Guardo le parole incise nei sassi, che il tempo prima o poi s'incaricherà di cancellare, e mi ripeto che esse, come sentenzia il titolo di un libro di Carlo Levi, sono importanti più delle azioni, a volte; e che dal loro uso spesso dipendono i comportamenti di intere generazioni.
Coloro che giornalisti frettolosi definiscono "feroci padrini" o "potenti boss" il più delle volte si rivelano insignificanti individui, ignoranti e brutali, resi potenti dalla loro cieca, selvaggia crudeltà. Basta chiamarli per quello che realmente sono: assassini, pronti a vendere i loro "pentimenti" con lo stesso cinico disprezzo per la vita umana mostrato nei loro delitti.
Proprio questo, dei vili assassini, erano quei giovinastri che una mattina di settembre del 1990, lungo la strada che da Canicattì porta ad Agrigento, uccisero un magistrato ragazzo, Rosario Livatino. Un "commando di spietati killer" fu definito dai giornali quel branco di codardi che in una scarpata tutta sassi, come qui, a Portella della Ginest, inseguì la facilissima preda, dopo che essa, inerme, era scesa dall'auto per cercare scampo a piedi.
Spararono in faccia ad un giovane magistrato che per scelta personale, oltre che deontologica, non si sarebbe mai dotato di un'arma. Spararono in faccia a uno degli uomini della magistratura siciliana pù esposti alla violenza altrui, perchè. oltre che puntigliosamente intelligente nel suo lavoro, era il meno adatto a una pur minima reazione fisica.
Irredimibile dovette sobbalzare, ai suoi occhi che si spegnevano, il paesaggio, che quella luminosa mattina, insieme al giovane magistrato, finiva inghiottito nel gorgo del nulla. Moriva con lui, il paesaggio; pariva assorbito in un sonno d'immemore eternità; e forse il suo ultimo pensiero, già libero dal dolore e al di là della vita, sarà stato - molte volte mi è venuto di augurarglielo- di profonda pace, di quiete finalmente, compiutamente raggiunta
Matteo Collura
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