alessio Lamprati, nome di battaglia Nino, uno dei fondatori delle Sap (Squadre di azione patriottica), e Sergio sgambettava dietro di lui,nascondendo sotto la maglietta fogli clandestinie stando a dieci metri di distanza, perché in caso di fermo del padre doveva proseguire per la via come se nulla fosse. «Devi avere fede» gli diceva sempre papà Libero, e non si riferiva a Dio, ma alla fiducia nel futuro, allasperanza di un domani migliore.Era, quella, la Milano delle fughe in cantina per scampare ai bombardamenti incessanti, del mercato nero, della fame vera, del pane fatto con la segatura, delle delazioni dei vicini di casa, delle torture, delle deportazioni. Sergio, a 91 anni, ancora ricordava il profumo di un panetto di burroche la zia nel 1943 era riuscita, non si sa come, a recapitargli dal paese di origine, Arzignano. Il 10 agosto 1944, quando Libero Temolo fu ucciso dai fascisti in piazzale Loreto, Sergio era dai parenti in Veneto.Nessuno ebbe il coraggio di dirglielo. Lo scoprì solamente a ottobre, quando un amico di famiglia lo riaccompagnò a Milano a bordo di un camion. Passando a piedi per piazzale Loreto, sulla via verso casa, quell’uomo si fermò ed esclamò: «Xé qua che i gà copà to pare».È qui che hanno ucciso tuo papà.
Nessuno spazio per la commiserazione, nessuna pietà. Si era in guerra, e in guerra si muore. Sergio mi ha raccontato di avere provato una rabbia tremenda, in quell’istante. Una rabbia silenziosa, che in bocca sa di ferro. Non ha urlato, nessuno avrebbe ascoltato. Non ha pianto, nessuno lo avrebbe consolato. Ha pensato solamente, nella sfrontatezza dei suoi quattordici anni: «Ti avrei salvato io, papà». Sergio Temolo era a piazzale Loreto, il 29 aprile 1945, con Franco Loi. Ha visto Mussolini pendere a testa in giù, insieme a Claretta Petacci e agli altri gerarchi fascisti.Ha visto le persone sfogare la propria rabbia sul corpo del Duce, ma di quel giorno, di quella vendetta perpetrata in nome dei Quindici martiri di Loreto, e dunque anche di suo papà, non ha mai conservato un bel ricordo. Anzi. «È stato tremendo» mi ha detto, abbassando lo sguardo.Sergio ha vissuto per decenni senza un briciolo di spirito di vendetta, ma solo per ricordare e tramandare il valore della libertà, vissuta come un vessillo da sventolare e non come un’arma da brandire.
Sergio Temolo ci ha lasciato un anno fa, con il timore che le future generazioni possano dimenticare.
“I giorni della libertà” racconta la storia di Sergio e di suo padre Libero, la storia di Angelo Aglieri, segretario di redazione al Corriere della Sera, e di sua moglie Aldina, la storia di Carmela Fiorili, che nascose in casa uno dei dirigenti comunisti della Resistenza, e di sua figlia Francesca, staffetta partigiana. Sono donne e uomini comuni, i cui destini si sono intrecciati come fili. Sono persone che hanno lottato per regalare a sé stessi e a noi il dono più prezioso che abbiamo: la libertà.
*Alessandro Milan, classe 1970, giornalista e scrittore. Lavora dal 1999 a Radio24, dove conduce attualmente “Uno, nessuno, 100Milan” insieme a Leonardo Manera. Ha scritto tre libri, “Mi vivi dentro” (DeA Planeta), “Due milioni di baci” (DeA Planeta) e “Un giorno lo dirò al mondo” (Mondadori). È presidente dell’associazione culturale “Wondy Sono Io” che organizza il “Premio Wondy di letteratura resiliente”.
stavo cercando storie da raccontare anziché riportare i soliti pipponi non basta quando ce ne saranno nella settimana della memoria ed ho trovato questa
https://www.avvenire.it/agora/pagine/ del 11 febbraio 2023 Gianni Santamaria
Il parroco di Clivio, insieme al maresciallo della Finanza Cortile e alla signora Molinari organizzarono una rete clandestina per far espatriare i perseguitati. Un libro ricorda la vicenda di eroismo
La rete da cui passavano gli ebrei a Clivio - Archivio Comune di Clivio
Don Gilberto Pozzi - Archivio Comune di Clivio
«Questa è una storia di finanzieri, di sacerdoti, di gente comune e di fuggiaschi. Una storia di perseguitati, di spie, di delatori, ma anche un racconto di grande solidarietà. Quell’autunno del 1943, a Clivio, accaddero molte cose: pedinamenti, rapporti segreti, arresti e scelte determinanti nell’Italia divisa in due dopo l’8 settembre ». Già l’incipit del volume di Gerardo Severino e Vincenzo Grienti, Il partigiano di Dio. Don Gilberto Pozzi, lo Schindler di Clivio (San Paolo, pagine 187, euro18, 00), mette sul piatto tutti i protagonisti, i luoghi, i tempi e i pericoli della vicenda che vide una rete di benefattori (nel senso letterale del termine) mettere in salvo chi era in pericolo: migliaia di perseguitati dal nazifascismo, tra i quali moltissimi ebrei. I sacerdoti protagonisti sono tanti. Oltre alla figura eroica del parroco di Clivio, alla quale il volume è dedicato, sono ricordati anche gli altri “prevosti” della Valceresio, al confine tra Italia e Svizzera, che si spesero per il bene in tempi di male assoluto: don Gioacchino Brambilla di Viggiù e don Giovanni Bolgeri di Saltrio. «Il prete in un paese è come una scintilla, può accendere un paese. Se il prete se ne fa promotore, i buoni propositi diventano un’opera», ricorda nella prefazione l’arcivescovo di Milano Mario Delpini.
Il libro sottolinea a più riprese il contributo dei cattolici nella lotta al nazifascismo, con laici e sacerdoti, alla don Pozzi , i quali «svolsero diversi ruoli nella Resistenza. Furono fonte d’ispirazione per i giovani saliti in montagna fino a diventare essi stessi comandanti di formazioni partigiane», scrivono gli autori ricordando i casi di don Antonio Milesi nella Bergamasca, don Vittorio Bonomelli nel Bresciano, Arndt Paul Richard Lauritzen, frate di origine nordica che prese il nome di battaglia di “Paolo il Danese”, e don Domenico Orlandini, fondatore delle Fiamme Verdi reggiane. A far nascere l’Italia democratica essenziale fu poi il contributo, spesso trascurato dalla storiografia, degli Internati militari in Germania (Imi) e della cosiddetta “resistenza con le stellette” nei vari corpi armati. Don Pozzi, nato a Busto Arsizio nel 1878, era divenuto parroco della località del Varesotto nei primi del Novecento e vi restò fino alla morte, avvenuta nel 1963. Da subito si era messo a fianco della gente, soprattutto dei più poveri e delle famiglie colpite dai lutti nella Grande Guerra. Si era anche adoperato per le madri svizzere che, per colpa di politiche economiche restrittive della Confederazione, furono costrette ad abbandonare i figli minori appena al di là della frontiera, in territorio italiano. Aveva anche organizzato opere sociali ed educative, venendo così in contrasto con i socialisti e gli anarchici del luogo, molto radicati, che lo vedevano come un pericoloso concorrente nella conquista della gioventù. Dopo il 1938 don Pozzi si era apertamente schierato contro le leggi razziali, finendo nel mirino dei fascisti. E agì per seguire la sua coscienza e il Vangelo. Nel 1943 il sacerdote fu, dunque, tra i promotori della cellula di Clivio dell’organizzazione Oscar, acronimo che stava per “Opera scoutistica (aggettivo poi sostituito per prudenza con soccorso) cattolica aiuto ai rifugiati”. La rete clandestina era strettamente legata al celebre gruppo scout delle Aquile Randagie, del quale fecero parte personalità come don Giovanni Barbareschi e numerosi altri sacerdoti, nonché il “ribelle per amore” Teresio Olivelli. Il sodalizio ebbe il sostegno dell’arcivescovo di Milano Ildefonso Schuster e del vescovo di Lugano Angelo Giuseppe Jelmini. Grazie ad esso si realizzarono oltre 2mila espatri clandestini. Don Pozzi, sempre nel mirino, fini nel carcere milanese di San Vittore, dopo essere stato catturato dalla Guardia nazionale repubblicana e la sua casa perquisita dalla famigerata legione armata “Ettore Muti”. Sarebbe finito in un lager, se non fosse stato scarcerato per intercessione di Schuster.
Il maresciallo della Finanza Luigi Cortile - Archivio Comune di Clivio
Sorte che invece non fu risparmiata al maresciallo delle Fiamme Gialle Luigi Cortile morto nel 1945 nel campo di concentramento austriaco di Mauthausen-Melk a soli 47 anni. A questa figura, che si prodigò con don Pozzi nell’aiuto agli ebrei, il colonnello Severino, direttore del Museo storico della Guardia di Finanza, ha già dedicato il libro Il buon doganiere di Clivio. Nell’opera di resistenza, infatti, si impegnarono molti dei finanzieri operanti vicino alla frontiera elvetica, terra di traffici, spesso non puliti, e “spalloni”. Protagonista degli atti di quotidiano eroismo fu anche la gente comune, rappresentata da Nellina Molinari e Giuseppina Panzica. Quest’ultima aveva messo a disposizione dei fuggitivi la sua casa di Ponte Chiasso e per questo è finita Ravensbrück, campo al quale è fortunatamente sopravvissuta. Vicenda che sempre Severino ha ricostruito in un altro volume insieme a Grienti, che è un giornalista di Tv2000 esperto di storia e collaboratore di “Avvenire”. Cortile e Mo-linari, che è morta nel 1987, lasciando una silenziosa quanto preziosa memoria, sono stati riconosciuti lo scorso anno dallo Yad Vashem come Giusti tra le nazioni. A testimoniare per loro due famiglie ebree che hanno aiutato: i Colonna e i Ghedali. Ma sono molti altri i nuclei familiari e i singoli ebrei ricordati nel volume. A scampare in Svizzera grazie a questa cellula fu anche Giorgio Sacerdoti, allora bambino, oggi presidente della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea e autore della presentazione al volume.
La signora Nellina Molinari - Archivio Comune di Clivio
In risposta ad Ignazio la Russa ed ai suoi seguaci che dicono chhe la costituzione italiana è antifascista : “I giovani non sanno abbastanza per essere prudenti, e quindi tentano l'impossibile e lo ottengono, generazione dopo generazione”
Pearl S. Buck
ed è proprio partendo da questa citazione che riprendo la storia riporta dalla News Letters di Mario Calabresi
Alle otto di mattina del 25 aprile il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, che coordinava le operazioni militari delle formazioni partigiane, manda ai milanesi un messaggio che passerà alla storia. La voce di Sandro Pertini, che nel 1978 diventerà Presidente della Repubblica, incita dalla radio all’insurrezione generale contro i nazifascisti. Quel giorno Milano viene liberata e quella sera Benito Mussolini fugge dalla città, travestito da soldato tedesco, ma due giorni dopo viene catturato dalla 52esima Brigata Garibaldi all’uscita di Musso, a un chilometro da Dongo, sul Lago di Como, dove sarà processato e fucilato il 28 aprile.
La copertina del podcast "Hai presente il 25 aprile?" prodotto da Chora Media. È possibile ascoltarlo gratuitamente online da questa mattina cliccando qui
Perché proprio la data del 25 aprile è stata scelta come Anniversario della Liberazione? Cosa è successo nelle settimane precedenti? Chi erano e quanti erano i partigiani? C’erano anche donne tra loro? Cosa era successo nei due lunghi inverni di occupazione nazista? A tutte queste domande, che sono di Altre/Storie di Mario Calabresi ma, immagino, anche di molti di voi, << ho cercato di dare risposte interrogando Chiara Colombini, ricercatrice presso l’Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza e autrice del libro “Anche i partigiani però…” e Paolo Pezzino, che ha insegnato Storia contemporanea a Pisa, è uno studioso delle stragi nazifasciste e presidente dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri. Ne è nato un podcast realizzato proprio in collaborazione con l’Istituto Parri, che con lo stesso formato del precedente “Hai presente la Marcia su Roma?” dà vita a una collana di divulgazione storica di Chora Media, curata da Davide Savelli. L’idea è quella di cercare risposte competenti ma comprensibili a tutti, capaci di fare memoria e di combattere oblio e qualunquismo. >>
Ed è per questo che riporto dalla stessa fonte la storia del più giovane partigiano italiano, Franco Cesana ( foto a sinistra ) , che a soli dodici anni scappò di casa, dopo aver detto che usciva a prendere il latte, per raggiungere il fratello e unirsi alla Resistenza. Solo due mesi dopo, a giugno del 1944, la mamma ricevette una meravigliosa lettera in cui Franco le raccontava la sua avventura. È una storia dolorosa e commovente, che ho scoperto grazie alla storica Liliana Picciotto che da anni alimenta il portale Resistenti ebrei d'Italia nel quale raccoglie testimonianze sul contributo ebraico alla Resistenza. Liliana Picciotto, che è responsabile per la ricerca storica del CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea), ha appena presentato una nuova parte della sua ricerca, fatta di storie e podcast, da cui condivido una parte del racconto su Franco Cesana, che era nato a Mantova il 20 settembre del 1931, si era trasferito con la famiglia a Bologna ed era rimasto orfano del padre quando aveva otto anni. All’inizio del 1944, il fratello maggiore Lelio si era arruolato con i partigiani nella formazione Scarabelli, creata in provincia di Modena, e Franco sognava di raggiungerlo come racconterà la mamma Ada Basevi: «Era parecchio tempo che questo benedetto bambino mi chiedeva sempre, alla sera: “Mamma, lasciami andare, voglio andare con i partigiani, dammi il permesso”. Gli rispondevo sempre di no: “Sei troppo piccolo, lascia fare a tuo fratello che è più grande”». Il primo aprile Franco fugge e riesce a trovare i partigiani, ma per poter essere accettato mente sulla sua età, dichiarando di avere 16 anni, e così gli viene affidato il compito di staffetta portaordini con il nome di battaglia di “Balilla”. La madre per lunghe settimane non saprà nulla del destino del figlio, anche se lo conosceva come un ragazzino responsabile e più maturo della sua età: «Mio figlio, era molto indipendente, non si lasciava sottomettere dalla paura dei castighi ed era molto religioso, tanto che studiava da rabbino». Finalmente, il 7 giugno 1944, a casa arriva una lettera rassicurante, scritta con una calligrafia da bambino. “Carissima mamma, dopo la mia scappata non ho potuto darti mie notizie per motivi che tu immagini. Ti do ora un dettagliato resoconto della mia avventura: partii così all’improvviso senza sapere io stesso che cosa stavo facendo. Camminai finché potevo poi mi fermai a dormire in un fienile in località Osteria Matteazzi. Al mattino, svegliandomi con la fame, ripresi a camminare in direzione di Gombola, sfamandomi con le more. Arrivai a Gombola verso le nove e di lì cercai i partigiani, deciso a entrare a far parte di qualche formazione. Riuscii a trovare patrioti che mi insegnarono la strada per andare al Comando che si trovava a Maranello di Gombola. Arrivai nella detta località stanco morto, ma mi feci coraggio e mi presentai. Dopo un po’ mi si presentò l’occasione di entrare a far parte della formazione Marcello. Sei contenta? Presentandomi a Marcello, fui assunto e siccome ho studiato, fui dislocato al Comando e attualmente mi trovo stabile relativamente sicuro in una località sopra a Gombola. Così non ti devi impensierirti per me che sto da re. La salute è ottima; solo un po’ precario il dormire. Per chiarire un increscioso incidente, ti avverto che non ho detto quella cosa che mi hai fatto giurare. Così, chiudo questa mia, raccomandandoti alto il morale, che ormai abbiamo finito. Affettuosamente ti bacia e ti pensa il tuo tesoro. Ti raccomando, appena ricevi la mia bruciala. Ancora ti saluto e ti abbraccio”.
Ciò che la mamma aveva fatto giurare a Franco, era di non dire mai, in nessuna occasione, di essere ebreo, essendo per lui doppio il pericolo: l’appartenere al movimento partigiano e l’essere ebreo. La lettera non fu bruciata ma chiusa in una bottiglia di vetro e seppellita, affidata dalla mamma alla terra, futura testimonianza su quanto avvenuto alla famiglia Cesana. Dopo alcuni mesi di silenzio, il 14 settembre 1944, Ada Basevi si vede comparire davanti il figlio, cresciuto, bello, sicuro di sé. “Non piangere, mamma – gli dice, nel salutarla – ritornerò per il mio compleanno”. Il 20 settembre, infatti, Franco avrebbe compiuto 13 anni. La sera dopo, nel corso di una missione con il fratello Lelio e altri partigiani, incontra un gruppo di tedeschi che, allertati da una spia, non esitano a sparare uccidendo Franco e altri quattro ragazzi. Mancavano sei giorni ai suoi tredici anni. Il comandante della formazione partigiana riuscirà a recuperare il corpo di Franco per portarlo alla madre proprio il 20 settembre, il giorno del compleanno.
Il portale web “Resistenti ebrei d’Italia” della Fondazione CDEC, con le illustrazioni di Sara Radice
La ricerca sul contributo ebraico alla Resistenza riprende uno dei primi progetti avviati dal CDEC che ne ha caratterizzato l’attività fin dalle origini (1955) e che in tutti questi anni, pur non essendo mai stato portato a termine, ha costituito uno dei principali nuclei del patrimonio di documenti della Fondazione.
La ricerca viene resa pubblica tramite l’aggiornamento del portale online con un database di oltre trecento profili di resistenti e con la narrazione di cinque vicende particolari – tra cui quella di Franco – presentate anche sotto forma di podcast. La ricerca esplora vicende per lo più sconosciute e indispensabili per ricostruire il ruolo degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale, non solo vittime ma anche protagonisti della resistenza al nazifascismo.
da repubblica Tabita Gurioli ha percorso a cavallo circa 13 chilometri per andare a lavorare. E così spiega la provocazione: "Ho l'auto in officina, era mio diritto poter lavorare da casa, l'azienda lo permette. Un abuso negarmelo"
Da Mensa Matellica, una frazione del comune di Ravenna, fino a Cesena. A cavallo. Il motivo? Le hanno negato lo smart working. "Avevo l'auto a riparare in officina dopo un incidente stradale, ho chiesto di lavorare da casa" ha raccontato Tabita Gurioli ai giornali locali. Una protesta, non verso l'istituto di credito dove lavora, tiene a precisare, ma piuttosto la poca flessibilità di chi, incaricato di
gestire l’organizzazione dei turni di lavoro, non avrebbe preso in considerazione la sua difficoltà a raggiungere l’ufficio a causa di un imprevisto difficile da risolvere. Non avendo altri mezzi, Tabita Gurioli ha deciso di recarsi da dove abita alla sede cesenate di Credit Agricole, dove lavora, a cavallo percorrendo circa 13 chilometri. "La mia capufficio me lo ha negato dicendo che si trattava di una questione domestica ha spiegato al Corriere di Romagna una votla arrivata davanti alla sede di lavoro con il suo cavallo - e quindi avrei dovuto usare dei giorni di ferie. Ho scelto questo gesto per protestare perchè non è giusto restare zitti di frotne a un abuso visto che l'azienda permette in questi casi lo smart working".
Il mio dubbio espresso nel titolo trova risposta nel fatto che due filosofi opposti
Daniele carbini
Questa cosa un ministro della repubblica italiana allora assale prepotente il senso del disgusto. Non esiste un’etnia italiana, la nostra straordinaria cultura (al pari di molte altre) è la naturale conseguenza di scambi, incontri e condivisione, di genti di ogni dove che hanno portato in queste terre un pezzo di ricchezza inestimabile, di un’umanità varia pregna di stimoli creativi, figli di molteplici influenze.
Questa “purezza” italiana, questa supremazia bianca, mascherata con giustificazioni ridicole, certifica il persistere di un razzismo lascivo e profondo, fa schifo. Invece di decantare l’orrore discriminatorio i ministri di un governo dovrebbero preoccuparsi di creare le condizioni per cui una coppia possa permettersi di avere dei figli, se lo desiderano. In troppi casi avere un figlio significa che una donna deve rinunciare al lavoro e alla carriera, oppure affidare il figlio a babysitter, asili e scuole per tutto il giorno, non crescendolo e non vedendolo mai. Ci si dovrebbe preoccupare di creare una società dove gli esseri umani hanno una vita dignitosa, non subire uno schiavismo di massa, dove sei obbligato a correre a perdifiato per sopravvivere oppure a non fare un cazzo e vivere di tristi elemosine di stato.
Diego Fusaro
Ha fatto molto discutere l'infelice uscita del ministro della destra neo-liberale Lollobrigida sulla cosiddetta "sostituzione etnica". Ovviamente l'opposizione non aspettava altro per poter attaccare il governo, accusandolo di posizioni non distanti dal razzismo. La verità, comunque, è che la tesi della sostituzione etnica è una solenne idiozia: uno dei tanti modi per non spiegare la realtà, in questo caso quella della immigrazione di massa. O, meglio, uno dei tanti modi per sostituire al pensiero razionale la suggestione irrazionale. Che sia in atto una sostituzione è vero, ma non è una sostituzione etnica. È la sostituzione di una classe lavoratrice con diritti conquistati e con un tenore di vita più o meno dignitoso con una nuova classe lavoratrice migrante, senza coscienza di classe e senza diritti, sottoposta alle forme più radicali di sfruttamento. Di "immigrazione di sostituzione" parlano perfino le Nazioni Unite. Non per questioni etniche, come ancora crede qualche irriducibile della destra neoliberale: ma per questioni di sfruttamento del lavoro (tema di cui la destra, come peraltro la sinistra, si guarda bene dal parlare). Il lavoro dei migranti costa meno; permette di abbassare i costi generali del lavoro; infine, permette al potere di favorire conflitti tra migranti e non migranti, mentre abbassa a tutti le condizioni di vita e mentre fa prosperare la lotta di classe nella stessa classe. Occorre ribadire l'ovvio: i nemici non sono i migranti, ma il capitale che usa l'immigrazione per sfruttare i lavoratori, tutti i lavoratori. Questo è il punto che ovviamente la sciagurata tesi della sostituzione etnica non vuole vedere. [..... ] La tesi della sostituzione etnica è demenziale, perché oltretutto astrae completamente dal quadro concreto dei rapporti di forza. Al capitale non importa nulla del colore della pelle delle persone: gli importa soltanto di poter trovare braccia a basso costo, con le quali abbassare i costi della forza lavoro e produrre sempre nuovo sfruttamento. Per questo, e non per altro, l'immigrazione di massa è un'arma nelle mani del capitale e delle classi dominanti: un'arma contro la classe lavoratrice, sia migrante, sia autoctona.
Agli antipodi arrivano alla stessa conclusione vuol dire che l'espressione sostituzione etnica usata d'anni da esponenti politici e seguaci di questa becera destra e scopetta solo ora
Cara sinistra istituzionale e cara opinione pubblica " moderata " . Ben svegliati . Sono anni che il termine orribile erede di teorie condannate dalla storia è ritornato in auge e Ve ne accorgete ora che è questa destra è al governo .? Ma prima dormiva te o eravate impegnati o ridere dietro a chi Ve lo faceva notare ?
È oltre che razzista e da vecchio spacciato per nuovo è una
Mariano ha nove anni e a causa di una malattia rarissima pesa 138 chili. Con i propri genitori, il piccolo viaggia per le cure necessarie, ma in Calabria non ha diritti e sua madre deve combattere ogni giorno perché gli siano riconosciuti. segue 👇
Anna Maria Stanganelli, Garante regionale della salute, ha contattato subito i genitori del bambino, assicurando il sostegno diretto del proprio ufficio. La Regione Calabria si è attivata per gli ausili protesici del caso, «sul presupposto – ci ha chiarito un dirigente del dipartimento Tutela della salute – che le famiglie dei bambini con tali problemi non debbano pagare un centesimo e che agli interessati si debba garantire la massima vicinanza, sicché nessuno può lavarsi le mani davanti a situazioni del genere». La Regione è all’opera per assicurare a tutti i bambini disabili gli ausili gratuiti cui hanno diritto e per l’acquisto della speciale sedia a rotelle di cui Mariano necessita, nello specifico con la collaborazione del distretto sanitario di Lamezia Terme.
Una legge per i minori disabili e l’offerta di Misiti
Inoltre, alcuni consiglieri regionali stanno pensando ad un’apposita legge per aiutare i minori disabili e l’ortopedico Massimo Misiti, già deputato della Repubblica, ha dato la propria disponibilità a vedere il piccolo Mariano, che ha una gamba deformata dal peso, e a contribuire in concreto ad una migliore assistenza dei bambini calabresi con disabilità riconosciuta. «Tutto ciò che è necessario – afferma Misiti, sensibile al tema della salute dei bambini – dobbiamo farlo insieme. Bisogna alimentare reti di solidarietà e di intervento a favore dei piccoli e delle loro famiglie, senza pregiudizi e tentennamenti».
«Mariano andrà in gita con i suoi compagni di scuola»
«Non è stato vano raccontare la nostra storia», dice commossa la signora De Fazio, che anticipa: «Giovedì (domani, nda) Mariano andrà in gita insieme ai suoi compagni di classe. Significa che la scuola ha confermato grande attenzione nei suoi confronti, perciò ha trovato un bus idoneo, con accesso facilitato, che gli consentirà di viaggiare senza problemi e di vivere un’esperienza fondamentale. Si tratta di un pulmino di circa dieci posti col quale una ditta privata si occupa del trasporto di persone disabili. Ho chiesto ai genitori dei compagni di Mariano se fosse stato un problema salire su quella sorta di ambulanza assieme al piccolo. I genitori sono stati solidali e i bambini non hanno esitato un attimo ad esprimere la loro volontà di stare con Mariano. Non c’è speranza più grande in una società che combatte con bullismo e cyberbullismo. È un segnale limpido alle altre istituzioni, che devono preoccuparsi degli spostamenti dei bambini come mio figlio, di cui non possono ignorare i diritti. Lottiamo ogni giorno per cambiare la mentalità e il metodo delle amministrazioni pubbliche».
Stanganelli: «Una battaglia che ci chiama a moltiplicare gli sforzi»
La vicenda di Mariano è diventata simbolica. Ed è significativo l’attaccamento alla vita di questo bimbo, che vede poco ma sa leggere e scrivere benissimo; che a quattro anni ha imparato a camminare benché all’ospedale Gaslini di Genova lo avessero escluso in modo categorico; che, come sua madre e suo padre, non si ferma davanti agli ostacoli della burocrazia, della sanità e della società, spesso lontana dalla comprensione dei problemi altrui. «La battaglia dei genitori del bambino – sottolinea Stanganelli – ci chiama a partecipare in prima persona, a moltiplicare gli sforzi, a coordinarci ad ogni livello istituzionale per abbattere tutte le barriere che impediscono l’assistenza piena dei minori in condizioni di disabilità. Questa battaglia è ora collettiva e generale. Come Garante della salute, continuerò ad impegnarmi, anche insieme al Garante regionale per l’infanzia e l’adolescenza, Antonio Marziale, perché i bambini e i ragazzi siano al centro dell’assistenza sanitaria e sociale».
«Abbiamo capito che non siamo soli»
«Dopo l’uscita della mia intervista al Corriere della Calabria, nella nostra piccola comunità di Vena di Maida (Catanzaro) – dice De Fazio – siamo stati inondati da un amore, un affetto, una solidarietà meravigliosi. Sapevamo di essere benvoluti; sapevamo che Mariano era conosciuto e considerato in ambito locale. Tuttavia, ci hanno confortato le condivisioni dell’articolo, i commenti e i messaggi di vicinanza di migliaia di persone. Questo ci ha fatto sentire forti, ci ha fatto capire che non siamo da soli. Sono stata contattata dalla Garante regionale della salute, la quale mi ha riferito di essere rimasta particolarmente colpita dall’articolo, soprattutto in veste di mamma. La professoressa Stanganelli si è resa disponibile, soprattutto per gestire al meglio la problematica della sedia a rotelle che avevo chiesto all’Asp di Catanzaro per mio figlio. Sono stata contattata anche da un dirigente della Regione Calabria, che ha capito immediatamente la situazione e si è già messo all’opera».
«La Regione vuole evitarci di spendere troppo»
«Ad ogni cambio di stagione – precisa la madre di Mariano – investiamo dai 400 ai 500 euro, perché i piedi di nostro figlio sono particolari. Non sapevamo che l’Asp di Catanzaro poteva anche intervenire per le scarpe, l’abbiamo scoperto dopo nove anni. Le scarpe di nostro figlio vanno realizzate su misura. Lo racconto soltanto per rendere l’idea delle spese che abbiamo dovuto affrontare come famiglia, oltre a quelle per i viaggi della speranza fuori regione. In quanto alla sedia a rotelle, la ditta interpellata ha da ultimo sentito cinque potenziali fornitori e ci ha parlato di una sedia ultraleggera che può sopportare il peso del nostro bambino. I relativi costi si aggirano intorno ai 5mila euro. Si tratta di una somma che non è coperta per intero dall’Azienda sanitaria, che ci ha richiesto di partecipare per l’importo di 1.600 euro. Ma adesso la Regione vuole vederci chiaro ed evitarci di sborsare questi soldi».
«Abbiamo dovuto combattere anche contro l’ignoranza»
«Quando Mariano era più piccolo e la sua obesità era ancora più evidente e disarmante, ho dovuto combattere – prosegue la signora De Fazio, che di professione fa l’avvocato – con gli ignoranti, con gente che lo fotografava stupita dal suo peso e dal fatto che usasse un passeggino su misura. Eravamo arrivati a limitare le uscite, anche perché l’altro nostro figlio reagiva male alle manifestazioni di stupidità di chi fotografava Mariano. Confesso che avevo perso la fede. A Dio chiedevo perché mi avesse messo alla prova e punito così tanto, perché avesse avuto tanta crudeltà nei nostri confronti. Poi andai a San Giovanni Rotondo, da padre Pio, su insistenza del dottore Saullo, il primario della Pediatria di Lamezia Terme che per primo si era preso cura del nostro bambino. Partii arrabbiata, mortificata, depressa e rassegnata al fatto che avrei cresciuto un figlio su una sedia a rotelle. Ero avvelenata e ritenevo che il nostro viaggio fosse solo un teatro, una buona pagliacciata, perché ormai i giochi erano fatti. Andammo lì con una coppia di amici e caricammo in macchina casse di acqua, pannoloni, il passeggino enorme di Mariano e tutto l’occorrente. Mi presentai davanti a padre Pio con questo bambinone, che oltretutto era come una bambola, fermo, attonito finché i farmaci non facevano effetto. In quel santuario chiesi di avere gli strumenti e la forza mentale necessaria per cavarmela, per sopportare la croce che portavamo da anni. Tornai a casa sempre più avvelenata e angosciata, passarono delle settimane. Una mattina, mentre ero in cucina, sentii dei passetti. Mai avrei potuto immaginare che era il rumore delle scarpe di mio figlio. Credevo che i miei suoceri stessero facendo qualcosa al piano di sopra. Mi girai e vidi Mariano che si era alzato ed era andato ad attaccare al forno della cucina le formine di dolci che avevamo comprato a San Giovanni Rotondo. Restai senza parole per diversi minuti. Mariano mi disse: “Mamma, vedi, le ho attaccate, non bisognava attaccarle qua?”. Poi andò di nuovo alla sua sedia. Mi ripresi e chiamai i nonni, il papà e il dottore Saullo, che commentò: “Io lo sapevo, questo è stato l’amico mio”. L’amico suo era padre Pio».
«Desidero pedane nei lidi calabresi per i bambini che non possono camminare sulla sabbia»
«Da quel giorno – prosegue la signora De Fazio – credo di essere tornata finalmente serena, pur non avendo trovato un epilogo a questa avventura. Da quel giorno tutto è davvero cambiato. Oggi ho ripreso in mano la mia professione ma sono anche una catechista. Non posso fare a meno di rendermi utile in parrocchia e sono contenta perché Mariano cresce e noi cresciamo con lui. Il bambino si è legato alla parrocchia e quindi ha cominciato le lezioni del catechismo, si è appassionato ai canti e alla musica che ascolta in chiesa, ha voluto servire messa e vuole continuare a farlo da quando ha visto che, senza chiedere nulla, hanno realizzato per lui delle pedane che gli consentono di raggiungere l’altare. Sono dunque molto devota e capisco che non era vero che mi era stato tolto tutto con l’arrivo di Mariano. Mi hanno mandato Mariano ed è venuto meno il superfluo. Adesso ho tutto». «Ora desidero – conclude De Fazio – che nei lidi calabresi ci siano delle pedane per i bambini che, come Mariano, non possono camminare sulla sabbia perché hanno la sensazione di muoversi sull’orlo di un precipizio. I bambini vanno portati al mare, che è un luogo di salute della mente, del corpo e dello spirito. E spero che qualche medico ci aiuti per la gamba colpita di Mariano e per ridurre il peso di nostro figlio, magari con degli interventi chirurgici». Il Corriere della Calabria seguirà gli sviluppi della vicenda. La storia di Mariano e la voce di sua madre sono già uscite dal dalla dimensione virtuale del web. (redazione@corrierecal.it)
Ma come si fa a sostenere cose del genere ? Anche se come dice dossier presentato dalla Juventus nell’autunno del 2015 dovesse essere vero ciò non una giustificazione per evitare di prendersi le proprie responsabilità di mancato controllo di tale teppaglia . Infatti da
Il Fatto Quotidiano
PAOLO ZILIANI
Ma come si permettono l’europa e il mondo di additare il nostro calcio come il più razzista e discriminatorio del “globo terracqueo” (cit. Meloni)? Ma che ne sanno loro degli sforzi profusi dai nostri club nell’impavido tentativo di sradicare dai nostri stadi razzismo e discriminazione? E dire che basterebbe andare in Google, scrivere “Colour? What colour? Relazione sulla lotta contro la discriminazione e il razzismo nel calcio”: e ci si troverebbe davanti alle 84 pagine del dossier presentato dalla Juventus nell’autunno del 2015. E sì, dopo averlo letto magari qualcuno potrebbe restare perplesso rispetto al tipo di riflessione suggerita sul tema dal club guidato fino a ieri da Andrea Agnelli: risolvere
il problema è impossibile: non per niente la squalifica della curva dell’allianz Stadium per i cori razzisti rivolti a Lukaku è stata subito tolta. E poi perché? Un po’ di sano razzismo e di sana discriminazione non ha mai fatto male a nessuno. State pensando a uno scherzo? Beh, cambiate idea. Perché la conclusione cui gli esperti della Juventus giungono, a conclusione del loro ponderoso studio, è una e una sola: l’importante è non fare drammi. “Un approccio pragmatico – si legge a fine dossier, a pag. 73 – suggerisce che l’insulto collettivo basato sull’origine territoriale sia difficilmente sradicabile con l’applicazione di veti e sanzioni. Secondo il timore espresso da un noto esperto e attivista i tifosi, semplicemente, non capiranno e diventeranno meno ricettivi sulla necessità di disciplinarsi nell’uso di un vocabolario discriminatorio, sessista o razzista”. E dunque: “In conclusione, la decisione più saggia sulla discriminazione territoriale consiste forse nel tollerare, temporaneamente, queste forme tradizionali di insulto catartico (…) Le sanzioni collettive non sono ammesse nei sistemi giudiziari ed educativi delle democrazie progredite. Sono infatti considerate eticamente scorrette, illegali e controproducenti. È quindi difficile capire perché dovrebbero rivelarsi efficaci nel mondo del calcio” Avete capito bene: l’insulto razziale o discriminatorio viene definito “catartico”, e cioè da vocabolario “liberatorio, purificatore”. E chi siamo noi per impedire un tale processo di purificazione interiore delle masse? Ma non è tutto. Se l’insulto razzista assume connotazioni particolarmente odiose (vedi il verso della scimmia rivolto dall’intera curva juventina, 5 mila persone, all’indirizzo di Lukaku due settimane fa), “la correttezza politica ha storicamente dimostrato – si legge – che lo humour costituisce una risposta di grande efficacia agli atti discriminatori. Le reazioni spiritose, come quella di Dani Alves riportata nel paragrafo 2-4 (al lancio di una banana il giocatore brasiliano rispose, ai tempi del Barça, sbucciandola e mangiandola, ndr) hanno un impatto positivo sotto diverse angolazioni (…) l’umorismo raggiunge un esteso gruppo di persone, attira l’attenzione, si diffonde rapidamente e resta impresso nella memoria”. Insomma brutto piagnone di un Lukaku che ti ribelli se 5 mila spettatori fanno al tuo indirizzo il verso della scimmia: perché vuoi farne un dramma? Non potresti umoristicamente stare al gioco e che ne so, picchiettare in testa Onana proprio come fanno gli scimpanzé, o balzare in groppa a Dumfries o strofinarti ripetutamente il pelo sul petto per divertire la platea e irradiare così un messaggio subliminale di grande efficacia? Invece di lamentarti, fai anche tu qualcosa di utile per battere il razzismo. Fai l’orango.
Quindi se tale problema secondo loro non si risolve in tale modo , lor signori , cosa propongono per risolverlo ?
La storia di Giuseppe Cabras: il 95enne che proiettava i film nel cinema di SelargiusAppesa al chiodo l’uniforme militare, a 20 anni ha iniziato a lavorare nelle sale cinematografiche
Giuseppe Cabras, ieri e oggi (foto Serreli)
Tutto è iniziato negli anni Quaranta. C’era da aprire il cinema Astoria, nella via Rossini, a Selargius, vicino alla torre della Piazza. Serviva un operatore patentato, uno insomma addetto alle proiezioni ma anche all’acquisto dei film. Un uomo con “patente” e di fiducia. Giuseppe Cabras, allora 20enne, oggi 95enne, questo patentino l’aveva conseguito dopo aver fatto il militare, superando un esame mica facile con una giuria composta anche da un vigile del fuoco, visto che le pellicole, allora, erano a forte rischio incendio. All’appuntamento con i proprietari si presentarono i cinque. La scelta cadde su Giuseppe Cabras. Non se ne sono di certo pentiti. Lui non solo proiettava i film ma andava in bici a Cagliari anche a comprarli e pure a pagare. Stipendio 28mila lire mensili. «L’ho fatto per 16 anni – racconta Cabras con orgoglio –. Allora le sale cinematografiche facevano il pienone soprattutto nei giorni festivi. Io proiettavo dalle 14 all’una del giorno successivo. Sceglievo anche i film: li compravo io su incarico dei proprietari della sala cinematografica, i fratelli Rundeddu, titolari di una grande falegnameria. Mi spostavo con una bici con una cabinetta destinata proprio alla custodia delle pellicole. E in bici andavo anche i banca a versare gli incassi. Durante la proiezione capitava anche di spostarmi in un altro locale cinematografico, a Quartucciu, a poche centinaia di metri di distanza. Succedeva nelle emergenze. Io ero sempre pronto con la bicicletta, mio unico mezzo di locomozione. Dormivo al cinema in una branda. Raramente rientravo a casa. Selargius era allora collegato a Settimo da una strada sterrata. I guasti più frequenti? La rottura della pellicola. In un attimo facevo la riparazione usando l’acetone. La proiezione riprendeva quasi subito, limitando al massimo i disagi e a volte anche il rumoreggiare degli spettatori. Succedeva anche questo. Bei tempi». «Un lavoro faticoso ma gratificate – racconta oggi l’operatore di Settimo San Pietro –. Ci è capitato di avere in una giornata anche 1200 spettatori paganti: I film più gettonati? quello con Charlot, Gary Cooper, Anna Magnani, Gina Lollobrigida. Allora non si parlava ancora di porno. Mi sono immedesimati nella storia del film “Paradiso” di Tornatore. Il pubblico? Frequentavano intere famiglie, ragazzi, fidanzatini: tutti insomma. Allora non c’era la Tv e le sale cagliaritane erano lontane». Dopo 16 anni, Giuseppe Cabras cambia mestiere. Gestisce un bar della allora via Nuova a Settimo e poi se lo costruisce in periferia: una sfida, visto che allora, li, c’erano ancora terreni coltivati. Oggi è la via San Salvatore. Il bar dello sport, di proprietà di Efisio Deiana, lo gestisce sino al 1994, prima di trasferirsi nella via San Salvatore dove reaizza e apre il Bar dello sport, oggi Gil bar, gestito dalla figlia Paola. Lui, signor Giuseppe, fa ora la vita da pensionato: la solita sgambatura giornaliera nelle campagne di Settimo dopo aver lasciato la bici. È stato poi uno storico donatore di sangue, super premiato da Avis con la croce d’oro. «Un nostro orgoglio – dice di lui il sindaco Gigi Puddu: il signor Giuseppe è ancora un esempio per tutti: di donazioni ne ha fatto addirittura 180, con chiamate di emergenza anche dagli ospedali».
Partorisce con cuore e polmoni schiacciati da un tumore: mamma e piccolo stanno bene La massa è stata rimossa al termine della gravidanza. L’intervento era stato posticipato perché molto invasivo e pericoloso
Operazione chirurgica (foto Ansa)
È riuscita a portare a termine la gravidanza, dando alla luce il suo piccolo, nonostante un tumore – grosso quanto un melone – le schiacciasse cuore e polmoni. La rimozione della massa però era troppo rischiosa, tanto da essere posticipata. Ma nonostante l’ostacolo il parto è andato bene. Protagonista dell’impresa a lieto fine una giovane mamma torinese di 22 anni che alla fine, dopo qualche mese dalla nascita del piccolo, si è sottoposta a un lungo e delicatissimo intervento per l'esportazione del tumore. L’operazione, durata ben 6 ore, è stata eseguita alle Molinette della Città della Salute di Torino. La diagnosi di tumore era arrivata quattro anni fa: un sarcoma del torace, diffuso alle ossa, curato per due anni con cicli di chemioterapia e radioterapia che hanno eliminato le metastasi ma non quel macigno sul cuore, la cui rimozione era altamente sconsigliata perché troppo vicino a organi vitali. Con il tempo però la ragazza non riusciva più a vivere normalmente, perennemente affaticata e dolorante. E la “missione salva-vita” dei chirurghi si è resa necessaria. L’esito dell’operazione è stato buono, con l’esportazione del tumore e il ripristino della piena funzionalità del polmone sinistro. Ora mamma e figlioletto stanno bene, pronti a godersi questo nuovo capitolo della loro nuova vita, insieme.