Una storia che dimostra che l'affetto non è solo qualcosa di burocratico . Leggoi e riporto sotto , su repubblica d'oggi 4\5\2020
Carlotta Fruttero: "Mio padre e Lucentini non erano congiunti, ma un'amicizia così non si può tradurre nella lingua della burocrazia"
Parla la figlia dello scrittore che diede vita, insieme all'amico Franco, alla più celebre coppia letteraria italiana: "Avevano bisogno di stare vicini, camminare anche in silenzio. Era il loro modo di recuperare una dimensione intima e alimentare l'ispirazione che li teneva uniti"
Fruttero & Lucentini non erano "congiunti", né di primo né di sesto grado, tanto meno "affini" e neppure "affetti stabili", stando all'ultima interpretazione del decreto presidenziale che espunge dalla categoria l'amicizia. Sicuramente non potevano fare a meno l'uno dell'altro, nella vita come
nella letteratura. A pensarli nel distanziamento sociale imposto dal Coronavirus, viene in mente un possibile titolo a quattro mani: "La prevalenza del congiunto".
"Mio padre Carlo Fruttero collegato a Lucentini via Skype? Inimmaginabile. Non tanto per papà quanto per Franco, che non aveva la Tv, figurarsi lo smartphone. E poi entrambi guardavano con sospetto alle minime invenzioni tecnologiche, fossero anche una lametta da barba o un cavatappi di nuova concezione". Dalla più celebre coppia letteraria italiana, Carlotta Fruttero ha ereditato ironia e tenerezza. "No, non avrebbero mai potuto resistere lontani. Avevano bisogno di parlare, vedersi e stare insieme almeno un paio d'ore al giorno".
Era un'amicizia anche "fisica" che contemplava lunghe passeggiate.
"Sì, avevano bisogno di stare vicini, camminare anche in silenzio, a Torino lungo il fiume Po ai Murazzi, o in Francia vicino al canale del Loing, tra Fontainebleau e Nemours, dov'era la casupola di pietra di Franco. Avevano l'abitudine di ritirarsi da quelle parti ad agosto per lavorare. E papà mi raccontava le passeggiate notturne, misteriose, che era il loro modo di recuperare una dimensione intima e alimentare l'ispirazione che li teneva uniti. Potevano parlare per ore d'un dettaglio della trama oppure stare in silenzio: la loro amicizia non aveva bisogno di parole. Per decifrarsi l'un l'altro, bastavano uno sguardo, la postura delle spalle o il modo di camminare".
Come definirebbe il loro sodalizio?
"Un'amicizia assoluta. Inscindibile. Papà si sarebbe gettato nel fuoco per Franco, e viceversa. Era anche un'amicizia spirituale nel senso della coincidenza dei loro spiriti, e del sentire sul mondo".
Un'amicizia che fonde caratteri diversi.
"Sì, mio padre era quello che leggeva i quotidiani, s'informava, guardava la Tv: una costante immersione nella realtà, sostenuta da curiosità inesauribile. Franco era l'uomo dalle grandi visioni, letture alte tra filosofia e arte, conoscenza approfondita dei classici greci e latini, padronanza di almeno diciassette lingue. Papà mi diceva sempre: quello veramente bravo è lui, non io. Se non ci fosse stato Franco, non sarei riuscito e mettere in piedi la struttura del romanzo. In realtà non era così. Il suo libro Donne informate dei fatti ha dimostrato che poteva farcela da solo. Ma questo era il suo sentimento verso l'amico".
Non esisteva competizione.
"Si completavano vicendevolmente, senza ombre. Ed evitavano con accuratezza ogni discussione sterile. Potevano avere punti di vista differenti, ma il confronto era sempre limpido e amichevole".
Non hanno mai litigato?
"Mai. Erano capaci di stare in silenzio per molte ore, ma non li ho mai sentiti alzare la voce. C'era una cosa che creava tra loro tensione: l'uscita da casa in macchina per andare al cinema. Ansiosissimo per il parcheggio, Franco fissava la partenza un'ora prima; di temperamento più quieto, mio padre spostava più avanti l'appuntamento, con l'effetto comico di stare a discutere per ore sul minuto esatto dell'uscita. E mia madre sempre dalla parte di Franco".
Fruttero ha dovuto convivere per una vita con le malinconie della moglie e con la stessa attitudine saturnina del suo migliore amico.
"Sì, Franco poteva avere momenti di depressione e in questo senso lui e la mamma erano lo specchio l'uno dell'altra. Mio padre non poteva certo appoggiarsi sulla spalla dell'amico, perché sapeva che Franco viveva la difficile condizione di mia madre con grande angoscia. Per tutta una vita ha dovuto alleggerire le situazioni, invitandoci sempre a godere del dettaglio minimo del quotidiano. Non puoi guardare i problemi tutti insieme - mi diceva - perché c'è il rischio di restarne paralizzata. Bisogna guardare la vita un pezzo per volta. E lui riuscì a sopravvivere a una esistenza cupa rifugiandosi nella scrittura e nelle trame dei suoi romanzi".
Anche per questo aveva bisogno di stare con Lucentini. Per entrambi la letteratura era un rifugio.
"Sì, un'officina in cui non smettevano di progettare, inventare nuovi generi, lanciarsi in una sfida letteraria senza fine. La fantascienza, i fumetti, i classici rivisitati, i drammi e i radiodrammi, gli adattamenti televisivi. Li chiamavano Bouvard et Pécuchet, come i personaggi di Flaubert: loro li lasciavano dire, ma in realtà di quella strana coppia non condividevano la fede nel progresso, però l'ansia di fare sì. E ne hanno fatte tante insieme".
Lucentini più ansioso, anche nel progetto.
"La famosa scaletta: Franco esigeva un 'preromanzo', una traccia dettagliatissima, mentre mio padre preferiva lanciarsi in un percorso gravido di sorprese. E allora discutevano. "Sei schizofrenico" gli diceva papà. 'Vuoi scrivere sul serio, fingendo di scrivere per prova'. E lui replicava: 'No, schizofrenico sei tu che vuoi scrivere fingendo di non sapere dove stai andando'".
Come capirono di essere amici?
"Nei primi anni Sessanta, quando dalla Einaudi passarono alla Mondadori, con l'incarico di curare Urania, la collana di fantascienza. Non ne sapevano granché ma erano molto curiosi. Così andarono a fare incetta di racconti fantascientifici in lingua inglese nelle bancarelle di libri usati in corso Valdocco, a Torino. Poi se li dividevano per blocchi di sessanta titoli a testa; ognuno doveva fare la sua scelta. E successivamente si scambiavano i blocchi di libri, per un'ulteriore verifica. Alla fine scoprirono che i libri scelti erano gli stessi".
Si erano conosciuti a Parigi, nel 1953. Suo padre aveva 27 anni, Lucentini 33.
"Papà era rimasto colpito dal suo sorriso: ironico ma mai feroce, provvisto di un punto di vista preciso ma sempre indulgente. Come se fosse animato da un fondo di sconfinata tenerezza verso ogni minima cosa che poi si traduceva in compassione per ogni debolezza, follia, bassezza. Seppur ammirandone moltissimo l'indole, lui si sentiva diverso, più giudicante e tranchant".
Poi, nella vecchiaia, da dinamici Bouvard et Pécuchet divennero statici come i personaggi di Beckett paralizzati dall'attesa di Godot: lo racconta Fruttero in una bellissima pagina dedicata all'amico.
"Si incontravano al caffè o su una panchina di Piazza Maria Teresa o in ospedale per caso tra un ricovero e un altro: mi ricordo una volta in ascensore, Franco seduto sulla sedia a rotelle - era malato di tumore - e papà in attesa di una serie di controlli. Si guardarono con infinita tenerezza. Franco diceva di non starci con la testa, ma era lucidissimo: aveva paura della malattia, sentiva venir meno le forze. E non sopportava l'idea di non essere più autonomo".
È stata lei a dire suo padre del suicidio?
"Eravamo nella casa estiva di Roccamare, vicino a Grosseto, e presi la telefonata di Mauro Lucentini, il fratello. Entrai nello studio e glielo dissi. Non fece scenate, immobile, fedele alla sua educazione sabauda. Mi guardò con dolcezza e rassegnazione, come se in fondo se l'aspettasse. Negli ultimi mesi Franco non aveva voluto vedere nessun altro che lui. Mi chiese solo: come? Ed è stato il modo che l'ha straziato, il fatto che Franco sia stato costretto a fare tutto da sé, spingersi faticosamente sul pianerottolo, trovare un varco nella tromba delle scale. Se avesse avuto un medico pietoso al suo fianco, si sarebbe potuto risparmiare questa ultima crudeltà. Lo disse ai funerali, con quel termine inconsueto di 'suicida bricoleur'. E mentre parlava non riusciva a staccare la mano dal legno della bara".
Carlotta, suo padre e Lucentini non erano congiunti, forse qualcosa di più.
"Mi è appena arrivata la notizia della morte di Mauro Lucentini, il fratello novantaseienne che viveva a New York. Per me è un dolore acuto, come se fosse venuto a mancare l'ultimo legame con quella che per molti è una coppia letteraria ma per me resta un universo affettivo intimo, una bussola sentimentale, un padre e un secondo padre. Non so come tradurlo nella lingua della burocrazia".
Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
4.5.20
che ne sarà delle vecchie abitudini fatte di cultura ed identità dopo il covid 19 ?
secondo me come sono sopravvissute alle varie epidemia e pandemie che la storia secolo scorso compreso , rimarranno talmente sono anche se trasformate dalla modernità e dal tempo , tanto sono radicate da costituire un fattore culturale \ identitario come testimoniano le canzoni ( trovate sotto l'elenco ) che formano la colonna sonora di questo post . Inoltre il bar non è solo sinonimo di vino e di alcolici e quindi alcolismo e disagio sociale ma è anche vita sociale e di comunità come testimoniano : il libro Bar Sport il primo libro di Stefano Benni, pubblicato da Arnoldo Mondadori Editore nel 1976 da cui è tratto il film omonimo ed il suo seguito Bar Sport Duemila 2007 in generale ., oppure molta letteratura italiana mi sovvengo in mente i capitoli de il giorno del giudizio di Salvatore Satta in cui parla del caffè tettamazzi ( tutt'ora esistente e attivo ) di Nuoro o il film Radiofreccia 1998 diretto da Luciano Ligabue, all'esordio nella regia, e prodotto da Domenico Procacci.L'opera, ispirata ad alcuni racconti presenti nel primo libro pubblicato da Ligabue, la raccolta Fuori e dentro il borgo, ottiene un successo inaspettato: ben tre David di Donatello, due Nastri d'argento e quattro Ciak d'oro.
Ecco quindi che se nel nord era ( ed è ) più classista , il mito dell'aperitivo e della Milano da bere cioè espressione giornalistica, originata dalla famosa campagna pubblicitaria
che definisce alcuni ambienti sociali della città italiana di Milano durante gli anni 80 del XX secolo.
Infatti questo periodo, la città era assurta a centro di potere in cui si esercitava l'egemonia di quello che fu Partito Socialista Italiano del periodo craxista,e le origino del Berlusconismo caratterizzato dalla percezione di benessere diffuso, dal rampantismo arrivista e opulento dei ceti sociali emergenti , dei Parvenu , arrampicatori sociali , dall'immagine "alla moda" in particolare yuppies, dei paninari e del mondo della moda del capoluogo lombardo e non solo . questi film ricordiamo:Ecco quindi che se nel nord era ( ed è ) più classista , il mito dell'aperitivo e della Milano da bere cioè espressione giornalistica, originata dalla famosa campagna pubblicitaria
che definisce alcuni ambienti sociali della città italiana di Milano durante gli anni 80 del XX secolo.
- Sogni d'oro, regia di Nanni Moretti (1981)
- Mani di fata, regia di Steno (1983)
- Un povero ricco, regia di Pasquale Festa Campanile (1983)
- Il ragazzo di campagna, regia di Castellano e Pipolo (1984)
- Lui è peggio di me, regia di Enrico Oldoini (1984)
- A me mi piace, regia di Enrico Montesano (1985)
- Sotto il vestito niente, regia di Carlo Vanzina (1985)
- Yuppies, i giovani di successo, regia di Carlo Vanzina (1986)
- Yuppies 2, regia di Enrico Oldoini (1986)
- Sposerò Simon Le Bon, regia di Carlo Cotti (1986)
- Italian Fast Food, regia di Lodovico Gasparini (1986)
- Via Montenapoleone, regia di Carlo Vanzina (1987)
- Sotto il vestito niente II, regia di Dario Piana (1988)
- Bye Bye Baby, regia di Enrico Oldoini (1988)
- Miliardi , regia di Carlo Vanzina (1991)
- Ricky & Barabba, regia di Christian De Sica (1992)
- La serie televisiva di Italia 1 del 1989 Valentina, ispirata agli omonimi fumetti di Guido Crepax, interpretata dalla modella statunitense Demetra Hampton[10] e in Colletti bianchi, miniserie andata in onda sulla stessa rete e nella medesima stagione televisiva, con Giorgio Faletti e Franco Oppini.
- Al di fuori del periodo storico di riferimento, la Milano da bere è stata raccontata nel film Lo spietato del 2019, diretto da Renato De Maria e interpretato da Riccardo Scamarcio
Proletario o quanto meno misto a partire dall'Emilia e dalla Toscana al sud . Come dimostra per quanto riguarda la mia sardegna
ecco una storia presa dall'account Facebook Luca Urgu di citato nell'articolo della nuova sardegna del 3\5\2020
MOSSIDU T’HATA?In paese le donne sono più argute e spesso più coraggiose degli uomini, fanno mestieri persino più pericolosi di quelli maschili, la vita le ha temprate a tutto, perché quando era necessario era proprio la donna a vestire i panni degli uomini. Era così anche Cosomina, una donna bella e con un fisico possente, intelligente e simpatica che per tanti anni ha gestito il bar di famiglia come e meglio di un uomo. A lei non sono mancati anche i disturbatori e gli avvinazzati e più di una volta andava a verificare dentro la vaschetta dello sciacquone per trovarci una o due pistole che giovanotti preoccupati dall’avvicinarsi di carabinieri in servizio depositavano frettolosamente. Per lei si trattava di quotidianità, non le turbavano il sonno. E non mancava neanche chi osava stuzzicare Cosomina per il suo essere donna, ma lei non si scomodava più di tanto, anzi furbescamente stava al gioco, in fondo cosa più del gioco e dell’allegria invita un uomo ad offrire da bere a tutti i presenti?E fu così che un giorno Antoneddu offrì da bere a tutti e chiese a Cosomina quanto doveva pagare. Cosomina gli disse la cifra ma non aveva fretta di riscuotere, ma Antoneddu voleva giocarle il suo tiro: «Mi chi su inare est in busciacca si lu cheres picatilu!!» disse, facendo capire che la tasca era quella del pantalone, luogo pericoloso per le donne.
Cosomina non si si spaventò, il tipo non era certo un adone e lei sapeva che in quella tasca proprio pericolo non ce n’era e decise di stare al gioco. Infilò la mano ma ebbe anche lei il suo colpo di genio… facendo finta di aver toccato chissà cosa tirò indietro la mano e si rivolse ad Antoneddu ma anche a tutta la platea con finto spavento: «Maleittu sias!!!!»
Antoneddu, non da meno: «Mossidu t’hata??»
E ancora Cosomina : «bae innorommala!!!»
Strepitosa risata generale, dove Cosomina e Antoneddu avevano superato se stessi, senza certamente avere un copione scritto.
I nostri BAR sapevano essere luogo di incredibile divertimento.
Colona sonora
VITA SPERICOLATA- Vasco Rossi
Canzone delle osterie di fuori porta - Francesco Guccini
Viva l'Italia - Francesco de Gregori
I funerali di Berlinguer - Modena City Ramblers ( leggere il testo non fatevi ingannare dal titolo ideologico leggete tutto il testo )
Viva l'Italia - Francesco de Gregori
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3.5.20
Nuoro L’epopea di un gruppo di insegnanti che istruiva gli studenti tra monti e campi Dai viaggi in groppa all’asinello alle classi che si radunavano post mungitura
Cambiamo discorso , non stiamo sempre a parlare di Covid19 \ coronavirus e notizie legate direttamente ed indirettamente ad esso legate . Parliamo d'altro . Riporto qui questo articolo preso dalla nuova sardegna del 29\4\2020 . Eccovi una storia d'altri tempi 😢😎😁 quando ancora l'analfabetismo era una piaga che sembra ritornato in auge , i corsi ed i ricorsi della storia . Ma ora bado alle ciance veniamo ala storia d'oggi
NUORO
Mezzo secolo fa gli insegnanti colmavano le distanze con gambe da scalatori e volontà di ferro, oggi nelle scuole chiuse per decreto a tenere unità e produttiva la classe – ognuno a casa sua – c’è bisogno di un computer e di una linea wi-fi affidabile. Generazioni a confronto con storie e metodologie differenti per affrontare le emergenze. Così, se da una parte gli insegnanti itineranti non conoscevano la fase uno e poi quella due, ignoravano termini come lockdown o altre diavolerie, avevano però un solo credo: faticare tutti i giorni per sconfiggere l'analfabetismo, allora galoppante. Perché tutto quello che possedevano, che non era molto anzi, era quasi nulla – se lo dovevano conquistare con il sudore in tutte le stagioni dell’anno.
Oggi per i pochi maestri rimasti che portavano l’insegnamento in campagna, là dove c’erano gli alunni che mai sarebbero andati a scuola in paese, reduci di una stagione che sembra essere lontana anni luce dalle comodità attuali, vivere quest’era afflitta da un male, il coronavirus, fino a poco tempo fa sconosciuto, sorprende ma non li allarma. Sentendo i loro racconti l’emergenza attuale è davvero poca cosa rispetto alle difficoltà – davvero di ogni tipo – che hanno dovuto affrontare e superare quando andavano a insegnare tra i monti e le campagne del nuorese. Viaggi quotidiani in groppa all’asinello se si era fortunati o a piedi per chilometri per portare la didattica ad una classe di pastori che si radunava dopo la mungitura.
Di quel gruppo nutrito di insegnanti – in Sardegna erano una cinquantina – ne sono oggi rimasti davvero pochi. Una compagine che si è ulteriormente assottigliata dopo la dolorosa perdita di uno di loro, l’apprezzato e compianto, Gianni Berria di Orune, una delle tante vittime di questa malattia fino a poche settimane fa sconosciuta. Il lavoro in prima linea di Berria, ma anche di Giovanni Puggioni, di Giovanni Pala Mundanu e dei loro alunni – pastori spesso coetanei e con voglia di apprendere – non era sfuggito all’Europeo, rivista che nel febbraio del 1960 aveva realizzato un reportage su questo particolare spaccato di vita e lavoro di un’Isola che lottava per emanciparsi.
«Le nostre difficoltà raccontate oggi hanno dell’incredibile. Sembrano irreali. Eppure le abbiamo vissute con fermezza e spirito di adattamento. E con uno stipendio che a mala pena serviva a coprire le spese», racconta Giovanni Puggioni, 81 anni. Gli fa eco dalla sua Orune, costretto in casa come tutti dalle restrizioni nei movimenti imposte dal governo per contrastare il coronavirus, Giovanni Pala Mundanu. Voce ferma e vis ironica ancora intatta, l’ex insegnante dimostra molte stagioni in meno dei suoi 87 anni. «Questo male non ci può spaventare – dice – noi abbiamo superato tutto, qualsiasi malattia, dalla tubercolosi, alla malaria. E poi andare a fare lezione in campagna non era semplice. Un’esperienza che ti temprava e portava anche molte soddisfazioni».
A Oliena vive Monserrato Mereu, che allora pastore quasi ventenne, era uno degli alunni che seguiva le lezioni di Giovanni Puggioni. Anche la sua dichiarazione e foto fu raccolta da Epoca, giornale che custodisce gelosamente in un quadretto.
«Il maestro era una gran brava persona e mi aiutò tantissimo» rimarca l’anziano che grazie a quei primi insegnamenti riuscì a prendere la licenza elementare. Oggi invece in questa situazione di tempo sospeso la didattica online dà un aiuto importante, anche se ritrovare la scuola e i suoi spazi sarebbe tutt’altra cosa. «Tra gli estremi rimedi rientra sicuramente la didattica a distanza. Essendoci trovati noi tutti scaraventati in una realtà surreale quale quella causata dal covid-19, l’utilizzo degli strumenti tecnologici per l’insegnamento non lasciava scampo. Ma sono tanti i contro di questo mezzo, primo tra tutti il venire a mancare di tutto il sistema scuola e il suo riconoscimento da parte dell’alunno come luogo non solo di apprendimento e di studio, ma anche e soprattutto come spazio protetto e sicuro, un luogo di accoglienza non solo intellettiva ma soprattutto emotiva – spiega Ivana Dore, insegnante e psicologa – È venuta a mancare la motivazione e il coinvolgimento nelle attività a causa della distanza fisica, della relazione. Anche per gli insegnanti e per tutti gli operatori che utilizzano questo strumento non è semplice, si incombe in tante distrazioni, si rischia di lasciare indietro chi anche all’interno della classe aveva bisogno di maggior attenzione e un grande vuoto si apre per i bisogni educativi speciali) e per chi ha una diagnosi precisa»
2.5.20
Don Haskins, il Martin Luther King bianco del Basket americano
Durante periodi come qiuesto si scoprono ( nel mio caso ) o si riscoprono vecchi film è i caso di
Il bello che esso è tratto da una storia vera . Infatti Glory Road racconta una storia di vittorie ottenute sia sul campo da basket, sia fuori dal terreno di gioco, in particolare nella lotta al razzismo . Vedere siti d'approfondimento ala fine del post
Egli , per quei tempi fece una cosa rivoluzionaria come potete vedere nei diversi film che trattano la storia degli Usa negli anni 60 \80in particolare maggiordomo alla casa bianca , tanto che fu chiamato come riportato da https://giocopulito.it/don-haskins-il-martin-luther-king-bianco-del-basket-americano/
Don Haskins, il Martin Luther King bianco del Basket americano
di Roberto Consiglio
Il 4 Aprile 1968 veniva assassinato a Memphis, Martin Luther King. Nello stesso periodo, nel mondo dello Sport c’era un uomo che prese i suoi concetti di uguaglianza e li portò nel Basket scrivendo una storia di sport indimenticabile. Vi raccontiamo la vita di Don Haskins.
Martin Luther King Jr. era un pastore protestante ma anche attivista e politico statunitense che si battè contro la segregazione razziale in America e per i diritti civili degli afro-americani.
Per questa sua attività, caratterizzata dal concetto della non-violenza, King, nel 1964, vinse il Premio Nobel per la Pace. Il pastore, inoltre, in questo suo percorso, venne affiancato da un’altra figura molto importante nel campo dei diritti civili dei neri: Malcom X che, però, preferiva la violenza per raggiungere determinati traguardi.
L’azione di Martin Luther King non risparmiò nessun ambito della vita quotidiana americana. Tra questi non poteva mancare, manco a dirlo, il mondo dello sport.
Nel mondo sportivo americano l’azione rivoluzionaria del pastore protestante venne colta e portata avanti, in particolar modo, da Don Haskins. Egli, per chi non lo sapesse, era il coach bianco della squadra dei Miners legati al Texas Western College, nella cittadina texana di El Paso.
Nell’inverno 1965, guarda caso esattamente 10 anni dopo il gesto di Rosa Parks, Haskins iniziò a girovagare per tutti gli Stati Uniti con un intento ben preciso: cercare giovani talenti neri a cui affidare la rifondazione del suo team di pallacanestro.
In quello stesso 1965 Luther King aveva raggiunto il culmine della sua lotta contro la discriminazione razziale in America, che lo portò ad essere ucciso pochi anni dopo, nel nome del suo celebre motto “I Have A Dream”. Questa azione fece sì che venisse approvata la cosiddetta “Voting Rights Act”: una legge, di cui lo stesso Martin Luther King fu il promotore e che venne firmata dal presidente Lyndon Baines Johnson, che riconosceva il diritto di voti anche ai neri d’America.
La scelta di Haskins, in più, oltre a contribuire alla lotta di King ebbe anche degli effetti dal punto di vista dei risultati sportivi raggiunti sul campo. Nella Summer League del 1965, ad esempio, vennero fuori le qualità dei cestisti neri che Don aveva scelto di portare nella sua squadra.
In particolare si mise in evidenza la figura di Bobby Joe Hill. Esso, che era considerato un vero e proprio genio ribelle del mondo del basket, in quell’anno vinse la classifica dei punti messi a segno del torneo.
Joe Hill era la punta di diamante di quel gruppo di atleti afroamericani che vennero denominati i “seven niggas”. Da quel momento, in poi, i giocatori bianchi dei Miners diventarono la minoranza della squadra: 5 bianchi contro 7 atleti neri. Era la prima volta che avveniva un fatto del genere nel mondo del basket americano.
Questa storia cancellava, in un secondo, tutte quelle regole e quegli stereotipi razzisti che, da oltre un secolo, caratterizzavano la società del paese che veniva considerato “la più grande democrazia del mondo”.
Inoltre vi era un altro fatto: questa rivoluzione avveniva in uno degli stati più conservatori, il Texas, che componevano i già ultra-conservatori Stati Uniti meridionali. In questa parte di paese, per fare qualche esempio, i membri della setta razzista del Ku Klux Klan, nel periodo temporale tra il 1882 e primi anni ’50 del XX secolo, avevano ucciso, spinti da puri ideali razzisti, circa 5000 afroamericani, la maggior parte dei quali in giovane età.
Il 4 dicembre 1965 vi fu il debutto vero e proprio sul campo dei “nuovi” Miners contro l’Estearn New Mexico. Il clima in cui si svolse la partita non fu certo buono, dal punto di vista razziale, ed i giocatori neri allenati da Haskins vennero insultati pesantemente nel corso di tutto il match.
Le prime vittorie vennero descritte, dagli addetti ai lavori, come dei veri e propri colpi di fortuna e non venne minimamente presa in considerazione la bravura dei giocatori neri. Quando però la squadra di El Paso raggiunse la cifra record di 23 vittorie consecutive nessuno provò, nuovamente, a tirare in balla la sola fortuna.
A suon di vittorie i Miners si conquistarono, inoltre, il rispetto di gran parte del pubblico, sia proprio che della squadra avversaria. L’apoteosi si raggiunse, però, il 19 marzo 1966: quel giorno venne riscritta un pezzo di storia americana che non può essere relegata al solo mondo del basket. In quelle ore, infatti, era in programma la finale del campionato, presso la struttura del Cole Fields House di College Park nello stato del Maryland. Il giorno prima, purtroppo, si verificò l’ennesimo episodio razzista a cui Haskins decise di rispondere con una scelta parecchio coraggiosa: mandare in campo solamente giocatori neri.
La partita, per la cronaca, si chiuse con il punteggio di 72 a 65. Bobby Joe Hill, invece, risultò essere il miglior marcatore dell’incontro con 20 punti segnati.
La figura di Don Haskins, per queste ragioni, è ricordata, più che per gli schemi di gioco, per aver cercato di insegnare ai suoi atleti valori come l’unione e la condivisione. Dopo di lui, guarda caso, il numero dei giocatori neri nel mondo della pallacanestro americana, dal 5% degli anni ’50, aumentò fino a rappresentare i tre/quarti del totale nell’epoca attuale.
Lo stesso allenatore, però, è sempre rimasto molto nell’ombra e non si è voluto mai esporre troppo su questo fatto. Una volta, ad una domanda su quell’impresa raggiunta, rispose in maniera che più semplice non si può: “Io non ho fatto niente di strano: quel giorno misi in campo semplicemente i migliori giocatori della squadra. E risultò che erano tutti neri”.
Il bello che esso è tratto da una storia vera . Infatti Glory Road racconta una storia di vittorie ottenute sia sul campo da basket, sia fuori dal terreno di gioco, in particolare nella lotta al razzismo . Vedere siti d'approfondimento ala fine del post
Egli , per quei tempi fece una cosa rivoluzionaria come potete vedere nei diversi film che trattano la storia degli Usa negli anni 60 \80in particolare maggiordomo alla casa bianca , tanto che fu chiamato come riportato da https://giocopulito.it/don-haskins-il-martin-luther-king-bianco-del-basket-americano/
Don Haskins, il Martin Luther King bianco del Basket americano
di Roberto Consiglio
Il 4 Aprile 1968 veniva assassinato a Memphis, Martin Luther King. Nello stesso periodo, nel mondo dello Sport c’era un uomo che prese i suoi concetti di uguaglianza e li portò nel Basket scrivendo una storia di sport indimenticabile. Vi raccontiamo la vita di Don Haskins.
Martin Luther King Jr. era un pastore protestante ma anche attivista e politico statunitense che si battè contro la segregazione razziale in America e per i diritti civili degli afro-americani.
Per questa sua attività, caratterizzata dal concetto della non-violenza, King, nel 1964, vinse il Premio Nobel per la Pace. Il pastore, inoltre, in questo suo percorso, venne affiancato da un’altra figura molto importante nel campo dei diritti civili dei neri: Malcom X che, però, preferiva la violenza per raggiungere determinati traguardi.
L’azione di Martin Luther King non risparmiò nessun ambito della vita quotidiana americana. Tra questi non poteva mancare, manco a dirlo, il mondo dello sport.
Nel mondo sportivo americano l’azione rivoluzionaria del pastore protestante venne colta e portata avanti, in particolar modo, da Don Haskins. Egli, per chi non lo sapesse, era il coach bianco della squadra dei Miners legati al Texas Western College, nella cittadina texana di El Paso.
Nell’inverno 1965, guarda caso esattamente 10 anni dopo il gesto di Rosa Parks, Haskins iniziò a girovagare per tutti gli Stati Uniti con un intento ben preciso: cercare giovani talenti neri a cui affidare la rifondazione del suo team di pallacanestro.
In quello stesso 1965 Luther King aveva raggiunto il culmine della sua lotta contro la discriminazione razziale in America, che lo portò ad essere ucciso pochi anni dopo, nel nome del suo celebre motto “I Have A Dream”. Questa azione fece sì che venisse approvata la cosiddetta “Voting Rights Act”: una legge, di cui lo stesso Martin Luther King fu il promotore e che venne firmata dal presidente Lyndon Baines Johnson, che riconosceva il diritto di voti anche ai neri d’America.
La scelta di Haskins, in più, oltre a contribuire alla lotta di King ebbe anche degli effetti dal punto di vista dei risultati sportivi raggiunti sul campo. Nella Summer League del 1965, ad esempio, vennero fuori le qualità dei cestisti neri che Don aveva scelto di portare nella sua squadra.
In particolare si mise in evidenza la figura di Bobby Joe Hill. Esso, che era considerato un vero e proprio genio ribelle del mondo del basket, in quell’anno vinse la classifica dei punti messi a segno del torneo.
Joe Hill era la punta di diamante di quel gruppo di atleti afroamericani che vennero denominati i “seven niggas”. Da quel momento, in poi, i giocatori bianchi dei Miners diventarono la minoranza della squadra: 5 bianchi contro 7 atleti neri. Era la prima volta che avveniva un fatto del genere nel mondo del basket americano.
Questa storia cancellava, in un secondo, tutte quelle regole e quegli stereotipi razzisti che, da oltre un secolo, caratterizzavano la società del paese che veniva considerato “la più grande democrazia del mondo”.
Inoltre vi era un altro fatto: questa rivoluzione avveniva in uno degli stati più conservatori, il Texas, che componevano i già ultra-conservatori Stati Uniti meridionali. In questa parte di paese, per fare qualche esempio, i membri della setta razzista del Ku Klux Klan, nel periodo temporale tra il 1882 e primi anni ’50 del XX secolo, avevano ucciso, spinti da puri ideali razzisti, circa 5000 afroamericani, la maggior parte dei quali in giovane età.
Il 4 dicembre 1965 vi fu il debutto vero e proprio sul campo dei “nuovi” Miners contro l’Estearn New Mexico. Il clima in cui si svolse la partita non fu certo buono, dal punto di vista razziale, ed i giocatori neri allenati da Haskins vennero insultati pesantemente nel corso di tutto il match.
Le prime vittorie vennero descritte, dagli addetti ai lavori, come dei veri e propri colpi di fortuna e non venne minimamente presa in considerazione la bravura dei giocatori neri. Quando però la squadra di El Paso raggiunse la cifra record di 23 vittorie consecutive nessuno provò, nuovamente, a tirare in balla la sola fortuna.
A suon di vittorie i Miners si conquistarono, inoltre, il rispetto di gran parte del pubblico, sia proprio che della squadra avversaria. L’apoteosi si raggiunse, però, il 19 marzo 1966: quel giorno venne riscritta un pezzo di storia americana che non può essere relegata al solo mondo del basket. In quelle ore, infatti, era in programma la finale del campionato, presso la struttura del Cole Fields House di College Park nello stato del Maryland. Il giorno prima, purtroppo, si verificò l’ennesimo episodio razzista a cui Haskins decise di rispondere con una scelta parecchio coraggiosa: mandare in campo solamente giocatori neri.
La partita, per la cronaca, si chiuse con il punteggio di 72 a 65. Bobby Joe Hill, invece, risultò essere il miglior marcatore dell’incontro con 20 punti segnati.
La figura di Don Haskins, per queste ragioni, è ricordata, più che per gli schemi di gioco, per aver cercato di insegnare ai suoi atleti valori come l’unione e la condivisione. Dopo di lui, guarda caso, il numero dei giocatori neri nel mondo della pallacanestro americana, dal 5% degli anni ’50, aumentò fino a rappresentare i tre/quarti del totale nell’epoca attuale.
Lo stesso allenatore, però, è sempre rimasto molto nell’ombra e non si è voluto mai esporre troppo su questo fatto. Una volta, ad una domanda su quell’impresa raggiunta, rispose in maniera che più semplice non si può: “Io non ho fatto niente di strano: quel giorno misi in campo semplicemente i migliori giocatori della squadra. E risultò che erano tutti neri”.
per approfondire
https://it.wikipedia.org/wiki/Glory_Road il film che racconta la vicenda
donne e terzo settore nel coronavirus \ codiv19
ha perfettamente ragione questo editoriale del mensile grazia magio 2020
Disegno di Carlo Guarino |
È questo l’obiettivo del gruppo di lavoro che ho
istituito: 12 donne provenienti da realtà diverse che possono contribuire a progettare un Paese più paritario. I risultati scientifici più importanti di questa emergenza sono stati ottenuti proprio da ricercatrici. Io sono una scienziata e non mi sono stupita. Il mio obiettivo è valorizzare le donne nel mondo delle Stem: scienze, tecnologia, ingegneria e matematica. Anche il futuro nell’ambito dell’Intelligenza artificiale avrà bisogno di noi». In concreto, per l’emergenza sono in arrivo un nuovo assegno mensile universale per i figli, altri congedi parentali e i bonus per le baby sitter. «La custodia dei figli non è un fatto privato delle famiglie, all’interno delle quali sono sempre le donne a farsene carico», dice sempre la ministra. «Per questo ho voluto che il congedo fosse anche per gli uomini. Ora proseguiamo in questa direzione: che diventi premiante per le aziende concedere congedi ai padri». Queste misure basteranno? E non rischiano di riguardare solo le madri, imprigionandole in casa? Gli uomini ricorreranno mai ai congedi? «Alziamo la voce. Non è solo una questione delle donne, ma sociale», dice Giulia Blasi, scrittrice femminista, autrice del Manuale per ragazze rivoluzionarie (Rizzoli). «Come scienziate, o economiste, siamo invisibili. Tutti gli esperti scelti dal Governo su Covid-19 sono maschi (vedi a pagina 24, ndr). Si dà per scontato che durante le crisi le donne si rimettano a fare gli angeli del focolare». Eppure quelle in prima linea, dalle operatrici sanitarie alle commesse, sono in gran parte donne. Ma una vera divisione del carico di lavoro tra genitori è lontana. «Noi politici dobbiamo fare uno sforzo in più, com’è stato fatto per la legge Golfo-Mosca sulle quote rosa», dice Debora Serracchiani, vicepresidente del Partito democratico e membro della Commissione Lavoro alla Camera dei Deputati. «Dovremo spingere i cittadini ad altri comportamenti anche all’interno della famiglia. Che sia obbligatoria un’alternanza di smart working o altro. Altrimenti sarà sempre la donna a stare a casa, per condizionamento culturale o perché guadagna meno». Dice Chiara Appendino, sindaca di Torino: «Il mio auspicio è che la politica possa favorire, attraverso i suoi strumenti, un cambiamento normativo e culturale che crei il prima possibile le condizioni per l’equiparazione dei ruoli». E tra le proposte c’è quella del primo cittadino di Milano: «Dobbiamo pensare a una Fase 2 che sostenga le madri», dice Giuseppe Sala. «I congedi parentali aiutano, ma non sono la soluzione. È necessario dare alle donne la possibilità di organizzare la giornata liberando tempo. I centri estivi per i bambini, su cui stiamo lavorando, saranno fondamentali». Ma saranno sicuri? Garantire la salute dei piccoli e tranquillizzare le famiglie non sarà facile. Per superare le discriminazioni di genere, Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, propone screening della popolazione con test sierologici. «L’obiettivo è arrivare a stabilire il prima possibile chi ha sviluppato gli anticorpi contro il virus in modo che gli immuni possano tornare al lavoro», dice. «Questo porterebbe a una maggiore turnazione familiare». La crisi sanitaria, e il carico di lavoro per le donne, non aiutano certo il tasso di natalità, già ai minimi storici. «Noi puntiamo ad asili nido gratis, congedo parentale retribuito al 100 per cento nei primi sei mesi del neonato e all’80 per cento fino a 6 anni d’età», dice Meloni. La realizzazione personale delle donne al di fuori della famiglia è minacciata. «Sono sempre loro quelle più a rischio professionale», dice Paola Profeta, docente di Economia di genere all’università Bocconi di Milano. «Anche i congedi sono un’arma a doppio taglio: per le donne, un distacco prolungato è l’anticamera della perdita del lavoro. I congedi previsti solo per i padri sono l’unico modo per coinvolgerli. Non ci possiamo permettere che le donne escano dal mondo del lavoro: sono una risorsa fondamentale per l’economia». E questo è il momento giusto per capirlo.
Il bello è che nonostante le donne ( personale sanitario , infermieristico , medico ecc )siano in prima linea Nessuna ricercatrice è stata inserita nel comitato del Governo per l’emergenza
Covid-19. Eppure immunologhe, virologhe ed epidemiologhe stanno guidando
la battaglia contro la pandemia. Infatti Gli ultimi dati dicono che in Italia si laureano ogni anno in materie scientifiche e tecnologiche circa 28 mila ragazze,
contro circa 44 mila ragazzi. Però i posti di vertice all’università, e nelle grandi organizzazioni del settore, sono assegnati per
l’80 per cento a maschi. Quest’anno ha fatto scalpore la scoperta che su 71 professori ordinari di Fisica teorica ci siano
solo tre donne. E su 247 ruoli universitari, le docenti o ricercatrici sono appena 27. Anche per questo l’Organizzazione delle
Nazioni Unite ha istituito nella data dell’11 febbraio la Giornata internazionale delle Donne e ragazze nella Scienza.
Tre di loro, tutte ai vertici, spiegano in questo articolo di a Grazia perché guarire dal maschilismo sarà un vantaggio per tutti
MARIA TERESA COMETTO da NEW YORK
Questa è l’epidemia delle donne», dice
Silvia Stringhini. «Ma l’Italia non è un
Paese per donne», osserva Antonella
Viola. E Ilaria Capua avverte: «Il talento femminile in Italia è tantissimo
e rischiamo di perderlo».
Stringhini, Viola e Capua non sono tre donne qualunque: sono tre scienziate al top della ricerca mondiale
nelle discipline - rispettivamente - dell’Epidemiologia, dell’Immunologia e della Virologia, tre esperte
insomma con un bagaglio di conoscenze fondamentali
per combattere il coronavirus. Eppure nessuna di
loro è stata interpellata per far parte del comitato
tecnico-scientifico nominato dal governo italiano
per superare l’emergenza Covid-19. Un comitato
di 20 nomi tutti al maschile.
«NON CAPISCO COME NEL COMITATO NON
CI SIA NEMMENO UNA DONNA, quando proprio
le donne sono in prima linea in questa guerra: dalle
infermiere alle dottoresse alle tantissime ricercatrici», continua Stringhini e cita, come esempio,
la dottoressa Annalisa Malara, la prima in Italia a
diagnosticare un caso di Covid-19, il 20 febbraio
all’ospedale di Codogno (Lodi). E poi ci sono le tre
ricercatrici dell’Istituto Lazzaro Spallanzani a Roma,
fra le prime al mondo a isolare la sequenza genomica
del coronavirus.
Senza dimenticare che la stessa virologa Capua è stata
fra i primissimi a lanciare l’allarme, il 18 gennaio,
sulla presenza del Covid-19 in Italia.
Laureata in Economia internazionale all’Università di Pavia, con un Master in Salute globale al Trinity
College di Dublino e un dottorato in Epidemiologia
all’Université Paris-Sud e all’University College di
Londra, dal 2011 Stringhini lavora negli Ospedali
universitari di Ginevra. Ora è responsabile della squadra di Epidemiologia che sta conducendo uno dei più
grandi studi al mondo di sierologia su un campione
di cittadini svizzeri per capire in che percentuale ha
sviluppato anticorpi.
Anche Viola sta guidando uno studio importante
sul coronavirus. Professoressa di Patologia generale all’università di Padova, dove dirige l’Istituto di
Ricerca pediatrica Città della Speranza, ha avviato
l’analisi del sangue di un campione di pazienti per
capire come ogni cellula risponde al virus e ottenere
il quadro definito dell’interazione fra virus e sistema immunitario. «Ovviamente ci sono scienziate
italiane brave e capaci di dare un contributo anche
come membri del comitato governativo, solo che
non vengono considerate perché nel nostro Paese
“l’esperto” è un uomo», sottolinea Viola. «Le donne
rappresentano una grandissima fetta della ricerca
italiana, anche in campo biomedico. A livello iniziale,
le giovani ricercatrici sono decisamente più numerose
degli uomini. Ma appena si passa alle posizioni più
importanti, per esempio di professori o di primari,
ecco che gli uomini scalzano magicamente tutte le
colleghe. È accaduto anche nel caso del coronavirus:
le donne si sono distinte da subito per la loro abilità
e competenza sul campo, ma sono state messe in un
angolo non appena si è arrivati agli incarichi in ruoli
strategici», racconta.
ESSERE DONNA E SCIENZIATA È DIFFICILE
DOVUNQUE, ANCHE IN SVIZZERA», puntualizza
Stringhini. «Ma almeno altri Paesi cercano di non
sembrare troppo maschilisti e promuovono qualche
donna ai vertici, invece in Italia non fanno nemmeno
lo sforzo di fare bella figura».
Eppure ci sono stati tentativi di cambiare la situazione. «Qualche anno fa in Italia è nata anche l’iniziativa
100 donne contro gli stereotipi ( www.100esperte.it,
ndr) con lo scopo proprio di facilitare l’individuazione di donne competenti in vari ambiti del sapere,
ma anche questo non è bastato», ricorda Viola. Che
invita le colleghe a continuare comunque a far sentire
la propria voce: «Le donne che, nonostante il clima
non favorevole, sono riuscite ad arrivare in posizioni
apicali rappresentano per le più giovani uno stimolo
a crederci e a lottare. Ma hanno anche la grande
responsabilità di esserci, di metterci la faccia a costo
di essere criticate e attaccate, come sempre accade,
perché, nel nostro Paese, alle donne non si perdona
di essere protagoniste. Ma è necessario resistere e
continuare a mostrarsi, a raccontare, a indignarsi. E
fare squadra con le altre donne, favorirne la crescita».
«Dobbiamo anche essere più sicure di noi stesse»,
aggiunge Stringhini. «Abbiamo sempre bisogno di
sentirci dire che siamo brave, ma poi ci accontentiamo di quello: abbiamo paura di essere considerate
arriviste, carrieriste, se chiediamo che la nostra competenza sia riconosciuta con posizioni di potere».
«QUESTA PANDEMIA CI HA REGALATO CONSAPEVOLEZZE NUOVE», RAGIONA CAPUA, dal
2016 responsabile del One Health Center of Excellence della Università della Florida a Gainesville.
«Una è che le donne biologicamente, e anche per
opportunità, sono state le prime a reagire a questa
emergenza, portando il loro soccorso e il loro talento organizzativo a risolvere le prime fasi della
crisi. Ora, per fare una volta un piacere al Paese
e non trasformare in un investimento morto tutti
quei soldi spesi per formare le nostre ragazze, non
perdiamolo, il talento femminile: è importante e
valorizzarlo è un atto di grande civiltà. Se le donne
sono più gratificate e più indipendenti, si è tutti più
liberi e più contenti».
Per quanto riguarda il terzo settore
potete , scusate se non riporto qui articoli ma è difficilissimo diciamo meglio impossibile da riassumere le difficoltà e le carenze del governo verso tale settore di vitale importanza come quello del volontariato , leggerle online qui in questo numero ( vedere a sinistra copertina ) di www.vita.it.
Qualora , leggiate tardi questo post o esso no fosse più disponibile lo trovate in pdf nella nostra ulteriore appendice social dove trovate anche degli extra rispetto al blog ovvero il canale telegram https://t.me/compagnidistrada
Per quanto riguarda il terzo settore
potete , scusate se non riporto qui articoli ma è difficilissimo diciamo meglio impossibile da riassumere le difficoltà e le carenze del governo verso tale settore di vitale importanza come quello del volontariato , leggerle online qui in questo numero ( vedere a sinistra copertina ) di www.vita.it.
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1.5.20
Umiliazione allo stato puro, succede al tempo del coronavirus.
L’umiliazione. «Il dolore e la morte non sono il peggio che possa capitare a una persona. Il peggio è l’umiliazione». Scrive così Jo Nesbø ( 1960 - ) scrittore, musicista e attore norvegese. E quanti modi, parole, azioni servono allo scopo? Tantissimi, quante sono le infinite sfumature di un colore scuro. Infatti
L’umiliazione è una parola che descrive un forte senso di imbarazzo o mortificazione – proprio come quella volta che alle medie, dopo averti accompagnato a scuola, tua madre ti chiamò “biscottino” davanti a tutti i tuoi compagni di classe. La parola deriva dal termine latino “humiliare”, che significa”umile”. Quindi, se ci si trova in una situazione che provoca questo tipo di sentimento, si può ottenere una perdita di autostima e del rispetto di sé.
Ora sono , per poter continuare ad esporre il fatto con parole mie, talmente indignato ed sconfortato da non trovare le parole adatte che non siano di pancia e preferisco ( Lo sò che non è bello ed originale dipendere dagli altri cioè far si che siano essi a parlare o scrivere per te , ma a volte non sempre se ne può fare a meno in quanto siamo animali sociali ed ogni ha bisogno dell'altro\a ed
La libertà non è star sopra un alberoNon è neanche avere un'opinioneLa libertà non è uno spazio liberoLibertà è partecipazionelasciare la descrizione della vicenda avvenuta qui in paese , come credo visto che ogni regione e comune , fa come ..... gli pare ( e poi dicono che l'italia è unita Bah ) , nel resto d'Italia .
Chissà qual’è stato il sentimento di quella persona che al supermercato, con il buono spesa del comune, si è vista ritirare dalla spesa acquistata, la carta igienica e una scatola di camomilla. Come so queste cose? Le so e questo mi basta per inorridire per questa doppia umiliazione, come dice il mio amico al telefono. Si signori, doppia. E non c’è bisogno che spieghi perché.
L’ordinanza comunale, infatti, risalente al 30 marzo, a cui probabilmente la persona non ha badato, lo specificava benissimo.
1) I seguenti prodotti di prima necessità:
Pasta, Riso, Latte, Farina, Olio di oliva o di semi, Frutta e verdura, prodotti in scatola (quali legumi, tonno, carne, mais, ecc.), prodotti per la prima colazione (the, caffè, biscotti), Passata e polpa di pomodoro, Zucchero, Sale, Carne e pesce. Prodotti alimentari e per l’igiene per l’infanzia (omogeneizzati, biscotti, latte, pannolini, ecc.).
«L’umiliazione è uno di quei veleni che uccide lentamente» (Stefano Chiacchiarini).
L’igiene dell’adulto non è compresa e la carta igienica si considera igiene. Come uno shampoo, un sapone o un deodorante che non ne fanno parte. Una persona senza reddito, secondo questa disposizione, non si deve lavare, ma deve rispecchiare il suo stato di “povero” alla luce della ribalta, davanti ad una cassa dove una commessa gentile quanto, a sua volta, umiliata, le ha dovuto dire: “No signora, questi prodotti non sono compresi, mi dispiace”.
Eccessi, sviste, mancanze, omissioni, chissà quali siano stati i sentimenti che hanno fatto decidere di escludere tali beni dal carrello spesa. Non sta a noi giudicare la scelta.La sottolineatura è nel profondo senso di umiliazione che quella persona avrà portato con se a ricordo di questo tempo da coronavirus. Magari vi aggiungerà l’oblio, come spero, ma sa tanto di marchio a fuoco. Sicuramente non il primo, né l’ultimo.Non lo auguro al peggior nemico che non ho di trovarsi in quella situazione. Un’altra lezione è servita, gratis, anche oggi. Imparo sempre di più e non smetto mai di chiedermi il perché di ogni cosa.
30.4.20
le incommentabili e vergognose parole di Renzi sulla fase II del coronavirus
Cazzeggiando su twitter trovo questo post
"i morti di Bergamo, se potessero, direbbero aprite anche per noi"Renzi in Senato adesso 3:08 PM · 30 apr 2020·Twitter for Android
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Ora sapendo che << ( .... ) Ma il Presidente è toscano \ Ell'è un gran burlone, ha detto "Eh, scherzavo" ( .... ) >> mi sono andato ad ascoltare il suo discorso ed purtroppo ha realmente detto una simile ......... .
Con questo Renzi ha davvero toccato il fondo, andando a raggiungere i suoi nuovi amici : Salvi49 e Giorgiafintacristiana e il Calderoli il cattolicopadano
Infatti hanno ragione
Il mio intervento al #Senato sull'informativa del Presidente del Consiglio https://t.co/MRmn61K7TU— Matteo Renzi (@matteorenzi) April 30, 2020
Con questo Renzi ha davvero toccato il fondo, andando a raggiungere i suoi nuovi amici : Salvi49 e Giorgiafintacristiana e il Calderoli il cattolicopadano
Infatti hanno ragione
Il vero populista sei tu chei fai l'unica cosa che sa fare, distruggere, aizzare, minacciare chi dichiara di sostenere, peraltro citando persone o fatti manipolandoli a suo favore. I morti non parlano ma i sopravvissuti e i sanitari straziati dalla tragedia direbbero e dicono di aspettare perché una recidiva sarebbe veramente la fine. Loro hanno voce in capitolo. Tu cosa ne sai hai beccato il viurus o hai avuto il morto in casa ? Questa frase ti saresti potuta la risparmiare. Spero però che uno dei familiari dei deceduti di Bergamo gli sputi in un occhio. E potrei continuare a lungo , a cazziarti , ma pèreferisco fermarmi oper abbassarmi al tuo livello
28.4.20
vite spezzate da coronavirus : Henri Kichka 94 che si salvò dai lager nazisti e la storia di luca 37 anni , 4 figli , muore prima del SI e quella
Anch'io come voi comincio a non potere più , anche se dovrei esserci abituato per motivi di salute , di look down e quarantene e quindi a dover leggere ed raccontare fra le lacrime storie del covid-19 . Ma : 1) il complottismo esasperato che sta alla base delle fake news \ bufale . Fenomeno certo no nuovo , come s'evidenzia la Terza puntata dedicata al volume di Limes 'Il mondo virato'. In studio Lucio Caracciolo. In collegamento Carlo Lucarelli. Con un contributo di Antonio Pascale. Conduce Alfonso Desiderio.Guarda tutte le puntate di Mappa Mundi http://www.bit.ly/2WtfSkE /// Trasmissione di storia e geopolitica per il canale YouTube di Repubblica
a cura di Alfonso Desiderio https://twitter.com/aldesiderio in collaborazione con Limes, la rivista italiana di geopolitica http://www.limesonline.com
Ce dimostra come la letteratura è utile alla geopolitica. Complotti e dietrologia per smontare Stereotipi e luoghi comuni.
a cura di Alfonso Desiderio https://twitter.com/aldesiderio in collaborazione con Limes, la rivista italiana di geopolitica http://www.limesonline.com
Ce dimostra come la letteratura è utile alla geopolitica. Complotti e dietrologia per smontare Stereotipi e luoghi comuni.
2) le polemiche strumentali ed populiste che portano a tutti i costi ad una caccia all'untore per nascondere le proprie responsabilità ed incapacità nel saper gestire la situazione ., 3) un governo costretto per .... di un opposizione non costruttiva ma solo distruttiva a usare poteri eccezionali , ecc mi confermano quanto già dicevo precedentemente , ed m'inducono a continuare a raccontare ed condividere qui e sule nostre appendici social storie come queste che trovate ogni giorno su repubblica cartacea oppure qui su https://lab.gedidigital.it/repubblica/2020/ sezione redatta da Maurizio Crosetti dove si raccontano Vite prima del virus Nelle loro città sono stati pionieri nella professione o modelli d’impegno L’intellettuale, il dottore, la toga: esistenze che lasciano un vuoto profondo difficile da riempire da non dimenticare quando ritorneremo alla normalità . Ma sopratutto ad essere ( anche se ho i miei dubbi ) più cauti ed a a ragione usando la mente non solo la pancia nel voler ritornare in fretta alla vita di prima .
Le storie d'oggi prese da i " ritagli " presi da repubblica d'ieri .
Eccovi le storie d 'oggi
La prima che fa
capire come il virus cancella memorie e testimoni diretti .
Meno male che come capita a volte con la morte essa vivrà ancora nel Graphic Novel La seconda generazione scritto dal del figlio Michel .
Meno male che come capita a volte con la morte essa vivrà ancora nel Graphic Novel La seconda generazione scritto dal del figlio Michel .
La seconda un amore interrotto dal virus .
Infatti la sua amata Sharon Giachino ha affidato a Facebook il suo dolore, poiché a causa delle restrizioni non è stato possibile organizzare un funerale per Luca. "Ti ho promesso che mi risolleverò per i nostri figli", scrive la ragazza, disperata per la grave perdita
gli effetti collaterali del complottismo e della nuova guerra fredda usa vs cina il caso di Benassi, 49 anni accusata, falsamente prima da siti complottisti statunitensi, poi dai social cinesi, di essere un'untrice. E di aver diffuso in cina virus del Covid 19
Una parola solo verso questi nuovi cacciatori d'untori
La trappola delle fake news sta stritolando una riservista dell'esercito americano: Maatje Benassi, 49 anni accusata, falsamente prima da siti complottisti statunitensi, poi dai social cinesi, di essere un'untrice. E di aver diffuso a Wuhan il virus del Covid 19 che secondo la teoria sarebbe stato prodotto in un laboratorio americano.
Il sergente Benassi vive e lavora a Fort Belvoir, una caserma della Virginia, col marito Matt, ufficiale dell'Aeronautica e i due figli. Malauguratamente, lo scorso ottobre ha partecipato alle Olimpiadi militari, organizzate proprio a Wuhan: la città poi diventata epicentro del virus. Nonostante gli atleti americani inviati in Cina fossero almeno cento, la teoria del complotto si è focalizzata su di lei indicandola come "paziente zero", senza particolari motivi: la donna non è mai stata positiva al virus. La colpa, sarebbe solo della brutta caduta che l'ha lasciata con una costola rotta, costringendola già in Cina a ricorrere a cure mediche, pur avendo tagliato comunque il traguardo.
A puntare il dito sulla donna, oggi disperata, al punto di dire a Cnn: "Ogni mattina mi sveglio da un brutto sogno solo per entrare in un incubo ancora peggiore", è un americano. Il complottista George Webb, 59 anni, un lungo curriculum di bugie che però non gli impediscono di gestire un canale su YouTube con oltre 100 mila follower e i cui video pieni di assurdità sono stati già visti almeno 27 milioni di volte, permettendogli di guadagnare con la pubblicità. Già nel 2017 Webb era salito ai "disonori" della cronaca per aver sostenuto, con altri tre cospirazionisti, l'arrivo di materiale contaminato per realizzare una "bomba sporca" nel porto di Charleston, Carolina del Sud. Una falsità che all'epoca destò grande allarme.
L'uomo ha puntato il dito contro Benassi a fine marzo. Sostenendo, fra l'altro, un altrettanto folle collegamento con il dj italiano Benni Benassi, identificato erroneamente come olandese: e come primo malato di coronavirus in Olanda. Il "Benassi Plot" è un'altra falsità, smentita dallo stesso dj in un'intervista alla Cnn dove ha pure sottolineato di non essersi mai ammalato. Intanto, però, attraverso YouTube quei video sono approdati sui social cinesi: rimbalzando sulle principali piattaforme, da WeChat a Weibo, con la teoria dell'arma biologica creata in America ed esportata in Cina, sposata pure dalle autorità del Dragone.
Purtroppo a crederci sono in molti. E ora Maatje e Matt Benassi vivono nel terrore, minacciati di morte e inondati da messaggi d'odio arrivati da tutto il mondo. Nonostante ripetuti tentativi, raccontano a Cnn, non riescono a far levare quei video denigratori da YouTube: "Dicono che non si può fare niente perché Webb è protetto dalla libertà di parola. Ma un'azione legale ha costi per noi impossibili da affrontare. Nessuno mi difende" piange. "Su Google resterò per sempre, falsamente, la paziente zero".
La trappola delle fake news sta stritolando una riservista dell'esercito americano: Maatje Benassi, 49 anni accusata, falsamente prima da siti complottisti statunitensi, poi dai social cinesi, di essere un'untrice. E di aver diffuso a Wuhan il virus del Covid 19 che secondo la teoria sarebbe stato prodotto in un laboratorio americano.
Il sergente Benassi vive e lavora a Fort Belvoir, una caserma della Virginia, col marito Matt, ufficiale dell'Aeronautica e i due figli. Malauguratamente, lo scorso ottobre ha partecipato alle Olimpiadi militari, organizzate proprio a Wuhan: la città poi diventata epicentro del virus. Nonostante gli atleti americani inviati in Cina fossero almeno cento, la teoria del complotto si è focalizzata su di lei indicandola come "paziente zero", senza particolari motivi: la donna non è mai stata positiva al virus. La colpa, sarebbe solo della brutta caduta che l'ha lasciata con una costola rotta, costringendola già in Cina a ricorrere a cure mediche, pur avendo tagliato comunque il traguardo.
A puntare il dito sulla donna, oggi disperata, al punto di dire a Cnn: "Ogni mattina mi sveglio da un brutto sogno solo per entrare in un incubo ancora peggiore", è un americano. Il complottista George Webb, 59 anni, un lungo curriculum di bugie che però non gli impediscono di gestire un canale su YouTube con oltre 100 mila follower e i cui video pieni di assurdità sono stati già visti almeno 27 milioni di volte, permettendogli di guadagnare con la pubblicità. Già nel 2017 Webb era salito ai "disonori" della cronaca per aver sostenuto, con altri tre cospirazionisti, l'arrivo di materiale contaminato per realizzare una "bomba sporca" nel porto di Charleston, Carolina del Sud. Una falsità che all'epoca destò grande allarme.
L'uomo ha puntato il dito contro Benassi a fine marzo. Sostenendo, fra l'altro, un altrettanto folle collegamento con il dj italiano Benni Benassi, identificato erroneamente come olandese: e come primo malato di coronavirus in Olanda. Il "Benassi Plot" è un'altra falsità, smentita dallo stesso dj in un'intervista alla Cnn dove ha pure sottolineato di non essersi mai ammalato. Intanto, però, attraverso YouTube quei video sono approdati sui social cinesi: rimbalzando sulle principali piattaforme, da WeChat a Weibo, con la teoria dell'arma biologica creata in America ed esportata in Cina, sposata pure dalle autorità del Dragone.
Purtroppo a crederci sono in molti. E ora Maatje e Matt Benassi vivono nel terrore, minacciati di morte e inondati da messaggi d'odio arrivati da tutto il mondo. Nonostante ripetuti tentativi, raccontano a Cnn, non riescono a far levare quei video denigratori da YouTube: "Dicono che non si può fare niente perché Webb è protetto dalla libertà di parola. Ma un'azione legale ha costi per noi impossibili da affrontare. Nessuno mi difende" piange. "Su Google resterò per sempre, falsamente, la paziente zero".
ascoltando “I contain multitudes” e “Murder most foul” di Bob dylan si capisce perchè il nobel è meritato
Anche se tale articolo è troppo duro perchè : stronca sul nascere ogni critica ed orientamento culturale diverso volendo avere per forza ragione e che tuytti debbano pensarla cosi e guai a contestare il pensiero ufficiale e dire qualcosa che non va , demolisce \ stronca ingiustamente con i soliti schemi del passato uno scrittore che non condivide . Stavolta a fottutamente ragione in quanto la maggior parte delle critiche alla giuria del premio nobel erano fallaci e poco costruttive . Ecco quindi che spesso i mezzo alla merda ci sono , ovviamente vanno ripulite e liberate dallo sporco e dalle incrostazioni .
da il foglio.it el 28\4\2020
Si pentano coloro che criticano il Nobel a Bob Dylan
Le due nuove canzoni dylaniane sono letteratura alta e vertiginosa, piene di citazioni esplicite e occulte
di Camillo Langone
Si pentano, coloro che criticarono il Nobel a Bob Dylan. Si pentano e si cospargano il capo di cenere (doppia dose di cenere, se più recentemente hanno considerato una perdita artistica la morte del favolista kitsch Sepúlveda). Si pentano e ascoltino 70 volte 7 “I contain multitudes” e “Murder most foul”, le due nuove canzoni dylaniane. Entrambe sono letteratura alta e vertiginosa, come può verificare chiunque ne studi i testi. La prima contiene Whitman e molto altro. La seconda Shakespeare e moltissimo altro. Quest’ultima, la mia preferita anche per via della musica (seppure tenuta bassa, poco più che un tappeto sonoro), è un poema che decolla da Dallas 1963 e vola per 17 minuti sui cieli neri d’America. Dylan è profetico, epico, biblico, e fra 70 citazioni alcune esplicite e altre occulte, alcune pop e altre esoteriche, ho sentito l’Apocalisse e l’Ecclesiaste, i Cantos e l’Inferno. Oltre a un verso grandioso da uomo di Dio, valido sempre e in questi giorni perfetto: “I hate to tell you, mister, but only dead men are free”.
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