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18.3.25

CARO ROBERTO VECCHIONI CHE ... DICI SEI SCESO A LIVELLO DEL NEO LIBERISMO

Caro Roberto Vecchioni
Nella  maifestazione   del 15 marzo  fa, davanti a decine di migliaia di persone, lei ha parlato di cultura e di Europa, chiarendo come la prima sia esclusivamente appannaggio della seconda.
Ha usato queste testuali e disgraziate parole: «la cultura è nostra», cioè degli europei, lasciando intendere che tutti gli altri americani, russi, orientali, africani siano non si sa bene cosa, bifolchiprobabilmente, creature da guardare dall'alto in basso, barbari rimasti tali, mediocri e ignoranti: perché, appunto, «la cultura è nostra». da almeno 70 anni  la società fa uno sforzo immane per arginare questa visione rovinosa, figlia del peggior razzismo coloniale, erede di un passato suprematista che sappiamo quali danni ha prodotto. Nella politica, nel lavoro, nelle associazioni, nelle scuole e nelle università (ripeto, con uno sforzo immane) si sta tentando    di sovvertire   quest'orizzonte, ovvero quest'istinto a primeggiare, quest'eterna, aberrante e quanto mai tossica tentazione dell'eurocentrismo .Nel lontano  '82 Tzvetan Todorov pubblicò un libro: La conquista dell'America. Il problema dell'«altro». «Quando Colombo» così dice, «all'alba del 12 ottobre 1492, incontrò i primi indigeni nella piccola isola dei Caraibi da lui battezzata San Salvador questo avvenne: l'uomo incontrò sé stesso e non si riconobbe. È qui, in questo fallimento, il senso di quell'evento grandioso e tragico».Colombo quindi, il civile, l'acculturato, il superiore, Colombo l'europeo vide un suo simile e lo ridusse a schiavo, subito lo trattò da inferiore, aprendo di fatto la strada al più feroce genocidio della storia, una mattanza di quasi cento milioni di morti, che dolorosamente riposano sul medesimo assunto: l'Europa è migliore.
Caro Roberto Vecchioni, io immagino il mio continente come un luogo d'interazione alla pari, un campo dove non si gioca a chi è più grande e importante dell'altro, una terra che guarda alle altre terre con gli occhi della fratellanza, con curiosità, rispetto e coraggio.Per definizione la cultura vera   non dovrebbe  avere   perimetri, non vuole padroni, non è fatta di guinzagli. La cultura è in teoria   la libertà per antonomasia. Di più: la cultura è cultura proprio per la sua disponibilità intrinseca ad espandersi, a diventare contagio, a essere ovunque : la democrazia è nata in Grecia, è vero, ma ciò non significa che un greco possa affermare che la democrazia è roba sua e di nessun altro.  Certo   esistono le tradizioni e le personalità che fanno spiccare un Paese in un certo modo; esistono volti, pratiche e costumi che lo caratterizzano e lo fanno brillare, rendendolo immediatamente riconoscibile e  diverso  da  gli altri , ma non dominante, non preferibile.Caro Roberto Vecchioni, come  distinguere è cosa giusta, anzi santa, dividere invece non lo è. Dividere è il peggio che mi augurerei per questa Europa come per il resto del mondo, è la strada sicura per la guerra, che lei chiama orwellianamente pace. A questo, dunque, serve la «nostra cultura»? 


Mentre finivo di scrive di getto questo post leggo la critiche di Soumaila Diawara e di Osservatorio Italiano sul Neoliberalismo che riassumono  insieme a    quanto hanno detto Daniela  Tuscano & Marina Terragni nel post : << Daje guerrieri !! >>  pubblicato ieri  su  questo blog   questo mio sfogo


[...]Questa è una visione profondamente eurocentrica della cultura. Trovo che la tua risposta sia una sintesi perfetta di un principio fondamentale: la cultura è universale.La letteratura, come ogni forma d’arte, appartiene all’umanità intera, non a una singola civiltà. Limitarsi a considerare la grandezza culturale solo attraverso nomi occidentali significa ignorare la vastità della produzione intellettuale mondiale. Come si può non citare i giganti della letteratura russa, araba, africana, asiatica o latinoamericana? È proprio questa diversità a rendere ricco il pensiero umano.Se guardiamo alla storia, molte idee che hanno plasmato il pensiero europeo sono nate dall’incontro con altre culture. La filosofia greca stessa è stata profondamente influenzata dai saperi egiziani e mesopotamici. Il Rinascimento, che Vecchioni probabilmente considera un apice della cultura europea, non sarebbe esistito senza la trasmissione del sapere arabo e persiano.La letteratura e l’arte non possono essere racchiuse in classifiche gerarchiche basate su confini geografici o etnici. Chiunque abbia letto Gibran sa che la poesia non ha patria. Chiunque abbia attraversato le pagine di Achebe o Soyinka sa che la letteratura africana possiede la stessa potenza evocativa di qualsiasi altra tradizione.L’idea che “gli altri” non abbiano cultura non è solo falsa, ma anche pericolosa: legittima una divisione tra chi si considera superiore e chi viene visto come inferiore. E nella storia, questo tipo di pensiero ha sempre portato a discriminazione, colonialismo e oppressione.Chi ama davvero la letteratura sa che essa è un dialogo aperto tra civiltà. E se la cultura deve essere uno strumento di unione, allora discorsi come quello di Vecchioni vanno contrastati con forza.


La piazza europeista di ieri 15 marzo ha espresso una vocazione guerrafondaia subdola e celata, e quindi ancora più pericolosa. Al di là della presenza delle bandiere ucraine, che ormai sono un fattore di cattivo gusto presente in ogni evento “europeista” - l’Ucraina degli ultimi 10 anni, quella che è finita nella guerra civile prima e nella guerra contro la Russia poi, non rispetta mezzo requisito di democrazia e Stato di diritto per poter accedere all’Unione Europea -, non sono state infatti pronunciate parole esplicitamente belligeranti - e d’altra parte, mica gli organizzatori sono scemi.
Incredibilmente - o forse no, dato che gli “intellettuali” stipendiati dalla Rai sono oggi la maggiore rappresentazione del conformismo politico-culturale italiano - è il discorso di un intellettuale, Vecchioni, e non quello di un politico, a darci il riassunto migliore di questa subdola e pericolosissima forma di vocazione belligerante.
Voglio soffermarmi su due aspetti del breve discorso di Vecchioni. Breve, ma particolarmente esemplificativo.
1. La differenza tra pace e pacifismo, per fare la solita sparata contro i “pacifinti” che, pur un puro gusto orrido dell’assenza di conflitto, sarebbero disposti ad accettare “qualsiasi pace” anche “non giusta”.
2. L’esaltazione della cultura europea, con la sciorinatura dell’elenco degli artisti e dei pensatori del passato, che non avrebbe uguali all’estero (“gli altri tutte queste cose mica ce l’hanno”).
Vale la pena commentare questi due punti insieme, perché sono sintomo della stessa vocazione che si può definire “suprematista”, che d’altronde è parte del patrimonio culturale occidentale esattamente come il metodo scientifico, l’arte neoclassica, l’illuminismo, la democrazia, et cetera - ed è, a differenza di tanti altri valori, un principio culturale “bipartisan” nelle tradizioni politiche occidentali: lo troviamo nel nazifascismo con il razzismo e il colonialismo, come anche nella vocazione liberal-progressista dell’esportazione di libertà e democrazia con le bombe “per il bene degli altri popoli”.
Ha fatto bene Vecchioni a sottolineare la differenza tra pace e pacifismo, perché questo permette a noi presunti “pacifinti” di sottolineare un aspetto cruciale del pacifismo vero: l’attitudine alla sistematica valutazione degli interessi altrui, alla cooperazione, al tentativo di non applicare la logica dei doppi standard, in altri termini: la ricerca costante della giustizia nelle relazioni, sia tra individui che tra popoli e Stati. È una vocazione intrinsecamente anti-imperialista, che va di pari passo con il principio universalistico secondo i parametri e criteri che applichiamo a noi, li applichiamo anche agli altri, e viceversa: il pacifismo reale è l’esatto contrario della linea politico-culturale che l’Occidente ha avuto nel corso dei decenni, anche in riferimento alla Russia, e cioè “noi ci espandiamo come e quanto vogliamo, perché lo facciamo per l’affermazione del Bene nel mondo, e se gli altri si permettono di reagire, allora dobbiamo affermare che c’è un aggressore, gli altri, e un aggredito, noi”.
Il pacifismo reale, in altri termini, oltre a denunciare il groviglio di materialissimi e cinici interessi economici di ristrette oligarchie dietro alle belle parole sulla civiltà e sui diritti che si diffondono nel mondo, per quanto si debba accompagnare all’orgoglio per la storia culturale europea e “occidentale” più in generale, rifiuta proprio l’idea suprematistica che l’Occidente abbia una qualche forma di superiorità rispetto alle altre culture e civiltà del mondo, un’idea che prima o poi porterà proprio alla negazione della pace perché è uno dei mezzi più potenti per poter dire “noi, in quanto superiori, abbiamo il diritto di affermare la nostra volontà sugli inferiori; noi abbiamo diritto a fare cose che gli altri, invece, non sono legittimati a fare”. L’imperialismo va a braccetto con il suprematismo; la diffusione di una esplicita o implicita mentalità suprematistica nella testa della “gente comune” è tra le condizioni di possibilità del colonialismo e delle politiche imperalistiche.
Rispetto a questo pacifismo reale, al contempo universalista (“i criteri che applichiamo a noi, li applichiamo anche agli altri”, “dobbiamo ispirare le relazioni tra persone e popoli all’idea della giustizia e del bilanciamento tra interessi”) e relativista (“non ci sono civiltà superiori, ma solo differenti a causa di sviluppi storici diversi”), l’idea di pace che il Vecchioni gli contrappone si rivela, come al solito, una forma di affermazione unilaterale della volontà di una delle due parti: cosa che avviene ogni volta che nelle relazioni, sia tra persone che tra Stati, si pensa di poter agire senza considerare la volontà e gli interessi altrui, e si finisce quindi per arrivare agli schiaffi o alla guerra - come avvenuto con l’allargamento ad est della Nato, in violazione di ogni richiesta e posizione della Russia, da cui la guerra in Ucraina. Hai voglia, poi, a chiamare la pace da ottenere “giusta”: negato l’impianto universalistico del pacifismo reale, negato l’altro poiché inferiore a noi che siamo la civiltà superiore che ha diritto di imporre la propria volontà senza che l’altro abbia alcuna legittimità nella risposta, non resta che il conflitto e a quel punto si è superata ogni possibilità di affermazione di qualcosa di “giusto”.
Senza pacifismo reale, quello rifiutato dai Vecchioni & suprematisti liberal-progressisti belligeranti vari, non c’è alcuna forma di “pace giusta” possibile. All’interno dell’impianto politico-culturale suprematistico ben esemplificato dal discorso di Vecchioni, l’esaltazione della cultura europea ed “occidentale”, che è senza dubbio qualcosa da difendere e di cui andare orgogliosi, diventa una pericolosissima forma di fierezza che riempie il cuore dei guerrieri desiderati da Scurati, altro intellettuale prestatosi alla cultura della guerra che ritorna in Europa, e che spinge l’esercito del Bene contro i nemici. È il servizio peggiore che si possa fare alla tradizione culturale europea, usarla quale combustibile per alimentare il fuoco della guerra.


17.3.25

Daje guerrieri !! Di Daniela Tuscano & Marina Terragni

da https://feministpost.it/ del  17\3\2025




"La pace intorpidisce" (Umberto Galimberti). "La carenza dell'Europa è che mancano guerrieri"
(Antonio Scurati). Dietro la "deterrenza" e il riarmo "solo difensivo" non smette di rombare il virilissimo zang-tumb-tumb


«Le sue parole sono esplosive». Chissà se Corrado Augias si è reso conto dell’umorismo involontario (ancorché nero) contenuto nel suo commento alla riflessione di Umberto Galimberti, ospite de «La Torre di Babele» su La7. Esplosiva, senza dubbio.

Quello di Galimberti è stato infatti un vero e proprio appello alle armi. Eccolo: «Guardo i pacifisti con sospetto» perché «la pace intorpidisce» e le armi sono «un ottimo deterrente». Ma Galimberti è in buona compagnia, anzi, tra buoni commilitoni. Così Antonio Scurati su «Repubblica»: «La principale carenza dell’Europa è la mancanza di guerrieri».

La pace «torpida», l’Europa privata del «senso della lotta» e dello «spirito combattivo». Questo lessico ci pare di averlo già ascoltato, masticato e sputato: da Papini ( rileggersi il leggendario « Amiamo la guerra »), ai futuristi a D’Annunzio passando per SpenglerHeidegger e naturalmente Nietzsche, è tutto un revanscismo guerriero (sempre presente nell’immaginario maschile) e una lagna ininterrotta sulla degenerazione e sull’infiacchimento dell’Europa (sono almeno 400 anni, dal razzista Gobineau in giù, che il nostro continente è dato per morto). Morte le cui cause sarebbero, naturalmente, la pace «torpida» – Galimberti dimostra di non conoscere la differenza, lucidamente delineata da Simone Weil, tra pace e pacificazione, pacifismo e nonviolenza – e in ultima analisi tutto ciò che ostacola l’espandersi della mascolinità audace, muscolare, dicotomica.
O amici o nemici. È tutto così semplice. È tutto così bestiale.

Strano, vero? Galimberti e Scurati non sono mai stati dei reazionari. Erano piuttosto gli alfieri del progressismo e della correctness, postulatori della «causa» laica e liberal che adesso svela tutta la sua ipocrisia.
Sembra davvero impossibile per il più dei maschi concepire una convivenza umana che possa fare a meno del dispositivo della guerra.
Anche dietro ogni apparentemente “ragionevole” strategia di deterrenza, di interposizione, dell’ “avere le armi ma senza usarle” (nonsense ascoltato sabato in Piazza del Popolo alla manifestazione pro-Europa chiamata da Michele Serra), romba sempre qualche zang-tumb-tumb, uno spermatozoico e intrattenibile orgoglio guerriero che ci risveglia alla verità di una civiltà maschile che non dichiara mai la resa.

                                   DANIELA TUSCANO E MARINA TERRAGNI




16.3.25

Cani, gatti o cinghiali la clinica degli animali che nessun altro cura A Oristano i veterinari Monica Pais e Paolo Briguglio accolgono tutti: “Ora ci portano anche volpi e cervi

   da  repubblica del  15\3\2025


Avanza una volpe. Con una pallina rossa in bocca, che molla per ringhiare all’intruso, poi scappa nella cuccia perché c’è troppa cagnara. Mai parola fu più vera, nella clinica veterinaria Duemari, dove una torma di cani variamente abbaianti accoglie la dottoressa Pais. Se non è felicità questa. Lo capi￾sce anche un umano, che sono contenti e riconoscenti, salvati dalla strada e da molte sciagure, e sono per lo più sciancati e spelacchiati ma entusiasti e bellissimi, e quasi pronti per l’adozione. E sembra incredibile, in questi tempi di cani da borsetta, vedere lo slancio per adottare animali di nessuna razza, porta￾tori di handicap, cicatrici, pellicce fuori canone. Chi si prenderà Sciarpino, ricoverato con un gran pezzo di cute strappato? Dategli il tempo di guarire, qualcuno si farà avanti. Straccetta? Ieri è arrivata nella sua prima casa. Dopo un viaggio in macchina fino a Olbia, in traghetto a Genova e in auto a Varese, «per me è unasoddisfazione enorme, perché i randagi sono gli ultimi degli animali. Quelli malati e feriti, gli ultimi degli ultimi. E vederli amati per sempre…», Monica Pais mostra Polpo e Pippo, affidati alla stessa famiglia, immortalati su uno scalone. «Due principi! Se lo meritano», se lo merita anche lei, nella dura battaglia per i «rottami», anime canine e feline o selvatiche, come la volpe con la palla che si chiama Metà perché paralizzata a metà, per il resto sta benissimo, mangia e gioca, «ma è impossibile reintrodurla in natura, starà qui a vita» (con un’altra a tre zampe). Duemari è la prima e unica clinica italiana a occuparsi stabilmente di randagi. Il film Altri animali di Guido Votano ne racconta ora la storia. Tanti la conoscono già, perché cominciata con il cane Palla ormai famoso, e sanno che le cure costano, i farmaci, lo stipendio di 14 tra veterinari, infermieri, addetti alle pulizie, e medici specialisti, fisioterapisti, educatori. Una macchina che macina interventi chirurgici, aggiusta ossa, pelli, occhi, e che occhi ha un cane che sta per finire in camera operatoria lo sanno bene i proprietari in ansia ad aspettarne l’uscita. Ma un cane/gatto di nessuno, «che troverà qualcuno, ne sono sicura», e da quando questa storia è iniziata, e poi esplosa di popolarità e donazioni, «ancora adesso mi fermano in strada per darmi dei soldi, dicendo di usarli per loro». «La clinica produce il reddito, che poi spalmiamo sulle cure ai randagi», spiega Paolo Briguglio, veterinario e marito di Monica. Coppia di matti, vien da pensare, si
sono imbarcati in un’impresa enorme in una Sardegna piena di animali di nessuno, in un Paese pieno di
animali di nessuno. Ma in questa sala d’aspetto c’è la fila, «i proprietari sono orgogliosi di contribuire alle cure di chi non ha padrone, venendo da noi». E una volta che «la camera operatoria è aperta, la Tac accesa…», che ci entri un cane solo o di famiglia, cosa cambia, nello spirito francescano (mai parola più centrata, come per la cagnara) che si respira qui dentro, oltre all’odore di disinfettante e anche di pelo bagnato. E li dicono eroi, «ma siamo solo veterinari, e lo facciamo anche per noi stessi, in questa clinica ai confini dell’impero…», perché «gli animali sono salvifici, e angelici, in quanto privi di qualsiasi malizia». Indifesi, Monica lo ha capito da bambina «quando ho visto un cane ustionato, e il suo padrone, un servo pastore che piangeva disperato per lui» E questa? Una tartaruga randagia (gravi problemi respiratori). Il gattone rosso Puzzle («occhi fuori dalle orbite, trauma cranico»), e Vincenza («a tutti diamo subito un nome») schiacciata da un’auto, «incinta di 5 gattini». Un grosso micio nero «Fuggitivo», con le convulsioni. La piccola palla di pelo ringhiante, «varie fratture e scuoiamento, finito nel motore di un’auto». C’è un catalogo di orrori, nelle cartelle cliniche attaccate alle molte gabbie dei casi gravi (altri veterinari avrebbero prontamente soppresso). «Alcune storie le mettiamo sulla pagina Fb, Effetto Palla Onlus. Non siamo mai splatter, vogliamo solo che qualcuno si innamori dei nostri “rottami”, e li adotti». Cinquemila, da quando il mondo ha scoperto Palla. Un povero cane mostruoso, e quindi scacciato da tutti. Scheletro di cane, con una testa enorme, rotonda. «Ce lo portò Nicola Pianu, l’acchiappacani dell’Ats. Uomo di grande esperienza, quella volta era sconvolto». Era colpa di un umano (è sempre colpa degli umani) aveva stretto una fascetta di plastica al collo della allora cucciola. È cresciuta con quel laccio strangolante, stava morendo. Non è morta. Infatti ronfa sul divano di casa, ed è star di tivù e social. Intorno, un paio di gatti Sphynx, di recupero, due cagnetti, un gatto nero. Sul balcone, una cinghialina abbandonata nel bosco, da svezzare e liberare. In cortile, 3 cerve reduci dall’incendio di Montiferru, 23 luglio 2021, il più grande rogo d’Italia, «cominciarono a portarci cinghiali, cervi, uccelli, tutti orrendamente ustionati, ma vivi», comprese le due volpi. Molti chiedono di poter visitare la clinica, ma adesso c’è il film e se qualcuno dice «ah no, mi impressiono troppo», ma per favore.

La storia di Luca Felli: 14 anni, nato al Sant'Eugenio di Roma ma fantasma per l'Anagrafe

 succede  spesso     che nelle  anagrafi  dei comuni e  lebache   dati  dei  vari enti   governativi 
\  statali    ci siano   delle  discordanze      come   raconta  l'utente   


In prima elementare, mio figlio non risultava iscritto perchè  non avevo presentato il certificato di nascita che il comune mi aveva mandato a casa. Vado al comune a richiedere il documento, una impiegata mi guarda storto e già mi fa il quadro della mamma scellerata.Risulta che mio figlio è morto.Le faccio la faccia di disprezzo, la stessa che aveva fatto a me.Vado dal direttore e chiedo immediatamente di rimettere in vita mio figlio e di correggere l'errore. Una persona morta era ancora viva e mio figlio sparito dall'anagrafe. Ma vi rendete conto della gravita ?


Ma si risolve subito ..Qui sono passati ( e chissà quanti anni dovranno passare ancora visto che la cosa finisce in tribunale e fra : primo e secondo grado \ appello e cassazione ci voglio come minimo 15\20 anni ) .  Ora   dopo il caso della cittadina ( in realtà essendo nata e registrata all'anagrafe di rovigo e vissuta in Italia è Italiana ) Cinese che a 17 anni dopo la registrazione all'anagrafe ha vissuto come un fantasma dalla nascita: per 17 anni non è stata mai a scuola né dal medico ha vissuto sempre in laboratori tessili clandestini nel Nord Italia, fino alla sua identificazione a Brescia  un  altro caso di cattiva  burocrazia 

  
La storia è questa

 Corriere  della sera  tramite  Msn.it \  Big  

«Spiace, ma suo figlio non esiste». Vaglielo a spiegare all’Anagrafe del Comune che il bambino, ormai ragazzo, esiste eccome, è un 14enne in carne e ossa, mica un fantasma come sostiene la burocrazia capitolina. Perché in via Petroselli Luca Felli non risulta, «non esiste atto di nascita a lui intestato», ammettono dal Campidoglio. E, per questo, il ragazzo è invisibile anche all’occhio di Ama, che non lo considera nella Tari di famiglia, e di Atac, che non gli fa fare l’abbonamento perché, in quanto ectoplasma, non compare tra i residenti. Luca però ha prove di ferro che certificano la sua esistenza: ha tessera sanitaria e passaporto, quindi esiste per lo Stato. E, potere delle autocertificazioni, esiste anche per le scuole che lui frequenta regolarmente e senza mai chiedersi se è il caso o meno di rispondere presente all’appello. Adesso tocca al Tribunale ordinare al Comune che, sì, Luca c’è e ha diritto a un atto che possa far finalmente tornare in sincro le due dimensioni finora sfasate, quella della realtà e quella amministrativa.Ma è solo il finale di questa storia senza spiegazione e, al momento, senza soluzione, in bilico tra l’essere e il non essere, tra Shakespeare e Kafka, tra dramma e ironia. Perché, al netto delle situazioni surreali che talvolta si creano in via Petroselli, la storia è comunque seria visto che, senza carta d’identità, Luca ha problemi a viaggiare, a prenotare alberghi, a iscriversi a corsi o anche solo ad andare a mangiare la pizza con gli amici dato che, senza documenti di riconoscimento, non si potrebbe circolare.Tutto inizia alle 12.42 del 19 dicembre 2010, quando Luca viene alla luce al Sant’Eugenio. Però l’inghippo emerge solo 14 anni dopo, lo scorso ottobre, quando Sandra e Simone, mamma e papà, provano a rinnovare l’abbonamento Atac del figlio che l’anno prima era stato fatto auto-certificandosi. Il controllo sui pc, gli occhi sgranati dell’addetto, si capisce che qualcosa non quadra: Luca non è tra i residenti a Roma anche se, da quando è nato, vive con i suoi (e poi anche con la sorellina Francesca) non lontano da Ostia. Niente atto di nascita, niente tessera. Così scatta la chiamata all’Anagrafe del Comune — gorgo di carte e attestati in cui finiscono 30 mila atti di nascita all’anno — che, gelando i genitori, conferma di non trovare tracce dell’esistenza di Luca: «Non risulta agli uffici comunali nessuna comunicazione ricevuta dall’ospedale Sant’Eugenio per l’oggi ragazzo Luca Felli».
Eppure la comunicazione era partita il giorno dopo la nascita, «alle 10.40 del 20 dicembre 2010», come riportano le ricevute della trasmissione prodotte, poi, al Tribunale. Ma «non risultano prove della ricezione», ribattono da via Petroselli. L’atto, evidentemente, si perde nell’etere tra ospedale e Anagrafe, e nessuno al momento è stato in grado di fornire una spiegazione plausibile di quanto accaduto. Da ottobre, quando cioè i genitori di Luca e il Campidoglio hanno inviato la loro denuncia parallela alla Procura, si indaga sul perché il ragazzo secondo i database del Comune non sia mai venuto al mondo. Anche perché in ballo ci sono ipotesi pesanti (e probabilmente prescritte) che contemplano il reato di omissione d’atti d’ufficio, e vale la pena fare chiarezza. «Magari in fretta», si augura Simone, che poi aggiunge di «non provare rabbia per quanto sta succedendo», però pure di essere «abbattuto e scoraggiato» dal muro di gomma della burocrazia su cui i Felli ormai rimbalzano da mesi.
Il viaggio tra le scartoffie, infatti, non è ancora finito. Inutili i blitz di famiglia nel Municipio X e negli uffici della Garbatella per scovare elementi in grado di provare l’esistenza amministrativa di Luca. Impossibile, ora, anche rinnovare il passaporto appena scaduto che, anni fa, era stato ottenuto portando a mano i documenti rilasciati dal Sant’Eugenio: dal 2021 questure e Regione (per la tessera sanitaria) devono pescare i dati nel serbatoio dell’Anagrafe nazionale della popolazione residente in cui vengono riversati anche i documenti di via Petroselli, ma siccome lì non si trova nulla, anche la pratica per rinnovare il passaporto si incaglia. L’unica possibilità di far recuperare a Luca la sua identità è, da ottobre, nelle mani del giudice: il Comune, infatti, non può redigere un atto di nascita a 14 anni dall’evento, può procedere solo se un magistrato glielo ordina. «La situazione può essere sanata solo con la formazione di un atto per ordine del Tribunale competente», dice il Campidoglio. Solo allora, insomma, Luca sarà davvero Luca anche per Roma.

replica della giornalista Nadia Somma al mio post sulla parità femminile

 il post  incriminato 😥😥

 Ecco la  risposta  , al mio post provocatorio   : <<  la parità sarà veramente tale quando smetteremo di stupirci se una donna compie le stesse azioni orribili che siamo abituati ad associare a un maschio: rivolgere un insulto sessista a una ragazzina  >> messo  sulla   bacheca  facebook  di Nadia Somma  giornalista  Blogger de Il Fatto Quotidianowww.ilfattoquotidiano.it )    più  precisamente    a   questo suo post  su l'8 marzo 

 , 



Guardi c’è un grandissimo fraintendimento. Il femminismo non ha mai dichiarato che le donne sono migliori degli uomini . Le donne sono capaci di commettere violenza: uccidere I figli, a volte ammazzare il marito , insultare una ragazzina . Ma , c’è una situazione molto ambigua. Angelicare una donna perché madre, o vergine, o oblativa e affermare che sono esseri superiori non è altro che il contraltare del disprezzo . Disprezzo quando abortiscono e rifiutano la maternità , disprezzo quando non accudiscono e si concentrano su loro stesse e disprezzo quando vivono liberamente la loro sessualità .In genere quando si parla di violenza maschile , gli uomini tendono a spostare il discorso ‘ma anche le donne ‘ . Ebbene abbiamo dei numeri che ci dicono quanto la violenza maschile, sia pervasiva  e diffusa in maniera sproporzionata rispetto a quella esercitata dalle donne. I 70 uomini che hanno stuprato Gisele Pelicot , non erano mostri. Erano uomini ben inseriti nella società con mogli e figlie . Giornalisti , vigili del fuoco, avvocati . Eppure non hanno esitato a commetter atti sessuali su una donna priva di sensi. A loro è bastato il consenso del marito . Esiste un problema culturale enorme e un immaginario che rende ciechi gli uomini rispetto al considerare le donne ‘roba loro’ o semi soggetti a cui conceder o meno , diritti.
La rabbia, gli insulti , le minacce di morte che ricevo solo per scrivere dati ufficiali sulle disparità di genere mostrano un rancore sordo, cieco, un odio persino profondo e antico. Mettere in discussione il potere maschile costa. Ha un prezzo. Per me e per tutte le attiviste . Infine , Checco Zalone, non credo volesse mandare il messaggio che la fine del patriarcato porterà subordinazione degli uomini . Ma voleva prendere in giro chi pensa che la fine del patriarcato porterà gli uomini alla sottomissione . Una psichiatra anni fa ad un convegno disse: gli uomini hanno il terrore del femminismo perché hanno interiorizzato talmente tanto le logiche di potere ‘o domini o sei dominato ‘ da non riuscire nemmeno ad immaginare un mondo privo di dominio , con le donne in una situazione di libertà e parità. Vi dovete fidare di chi ha lavorato anni per smantellare quelle logiche e riesce a immaginare un mondo che ne è privo
Certo questo significa accettare la libertà delle donne : di fare sesso con chi pare a loro, di lasciare un uomo , di desiderare una donna , di non avere figli, di dedicarsi al lavoro e di essere felici . Ma per alcuni , tutto ciò che ho elencato è una minaccia . La felicità delle donne è una minaccia per gli uomini convinti che l’origine e la causa di quella felicità debba essere un uomo .

14.3.25

Se non riusciamo a riconoscere e a onorare una vittima della violenza politica e dopo mezzo secolo non abbiamo pietà e rispetto di un ragazzo, allora il fascismo che lo abbiamo buttato giù a fare?

Cinquant’anni fa moriva Sergio Ramelli  (   per  chi volesse approfondire o ricordare leggere   Omicidio di Sergio Ramelli - Wikipedia  ) dopo lunghi giorni di agonia Aveva diciotto anni. Otto militanti di Avanguardia operaia gli sfondarono il cranio a colpi di chiave inglese per aver scritto un tema (non un decreto legge, non una sentenza d’assise o un fondo sul Corriere: morì per un compito in classe😥 ) in cui condannava le Br e si rammaricava del silenzio della politica davanti all’assassinio di due esponenti missini avvenuto Il 17 giugno 1974 dalle le BR commisero a Padova il loro primo delitto: nel
corso di un'incursione nella sede del MSI di via Zabarella, furono uccisi, pur in assenza di pianificazione, Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola. Il nucleo veneto gestì l'evento, rivendicandolo all'interno della pratica dell'antifascismo militante . Tanto bastava per farlo diventare un sub-umano da eliminare. E così fu.
Ieri il ministro Valditara – azzeccandone una alla faccia dei bookmaker - ha scoperto una targa sulla facciata della sua scuola. È molto semplice, senza la retorica di parte di cui sarebbe stato facile e forse anche legittimo se    si vuole  ricordare  a  senso unico  gonfiarla. Dice che Ramelli era uno studente di quell’istituto e che fu ucciso per le sue idee. Ma contro quella targa c’è stata una raccolta di firme e c’è stato un presidio che urlava “Via i fascisti dalla scuola”.
Ora mi chiedo  visto     che  il  mese prossimo festeggeremo, il  25  aprile  ,  ovvero  la Liberazione da un regime totalitario che oltre agli oppositori schiacciò la libertà di pensiero e di espressione. Se non riusciamo a riconoscere e a onorare una vittima dell’intolleranza a meno che non la pensi esattamente come noi, se dopo mezzo secolo non abbiamo pietà e rispetto di un ragazzo, allora il fascismo che lo abbiamo buttato giù a fare?

Il gattopardo di netflix parodia o telenovela ?

 

per  chi ha  fretta   e  non  vuole  leggersi  tutto   l'articolo    ecco  una  sintesi  della  recensione  dell'opera    


Il Gattopardo

5Voto

Il Gattopardo di Netflix offre un'apparenza moderna e scintillante che maschera una narrazione superficiale, incapace di onorare il peso storico e culturale del capolavoro italiano.


PRO
Immagini e scenografie lussuose che catturano lo sfarzo visivo

CONTRO  Trama frammentata e personaggi poco approfonditi
Adattamento che semplifica e banalizza una storia ricca di significato

le  foto  sono tratte    da 



Appassionato  di tutto quello che  a  che fare  con la  storia  e   le  storie   dopo  il  conte  di montecristo andato   in onda  sula  Rai    decido di vedere    su netflix  ,  la  nuova  versione  de il  Gattopardo .  Ho  visto la  prima  puntata     con mia madre  ,  classe  1943  ,   amante  del vecchio  Gattopardo   ( romanzo e  film )   e  poi le  altre da  solo  . Commentandolo  con  lei   ad un certo  punto    mi  chiede  a    me  che  ho  visto    il  vecchio  film  e  ora   la  serie mi    chiede  « siamo certi che “Il Gattopardo” formato Netflix sia stato apprezzato dale  generazioni successive  alla nostra  in particolare   quella    d'oggi   alla    quale sembra essere rivolto? »    non  ho     fatto neppure  ad aprire  bocca    per  risponderle     che lei   continua   :  « Concetta, interpretata dalla brava Benedetta Porcaroli, è al centro di questa nuova serie. Nel romanzo e anche nel film la figlia preferita del principe di Salina è dolce e misteriosa, portatrice del senso tragico del lignaggio, del dovere e dell’obbedienza.


Ma voi  ai ragazzi (  in realtà  ho quasi 50  anni  e    mia  madre  mi chiama   ancora   ragazzo  😇😂) rispetto  ai tempi   dei tuoi nonni  e    nostri  piace facile, sembrano dire gli autori della serie tv e si buttano sul femminismo spinto. Così, mentre Concetta diventa una donna forte e decisa, la continuatrice della stirpe, ecco che occupa la scena anche una Deva Cassel con la parrucca riccioluta nella parte di Angelica. Per Tomasi di Lampedusa e Visconti la sposa di Tancredi è una cinica e spensierata forza della seduzione, mentre nella serie tv diventa un’arrampicatrice con il tacco 12 e la borsetta firmata. Le donne coincidono con stereotipi più o meno vincenti, la complessa storia dell’Unità d’Italia va a farsi benedire tra mossette aggraziate e (falsa) emancipazione femminile. Non bisogna rimpiangere il passato, ma davvero ai giovani piace questo ? »
Stavo  per    gli  risponerli   ma    poi  è venuta l'amica   con  cui lavora  a maglia  . Quindi  lo faccio   qui  con  questo post .
Mah che dire . Io l’ho guardata senza pregiudizi e senza cercare la fedeltà  a  tutti  i costi  , apprezzando, anzi, la sfida di una serie televisiva che avrebbe dovuto liberarsi di ben due capolavori, il libro di Tomasi di Lampedusa e il film di Visconti, che già tra loro si somigliano, ma non si identificano.  « Si può dunque rileggere Il Gattopardo, [ come   è  stato  fatto  con il conte  di Monte  Cristo  ]  con una lente di infedeltà non solo Netflix, moderna, popolare e familiare e mettere, perché no?, Concetta contro Angelica. Sono spunti che non offendono la trama e neppure l’impianto storico, il Risorgimento e la sicilianità, che possono diventare sfondo, ambiente, atmosfera purché si rispetti il senso, l’esprit di un’opera. E invece in  questo  caso   la pigrizia mentale o  fare  un prodotto  troppo  commerciale  ha prevalso e il romanzo è stato ridotto  a soap opera alla sudamericana con un Gattopardo che parla come don Vito Corleone, le donne sono “modello Ferragni” e tutto sa di  caricatura. Quando poi Angelica ha  tolto la benda a Tancredi e gli ha  leccato la ferita, ecco a quel punto  anche l’erotismo è diventato comico. Mentre   scrivo la  replica   mi sono ricordato  anch'io  come  Francesco Merlo    su  repubblica   del 13\3\2025  che la parodia   cinematograficva  era già stata fatta  da  il film comico   I figli del leopardo  film del 1965 diretto da Sergio Corbucci.  con Franco &  ciccio .Nel quale il principe era Ciccio. Franco, vestito da Angelica, gridava “abbasso Garibaldo, viva il borbonico” e il “leopardo” alla fine veniva cucinato con le patate, proprio come ha fatto Netflix  . E  che  c'è   anche    quella     avvenuta    in ambito fumettistico
su topolino  .
Ora  Se  con   l'ultima   versione   de il Conte  di  Montecristo   ( vedere      miei  recensioni     ⅠⅠ  )     seppur  con dei limiti    s'è   riusciti    a  mantenere  intastto il messaggio   dell'opera  originale   senza  troppi  stravolgimenti    e senza  snaturalo  qui    s'è arrivati   oltre  che    a  una  parodia   a   una sorta di telenovelas latino americana degli anni 80 \90 . Infatti   :  «   l’adattamento in serie di Netflix che mi ha lasciato un sapore amaro. Da sempre c’è stata l’aspettativa di rivivere quella magia che il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e il film di Luchino Visconti hanno saputo regalare alla cultura italiana. Invece, questa versione si perde in una modernizzazione forzata che stravolge il senso profondo della storia. » (  sempre  da Il Gattopardo è un adattamento Netflix che delude   di  Wonder Channel ).L'essenza   storica e sociale del romanzo si perde in una retata di scene d’amore e drammi sentimentali.  Infatti  Netflix ha deciso di puntare tutto su un racconto “in costume” in chiave moderna, cercando di attirare un pubblico giovane con atmosfere che ricordano titoli come la saga di Bridgerton. Il risultato è un’opera che sembra voler trasformare una storia complessa   e  articolata  in una semplice narrazione di relazioni amorose, sacrificando la profondità e la ricchezza dei personaggi. Un adattamento moderno: fra romanticismo e superficialità .  Infatti la scelta di modernizzare il racconto si rivela un’operazione azzardata. La sceneggiatura, è  si   ben  scritta  ma  in modo da enfatizzare le scene romantiche e i drammi sentimentali, ignora molti degli aspetti storici e sociali che hanno reso Il Gattopardo un classico. In sei episodi da circa un’ora, si tenta di dare spazio a relazioni complicate e amori non corrisposti, ma il risultato è un racconto frammentato, che non riesce a dare un senso comletamente   coerente alla trasformazione della Sicilia e dell’Italia intera.la direzione di Tom Shankland si perde in ripetizioni e cliché: la modernizzazione si traduce in una narrazione che sembra volersi rivolgere a un pubblico che preferisce il sensazionalismo al contenuto sostanziale. Le scene che dovrebbero esaltare la bellezza e la complessità del romanzo diventano momenti superficiali, in cui il dialogo tra il vecchio e il nuovo si dissolve in una retorica banale.   
Sulla   stessa  lunghezza    d'onda   di  mia  madre    è   la recensione  di  Wonder Channel « Il punto focale della serie è il personaggio di Concetta, interpretata da Benedetta Porcaroli, che vive un’agonia amorosa e una contrapposizione diretta con la figura di Angelica, interpretata da Deva Cassel. La scelta di dare così tanto spazio a queste dinamiche sentimentali, a discapito di una narrazione più storicamente radicata, impoverisce il racconto. Concetta appare come un’icona di sofferenza d’amore, ma la sua storia viene raccontata in modo superficiale, senza approfondire le sue sfumature psicologiche. Anche il protagonista, il principe Fabrizio, resta un personaggio in ombra, valorizzato solo negli ultimi due episodi, come se si volesse rimandare il momento clou fino a quando ormai il pubblico ha perso l’attenzione. »
Infatti uno degli elementi che rendeva il romanzo ( non letto m'ero accontento dei film Il Gattopardo del 1963 diretto da Luchino Visconti. visto da ragazzo ) così potenti era la presenza della Sicilia, un territorio ricco di storia e cultura. Qui, invece, la Sicilia viene quasi trascurata. Le immagini, pur cercando di richiamare il lusso e la decadenza del passato, non riescono a trasmettere quel senso di appartenenza e di lotta interiore che caratterizzava il vecchio mondo siciliano.Infatti Netflix si affanna a costruire un’atmosfera glamour e moderna, ma dimentica di dare spazio ai contrasti, alle contraddizioni sociali e politiche che il racconto originale aveva in abbondanza. L’aspetto geografico, che avrebbe potuto essere un personaggio a sé stante, invece rimane in secondo piano, quasi come se si volesse evitare di affrontare temi troppo complessi per un pubblico ormai abituato a trame semplificate.Per quanto riguarda la recitazione e il cast sono riuniti volti noti come Kim Rossi Stuart, Deva Cassel, Saul Nanni e Benedetta Porcaroli. Non si può negare che ci sia talento, ma anche qui la scelta dei personaggi e il modo in cui vengono caratterizzati risultano deludenti. I ruoli, in particolare quello del principe di Salina, non vengono approfonditi come meriterebbero. L’interpretazione è spesso superficiale da quel poco che ne capisco di recitazione è priva della profondità che si aspettano i fan di una storia così complessa.Le relazioni tra i personaggi appaiono forzate e prive di quella naturalezza che rendeva il film di Visconti un capolavoro. Ogni personaggio sembra recitare una parte preconfezionata, senza quella scintilla di originalità e spontaneità che, in un buon adattamento, fa la differenza. La chimica tra gli attori non compensa una sceneggiatura che non osa andare oltre i soliti cliché.La mia delusione è quasi totale. Mi aspettavo che l’interpretazione moderna che rimanesse fedele non dico al romanzo ma almeno allo spirito del romanzo, che fosse una rivisitazione che potesse parlare sia ai nostalgici dei grandi classici italiani sia ai giovani che cercano emozioni forti. Quello che ho visto è una serie che sacrifica la profondità per l’estetica, che riduce un’epopea storica a una semplice storia d’amore Infatti l’operazione di “modernizzazione” è mal riuscita. La retorica contemporanea, fatta di facili emozioni e di un’eccessiva attenzione agli aspetti superficiali, si scontra con il peso storico e culturale del racconto originale. La serie manca di coerenza e di una direzione chiara, e questo si nota in ogni scena.
Concludendo questo Gattopardo è un adattamento che delude noi  abituati al modello  classico   su più fronti . La mancanza di una narrazione coerente, la superficialità nella caratterizzazione dei personaggi e la trascuratezza o quasi dell’aspetto storico trasformano quella che poteva e  all?nizio  sembrava  essere un’opera di grande impatto pur rimanegiato  in una mera rielaborazione sensazionalistica. La serie non riesce a catturare l’essenza del romanzo e del film di Visconti, trasformando una storia ricca di sfumature in una semplice narrazione d’amore e intrighi familiari come una telenovela .
Io non mi sento di consigliare questa versione del Gattopardo a chi ama grandi classici italiani o s'aspetti ( pubblico sempre più raro ) una storia che faccia riflettere, questa serie non fa per voi . Se invece cerchi qualcosa di leggero, con belle immagini e un ritmo che, per un attimo, ti distrae dalla realtà, se  sei abituato  alle  telenovelas  potresti darle una chance o fa per voi . Ma, sinceramente, la mia esperienza è stata deludente. Non c’è quel brivido, quella profondità che contraddistingue una grande opera.Comunque   non è male  . Voto  5 

13.3.25

quando il bullo è un prof che insulta e deride gli allunni Roma una Scuola sciopera contro la prof bulla



(ANSA) - ROMA, 12 MAR -

Alla fine hanno deciso di prendere il problema di petto, facendo uno sciopero, con tanto di presidio e un video per spiegare cosa non va nella loro scuola: una professoressa che bullizza le studentesse definendole anoressiche, obese o poco di buono. Gli studenti del Liceo Leonardo da Vinci di via Cavour a Roma hanno protestato oggi per chiedere l'allontanamento di questa docente. Un problema noto da tempo che, lamentano, non è stato affrontato dalla dirigenza dell'Istituto."Siamo stati costretti a
organizzare un picchetto - scrivono gli studenti - per portare all'attenzione generale un problema noto a tutta la comunità scolastica, ma fino a oggi affrontato con colpevole inerzia. Da tempo, infatti, all'interno del nostro istituto viene tollerato il comportamento inopportuno di un docente che ripetutamente umilia e bullizza gli studenti, con particolare accanimento nei confronti delle studentesse".
Nel video, con uno studente a fare da intervistatore, si vedono tre ragazze minorenni, coi volti oscurati, che raccontano: "A me ha dato dell'anoressica, mi stavo mangiando un cubetto di cioccolata e mi ha detto che mangio sempre in classe perché a casa non mangio". Un'altra riferisce di essersi sentita dire che "non ha il fisico per le magliette corte".
"Nonostante fossi di un'altra classe - racconta una terza ragazza - mi ha fermato nel corridoio mentre ero abbracciata con un mio amico e mi ha dato della poco di buono". "Abbiamo provato ad avere un confronto con lei, sia genitori che prof che alunni - concludono le tre ragazze - ma non è cambiata e non penso cambierà. Non credo si possa fare qualcosa".

Quello che mi viene da chiedermi a caldo è giusto protestare, ma perchè gli studenti non fanno lo stesso quando a bullizzare è uno di loro?

12.3.25

la parità sarà veramente tale quando smetteremo di stupirci se una donna compie le stesse azioni orribili che siamo abituati ad associare a un maschio: rivolgere un insulto sessista a una ragazzina

Leggoche  nella giornata dell'8 Marzo a Motta di Livenza: durante una partita del campionato regionale veneto,  la madre di un giocatore di basket ha inveito contro l’arbitra, esortandola a darsi alla prostituzione . La società  sportiva    del posto aveva da poco lanciato un'iniziativa per rispettare gli
arbitri. Condanna di squadra e Federazione. L’arbitra, una diciottenne di nome Alice Fornasier, è scoppiata a piangere, interrompendo il gioco per una ventina di minuti. Persone più evolute di me hanno provato a spiegarmi che la parità sarà veramente tale quando smetteremo di stupirci se una donna compie le stesse azioni orribili che siamo abituati ad associare a un maschio: rivolgere un insulto sessista a una ragazzina che potrebbe essere tua figlia, per esempio. Però non posso negare di avere coltivato l’illusione che le donne fossero portatrici di un modello diverso, meno aggressivo e violento. E che la loro progressiva affermazione sociale, seppur ancora largamente incompleta (siamo lontani dal rovesciamento dei ruoli suggerito dal video di Checco Zalone  o  lo trovate  anche   qua  sotto   ) 


avrebbe imposto uno stile nuovo nella politica, negli affari e persino nel tifo. Invece sempre più spesso ci tocca leggere di ragazzine a capo di una gang, e di madri assatanate contro qualsiasi autorità, dall’insegnante all’arbitro, si interponga tra il successo e i loro figli. Donne che, nel linguaggio e nei gesti, sembrano ispirarsi al più becero degli schemi maschili. Mi ostino a pensare che di modello ne esista un altro, basato sull’accoglienza e sul rifiuto della competitività ossessiva. Un modello femminile, si può dire? La vera rivoluzione consisterebbe nell’aderirvi tutti, anche i maschi.

11.3.25

«La mia vita dentro un corpo che non riesco acontrollare» Fabrizio, pizzaiolo di 51 anni;racconta alle Iene la sua sindrome di Tourette

 




meglio tardi che mai . "Ho dovuto aspettare di avere 60 anni per amare il mio corpo": Shania Twain cantante degli anni '90 lancia un messaggio potente

 Ha segnato un'intera generazione con il suo inno pop-country

"Man! I Feel Like a Woman!"

. Dietro questa immagine di donna forte e indipendente, Shania Twain ha trascinato a lungo sul palco i suoi complessi e ha combattuto con il suo riflesso. Fu solo all'età di 60

anni che l'icona degli anni '90 iniziò ad accettarsi per come era e a liberarsi dallo sguardo degli altri. Meglio tardi che mai. La cantante, cresciuta in un'epoca in cui imperversavano gli standard di bellezza, rompe il silenzio e lancia un potente messaggio sull'accettazione di sé. Questa volta prende il microfono non per portare gioia alle nostre orecchie, ma per insinuare una preziosa lezione di amor proprio.

Una carriera sotto pressione

Nei suoi video musicali, Shania Twain ritraeva una donna sicura di sé e sicura di sé. Ricordate

"Uomo! Mi sento come una donna!"

dove indossava una cravatta e un abito sensuale. Si esibiva in mezzo a una compagnia di musicisti e niente sembrava poter sfidare il suo talento. Tuttavia, era solo una facciata. La cantante canadese, che ha dato un vero impulso allo stile country, era in realtà l'esatto contrario di ciò che mostrava sullo schermo. In un'intervista rilasciata a

US Weekly

, svela il retroscena, molto meno scintillante di quanto sembrasse.

"Ho sempre avuto poca fiducia in me stessa. "Per molto tempo ho odiato essere una ragazza", ha confidato.

Negli anni '90, Shania Twain era sotto i riflettori, ma anche sottoposta a critica da parte dell'industria e del pubblico. Tra le richieste irrealistiche che i suoi coetanei le facevano per dimostrare che non era benvenuta nel panorama country e le richieste irrealistiche che le venivano rivolte in merito al suo aspetto, Shania Twain non ha avuto una carriera facile.

"Ho sempre dovuto nascondere le mie curve per essere presa sul serio",

spiega. Da adolescente arrivò addirittura a fasciarsi il petto per poter giocare a calcio con i ragazzi. Ancora oggi Shania Twain fatica a praticare la sua arte "in pace". Gli internauti elogiano le sue scelte in fatto di moda, trascurando completamente il talento vocale della cantante.

Il peso dello sguardo degli altri

A volte si dice che il successo faccia crescere le ali e ti faccia diventare una testa grande, ma Shania Twain ha ereditato anche altri effetti collaterali. Lei vedeva solo il lato oscuro della fama. Nell'intervista rilasciata a US Weekly, la cantante menziona anche un problema spesso trascurato: la dismorfia corporea. Questo disturbo psicologico altera la percezione di sé. Ogni passaggio davanti allo specchio diventa quindi una prova formidabile. Questo disturbo, che colpisce soprattutto le donne, porta chi ne soffre a concentrarsi su dettagli insignificanti che nessun altro nota. Ciò crea un vero e proprio disagio psicologico. Shania Twain, soggetta ai terribili dettami della bellezza, ha trascorso l'intera carriera a giudicare se stessa. Ora cerca di guarire le sue insicurezze e di apprezzare il suo vero valore. Qualcosa che fino a qualche anno fa era per lui del tutto impossibile.

Accettazione tardiva ma liberatoria

Si dice spesso che i 60 anni siano l'età della saggezza e sembra che non si tratti di un mito. Shania Twain lo conferma: si sente "meglio" da quando è entrata nel suo sesto decennio. Mentre alcune star si rifiutano di invecchiare, il cantante neo-country abbraccia questo spaccato di vita. Ci volle un po' prima che smettesse di vedere difetti dove non ce n'erano. Ma Shania Twain sta lentamente riacquistando questa stima, perduta lungo il cammino, sullo sfondo di ingiunzioni.

"Vorrei essere arrivato a questo punto molto prima, ma penso che fare riferimento ad altri sia pericoloso. Per me, camminare sulla spiaggia in costume da bagno è come dire a me stessa: certo, non ho il corpo che immaginavo, perché la mia immagine del corpo perfetto è quella di una top model senza cellulite, con proporzioni cosiddette perfette e un'andatura magnifica. Semplicemente non sono io. Potresti passare molto tempo senza sapere che aspetto hai veramente. Siate semplicemente realisti con voi stessi! " insistette.

Questo cambiamento di mentalità è riscontrabile anche nel suo aspetto più deciso. Shania Twain sostituisce con gioia la stampa in pelle di mucca con quella leopardata e i pantaloni da cowboy con gonne corte in raso. Recupera il tempo perduto e sfida tutti i divieti che la società impone alle persone sessantenni. Non c'è dubbio che trascorrerà il resto della sua carriera "contenendosi".

Durante il suo ultimo spettacolo a Las Vegas o nello speciale di Natale di Sabrina Carpenter, trasmesso su Netflix, Shania Twain ha finalmente osato essere se stessa. Questo fenomeno è chiamato effetto farfalla. La cantante dimostra che non è mai troppo tardi per imparare ad amare se stessi.

Pietro Sedda il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti

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