8.7.14

l'incredibile storia di Odón, ingegnere di Buenos Aires che ha brevettato un sistema per aiutare i parti difficili ispirato al trucco per tirare fuori il tappo caduto nella bottiglia






STORIE DELL'ALTRO MONDO
Un meccanico in sala parto

Odón aveva un’officina vicino a Buenos Aires, poi ha inventato un sistema semplice e geniale per aiutare i parti difficili che potrebbe far sopravvivere buona parte di quei 5 milioni di neonati che muoiono ogni anno nel mondo per complicazioni mentre vengono alla luce. Ispirato al trucco per tirare fuori il tappo caduto nella bottiglia


TESTO E FOTO DI ENRICO FANTONI





        Jorge Odón, 60 anni, nello studio di casa sua a Banfield, piccola località in provincia di Buenos Aires



Jorge Odón, un meccanico di 60 anni di Banfield, piccola località vicino a Buenos Aires, ha inventato un apparecchio che salverà la vita a centinaia di migliaia di neonati. Non è un seggiolino per auto più sicuro, e nemmeno un nuovo sistema di frenaggio, ma qualcosa che aiuterà i bambini a nascere. E potrebbe far sopravvivere buona parte di quei 5 milioni di neonati (e circa 150 mila madri) che muoiono ogni anno nel mondo per complicazioni durante il parto.
Tutto è cominciato otto anni fa, con un tappo di sughero finito sul fondo di una bottiglia di vino. Jorge Odón stava pranzando con i dipendenti della sua officina quando uno di loro gli propose una sfida: estrarre il tappo
dalla bottiglia vuota, senza romperla. Arrendendosi all’impresa impossibile, Jorge dovette ricredersi osservando le mosse dello sfidante: l’uomo aveva inserito una busta di plastica per la spesa nel collo della bottiglia, lasciandone fuori l’estremità coi manici, poi aveva inclinato la bottiglia in modo che il tappo entrasse in contatto col sacchetto, infine aveva soffiato nel sacchetto per gonfiarlo, aveva tirato le maniglie e... pop! Il tappo era uscito docilmente.
Era solo per l’azione combinata di due principi fisici (la pinza pneumatica e il nastro trasportatore), ma a Odón parve una magia. Quella stessa notte si svegliò con un’idea in testa: lo stesso principio poteva essere usato per aiutare i neonati a lasciare l’utero materno, operazione spesso difficile. Jorge, padre di cinque figli, un po’ di esperienza sul campo ne aveva. «Mi succede spesso di svegliarmi nel cuore della notte con soluzioni a vari problemi», confida quando mi riceve nello studio ricavato nella soffitta di casa sua, una villetta con giardino in una zona residenziale a un’ora dal centro della città. «Di solito non chiamo mia moglie, ma quella volta lo feci e le dissi cosa avevo pensato. Lei si girò e si rimise a dormire».
Il prototipo nel garage
Il giorno dopo Jorge ripete il trucco con Carlos Modena, un amico ingegnere: a fine pasto gli lascia sul tavolo alcuni oggetti - un coltello, un cavaturaccioli, una forchetta - e un sacchetto di plastica. Poi lo invita a tirar fuori il tappo dalla bottiglia con gli oggetti a disposizione. Si danna una buona mezz’ora, Carlos, prima di darsi per vinto e vedere l’espressione trionfante sulla faccia dell’amico quando estrae il tappo dopo avere soffiato nel sacchetto. Jorge gli spiega la sua idea e gli offre di mettersi in società: «Lui mi rispose: ma tu sei un meccanico, che ne sai di parti?». Così Carlos prese appuntamento con un amico ostetrico. Pochi giorni dopo, eravamo nel suo studio. L’amico si mise a sedere dall’altra parte della stanza, come a dire: io non c’entro niente con questa follia. Ma a dimostrazione finita disse: idea geniale.
Seguono mesi di febbrili esperimenti nell’officina di Jorge. Prima provano con un barattolo di biscotti e un bambolotto; poi con un utero di vetro che Jorge si fa costruire da un artigiano, da cui cercano di estrarre Luna, la bambola preferita di Jadira, sua figlia più piccola. «Stavamo ore chiusi in bagno a trafficare con le bambole: i miei impiegati pensavano che fossi diventato pazzo», confessa Jorge.
Il prototipo sembra funzionare: è l’ora di cercare alleati autorevoli. Javier Schvartzman è un ostetrico del Cemic, un centro medico nato nel 1958 che dipende dall’Università di Buenos Aires: dal 2008 è anche il ricercatore principale del dispositivo, colui che lo ha svilupparlo e testato. Quando lo incontro lo riconosco subito: Schvartzman ha fatto nascere mia figlia Anna, 13 anni fa. Anche lui si ricorda di me, o meglio, del parto «più complicato» della sua carriera. Quel 2 febbraio 2001 era comiciato tutto come al solito - la rottura delle acque, la corsa in ospedale, le contrazioni. Poi qualcosa andò storto, le facce dei medici e delle infermiere tradivano preoccupazione. Era la posizione: Anna era supina, il collo piegato e le spalle incastrate nel canale del parto. Schvartzman decise di usare il forcipe: mentre tirava, due infermiere si erano distese sul ventre della madre, facendo pressione. «Non esce, non ci riesco», fu l’ultima frase del dottore, prima di ordinare alle infermiere di prepararsi per un cesareo. Nessuno pensò a dirmi di uscire e così la prima immagine che ho di mia figlia fu mentre veniva estratta dalle viscere della madre, la pelle grigia per l’anossia. Passata la paura, tutti concordammo che solo la freddezza di Schvartzman, nel decidere per il cesareo, aveva salvato la vita di mia figlia.
Pensavano a uno scherzo
Sei anni dopo, nel dicembre 2007, il dottor Schvartzman conosce il meccanico di Banfield. Grazie a un giornalista amico riesce a contattare Enrique Gadow, genetista di fama mondiale, che presiede il Cemic. Questi non vuole scontentare l’amico, ma l’idea di conoscere un ostetrico dilettante non l’entusiasma. Da secoli non s’inventa niente di nuovo in quel campo: il forcipe ha 400 anni e la ventosa è poco più giovane. Possibile che ci riesca un meccanico? Gadow passa la patata bollente a Javier Schvartzman, un suo sottoposto. «La prima volta che l’ho incontrato credevo fosse uno scherzo, una candid camera», confessa. «Quando Jorge ha tirato fuori dalla borsa una bottiglia e un sacchetto di plastica, cercavo di indovinare dove fosse la telecamera. Poi, quando ha ripetuto il trucco con un bambolotto e un utero di vetro, ho ammesso che la cosa era interessante». I due, a cui si unisce un altro medico del Cemic, Hugo Krupitzki, cominciano a riunirsi periodicamente per perfezionare il dispositivo. Le modifiche apportate in officina sono passate al vaglio dei medici: è Schvartzman a notare che non è necessario avvolgere tutto il corpo del neonato, basta la testa. Anche Mario Merialdi, l’italiano a capo del Human Reproduction Team della World Health Organization è scettico quando i medici del Cemic insistono perché dia un’occhiata all’invenzione: a Buenos Aires per il congresso plenario dell’organizzazione, Merialdi concede all’inventore 10 minuti in una saletta di un hotel. Dopo due ore, Merialdi diventa il principale sostenitore dell’idea e chiede a Schvartzman e Krupitzki di elaborare per la WHO i protocolli necessari all’approvazione del dispositivo - la prima cosa da dimostrare è che non sia dannoso - e il “facilitatore di Odón” passa il test.
L’ok degli scienziati
Il resto è storia recente: adottata dalla WHO, l’invenzione è testata con successo su 30 donne. Jorge assiste a tutti i parti, apportando modifiche fino a rendere il dispositivo molto simile a quello che la BD (Becton, Dickinson and Company), la ditta Usa che si è aggiudicata il brevetto, comincerà a produrre a breve. L’Odón Device è composto di un manico di teflon attorno a cui si attorciglia una speciale borsa di plastica con due forti maniglie. Il manico è quello che serve al posizionamento nell’utero, una coppetta di gomma aderisce alla testa del bebé indicando quando è in posizione. A quel punto il medico o l’infermiere (il dispositivo è molto semplice) srotola la borsa, rimuove il posizionatore e aziona una pompetta che gonfia la borsa, stringendola come un delicato cappio attorno al collo del bebé - non c’è rischio di soffocarlo, ancora respira attraverso il cordone ombelicale. Poi si tirano le maniglie, fino a far uscire la testa
Il 99% dei decessi di madri e neonati si registra nei paesi in via di sviluppo: ecco perché Jorge Odón ha preteso (e ottenuto) che BD aggiungesse come clausola del suo contratto una lista di 70 paesi del Sud del mondo dove il dispositivo verrà offerto al prezzo di costo: 50 dollari. Ma ci sono altri effetti benefici: «L’abbattimento dell’incidenza dei tre principali fattori di morte materna: atonia uterina, infezioni dell’utero e parto ostruito», spiega Schvartzman. Un altro effetto virtuoso è di limitare il contatto del bebé con le mucose del canale di parto, principale causa di eventuale trasmissione del virus Hiv al neonato». Nei paesi più sviluppati potrebbe anche ridurre la necessità di ricorrere al parto cesareo, costoso e spesso inutile. Nel Cemic c’è grande attesa per la fase 2 della sperimentazione, che durerà tutto il 2014, su due gruppi di donne al primo parto: il primo lo affronterà coi mezzi consueti, al secondo verrà applicato il dispositivo di Odón. I risultati saranno poi messi a confronto.
Nel frattempo, la vita dei protagonisti di questa storia è cambiata: Mario Merialdi ha lasciato la WHO e lavora per la BD come responsabile dello sviluppo. Schvartzman e Krupitzki, rimasti a capo del team di sperimentazione, sono invitati ai simposi di mezzo mondo e non sembrano preoccupati del fatto che non avranno partecipazioni sui proventi: «Aver contribuito a un’invenzione che potrebbe cambiare la storia non ha prezzo», dicono. Il cambiamento più radicale è avvenuto nella vita l’ex-meccanico di Banfield: ceduta l’officina al figlio, oggi si dedica totalmente alla sua invenzione e passa le mattine in teleconferenza con Singapore, dove si danno gli ultimi ritocchi al dispositivo che porta il suo nome. La sua storia è finita sul New York Times e Forbes ha inserito la sua tra le 5 invenzioni più interessanti per ricadute sociali. Non si sente un pesce fuor d’acqua, tra gli scienziati di tutto il mondo: «Essere un meccanico è un vantaggio», dice. «Perché devi sempre inventare nuove soluzioni»

7.7.14

L'Insostenibile Leggerezza dell'Essere \ certe cose non cambiano mai I ragazzi che si amano si baciano in piedi contro le porte della notte e i passanti che passano li segnano a dito.






Ma i ragazzi che si amano
non ci sono per nessuno
ed è soltanto la loro ombra
che trema nel buio
suscitando la rabbia dei passanti
la loro rabbia, il loro disprezzo, i loro risolini
la loro invidia.
I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno,
sono altrove ben più lontano della notte
ben più in alto del sole
nell’abbagliante splendore del loro primo amore.

(Jacques Prévert)

soddisfazioni

Leggendo  sulla  destra del mio  blog   la sezioni  post  più popolari   (  ne  trovate  sotto  un copia-incolla  ) 

Cosa ci ha insegnato o almeno dovrebbe la Grande guerra - prima guerra mondiale

Una  lettera interessante    da  repubblica  del  6\7\2014

Luca Zorzenon (  lucazorzenon@alice.it ) 

ABITO a Redipuglia, a 300 metri dal Sacrario,nella casa dei bisnonni costruita, come altre nei dintorni, all'indomani della fine della I  guerra mondiale, con materiali che la povera  gente di allora recuperava da un Carso devastato.
Per un secolo, da allora, i «centomila» morti e i men che mille vivi che popolano la frazioncina,ogni sera alle 17 odono una flebile  tromba che suona loro il «silenzio»: entrano,quelle note dignitose, in punta di piedi, mentre leggi o cucini, badi all’orto, giochi con i figli,studi.
Oggi, invece, il maestro Muti suonerà per tutti il Requiem verdiano, ed è un grande messaggio di pace e di fratellanza fra i popoli. Anche un omaggio alla Costituzione. Calca permettendo, ci sarò. Altrimenti, mi basterà tener le finestre aperte, per partecipare.
L’indomani, da quelle stesse finestre,rientrerà, quotidiano, il «silenzio». Ho letto su Repubblica il bel testo del Presidente Napolitano.*
Solo una cosa mi sento di dire, da professore  di liceo che ogni giorno parla ai giovani. Prova tremenda sofferta e vinta dal popolo  italiano da poco unito, prova molto meno  positiva delle sue classi dirigenti (politiche e  militari), la Grande guerra ci consegna non  un’Italia più unita e consapevole, ma anzi lacerata
ai limiti della guerra civile, dentro cui  le istituzioni dello stato liberale crollano e la  monarchia compie nel 1922 (quasi all’anniversario  di Caporetto), il passo irresponsabile  di consegnarne a Mussolini il governo. Meglio di me, perché ne visse sulla pelle le conseguenze, lo sa il Presidente: ed io questo dico  e ripeto ai giovani.


*
 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/07/05/europa-piu-unita-cosi-il-ricordo-della-prima-guerra-rafforzera-la-pace11.html


In un anno il giro del mondo in bicicletta. Su due ruote per ascoltare le persone, alla ricerca di storie sostenibili

vedi anche

da  repubblica.it

Stefano Cucca, per tutti 'Rumundu', 35 anni, sardo, ha percorso trentaduemila chilometri. "Pedalo per ascoltare le persone. E per gridare al mondo che il modello economico e sociale attuale porta a far si che ci siano poche persone ad avere denaro e potere. E ciò non è sostenibile per definizione"

di GIAMPAOLO COLLETTI  03 luglio 2014 


Rumundu vuol dire il mondo nel dialetto sussincu [  di sorso  ] , un slang tipico dell'entroterra sassarese. "E' il dialetto che parlava la mia nonna a Sorso. E da lì sono partito per il mio giro in bicicletta", racconta Stefano Cucca, per tutti appunto 'Rumundu'. Che poi il mondo Stefano l'ha girato davvero in lungo e in largo alla scoperta di storie e stili di vita sostenibili. Per un anno e per giunta su due ruote. Un viaggio che è stato raccontato in tempo reale attraverso testi e immagini sul suo diario di bordo Rumundu.it e sui social collegati, con un seguito che si è fatto di giorno in giorno più ampio, virale, condiviso.
Partito nel giugno 2013 dal suo paese di origine Sorso e rientrato nella sua Sardegna, precisamente a Cagliari lo scorso 4 giugno, ad un anno esatto dalla partenza. "Sono partito dalla leggendaria fontana di Sorso, quella che racconta come gli abitanti di questa comunità siano considerati un po' matti per via di quell'acqua. Ecco, rivendico con orgoglio l'elemento follia presente in ciascuno di noi", precisa Cucca. E quanto ha pedalato 'Rumundu', trentacinquenne sassarese, tante vite in una sola, nonostante la giovane età. Trentacinque anni, laureato in economia e commercio, master in progettazione europea, ha lavorato in Italia e all'estero. "Mi sono anche licenziato dal mio posto di lavorare, e ho iniziato a viaggiare". Un passato da direttore di un consorzio di cooperative sociali e poi a capo di un'azienda che si occupava di tracciabilità di prodotti alimentari. Animo da innovatore sociale, quello di Cucca: è partito per scoprire un mondo migliore. "Che esiste per davvero", giura da inguaribile ottimista.
Missione compiuta, quella di Stefano. Ed esperienza indimenticabile. "È stato un anno ricco di esperienze che non è semplice descrivere in poche parole, ma mi sento una persona molto fortunata. Ho imparato moltissimo e sono davvero tante le realtà visitate in questo viaggio", precisa Cucca.
Trentaduemila chilometri, cinque continenti, centinaia le persone incontrate, innumerevoli le storie da raccontare. E tutto sulla stessa bicicletta rotta un po' di volte e riparata e quattro zainetti. E mentre il sito si apre alla collettività, per il futuro Cucca sogna progetti di rural innovation e si mette alla ricerca di un venture capital per la creazione di un fondo. "Pedalo per ascoltare le persone. E per gridare al mondo che il modello economico e sociale attuale porta a far si che ci siano poche persone ad avere denaro e potere. E ciò non è sostenibile per definizione", precisa Cucca, con noi al 'Next' di Cagliari giovedì 10 luglio ore 19.30 in piazza Palazzo.
Che cosa ti ha spinto a compiere questo percorso e a macinare tutti questi chilometri?
"La mia pedalata è nata da una serie di riflessioni fatte alcuni anni fa. D'altronde se 85 uomini nel mondo hanno un salario annuale come quello di 3,5 miliardi di persone, questo modello non regge. Bisognerebbe fermarsi e riflettere. Così ho creato una piattaforma con storie di modelli di sviluppo economico alternativo al consumismo. Storie controcorrente".
Cosa ti sei portato con te nel viaggio?
"Con me lo stretto indispensabile. Un sacco a pelo, l'attrezzatura tecnica, un po' di vestiario e qualcosa da mangiare. Ecco il contenuti dei quattro zainetti. Avevo poche cose quando sono partito e ancora meno al ritorno".

Quale lezione hai imparato con trentaduemila chilometri alle spalle?
"Tante lezioni diverse, ma forse quella più significativa l'ho imparata in Indonesia, perché ho visto il percorso errato che è stato fatto in passato anche nella nostra terra sarda. In Sardegna negli anni '70 le tradizioni e le persone - quindi le ricchezze di un luogo - sono state accantonate per dar spazio alle multinazionali che tendono a 'normalizzarè i luoghi. Insomma la storia tende a ripetersi".
Quanti Paesi hai visitato sempre su due ruote?
"Tantissimi. Italia, Svizzera, Germania, Francia, Lussemburgo, Belgio, Olanda, ancora Germania, Danimarca, Islanda. E poi l'indimenticabile 'coast-to-coast' negli Stati Uniti passando per il Canada, Giappone. Ho toccato la Cina e poi il Vietnam e ho percorso i sentieri della Cambogia, Thailandia, Malesia, Singapore, Indonesia, Australia, Nuova Zelanda, Sud-Africa per poi rientrare in Italia attraversando la Turchia e la Grecia. E poi la bella, ciclabile, viva, colorata, seria e folcloristica, rilassante, fresca, verde e giovane, rossa e curiosa Amsterdam, in Olanda".
Pedalate alla ricerca di stili di vita sostenibili. E in tutto questo quanto ti sei portato con te della tua terra?
"Tantissimo. Lo scopo del progetto Rumundu era quello di girare il mondo in bicicletta alla ricerca di storie e stili di vita sostenibili, promuovendo allo stesso tempo la Sardegna".
Giro del mondo, ma anche d'Italia. Quali mete hai visitato del Bel Paese?
"La Sicilia con Palermo e Messina, per poi risalire tutto lo stivale passando per Capo d'Orlando, Cosenza, Maratea, Palinuro, Salerno, Napoli, Roma, Livorno, Firenze sotto un piacevolissimo temporale sul Ponte Vecchio. E Parma, Bologna e Novara. Fino a Milano".
Uno dei Paesi che ti hanno maggiormente colpito?
"Direi l'Islanda, sostenibile perché governata dalla natura. C'è anche Kyoto con il rispetto verso il prossimo o la Cina con Pechino patria dell'insostenibilità, l'Indonesia con la sua caotica Bali, o ancora la Tasmania, nei cui boschi si possono trovare luoghi magici dove si vive in completa armonia con la natura".

Stiamo raccogliendo i messaggi per la candidatura di Cagliari 2019. Il tuo slogan personale?
"Cagliari deve farcela e anzi ce la farà, perché partiamo dal presupposto positivo: siamo al centro del Mediterraneo e quindi potremmo riappropriarci di questo luogo centrale".
Prossimi obiettivi e... future pedalate?
"Vorrei dare la possibilità ad altri di popolare il sito con racconti di storie sostenibili che parlino di come e dove si vive nel mondo, dalla bioedilizia al cibo, dai mezzi di trasporto agli stili e ai comportamenti quotidiani che tengano conto del rispetto del territorio".
Ma quanto è impegnativo fare un viaggio del mondo in bicicletta?
"Penso che non sia una cosa impossibile farlo. Ognuno con il proprio ritmo potrebbe porsi nella condizione di esplorare e imparare a prescindere dai chilometri. Quelli sono relativi. Sono dell'idea che con la bicicletta si abbia la giusta velocità per ascoltare il mondo. Lo si capisce, lo si percepisce, lo si vive".
Quale messaggio ti senti di mandare ai giovanissimi 'nexter', gli innovatori del proprio tempo?
"Mai arrendersi e darsi sempre da fare. E poi nella vita occorre rimettere al centro le persone e non le cose. Una persona normale può girare il mondo con una bicicletta e quattro zainetti sulle spalle".

6.7.14

Il geco eroe salva il compagno dal serpente che lo stritol



Sta facendo il giro dei social network questo video pubblicato sul profilo Facebook dell'associazione ambientalista Aella: un geco in pericolo di vita, dopo essere stato catturato da un serpente, viene salvato da un altro geco che coraggiosamente attacca il rettile e libera il compagno. Tra i commenti, come prevedibile, chi si dichiara indignato perché le persone che riprendono la scena non intervengono, e chi sostiene la necessità di lasciare che la natura faccia il suo corso e la "battaglia" venga risolta tra i tre protagonisti

Daniela Ducato e i mattoni fatti di alghe e terra. Così un'imprenditrice sarda reinventa l'edilizia verde.

per  approfondire  \  ti potrebbe interessare  




La sardegna , nonostante le continue mitizzazioni e luoghi comuni ormai duri a morire è come dimostra ( vedere oltre i link citati negli articoli di repubblica .it del 5\7\2014 anche ti potrebbe interessare \ per approfondire ) d'essere all'avanguardia ed questo uno dei Casi . La storia ed il lavoro di Daniela Ducato . EssaProduce materiali, ad alta tecnologia industriale, realizzati senza una goccia di petrolio solo con surplus ed eccedenze vegetali animali e minerali, risorse spesso smaltite come rifiuti. Premio New Urbanism a New York per il piano del verde a misura di farfalla e di biodiversità e Premio Euwiin a Stoccolma come migliore innovatrice Europea, settore ecofriendly, ha realizzato la Materioteca "Edilana Green House CO2.0" i cui 250 prodotti, sono i primi al mondo in edilizia, acustica, geotecnica, design, ad avere la certificazione del 100% di tracciabilità ambientale, geografica, economica, sociale delle materie prime e dei cicli produttivi, per una Architettura di Pace, indipendente dal petrolio a misura d'uomo e di donna




Daniela e i mattoni fatti di alghe e terra. Così un'imprenditrice sarda reinventa l'edilizia verde.
Un tetto ad alta efficienza energetica realizzato con pura lana di pecora. O un tavolo di lana di mare e olio di oliva. Il riuso che nasce dalla terra e dal mare e che serve per costruire. Di tutto questo Daniela Ducato, imprenditrice sarda ne ha fatto un lavoro e uno stile di vita. Tanto da essere premiata a Stoccolma con l'Euwiin International Award come miglior innovatrice d'Europa nell'edilizia verde. Perché l'eccedenza deve produrre l'eccellenza

di Giampaolo Colletti 







La si può chiamare innovatrice sociale, imprenditrice, agevolatrice del cambiamento. Ma lei, in fondo ama essere definita 'trasformatrice di rifiuti'. "Perché in realtà è questo quello che faccio. Lavoro quei materiali che nascono dalla terra e dal mare, in abbondanza e in eccedenza", afferma Daniela Ducato, cinquantaquattrenne di Cagliari che ha reinventato la bioedilizia, declinandola con un'attenzione maniacale all'ambiente e alla salvaguardia della sua terra. Daniela lo scorso autunno è stata premiata a Stoccolma con l'Euwiin
International Award come miglior innovatrice d'Europa nell'edilizia verde. Con lei l'edilizia - "uno dei settori più inquinati al mondo", afferma - ha virato verso la sostenibilità ambientale. Perché Daniela non ha dubbi: "L'eccedenza deve produrre l'eccellenza". Lei produce materiali ad alta tecnologia industriale, realizzati senza una goccia di petrolio. Ha realizzato la Materioteca Edilana Green House CO2.0, i cui 250 prodotti sono i primi al mondo in edilizia, acustica, geotecnica, design con la certificazione del 100% di tracciabilità ambientale, geografica, economica, sociale delle materie prime e dei cicli produttivi.
Amore viscerale per la terra, intesa anche come radici, origini, identità. Un amore appassionato. "Sono orgogliosamente cagliaritana. La mia ispirazione nasce in questa città che mi inebria. È una città fisica, sensuale. Qui ci sono muri dove crescono i capperi. Stare qui è fonte di ispirazione", racconta. Spesso Daniela approda a Guspini, paese a sessanta chilometri da Cagliari, nel Medio Campidano. Qui c'è la sua azienda specializzata nella produzione dei materiali per l'edilizia. Lei è anche coordinatrice del Polo Produttivo per la Bioedilizia La Casa verde C02.0: ci fanno parte oltre settantacinque aziende italiane - di cui un numero considerevole opera in Sardegna, in ogni angolo dell'isola - tutte impegnate in ambito di bioedilizia. E poi c'è una comunità di Slow Food che affianca questo polo. "Noi lavoriamo con le eccedenze dell'agricoltura, ecco perché è importante questo presidio".
Così si trasformano le eccedenze e gli scarti delle lavorazioni agricole - latte, lana, olio, gusci, vino - in materiali per l'edilizia. L'idea è del 2008. "In Italia abbondano le eccedenze di sottolavorazioni, per anni scartate come rifiuti da chi pensava non servissero più", precisa. L'incontro con Daniela parte da una sua domanda. "Conosce il nido del pettirosso? Ecco da questo nido nascono le case che progettiamo per gli uomini". E così una meticolosa osservazione può generare una geniale intuizione. Di questo Daniela Ducato parlerà al Next di Cagliari giovedì 10 luglio alle ore 19.30 in piazza Palazzo 


Ci racconta meglio la storia del pettirosso?

"E' una storia affascinante e reale. Perché un pettirosso ci ha ispirato. Abbiamo studiato vari tipi di nidi di uccelli, e quelli del pettirosso hanno concentrato la nostra attenzione. Ci hanno guidato i movimenti del petto e del becco, e così li abbiamo tradotti in movimenti di macchine industriali. Il pettirosso d'altronde è un animale che si adatta, e ha la caratteristica di nidificare in vari climi. E' un nido molto performante il suo. Il pettirosso in fondo è un architetto e non può sbagliare il nido. Ne va della sua sopravvivenza".

Noi 'umani' siamo invece spesso più indisciplinati del pettirosso?

"Per anni ci siamo fatti guidare dal settore del petrolchimico, è questa l'origine dei nostri guai ed è fattore di crisi. Il petrolio è la prima causa al mondo di discriminazioni, causa guerre e conflitti sociali. Noi adottiamo additivi naturali che servono per fare i vari prodotti, senza utilizzare quegli con sintesi chimica e petrolchimica. E poi non parliamo di riciclo, perché è una parola subdola. Nel riciclo ci sono degli usi di energia. Parliamo di riuso, perché il materiale ritorna ad essere terra feconda".

Come definirebbe il suo lavoro?

"Come una contadina che cerca di produrre dei buoni pomodori. Io in realtà sono una contadina dell'edilizia e cerco di produrre materiali che non abbiano una sola goccia di petrolchimico. Dalle fibre di carciofi alle sottolavorazioni di formaggi. Finito il ciclo di vita questi prodotti ritornano laddove si trovavano: ad essere terra feconda".

Come ha iniziato questo percorso?

"A Guspini si è iniziato a costruire in posti splendidi, alla fine degli anni '90 e inizi anni Duemila. Nuove costruzioni in cemento. Io ero una giovane mamma e non avevamo modo di oppormi. Così ho iniziato ad allevare farfalle, a studiarle, ad ammirarle. La farfalla è il primo animale che muore quando viene a mancare un pezzo di paesaggio. L'azione impollinatrice delle farfalle è fondamentale. Perché lavorano anche di inverno quando le api vanno in letargo. Abbiamo iniziato ad allevare farfalle. Nel tempo abbiamo trasformato ventidue aree in spazi tematici ad alto tasso di farfalle".

Qual è la missione della sua aziende e delle aziende di questo distretto Casa Verde CO2.0?

"Innanzitutto ci siamo dati un nuovo concetto di distretto: non accentramento ma decentramento costruttivo, con una valorizzazione delle specifiche identità. E poi ci siamo dati un protocollo disciplinare: non si usa petrolchimica, e abbiamo deciso di adottare il meccanismo della Banca del Tempo. Non ci sono monete di denaro, ma c'è uno scambio di competenze e di parti prototipali. Questo ci permette di risparmiare tempo e denaro, perché mettiamo in circolo la ricerca. Le nostre attività necessitano di competenze multidisciplinari, con ingegneria e architettura in prima linea, ma c'è anche bisogno di competenze legate alla botanica o all'entomologia. E poi ci sono i saperi della comunità. Insomma tanti settori entrano in gioco".

Che tipo di ricerca fate?

"Ricerca condivisa e democratica. Il mio risultato diventa quello di tutti e patrimonio della collettività. E poi da queste relazioni di qualità nascono le ricerche più proficue, perché abbiamo bisogno di contaminarci, di scambiarci esperienze". 

La ricerca dove vi sta portando?

"La nostra ultima novità ha a che fare con il mare. Si chiama 'la lana di mare', e per arrivarci siamo partiti dalla lana di pecora. Di fatto abbiamo attuato un trasferimento tecnologico. Si tratta di un materiale isolante che ha delle caratteristiche particolari superiori al legno, perché è derivante dal legno delle foreste marine. Non andiamo a prelevare niente dal mare ma operiamo sulle eccedenze che provocherebbero problemi igienico-sanitari. Quando in quel momento quella parte diventa rifiuto interveniamo noi, sollevando le casse comunali dal costo di smaltimento".

Quale slogan o messaggio adotterebbe per Cagliari 2019?

"Punterei sul coraggio, che è una materia prima intangibile e che è una speciale vitamina C. Insieme non ci dobbiamo sentire mai soli, e ancora insieme in questo scambio di competenze possiamo trovare le giuste soluzioni".

Qual è elemento che caratterizza un 'nexter', ovvero un innovatore del nostro tempo?

"L'ascolto. E' l'elemento essenziale".



Next, a Cagliari per raccontare “la forza di avere dei punti deboli fortissimi”






“Il nostro vero punto di forza per diventare capitale europea della cultura nel 2019 è che partiamo da punti di debolezza fortissimi”. Nella allegra confusione che c’è nell’atrio del palazzo dell’Unione Sarda a Cagliari, questa frase mi inchioda nella sua folle bellezza. E’ accaduto venerdì scorso, stava per iniziare la due giorni di Sinnova, il salone delle imprese sarde votate all’innovazione promosso da Sardegna Ricerche. Io ero lì
perchè di lì a poco avrei dovuto intervenire al panel d’apertura (per scoprire che la Sardegna adesso ha un presidente che parla d’innovazione con passione e competenza rare in un politico. Segnate questo nome: Francesco Pigliaru). Ma ero lì soprattutto per cercare il filo rosso delle storie che con Repubblica metteremo in scena al prossimo Next, il 10 luglio, manca pochissimo accidenti. La frase sulle debolezze che diventano punti di forza me l’ha detto una giovane donna, assessore alla cultura e vero motore della candidatura di Cagliari 2019. Si chiama Enrica Puggioni, ha 35 anni, è laureata in filosofia (e si sente). Si definisce “ontologicamente di sinistra”. Racconta che stava in Germania quando l’ha chiamata il sindaco per offrirle il posto di assessore. Ed eccola qui.
Senza piaggeria, è una forza. Parla della candidatura di Cagliari con passione autentica. Se le dici che Lecce, Matera e Siena sembrano più attrezzate risponde che nessuno pensava che Cagliari potesse arrivare in finale, “quindi vediamo”. E poi, è questo il punto, quello che si sta facendo per Cagliari è giusto farlo con o senza il titolo di capitale europea. Si riferisce alla “riscrittura dei territori”, alla creazione di una città “connessa, policentrica e ricucita nel suo paesaggio” ma anche nei suoi valori, rimettendo al centro le donne. Magari così possono sembrare cose vaghe ma non lo sono: “C’è un piano opere pubbliche di 343 milioni di euro”. E c’è un recupero di tanti “spazi non spettacolarizzati” che stanno ridiventando motori di innovazione sociale. Come quello dove ci hanno chiesto di fare Next, il prossimo 10 luglio. Non un teatro, non una piazza famosa. Ma piazza Palazzo. Ci sono stato, venerdì, ed è un parcheggio per auto. Fino al 10 luglio appunto, perché da allora in poi sarà pedonalizzata e ci sarà l’inaugurazione di una mostra su Maria Lai con l’allestimento anche di Antonio Marras e poi noi, la Repubblica degli Innovatori. Come al solito tantissime storie ma se posso dire la mia, senza sbilanciarmi, in quelle che metteremo in scena stavolta c’è più orgoglio, più appartenenza: Renato Soru, Michela Murgia, Geppi Cucciari, Daniela Ducato e tanti altri per raccontare il cambiamento possibile. Quella sera poi tutti assieme voteremo lo slogan di Cagliari2019. Una bella coincidenza che il concorso aperto chiuda proprio quel giorno. Quindi mandateci i vostri slogan per raccontare il senso di Cagliari capitale della cultura. I migliori saranno votati lì in piazza.

P.s 
come  è stato  giustamente  fatto notare  in  commento nell'articolo   c'è   un refuso: l’artista notissima a livello internazionale non si chiama (chiamava, è morta l’anno scorso) Marisa, bensì MARIA Lai. Vedi anche http://www.stazionedellarte.it/ oppure http://www.sardegnadigitallibrary.it/index.php?xsl=626&id=132108

no a gli abbandoni e scaricabarile tipici dell'estate


4.7.14

credevo   che  i  fumetti  e  le riviste  per  i ragazzi  fossero solo incentrati  solo  per  bimbiminkia  o  concentrati  sulle mode e personaggi del momento invece  : 



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Pico De Paperis
30 maggio 2014
D’ESTATE UNA LAUREA IN GIOCHI ALL’APERTO E’ UTILISSIMA


Eccomi qui, cari amici! Seguo da tempo con interesse il blog tenuto da alcuni miei parenti paperopolesi, e mi sono accorto che finora la CULTURA è stata trascurata. Non preoccupatevi, sono qui apposta per porre rimedio!
Grazie alla mia laurea in GIOCHI ALL’APERTO sono in grado di suggerirvi alcune SPASSOSE attività da svolgere adesso, prima o dopo aver studiato per le ultime verifiche, e tra qualche settimana quando molti di
voi saranno ai centri estivi.
Il primo gioco che vi consiglio si chiama UN DUE TRE… STELLA. Bastano un cortile o un giardino, un punto ben preciso che serva da TANA, e almeno quattro amici (se sono di più è meglio – e se non sono troppo simpatici non importa, basta che non facciano storie quando vengono “PRESI”).
Il giocatore che sta sotto si chiama STELLONE e si piazza a una ventina di metri dagli altri giocatori allineati ai quali gira le spalle. I suoi RIVALI devono raggiungerlo, e se ci riescono lo costringono a rimanere sotto per un ALTRO GIRO. Per sua fortuna però lo stellone può BLOCCARLI prima che arrivino…
Mentre è girato di spalle recita infatti la formula “UN DUE TRE… STELLA!”, e si volta di scatto dopo aver pronunciato la parola “STELLA”. Se in quel momento BECCA uno dei giocatori IN MOVIMENTO, con un piede alzato o un braccio che ciondola, ha il diritto di RISPEDIRLO indietro sulla linea di partenza.
Quando ero un paperottolo ho trascorso interi pomeriggi a giocare con i miei cugini, divertendomi soprattutto a calcolare l’intervallo di tempo migliore per CATTURARLI: con i cugini più lenti aspettavo due minuti prima di gridare “STELLA”, con quelli fulminei non superavo i trenta secondi!

E ora… buon gioco a tutti!

PICO DE’ PAPERIS

il caso di Marinaleda ecco come riprendersi dalla crisi . ma allora il socialismo non è un’utopia?


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In un  periodo  di ricorrenti crisi  economiche  e di un sistema   sempre  peggiore  



 da un video che  viene  continuamente rimosso      ma   che riappare  ciclicamente   sintesi  del film    https://www.youtube.com/watch?v=7gSRg_zoBgA

Eccovi  una  modello  di utopia realizzata  

Nel cuore dell'Andalusia sorge una piccola comunità rurale che è riuscita a sconfiggere la piaga dei senza lavoro. Un esempio unico nell'Europa colpita dalla crisi e dalla recessione creato dallo storico sindaco della cittadina. 

Juan Manuel Sànchez Gordillo ha fondato la politica economica e sociale su un principio che ha avuto successo: non più copetività ma cooperazione. Ispirandosi ai valori del socialismo ha costruito nell'arco di 30 anni un sistema che garantisce la sussistenza all'intera comunità agricola. Il risultato è la piena occupazione e un sogno che resiste: l'utopia di un sistema di convivenza e produttivo diverso
Un paese senza disoccupati né mutui da pagare, dove tutti hanno uno stipendio garantito. Non è utopia ma quanto accade a Marinaleda, un piccolo centro abitato nei pressi di Siviglia, in Andalusia, dove tutto questo è realtà.Il piccolo comune andaluso è balzato agli onori della cronaca perché rappresenta un esperimento sociale ed economico quanto meno interessante. Nel bel mezzo della più grave crisi del dopoguerra, con la disoccupazione al 30% in Spagna, il centro governato dalla fine degli anni ’70 dal rivoluzionario sindaco Gordillo registra un sorprendente 0% alla casella disoccupazione.Il principio ispiratore si fonda sulla cooperazione. L'obiettivo da realizzare è un'utopia, nel senso letterale del termine: è scritto a
caratteri cubitali perfino sullo stemma della città: 'Marinaleda, un'utopia verso la pace'.Da quando il sindaco Gordillo è al governo, la popolazione, dapprima assai povera, ha occupato terreni abbandonati di latifondisti per metterli a reddito, ed in seguito una grossa tenuta è stata ceduta dal proprietario al comune perché fosse assegnata alla popolazione più povera. Dall'inizio del mandato di Gordillo quasi tutta la popolazione in grado di lavorare si è dedicata alla coltivazione e alla trasformazione dei frutti della terra riunendosi nella Cooperativa Humar - Marinaleda SCA, creata dagli stessi lavoratori. In più sono sorti un piccolo commercio e una piccola distribuzione locale.
La cooperativa, che rappresenta la vera forza economica di questo paese, impiega il 70% dei residenti. Il restante 30% della popolazione lavora negli uffici e nelle scuole o in piccole botteghe a conduzione familiare.Lo stipendio, uguale per tutti, è di 47 euro al giorno, per sei giorni di lavoro alla settimana. Identica remunerazione anche per gli operai dei campi e per quelli dell’industria della trasformazione, indipendentemente dalla mansione ricoperta o dalle ore di lavoro svolte, che oscillano dalle sei giornaliere a coltivare la terra alle otto in fabbrica.Non esiste la polizia e le decisioni politiche vengono prese in una riunione in cui tutti i residenti sono tenuti a partecipare. Le cariche politiche sono volontarie e senza compenso, svolte solo per il bene della collettività. Le imposte da pagare sono bassissime e il bilancio comunale è pubblico.Ma non è finita qui: ogni cittadino di Marinaleda ha la possibilità di pagare un affitto calmierato di 15 euro al mese per un appartamento di 90 metri quadri. Come?



 Il Comune gestisce il terreno, ne concede il permesso di edificabilità valutando la bontà del progetto e l'assegnatario contribuisce alla costruzione dell'edificio con il proprio lavoro.Nella Spagna stretta dalla morsa delle politiche di austerità,--- secondo  questo articolo d'inchieste  repubblica ( di cui trovate  nel blog  il video  )  ----  Marinaleda ha risposto all'impatto della crisi peggiore che l'Europa abbia conosciuto nel dopoguerra con la costruzione di un tessuto sociale e vincoli di solidarietà. Vivere qui non è semplice, ci raccontano alcuni lavoratori.  "Il lavoro nei campi per noi è parte integrante di un sistema che dura da 30 anni e non tutti sarebbero disposti ad accettare queste condizioni". Ci vuole "volontà politica, prima di tutto", chiosa Esperanza. 
E a chi li accusa di essere dei pazzi fuori dal tempo e dall'economia globalizzata, arriva la risposta di una produzione agricola che oggi giunge sulle tavole di tutta la Spagna, di alcuni paesi europei  -  Italia compresa  -  fino al lontano Venezuela.

Coelho: "Io, tra Conti e Rossi felice come un bimbo ma quell'epoca è finita"

da  repubblica  del  3\7\2014
Parla l'arbitro di Italia-Germania 1982. "Pertini si arrabbiò: temeva che avrei vendicato la nostra eliminazione. Quella sera volevo solo tenere la palla tra le mani. E la sollevai". Oggi la conserva in casa

3.7.14

Faenza: 23 anni si impicca, il prof la molestava, e lei doveva pure risarcirlo

come  da  tag  , non me  la sento di  esprimere nessuna considerazione  \  giudizio  , rischierei  d'eserre scontato e demagogo  preferisco  lasciarmi andare  a


                  Melissa Venema (17) plays live Il Silenzio at Carré Amsterdam 
                         with the Metropole orchestra on March 31 2013.


ma  non prima  di confermare  quando  dice  questo commento qui sotto   tratto  da http://www.leggo.it/NEWS/ITALIA/prof_molesta_scuola_risacire_impicca_23enne/notizie/777115.shtml

Ma che razza di giustizia è questa? Il ministro della giustizia che fa? Non manda gli ispettori per capire che è successo? Vergogna!Ma sono anche le leggi del nostro bel parlamento che fanno schifo sempre garantiste con i delinquenti, a pagare è sempre la vittima. Povera ragazza non riesco ad immaginare il dolore della famiglia.
Commento inviato il 2014-07-02 alle 18:08:38 da CosimoR



Aveva appena 23 anni, e se ne è andata impiccandosi nella sua stanza.

la causa del gesto è stato il male di vivere con un peso troppo grande; un prof l’avrebbe palpata e baciata nell’ascensore della scuola otto anni fa, all’epoca non tutti le credono e lei rimane praticamente sola contro tutti. Nonostante questo l’insegnante viene condannato in primo grado, e deve scontare una pena di quattro anni, ridotti successivamente a tre. Oltre al risarcimento di 60.000 euro ai genitori della ragazza; ma il furbo professore prima della sentenza, si ‘spoglia’ di tutti i suoi averi materiali: azzera i conti in banca, cambia residenza, vende l’auto e tutte le sue proprietà.“La famiglia, per ottenere quei 60mila euro, a parziale risarcimento del calvario della figlia, reagisce con una nuova denuncia, per «frode ai creditori con manovre elusive» e chiede il sequestro dei beni dell’imputato. Indaga anche la Finanza e a carico dell’insegnante arriva una nuova condanna, in sede penale, a due anni; a febbraio 2011 il docente si affretta ad annunciare il ricorso in appello, ma la sentenza ha ancora da venire.Mamma e papà di Angela si rivolgono a un
avvocato, che tra le altre cose chiede che sia sentita anche la guardia di finanza, che aveva già ricostruito le repentine transazioni del prof. La richiesta viene negata. Il giudice fa a meno delle risultanze delle Fiamme gialle e si rivolge a un perito, un commercialista, incaricato di verificare i movimenti di denaro e quelle transazioni sospette che spogliarono l’insegnante dei suoi beni, pochi istanti prima della sentenza per le molestie.La causa penale va avanti, ma procede anche quella civile, con la sua sentenza davvero assurda: il sequestro dei beni viene revocato e i genitori della ragazza sono costretti a pagare 40.000 euro al prof, come risarcimento. Questo dramma scatena nella ragazza la decisione di togliersi la vita per colpa di una sentenza che mette in evidenza le assurdità del sistema giuridico della nostra Italia.

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