24.9.13

esiste realmente il biologico ?

  da  D  di repubblica  della scorsa settimana n  858


 Quel che è certo è che va alla grande,nella piccola e nella grande distribuzione.
Quello che fino a pochi anni fa era una nicchia di consumo adesso vale, solo per il cibo e solo in
Italia, 3,1 miliardi di euro, in crescita ininterrotta da un decennio.L’angolo dei prodotti biologici c’è
perfino nei discount, e molte catene hanno intere linee di prodotti derivati da un’agricoltura più sostenibile che non fa ricorso a sostanze chimiche. I prezzi continuano a essere più alti, ma il biologico è un “marchio” che vende,
anche in tempi di crisi. D'altronde, non saremmo un po’ tutti d’accordo che la salute viene prima di tutto? L’associazione è quasi scontata, biologico uguale più sano. Ma anche più gustoso, più ecologico, più naturale. Non sempre,però, le idee che popolano l’immaginario collettivo corrispondono alla realtà. Proviamo a verificare con gli esperti, a partire da alcune delle convinzioni più diffuse.

I cibi biologici sono più nutrienti?
Dalla letteratura scientifica emerge che alcune differenze  di qualità tra prodotti biologici e “convenzionali” ci sono. A volte a vantaggio del “bio”, ma anche a svantaggio », spiega Flavio Paoletti, ricercatore presso l’ex Inran, istituto oggi accorpato al Cra (Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura), che ha curato un studio degli articoli scientifici sull'argomento pubblicati dal 2005 al 2011, dal titolo La qualità nutrizionale dei prodotti dell’agricoltura biologica. «Il metodo di coltivazione può influenzare alcuni aspetti della qualità dei prodotti, ma contano anche altri fattori, che anzi spesso hanno un’influenza maggiore, come le caratteristiche genetiche della specie coltivata, le condizioni climatiche, l’esposizione alla luce, la qualità del suolo».
I prodotti biologici sono più salutari?
«Risultano meno contaminati da residui di pesticidi di sintesi, visto che la normativa ne impedisce l’uso», spiega Paoletti, «ma anche nella quasi totalità dei prodotti convenzionali non ce ne sono, o rientrano nei limiti di legge, anche se si discute da tempo della tossicità determinata dall'effetto combinato di più sostanze presenti contemporaneamente». Interrogando invece un esperto nella
prevenzione dei tumori emerge un altro distinguo: «Più che badare unicamente al biologico, bisogna fare attenzione a quello che si mangia», spiega Franco Berrino, oncologo e consulente della direzione scientifica dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano. «Fa male fondare la propria alimentazione su troppi prodotti animali o su quelli molto raffinati, come accade per zucchero e farine. Non importa niente che la farina 00 sia biologica, i pesticidi non ci sarebbero comunque perché, semmai, vengono
eliminati insieme alla crusca e al germe di grano nel processo di raffinazione. Lo stesso discorso si può fare per lo zucchero. Oggi l’industria del biologico produce cibi altamente processati di qualsiasi tipo, ma è inutile stare a discutere se le merendine meglio prenderle bio oppure no, il problema è la merendina in sé. Forse il biologico ha più senso per l’ecologia che per la salute, dove finora non ci sono molte evidenze di una maggiore sicurezza. Certo, si può scegliere di attenersi al principio di precauzione, ma la regola dovrebbe essere comunque quella di acquistare cibi, e non alimenti trasformati», conclude Berrino.
Nel biologico non si usano mai pesticidi?
«In realtà anche nelle produzioni biologiche c’è la necessità di usare agrofarmaci», obietta Antonio Pascale, scrittore e saggista, agronomo impiegato al Ministero delle politiche agricole e forestali nonché autore di un libro che parla proprio di agricoltura, Pane e pace. Il cibo, il progresso,il sapere nostalgico (Chiarelettere). «Nelle colture biologiche si usano antiparassitari e agrofarmaci quali il rame, il rotenone, o i piretroidi, definiti “non di sintesi” perché ricavati da elementi presenti in natura. Prendiamo per esempio il rame, che è un buon fungicida, ma in agricoltura non viene certo usato allo stato naturale, piazzando un pezzo di metallo nel campo. Cioè si usa anche in questo caso un prodotto chimico, a base di rame, tant'è che l’industria chimica vende agrofarmaci sia ai produttori che fanno biologico sia a quelli che fanno convenzionale.
Inoltre nel biologico spesso si usano maggiori quantità degli agrofarmaci consentiti: per esempio il rame è facilmente dilavabile, scivola via con  le piogge e quindi va dato più spesso; ma è comunque un metallo pesante che finisce nel terreno, dove poi si accumula procurando danni alla micro fauna. I vari insetticidi che vanno sotto il nome di rotenone sono abbastanza pericolosi, non agiscono in modo mirato e colpiscono qualsiasi organismo presente nell'ambiente circostante, comprese le api.
Un’altra classe di insetticidi usati nell'agricoltura biologica  è tratta dal bacillus thurigiensis, batterio che produce una tossina attiva per tre ordini di insetti: i lepidotteri,cioè le farfalle, i coleotteri, per esempio le coccinelle, e i ditteri, cioè le mosche. Il problema è che va vaporizzato sulle piante, quindi può finire facilmente nell'ambiente circostante o nei campi vicini e si accumula nel terreno,«La vera differenza dovrebbe essere fatta tra cibi processati e prodotti più semplici, meglio se meno ricchi di proteine animali», dice l’oncologo .  finendo per uccidere anche gli insetti utili, come le coccinelle. Per questo negli anni Ottanta i ricercatori hanno  cercato di mettere a punto piante che producessero da 
sole il batterio, in modo che fosse tossico solo per i predatori che mangiano la pianta. Ma sappiamo che c’è una totale e incondizionata opposizione dei produttori del biologico agli Ogm, nati in un certo senso come una sorta  di integrazione al biologico. In realtà gli intenti di questo metodo di produzione sono del tutto condivisibili: è giusto cercare di abbassare il più possibile l’uso delle sostanze nelle coltivazioni, ma è sbagliato il metodo, l’idea che il buono è solo quello del passato e che si debba sempre guardare indietro. In realtà il vero biologico è tecnologico, nel senso che i mezzi nuovi, più all’avanguardia, offrono vantaggi proprio nella direzione auspicata da chi crede nel biologico». 
La frutta bio è sempre più brutta?

«Non è sempre vero, anche se è più facile che possa presentare dei difetti. La frutta bio che troviamo nei supermercati non è certo più brutta di quella convenzionale, ma è stata selezionata per rispondere agli standard fissati dalla grande distribuzione. Bisognerebbe vedere quant'è lo scarto a cui è stato costretto il produttore bio, e quanto di quella produzione “imperfetta” gli viene comunque pagato dall’industria di trasformazione e quanto sia invece costretto a rivendere a un prezzo più basso, rimettendoci», osserva Paoletti.
 Il pesce biologico è pescato?
Il biologico vanta spesso l’associazione con il naturale, ma nel caso dei pesci che vivono sereni nel mare non si può usare la definizione di “biologico”, perché non se ne può in alcun modo controllare l’esposizione a eventuali sostanze inquinanti presenti nelle acque. «Si può definire il pesce pescato in mare aperto come selvatico, ma non bio. Per essere definito biologico deve essere allevato con un metodo di acquacoltura per il quale esiste una normativa specifica e appositi disciplinari di produzione», specifica Paoletti.
I prodotti biologici sono più gustosi?
Che siano più buoni è un argomento molto usato da produttori e sostenitori del biologico, e in definitiva è quello che gli stessi consumatori si aspettano. Partiva da queste  premesse il progetto Ecropolis, un’indagine europea curata per la parte italiana dall'Università di Bologna, che ha analizzato la qualità sensoriale dei prodotti biologici o convenzionali. «Dai risultati ottenuti non si può dire che i due tipi di produzione abbiano sapori diversi o uno dei due sia in generale più gustoso», spiega Tullia Gallina Toschi, tra i curatori dello studio e docente di Analisi degli alimenti del dipartimento di scienze e tecnologie agroalimentari dell’Alma mater. «Per contribuire al sapore sono 
risultate più rilevanti altre variabili, come il clima o il tipo di lavorazione. Inoltre, il gusto è determinato da fattori culturali e dalla familiarità con certi sapori, e la preferenza non è stata sempre accordata allo stesso prodotto in tutti i Paesi». 
Negli allevamenti bio non si usano antibiotici?
I regolamenti europei consentono l’uso di alcuni trattamenti della medicina convenzionale, e in caso di malattia anche per la zootecnia biologica si possono usare antibiotici, al contrario di quanto consentito negli Usa. «Alla base di questa idea c’è un’impostazione ideologica diversa: in Europa prevale l’intento di salvaguardare sempre il benessere degli animali, mentre negli Stati Uniti la priorità è il consumatore», spiega Andrea Martini, docente di zootecnia speciale alla Facoltà di agraria di Firenze. Negli Stati Uniti, nel caso il cui il trattamento antibiotico sia 
necessario, i capi vanno eliminati dall’allevamento biologico e trasferiti a uno convenzionale. Anche in Europa ci  sono però dei limiti: se i trattamenti antibiotici sono più di tre in un anno, gli animali devono essere sottoposti a una sorta di processo di “riconversione”». 
Una maglietta di cotone organico è bio?
In realtà, tutto dipende dal tipo di certificazione che il capo riporta in etichetta. I regolamenti europei dedicati riguardano solo il settore alimentare, «nel mondo del tessile si usano certificazioni che rispondono a norme stabilite da enti privati», spiega Paolo Foglia dell’Icea, l’Istituto per la certificazione etica e ambientale. «Le certificazioni principali sono due. Innanzitutto la Global Organic Textile Standard, la quale prevede a sua volta due classi di prodotti: una con contenuto minimo di fibra bio sopra al 95% e l’altra sopra il 70%. E poi la Organic Content, che certifica come bio un capo con una presenza di più del 5% di fibra coltivata con metodi naturali». Molto poco, dunque. «Questa certificazione fa capo alla Textile Exchange, organizzazione che raggruppa i grandi marchi dello sport e le multinazionali della moda low cost, e, al contrario dell’altra, non tiene in considerazione né premia nessun altro aspetto ambientale o sociale». 
I cosmetici a marchio bio sono tutti naturali? 
«Anche per i cosmetici non c’è una normativa specifica, e in effetti l’industria della bellezza, come anche quella dei detergenti, è un po’ il regno degli eco-furbi: purtroppo, ce ne sono tantissimi», osserva Fabrizio Zago, chimico industriale esperto di cosmesi e autore del sito biodizionario.it che 
offre una mappatura dell’origine dei principali ingredienti usati nei cosmetici e nei prodotti per l’igiene. «Un trucco classico del marketing è quello di esaltare il concetto di naturale, come se in natura non ci fossero pericoli né sostanze tossiche per gli esseri umani. Un esempio tipico in ambito di cosmesi “bio” è di sostituire i profumi con oli essenziali, che però hanno alte capacità reattive, e vengono assorbiti dalla pelle attraverso la quale passano al fegato, ragione per cui vanno dosati con estrema attenzione», avverte Zago. «Inoltre, per vantare diverse proprietà, spesso in un prodotto si mescolano tanti componenti, ma questo poi vuol dire che le quantità di principio attivo sono minime, ed è quindi difficile che le promesse riportate sulle confezioni possano essere mantenute: meglio scegliere prodotti con pochi ingredienti», consiglia.I prodotti bio devono per forza costare di più?
Anche per il biologico vale la regola per cui «non sempre il costo di produzione fa il prezzo finale», osserva Maurizio Canavari, docente di Economia ed estimo rurale all'Università di Bologna. «Con l’ingresso dei prodotti bio nella grande distribuzione abbiamo visto una drastica riduzione del sovrapprezzo, passato dal 150% di qualche anno fa al 10-15% di oggi». I supermercati in effetti riescono a “spalmare” meglio le voci di costo per produzione e distribuzione, «ma in effetti le aziende biologiche continuano a sostenere spese maggiori delle altre, a cominciare dai costi   di certificazione, che sono a carico dei produttori».

Su vecchie locomotive per un viaggio a ritroso nel tempo

  Leggendo  questo   articolo  dal portale   Tiscali    mi ritorna in mente  la  strofa  di questa bellissima  canzone  di de Gregori   :  << una storia d'altri tempi, di prima del motore  >> e  l'immortale  Gucciniana 


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Il treno a vapore porta la mente indietro nel tempo, ai film western, in cui il treno era immancabilmente attaccato dagli indiani, o ai romanzi di ambientazione vittoriana di Agatha Christie, con il suo Murder on the Orient Express. Ma il trenino, elettrico questa volta, è da sempre uno dei giochi preferiti dai bambini (e spesso anche dai loro genitori). Il treno, mezzo affascinante, è capace di legare le nostalgie dei più grandi e la curiosità dei più piccoli e rappresenta l’elemento ideale per un viaggio on the road molto sui generis.
 Il viaggio di cui stiamo parlando è quello proposto dalle Ferrovie Turistiche, associazioni di volontariato che danno nuova vita ai vecchi treni e alle linee ferroviarie non più utilizzate per il trasporto commerciale. L’idea di una ferrovia turistica è di matrice anglosassone; le prime associazioni di questo tipo sono nate in Gran Bretagna all’inizio degli anni ’50 con il duplice obiettivo di preservare il patrimonio storico delle ferrovie e di renderlo disponibile per la curiosità dei viaggiatori. In questo modo sono state recuperate linee ormai lontane dai tracciati del trasporto locale e nazionale ed è stata offerta la possibilità di scoprire zone del territorio altrimenti dimenticate.
L’idea col tempo si è diffusa anche in Italia. Le prime associazioni si sono formate negli anni ’90, con la nascita della Ferrovia del Basso Sebino (FBS) e della Ferrovia della Val d’Orcia (FVO) che, con la Ferrovia Turistica Camuna (FTC), rappresentano le tre associazioni che, nel 1998, si sono unite dando vita alle Ferrovie Turistiche Italiane (FTI). L’obiettivo è sempre lo stesso: salvaguardare il patrimonio ferroviario, fatto di treni, di binari morti e di stazioni abbandonate, e sviluppare un’idea di turismo innovativa e a impatto ambientale ridotto.
Accanto a queste tre associazioni, in Italia esistono altri esempi di ferrovie turistiche: la Ferrovia Colle val d’Elsa-Poggibonsi, in Toscana, che ha terminato la sua attività nel 2010, la Ferrovia della Valmorea, al confine tra Italia e Svizzera, che collega Castellanza, in provincia di Varese, e Mendrisio, nel Canton Ticino, e il Trenino Verde della Sardegna. Le linee non svolgono un servizio regolare ma possono essere prenotate per singoli eventi e vengono attivate secondo un calendario, spesso legato alle manifestazioni locali.

e proprio  sulle  note  di  un'altra  celebre  canzone   di viaggio     che   concludo  il post




   

22.9.13

Via da classe con autistico, Carrozza: "Non è la soluzione". Scoppia caso nel Napoletano

il razzismo   non  è  solo  contro  gli extra  comunitari   come i precedenti  casi 

di mostra   questo caso qui    sotto  . Appena  tornato  da una  gita  fuoriporta    con i miei apro  il portale  di tiscali.it  è leggo questa  news  


Via da classe con autistico, Carrozza: "Non è la soluzione". Scoppia caso nel Napoletano







Numerosi genitori degli alunni di una scuola elementare di Mugnano (Napoli) hanno trasferito i loro figli in altri istituti per la presenza di un bimbo autistico in classe. La dirigente dell'istituto 'Gennaro Sequino' si era opposta alla richiesta di trasferimento in altre sezioni e i genitori hanno reagito portando via i figli. Della vicenda riferisce Il Mattino. Al momento sono sei gli alunni, su un totale di 20, che hanno lasciato per non avere come compagno di banco il ragazzo.
Quel bimbo autistico in classe insieme con i loro figli non lo vogliono. Chiedono il cambio di sezione ma la preside si oppone. Allora ottengono il nulla osta per il trasferimento in un altro istituto. Accade a Mugnano (Napoli) dove già sei ragazzi su 20 della scuola elementare 'Sequino' sono andati via. La vicenda scatena polemiche mentre il direttore scolastico regionale acquisisce la relazione della dirigente dell'istituto e si dice pronto a inviare altri docenti di sostegno se servirà a riportare la situazione alla normalità. 
Il ministro Carrozza - E il ministro dell'istruzione si dice solidale con la famiglia dell'alunno e con il dirigente scolastico ''con il quale - precisa - ho un appuntamento telefonico domani per approfondimenti''. ''Vogliamo capire meglio quello che è accaduto - ha aggiunto - ma la soluzione non può essere quella di cambiare sezione perché c'è in classe uno studente disabile. Questi sono episodi spiacevoli sui quali servirebbe anche un serio dibattito pubblico perché certi comportamenti danneggiano gli italiani e la scuola tutta''.
Il bambino disabile al centro della vicenda ha sei anni - Con alcuni dei ragazzi che avrebbero dovuto frequentare la stessa classe aveva già condiviso gli anni della materna. Alcuni genitori chiedono alla dirigente, Maria Loreta Chieffo, di trasferire i loro figli in altre sezioni. Lei si oppone, non ne vede i motivi. I genitori non demordono, chiedono e ottengono - dalla stessa dirigente, che in questo caso non si può opporre - il nulla osta per andare via. Ci tengono a sottolineare che non si tratta di alcuna forma di discriminazione. Sono solo preoccupati, dicono, per le ripercussioni sotto il profilo didattico e la impossibilità di portare avanti alcuni programmi per effetto della presenza di uno studente con problemi. E c'è chi aggiunge le critiche, circolate via web, sono ingiustificate.
Il direttore scolastico regionale - Diego Bouchè, ha acquisito la relazione sulla vicenda preparata dalla preside. La linea è precisa: ''la scuola è integrazione, è vivere tutti insieme e bene ha fatto la dirigente scolastica a non acconsentire al trasferimento in altre sezioni degli alunni''. Dal punto di vista pratico si dice ''disponibile ad autorizzare altri docenti di sostegno se me ne verrà documentata la necessità, sempre nell'ottica di venire incontro alle esigenze della scuola''. In campo scende l'associazione 'Tutti a scuola', particolarmente battagliera sul fronte dell'integrazione dei disabili e che nei giorni scorsi ha sollecitato l'intervento delle istituzioni incontrando, in piazza Montecitorio, il presidente della Camera, Laura Boldrini. Il pensiero in questo momento è alla famiglia del ragazzo autistico che sta provando una ''grande sofferenza''.
L'appello - Ma Toni Nocchetti, promotore dell'associazione, si rivolge anche ai genitori degli alunni andati via. ''Non sanno di avere in classe qualcuno che è una risorsa per i loro ragazzi. Io, che non ho figli disabili, so quanto possano arricchirsi dal fatto di non essere soli''. Interrogativi anche sulla preparazione della scuola stessa di fronte a questi problemi: ''L'ingresso di quel ragazzo era stato preparato come sarebbe dovuto essere? Si è fatta una riunione per far incontrare i genitori e chiarire tutto?''.
22 settembre 2013



l'unico commento che mi viene in mente è questo , che ho scritto condividendo al news sulla mia bacheca di facebook : Ma che razza d'educazione dai a tuo figlio facendo tale imbeccillità ? almeno se non ne puoi fare a meno , inventa scuse meno banali e più plausibili . Oppure se hai ..... il coraggio la veriità . stronzo\i

21.9.13

che l'ha detto che i film d'amore siano solo feuilleton o polèpettoni . Il caso. di Grey Owl - Gufo grigio (1999) di Richard Samuel Attenborough

Ieri sera  ho  visto   Grey Owl - Gufo grigio (1999) di Richard Samuel Attenborough su la 7. Dalla trama mi  sembrava  un polpettone o  il classico    romanzo  d'appendice/ feuilleton ma sempre meglio degli insulsi ed inconcludenti dibattiti politici monotematici  sul caso del signor B,e  il  governuccio    Letta .  
Poi mia madre  , interrompendo  un  attimo   l'ascolto  di  8\2   su la  7  , Mi  dice , vedendomi accendere  la  tv  in sala ,  che   c'è  un altro film  bello  su  rai 3  (  se  non ricordo  male  )   Il gioiellino è un film del 2011 scritto e diretto da Andrea Molaioli  con toni Servillo  .
Quindi  ho fatto  un giro  su internet   vedendo i trailer   d'entrambi  






E alla  fine  d'esso  ho scelto appassionato  come sono  dalla storia  del west  , e degli indiani d'america  , oltre  che  curioso  di vedere e  conoscere  la  storia del popolo  indiano  dopo  le  guerre  con relativo sterminio e chiusura  in riserve  ( almeno   negli Usa )  nel Canada  non sono a conoscenza  . 
il primo  ( anche  se  il  2 film   meritava  )  perchè   si ricollegava  indirettamente  alla  situazione  attuale  . 
Un film non entusiasmante ma discreto ( c'è di peggio ) , uno dei rari film d'amore  non stucchevoli  e melensi  . Ritmo certamente     lento per una storia che, in fondo, non ne richiede uno veloce.Ma  Biografia ben fatta, senza particolari particolarmente entusiasmanti, ma nel complesso...tranquillo e carino.  tratto dalla vera storia di Archibald Stansfeld Belaney \ Grey Owl (Colui che vola di notte ) .

la mia sardegna cosi bistrattata da politicanti locali e non ha tutti gli elementi per reagire basta tirarli fuori e non vivere solo nel passato . ecco due esempi d'identità

il primo  ( ne  avevo accennato  in un post precedente  ) 

dalla nuova   del 20\9\2013

Viaggio nei paesi più piccoli dell’isola: ieri alle Vigne Surrau è stata inaugurata la mostra di Salvatore e Vincenzo Ligios  I sindaci sardi, il coraggio dei numeri deboli
di Paolo Merlini 
INVIATO A ARZACHENA Due anni di lavoro, centinaia di scatti, decine e decine di ore di registrazione, alcune migliaia di chilometri percorsi. Padre e figlio, entrambi professionisti dell'immagine - il primo noto fotografo, il secondo video maker emergente - insieme per un progetto originale, che coniuga l’arte di documentare con la politica, mette a confronto l'isola ancorata alle tradizioni con la Sardegna contemporanea, ne racconta disillusioni e speranze. Loro sono Salvatore e Vincenzo Ligios, la mostra ha per titolo "Gli atlanti - Tracce di identità" e da ieri si può visitare nella cantina di Vigne Surrau, principale sponsor dell'iniziativa. Protagonisti del progetto cinquanta sindaci, amministratori di comuni che non superano i 600 abitanti,da Aidomaggiore a Villanova Truschedu, passando per Assolo e altri nomi poco noti come Pau, Pompu, Simala. Paesi a crescita zero, o a decrescita poco felice, almeno stando alle statistiche, che invece rivelano una vitalità sorprendente e un'umanità che non si sente affatto sconfitta. A rappresentare queste comunità sono soprattutto giovani (anche qui a dispetto delle statistiche), uomini in larga maggioranza. Sotto l'egida dell'associazione Su Palatu, diventata felicemente"senza fissa dimora" dopo lo sfratto da Villanova Monteleone, i Ligios li hanno incontrati uno alla volta, a casa loro, e raccontati ciascuno attraverso il proprio medium: Salvatore con la macchina fotografica, con scatti rigorosamente su pellicola, e stampe in bianco e nero (in purezza, si potrebbe dire con una metafora enologica). Con la videocamera, invece, Vincenzo ha ripreso e intervistato i sindaci nella loro quotidianità, ha chiesto di raccontare come si amministra un comune così piccolo, ma lo ha fatto evitando facili vittimismi e cercando di non cadere in luoghi comuni o in un’antropologia d’accatto. Il risultato è un’installazione di cinquanta schermi con altrettanti video disposti in sequenza in una della cantine di Vigne Surrau, tra grandi botti di rovere. Ogni filmato dura cinque minuti e contiene 

un’inquadratura fissa del primo cittadino, scorci del paese e sottotitoli in inglese. Una parte importante del progetto infine è il libro (definirlo catalogo sarebbe ingeneroso) con tutte le immagini di Ligios padre e una sintesi delle dichiarazioni dei sindaci. In apertura, dopo l’introduzione di Tino Demuro, patron dell’azienda vinicola di Arzachena, testi della storica dell’arte Sonia Borsato, dell’antropologo Giulio Angioni e di un politico di lungo corso come Pietro Soddu. Completa il volume un dvd con le cinquanta interviste. Nel libro (Soter editrice, 144 pagine, 30 euro), testi e didascalie sono tradotti in inglese. Ma chi sono i cinquanta protagonisti degli Atlanti, quelli a quali Sonia Borsato attribuisce “Il coraggio dei numeri deboli” (titolo del suo saggio)? In maggioranza giovani, si diceva, nonostante guidino comunità che per larga parte sono formate da anziani e l’indice di natalità è drammaticamente basso. Li accomuna il «senso di appartenenza», come dice Adele Virdis (Aidomaggiore), ritratta dagli scaffali di un ricca biblioteca; per molti, come Antonio Carrucciu, sindaco di Assolo, è stato un ritorno verso «cose che sentivo di primaria importanza», o la consapevolezza che «chi ritorna a vivere in paese sia un conquistatore», come dice Gionata Petza, forse il più giovane dei 50, ritratto in posa con la sua mountain bike nella piazza di Asuni. A distinguerli, almeno a sentire Lino Zedda (Baradili), è «la determinazione: perché essendo le comunità molto piccole qualsiasi azione diventa un sacrificio». E se Antonio Giuseppe Sechi (Bessudi), ripreso davanti a un improbabile murale, è pessimista sul futuro dei piccoli centri nell’era della globalizzazione, Francesco Sulas (Birori) sostiene che al contrario delle grandi città «in paese quando ci si vede ci si parla», c’è «senso di amicizia e di rispetto per le persone». L’era digitale ritorna nelle parole di Giorgio Pilloni (Curcuris), che pensa forse con troppa preoccupazione ai bambini che nasceranno in futuro: «Già oggi non hanno più l’inventiva che noi avevamo a quell’età: tutti i giochi ce li costruivamo noi... Adesso è tutto pronto, fa tutto il computer» (o lo smartphone, visto che alla presentazione di ieri, tra i sindaci presenti era tutto un trillare di suonerie). Tiziano Schirru (Ussaramanna) rimpiange le lotte con gli otto fratelli da bambino, mentre Bruno Curreli (Tiana) dice che è necessario «uno scambio continuo con l’esterno», altrimenti ci si chiude.Francesco Medde, giovane sindaco di Soddì, fervente ducatista, si batte per conservare la lingua sarda, mentre Clara Michelangeli, jeans strappati e stivali da cowgirl, plaude al melting pot di Onanì, dove alcune badanti romene hanno sposato giovani del posto. «I paesani quando vedono gente nuova sono contenti di accoglierla», dice con un sorriso. 

  la  2   è   questa  sempre  dalla  nuova sardegna  m   21\9\2013
 L’Umanitaria e la Cineteca sarda hanno recuperato filmati in 16 millimetri che sono stati montati da Marco Antonio Pani 
“Isura da filà”, le immagini dimenticate
di Fabio Canessa wSASSARI Come un secolo fa, agli albori del cinema, quando i film venivano musicati dal vivo. Per ricordare Fiorenzo Serra, grande documentarista e pioniere dell'antropologia visuale nell'isola, la Società Umanitaria organizza a Sassari, la città del regista, un cineconcerto dal titolo "Isura da filmà". La Sardegna filmata in libertà da Serra, preziosi materiali inediti girati in pellicola 16 mm verso la fine degli anni Quaranta, immagini di grande valore che sarà possibile vedere nel montaggio curato da
Marco Antonio Pani e con l'accompagnamento della musica creata per l'occasione da Paolo Fresu. L'appuntamento è per mercoledì 25 settembre al Teatro Comunale, piazzale dei Cappuccini, alle 21 (ingresso libero fino a esaurimento posti). Sul palco per eseguire dal vivo la colonna sonora insieme a Fresu (tromba, flicorno, effetti), ci saranno Bebo Ferra (chitarre), Gavino Murgia (sassofoni, voce) e l'Alborada String Quartet composto da Anton Berovski, Sonia Peana, Nico Ciricugno e Piero Salvatori. Per volontà dello stesso Fiorenzo Serra dopo la sua scomparsa i suoi materiali inediti sono stati affidati alla Società Umanitaria-Cineteca Sarda perché li custodisse e li valorizzasse. Un esempio di valorizzazione è questo progetto reso possibile con il coinvolgimento di partner istituzionali: la Regione e la Fondazione Banco di Sardegna, ma anche il Comune e l'Università di Sassari. «Per noi - spiega Salvatore Figus, coordinatore della Società Umanitaria della Sardegna – è come un dovere nei confronti di Fiorenzo Serra di cui abbiamo tutto l'archivio cinematografico. Stavamo lavorando a un volume, che uscirà a breve, sulla nascita del suo film "L'ultimo pugno di terra" e abbiamo riscoperto nell'archivio questi filmati in 16 mm che sembrano come degli appunti cinematografici per i documentari realizzati in seguito. C'è la solita attenzione al mondo agro-pastorale, ma meno che in altri suoi lavori successivi, c'è uno sguardo molto interessante sulla religiosità popolare, c'è Alghero ma soprattutto Sassari. La sua Sassari». Materiale affidato al regista Marco Antonio Pani che ha costruito un film di circa cinquanta minuti facendo rivivere le immagini di Serra che trovano nuova linfa anche grazie alla partitura musicale ideata da Paolo Fresu. «Quando mi hanno proposto la cosa – spiega il trombettista di Berchidda – avevo dei dubbi legati un po' agli impegni, ma sono spariti non appena mi hanno fatto vedere un po' di quelle immagini di Fiorenzo Serra. Così emozionanti, commoventi, vere anche in quel girato disordinato com'era all'origine prima del lavoro di montaggio di Marco Antonio Pani. Son rimasti ovviamente dei dubbi su come affrontarlo musicalmente, se usare gli strumenti della tradizione oppure no. Alla fine abbiamo deciso di creare qualcosa di diverso, usando per esempio anche le strumentazioni elettroniche. Le immagini hanno un tale forza che la musica doveva essere completamente al loro servizio». L'omaggio a Fiorenzo Serra non si conclude però con il cineconcerto di mercoledì sera, con la prima proiezione pubblica di "Isura da filmà" e le musiche eseguite dal vivo da Fresu con Gavino Murgia, Bebo Ferra e i componenti dell'Alborada String Quartet. Dal giorno seguente, giovedì, le iniziative si trasferiscono all'università, nell'aula umanistica del Dipartimento di storia. Dalle 16 verranno proiettati dieci cortometraggi realizzati dal documentarista tra il 1955 e il 1969. Una retrospettiva che mette in evidenza il progetto antropologico del regista sassarese, interesse che passava attraverso il cinema come mezzo capace più di ogni altro, fermando nell'immagine in movimento nel tempo e nello spazio, di restituire la storia in tutta la sua concretezza. Questi i corti che si potranno vedere: "Pescatori di corallo", Nei paesi dell'argilla", "Artigiani della creta", "Sagra in Sardegna", "Maschere di paese", "L'autunno di Desulo", "Carbonia anno Trenta", "Un feudo d'acqua", "Dai paesi contadini", " La novena". Venerdì infine in programma un'intera giornata di studi con il convegno "Fiorenzo Serra tra antropologia visuale e cinema". L'apertura dei lavori è fissata per le 9. Dopo il saluto delle istituzioni Mario Atzori coordinerà gli interventi di Renato Morelli, Silvia Paggi, Simone Ligas e Manlio Brigaglia. Nel pomeriggio, con inizio alle 16, i relatori coordinati da Giuseppe Pilleri saranno Gianni Olla, Antioco Floris, Gianni Murtas e Riccardo Campanelli.

17.9.13

intolleranza vegana ? Abruzzo Un commando di vegani attacca la festa degli arrosticini

premetto che  non ho niente  contro  i vegani  (  alcune cose   le  condivo e  con molti d'alcuni  d'essi ci vado d'accordo ) ma  quello che non sopporto  sono i fondamentalismi  e  gli integralismi . Infatti  i vegani in sè non abbiano nulla che non va, se  non (  ma  è soggettivo  , perché   basta    fare un piatto di verdura   o per  un giorno rinunciare  a mangiare   carne, pesce, formaggi e loro derivati )    è quell'atteggiamento  ( la stessa  cosa    ne non vegani   , come per  esempio la mia famiglia  , che quando abbamo preso  una pizza mi sfottevano  perché  ha  avevo preso una pizza   vegan )  che si vede sia nelle scelte religiose, alimentari o di altro tipo, di estrema insicurezza, tale   (  OVVIAMENTE SENZA  GENERALIZZARE  )  da non stare bene con le proprie scelte se non si infamano quelle altrui . La  penso come Lorenzo Corti  : << Io non ho niente contro i vegani. Hanno deciso che quello è il loro stile di alimentazione e se va bene a loro nessun problema. Solo una cosa mi disturba: che vadano a rompere i coglioni a chi non la pensa come loro. Io, da buon fumatore, sono estremamente democratico: non ho mai obbligato un non fumatore ad accendersi una sigaretta.>>


  da  la stampa  



CRONACA

Un commando di vegani
attacca la festa degli arrosticini

Le firme: «Veganismo e Giustizia»

Cavi elettrici tranciati e stand imbrattati: ”No ai mangia cadaveri” 
Gli organizzatori: gesto
di grave intolleranza
Attacco vegano alla «Festa della Famiglia Abruzzese e Molisana» che si è tenuta lo scorso weekend a Sassi, in piazza Giovanni delle Bande Nere. Nella notte fra giovedì e venerdì l’allestimento è stato preso di mira da un gruppo di vegani che ha imbrattato i teloni con vernice indelebile e - soprattutto - tranciato i cavi elettrici. 
Il danno è stato ingente, ma l’assalto non ha fermato la festa, che si è tenuta regolarmente con il previsto enorme successo di pubblico: circa 8 mila le persone, in tre giorni di evento.  

È la prima volta - che si ricordi - che accade una cosa simile nel Torinese. L’obiettivo era evidentemente quello di fermare le cene a base di arrosticini, gli spiedini di carne di pecora tipici della cucina abruzzese. Per fortuna chi ha preso di mira tendoni e impianto elettrico ha fatto male i calcoli: la festa è iniziata venerdì sera e i volontari della Famiglia Abruzzese e Molisana sono riusciti a far sì che nulla saltasse nel programma e all’inaugurazione. Visto l’accaduto, sabato e domenica si è creato un servizio di sorveglianza, e anche i carabinieri - cui è stata sporta immediatamente denuncia - hanno sorvegliato perché non si ripetesse la contestazione. 

Numerose le scritte lasciate sui tendoni. C’è anche lo slogan del gruppo: «Veganismo e Giustizia». E poi, rivolto a chi ha partecipato alla festa di chiusura dell’estate: «Mangia cadaveri». E anche la sigla «Alf», Animal Liberation Front. Carlo Di Giambattista, che da tre anni è presidente della Famiglia Abruzzese Molisana del Piemonte e della Valle d’Aosta, osserva le foto delle scritte vegane sui teloni e scuote la testa: «Io accolgo qualunque convinzione, non mangio carne rossa e ceno sovente nei ristoranti vegani. Ma non posso accettare questa forma di protesta, che mi ricorda altre proteste diventate violenza». 
La notizia dell’assalto è stata diffusa soltanto ieri, a festa conclusa, per evitare nuovi rischi. L’incursione notturna dei vegani - o di chi ha firmato col nome «Veganismo e Giustizia» - non ha comunque fermato la manifestazione: 20 mila gli arrosticini distribuiti. 

carabiniere rubò la borsa di una ferita Incredibile retroscena nell'incidente in cui è morta Eleonora Cantamessa,carabiniere rubò la borsa e gica con il bancomat al video poker



sono basito neppure delle , va bene che non si deve generalizzare perché in mezzo alla merda ci posso essere anche delle perle , forze dell'ordine cinsi può fidare




da  repubblica  del  17\9\2013


Dottoressa uccisa nel Bergamasco:carabiniere rubò la borsa di una feritaIncredibile retroscena nell'incidente in cui è morta Eleonora Cantamessa, la dottoressa travolta da un'auto mentre soccorreva un ferito. Il militare spendeva i soldi alle slot machine. Il fratello della vittima: "Una bassezza incomprensibile". Perquisita la caserma



I rilievi dopo l'incidente

per  chi non  ha  seguito la vicenda

ARTICOLO
Bergamo, due morti dopo una maxi rissa:
medico investita col ferito che soccorreva


VIDEO
Cantamessa, dal Consiglio Regionale una targa alla famiglia

Ha rubato la borsetta a una donna ferita in un incidente stradale. Un carabiniere 35enne di Seriate, D. T., intervenuto durante il servizio per prestare soccorso, è stato denunciato per furto e indebito utilizzo di carta di credito e sospeso dal servizio. Stando alle indagini dei suoi colleghi, i soldi gli sono serviti per giocare alle slot machine. Il caso è quello di Chiuduno, il paese in provincia di Bergamo, in cui è rimasta uccisa Eleonora Cantamessa, la dottoressa di 44 anni travolta da un'auto mentre aiutava il ferito di un pestaggio.
Lo scenario di quella sera dell'8 settembre era drammatico: sull'asfalto c'erano due morti (Cantamessa e l'uomo che la dottoressa cercava di soccorrere, il trentenne indiano Baldev Kumar), un investitore in fuga (Vicky Vicky, il fratello della vittima indiana) e c'erano i feriti. "Uno scenario di guerra - ricorda Luigi, il fratello di Eleonora, che era presente al momento dei soccorsi - Ci riesce ancora più incomprensibile come in un momento così drammatico e in un luogo così disordinato dalla violenza, uno possa compiere una bassezza di questo genere".
Suona quasi come una beffa il fatto che il giorno in cui si scopre la notizia del carabiniere 'infedele' sia quello in cui la famiglia Cantamessa riceve dal consiglio regionale lombardo una targa al merito civile per sottolineare il coraggio e l'altruismo della donna. "E' un atto esecrabile - ha continuato Luigi - una pugnalata amara alla nostra famiglia. Io e mia sorella siamo stati educati nel senso delle istituzioni e dello Stato, quindi questo episodio ferisce la nostra famiglia come un pugno amaro. E' un episodio di sciacallaggio che rovina l'immagine della Benemerita: mi auspico che l'Arma si difenda, a tutela della propria immagine".
In quel panorama di dolore, il carabiniere 'infedele' ha preso la borsa abbandonata su un'Audi A2. Apparteneva a una barista romena che, a sua volta, aveva accostato per dare una mano nei soccorsi. Nei giorni scorsi la donna, dal letto d'ospedale, ha scoperto che qualcuno stava usando il suo bancomat. I movimenti sul conto corrente erano quelli del carabiniere che lunedì 9 e martedì 10 settembre, i due giorni dopo la tragedia, ha usato il bancomat alle videolottery in due sale slot di Dalmine. Il codice 'pin' era custodito nel portafogli della donna. Nel corso delle indagini, i militari hanno riconosciuto il collega guardando le immagini delle telecamere del locale di Dalmine. Il carabiniere è risultato essere un frequentatore abitudinario della sala.
Il carabiniere era in servizio alla tenenza di Seriate da più di 10 anni: non un novellino, dunque, ma viene descritto un pò confuso nell'ultimo periodo e probabilmente in difficoltà. I carabinieri di Bergamo hanno effettuato alcune perquisizioni, anche nella caserma di Seriate: D. T. in questi giorni è in ferie, programmate da tempo, e si trova in una località del Sud Italia. Proprio lì i suoi colleghi gli hanno notificato l'indagine e la sospensione dal servizio.

(17 settembre 2013)

«La memoria è una pagina di sabbia»Andrés Neuman e il suo nuovo romanzo: «La scrittura trasforma la coscienza, non la riconferma»

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sulle  note  di questa  canzone  di Piero Marras 


riporto questo interessante  articolo  della  nuova  sardegna di qualche  giorno fa  


Andrés Neuman e il suo nuovo romanzo: «La scrittura trasforma la coscienza, non la riconferma»

«La memoria è una pagina di sabbia»
di Angiola Bellu Un canto a tre voci, un romanzo di viaggio, l'attesa di un ritorno, l'eterno binomio Eros Thanatos, la dolorosa dialettica tra verità e menzogna. “Parlare da soli” (Ponte alle Grazie), l'ultimo libro dell'argentino Andrés Neuman, indaga l'animo umano e riflette sull'istinto alla vita nelle situazioni estreme senza mai inciampare nel melodramma
l'autore
I monologhi interiori del decenne Lito, di sua madre Elena e di suo padre – malato terminale – Mario, occupano l'intero romanzo disegnando un trittico sulla vita e sul tempo, semplice profondo e sorprendentemente coerente. Ne abbiamo parlato con l'autore, che dedica il libro a suo padre «che è anche una madre». Iniziamo proprio col chiedergli perché. «La dedica è una specie di sintesi dell'emotività del romanzo che si interroga costantemente sull'altro da sé, su quello “che non sono io”. La voce principale del romanzo è quella di una donna che vive un'esperienza simile a quella che ha vissuto mio padre prendendosi cura di mia madre». “Parlare dal soli” riesce a descrivere perfettamente tre punti di vista, tre psicologie assolutamente differenti. Qual'è la sua idea della narrativa di finzione? «Credo che parte della finzione di un romanzo consista nel vivere la vita che non abbiamo avuto la sorte di vivere; non mi sembra che sia sufficiente la nostra esperienza: la finzione letteraria serve a moltiplicarla. Il poter narrare la storia dal punto di vista di una donna, il poter convertire mio padre in mia madre. Lo sguardo alternativo al proprio, è il cuore del progetto narrativo di questo libro. Le storie che amo sono quelle che contaminano la purezza dei ruoli: tutti siamo padri e madri, uomo e donna, carnefice e vittima, oppressore e oppresso». Nella sua vita suo padre si prese cura di sua madre, qui c'è una donna che si prende cura del proprio compagno morente. «E' vero, infatti so perfettamente che gli uomini possono prendersi cura dell'altro, ma la società non ci educa ancora per questo, dobbiamo impararlo. Il patriarcato ha distribuito i ruoli: sino a pochi decenni fa l'unico ruolo della donna era quello di prendersi cura». Viviamo ancora in un patriarcato anche in Occidente, secondo lei? «Naturalmente sì; oggi il patriarcato si è alleggerito, ma non è finito. Certo sarebbe una falsità dire che una donna nel Ventunesimo secolo vive come sua nonna. Oggi c'è una specie di misoginia nascosta, mutata in forme meno evidenti. Si può incontrare un uomo che si comporta come una madre - perché in realtà la maternità è un'attitudine emotiva, tutti possiamo essere madri ma rompere il cliché biologico è molto difficile. Per questo mi emoziona molto assistere al comportamento “femminile” di mio padre anche ora che mia madre non c'è più». Che rapporto c'è – secondo lei – tra scrittura e coscienza? «Credo che la scrittura sia un meccanismo di trasformazione della coscienza, non la sua riconferma. Per questo mi interessa poter ragionare come una donna, come un bambino, un lavoratore oppresso. Mi piacerebbe essere capace di descrivere qualsiasi tipi di conflitto. Parlare da soli parte da tre voci che erano impossibili per me: quella di un bambino, di una donna e di un malato terminale». E' un romanzo che parte da un fattore autobiografico. Crede che la scrittura parta sempre dalla propria biografia? «Credo che la autobiografia sia un elemento che prima o poi si riveli nella scrittura, non sempre ne è il principio. Viviamo in una società troppo ossessionata dai casi reali, c'è una logica, televisiva, del reality show, applicata alla finzione letteraria che mi sembra impoverente. Credo che la letteratura – tutta la letteratura, quella immaginaria e quella biografica – sia un cammino di andata e ritorno nella memoria». La memoria, nel senso di produzione di ricordi, è fondamentale nel suo romanzo. Mario vuole creare nel figlio ricordi bellissimi prima di morire?

«La memoria è importante nel mio romanzo come nella vita, che credo sia una continua domanda di ricordi». Mario è consapevole del fatto che stia costruendo ricordi nel figlio; quanto è importante questo tipo di coscienza? «Credo che tutto abbiamo bisogno di rileggere e riscrivere la nostra memoria in continuazione. Per esempio, avere un figlio credo sia un'occasione per riscrivere la nostra infanzia; è la riscrittura di una memoria e la costruzione di un futuro al tempo stesso. La memoria non è qualcosa di statico, l'importante è assistere a come la memoria si trasformi dinamicamente. La memoria è una specie di libro di sabbia di Borges, in cui è impossibile tornare alla pagina precedente e trovarla uguale. La memoria lavora così. La narrativa è la definizione continua del nostro presente a partire dal nostro passato, lo stesso vale per la Storia. Non è importante solo quello che ricordiamo ma soprattutto come lo ricordiamo. Per questo la narrativa è sempre qualcosa di profondamente politico anche se non parla di politica». In questa chiave qual'è la differenza fondamentale tra politica e narrativa? «La politica consiste nella continua riaffermazione del proprio punto di vista, la narrazione consiste nel mettere alla prova il nostro punto di vista per vedere fino a che punto ci siamo sbagliati. La politica afferma, la narrativa dubita».

che brutta bestia l'oblio . Neppure una targa nella sua città ( bonorva ) per ricordare il poliziotto Antonio Niedda, ucciso il 4 settembre 1975 a Padova dalle Br

Péur  non condividendo  il  tono retorico  : <<  Pochi si ricordano di un eroe.>>  dell'articolo sotto riportato  sulla muova sardegna del  16\9\2013 ,  dico che  bisogna  ricordare   , e   ben venga  la dedica  , se  pur  tardiva dl sindaco  del suo paese natale  (  Bonorva )   di intitolargli il Palasport appena ristrutturato 
La sua città ha dimenticato
la terza vittima in divisa delle Br
di Antonello Palmas 

SASSARI Pochi si ricordano di un eroe. Perché nei suoi luoghi di origine da 38 anni nessuno sembra avere interesse a farlo e il suo nome resta chiuso nelle polverose raccolte di giornali degli anni di piombo, quando morire per lo Stato era troppo facile. Pochi sanno chi era Antonio Niedda, un agente della polizia stradale di Padova, ucciso nella città veneta il 4 settembre 1975 dalle Brigate Rosse, all’età di 44 anni. Niedda era nato a Bonorva nel 1931, ma ben presto si era trasferito a Sassari, e si sentiva sassarese, anche se per lavoro si era dovuto trasferire nel Veneto, dove aveva messo su famiglia. Eppure né Sassari né Bonorva hanno mai sentito il dovere di dedicargli una via, una piazza. Né di ricordarlo in qualche modo. Così la Sardegna non sa che un suo figlio ha dato la vita per tutti. Altrove non è così: a Padova ogni 4 settembre il sacrificio di Niedda viene ricordato con una cerimonia: anche all’ultima vi hanno partecipato un centinaio di persone, gente che lo ha conosciuto e ne ha apprezzato l’umanità, autorità, colleghi. Ad Albano Laziale, luogo che non ha nulla a che fare con i suoi trascorsi, gli hanno intitolato la sede della Polizia di Stato. Sempre a Padova tra un mese gli sarà intitolato un grosso centro sportivo, perché Niedda era un atleta che faceva parte delle Fiamme Oro. Il presidente Ciampi conferì alla sua memoria la Medaglia d'Oro al valor civile. Nella sua terra, niente. Sino a pochi giorni fa. A una richiesta dei parenti ha infatti risposto il sindaco di Bonorva, Gianmario Senes: non ci sono nuove strade a disposizione, così l’amministrazione ha deciso che a breve intitolerà a Niedda il nuovo palasport. Niedda era stato designato al servizio antirapina dal comando della polizia stradale. Aveva terminato dei controlli al casello autostradale di Padova Est e con un collega si era diretto a Ponte di Brenta, una zona di Padova. In via delle Ceramiche aveva notato la presenza di una Fiat 128 bianca ferma con due persone a bordo. Decisero di controllare i documenti e lui si accorse che la patente di uno di loro, il 25 enne Carlo Picchiura, era contraffatta; l’altro, Pietro Despali, era senza documenti. Mentre il collega si dirigeva verso il mezzo della polstrada, Picchiura scese dalla macchina e aprì il fuoco. Niedda, raggiunto da cinque proiettili, stramazzò a terra, l’altro agente si salvò per miracolo: la pistola si inceppò, il terrorista (che risulterà appartenere alle Br) tentò la fuga ma venne arrestato. Per la famiglia (Niedda lasciò la moglie, Francesca Ciscato, e due figli di 8 e 11 anni, Salvatore e Francesco) fu un dramma, anche tra i parenti sassaresi furono momenti terribili e ancora li ricordano come un incubo nonostante siano passati tanti anni. Anche perché tutti erano affezionati a zio Antonio, persona di grande bontà. Si trattava della terza vittima del terrorismo tra le forze dell’ordine. Ai suoi funerali a Padova ci fu una folla di 5.000 persone, addirittura anche una rappresentanza della comunità nomade della zona: si scoprì solo così che Niedda aiutava personalmente i bambini rom portandogli regali nei campi. Le cronache dell’epoca dicono di quando risuonarono le note del “Silenzio” e la vedova scoppiò in lacrime tra la commozione generale. Vennero fatte delle collette per consentire ai ragazzi di studiare. E da allora ogni anno Niedda viene ricordato, in particolare con manifestazioni organizzate dall’Anps, l’associazione dipendenti della polizia di Stato. Sassari invece ha perso la memoria su quel gesto eroico. Un fatto di cui i parenti veneti non si capacitano e che crea dispiacere. È stata proprio una nipote, Salvina Mura, figlia anc’essa di un poliziotto, a contattare il Comune di Sassari per aprire il problema. «Nel novembre del 2011 _ dice _ ho consegnato un dossier, con gli articoli di giornale che ricordavano il sacrificio di mo zio. Mi dissero che si sarebbe dovuta riunire la commissione toponomastica, e che ci avrebbero fatto sapere. Nel novembre 2012 sollecitai una risposta, ma furono piuttosto vaghi, parlando di tempi non brevi ma confermando l’intenzione di muoversi per intitolare una strada. Poi più niente. Ho contattato anche il Comune di Bonorva, più di recente: ho scoperto che nemmeno sapevano chi fosse Niedda, mi dissero che noi parenti abbiamo ragione. L’altro giorno mi hanno richiamata annunciandomi la decisione di inttitolare il palasport».Finalmente un sorriso. Pochi giorni fa, a fine agosto, frattanto, è morto Carlo Picchiura: aveva contratto la Sla. «Non si è mai pentito _ dice Salvina _ e non ha mai sentito il bisogno di chiedere il perdono alla famiglia»

16.9.13

chi lo ha detto che i parchi portano solo chiusure e non fruibilità del territorio . L'esempio del parco Archeologico dell'Asinara

 A Cala Reale oltre 39 mila reperti sul fondale in un sito unico nel Mediterraneo Il museo sottomarino, quando la cultura è anche una risorsa per il turismo   .
Con maschera e boccaglio   a vedere le anfore romane
di Anna Sanna

ASINARA Un museo sottomarino a soli sette metri di profondità, unico nel Mediterraneo. Basta fare il bagno e immergersi con maschera e boccaglio per intravedere tra le acque trasparenti una fotografia vecchia più di 1500 anni: sul fondale marino si stende un letto di anfore di epoca romana che contenevano garum, la salsa molto apprezzata dai Romani, e pesce sotto sale prodotto nei porti della penisola Iberica. È quel che resta del carico di una nave che tra il IV e il V secolo d.C. percorreva la rotta tra l'antica Lusitania (l'attuale Portogallo) e Roma, naufragata tra gli scogli e le secche di Cala Reale, all'Asinara.



 Più di 39mila frammenti distribuiti su una superficie di 25 metri per 25. Uno spettacolo straordinario che negli ultimi due mesi tantissime persone hanno potuto ammirare immergendosi sotto la guida di diving specializzati o restando sulla barca, scrutando il mare con un batiscopio. Il sito è stato aperto ai visitatori dal 13 luglio scorso fino a oggi. Un esperimento partito l’anno scorso quando nel solo mese di agosto oltre seicento persone hanno visto da vicino anfore e frammenti grazie alla collaborazione tra l'amministrazione comunale di Porto Torres, la Soprintendenza per i beni archeologici di Sassari e Nuoro, l'Ente Parco Nazionale dell'Asinara e il Cala d'Oliva Diving Center coadiuvato per le operazioni di immersione dall’Asinara diving centre e I Sette Mari. «Il sito è stato aperto ai visitatori per due mesi, uno in più rispetto al 2012, e soprattutto ad agosto ci sono state tante visite, proprio come lo scorso anno - dice Alessandro Masala, del Cala D’Oliva Diving Center - sono venuti turisti di tutti i tipi, dal professionista all’appassionato di archeologia, sono venuti bambini e anziani perché è davvero accessibile a tutti, si vede benissimo anche in snorkeling o dalla barca con il batiscopio. C’è chi è voluto tornare per rivederlo. In ogni caso, chiunque abbia visto la distesa di anfore è rimasto colpito profondamente perché il colpo d’occhio è magnifico». «Il carico davanti al molo di Cala Reale è davvero particolare per la quantità di reperti conservati e di anfore trasportate, circa duemila - spiega Gabriella Gasperetti, della Soprintendenza ai Beni Archeologici di Sassari e Nuoro, che ha diretto lo scavo del sito subacqueo - della nave non resta niente, al massimo qualche chiodo ancora infisso in parti di fasciame». L'Asinara era nota agli antichi come Herculis Insula, l'Isola di Ercole, legata al mito dell'eroe e alle sue fatiche, e costituiva una tappa importantissima nelle rotte del Mediterraneo. In età romana il Golfo dell'Asinara vede lo sviluppo di Turris Libissonis, l'odierna Porto Torres, il principale porto romano sulle coste settentrionali della Sardegna. «Costituiva il primo riparo per chi dalla Spagna passate le Baleari risaliva le coste occidentali - continua Gabriella Gasperetti - nelle acque dell'Asinara sono presenti sei relitti fino alla tarda età imperiale tra 200 e 830 metri di profondità, di cui sono stati recuperati alcuni campioni. Ci sono molte più cose di quelle che sappiamo: la ricerca subacquea fino a qualche anno fa aveva tanti limiti, i sistemi di rilevamento odierni sono più accurati». Il sito di Cala Reale, noto agli studiosi dagli anni Novanta, nel 2009 è stato spostato dalla Soprintendenza di duecento metri rispetto al punto reale del naufragio, per tutelare i reperti dalle manovre di approdo del traghetto che collega Porto Torres e l'Asinara. La nuova sistemazione riproduce fedelmente il modo in cui i materiali si erano rovesciati durante il naufragio. «In Sardegna esistono parecchi siti sottomarini a Mal di Ventre, a Tavolara, i relitti dell'Arcipelago della Maddalena - dice Gabriella Gasperetti - i reperti più intatti sono quelli a profondità maggiore, difficili da visitare, mentre quelli a bassa profondità vengono spesso dispersi dalla forti mareggiate o non sono visibili per le condizioni del fondale. Al contrario, nel sito di Cala Reale ci sono delle condizioni che consentono di mantenerlo intatto, nonostante sia a soli sette metri di profondità». Le anfore sono un’altra attrattiva che si aggiunge alle bellezze naturalistiche dell’isola. «Un’offerta resa possibile grazie alla non scontata collaborazione tra Enti diversi - ci tiene a sottolinare Pierpaolo Congiatu, direttore del Parco dell’Asinara - inoltre, nel corso della sperimentazione l’anno scorso abbiamo accolto bambini delle scuole e ragazzi con disabilità motoria». La tutela dei reperti durante i mesi di apertura al pubblico è stata garantita dai soci del diving centre, dai vigili urbani di Porto Torres, e dalle guardie zoofile del parco. Intanto, dai colli delle anfore spuntano in continuazione pesci di ogni specie che hanno scelto come tane i frammenti adagiati sul fondale, in un suggestivo incontro tra storia e natura.

A Vigne Surrau fotografie e video con i sindaci dei cinquanta paesi sardi più piccoli Ecco perché un paese ci vuole Dal 19 settembre ad Arzachena una mostra con le immagini di Salvatore Ligios e le video interviste di Vincenzo Ligios

Leggo  sul giornale ( la  nuova sardegna  ) di oggi che  Giovedì 19 settembre alle 10,30 presso Vigne \ cantine Surrau ad Arzachena (  un centro che   unisce  alla  vendita  e degustazione del vino anche la cultura   , vedere  mio  post precedente sulla mostra  fotografica   sul sughero  di Roberto graffi  )  presenta il progetto culturale "Gli atlanti. Tracce di identità", selezione di fotografie di Salvatore Ligios  e video installazione di 50 monitor per 50 interviste a cinquanta primi cittadini di piccoli comuni della Sardegna di Vincenzo Ligios. L'inaugurazione sarà preceduta dal convegno "Dalla cultura alla politica" al quale interverranno: Pietro Soddu (nella foto); il presidente di Vigne Surrau Tino Demuro; il sindaco di Bidonì Silvio Manca; il sindaco di Villa Sant'Antonio Antonello Passiu; Manlio Brigaglia; Salvatore Ligios ; Sonia Borsato. Il lavoro è un omaggio al lavoro silenzioso e quotidiano svolto dagli amministratori dei piccoli comuni della Sardegna che  si stanno spopolando sempre  più   a causa della migrazione nei grossi centri  ( Olbia   - Sassari per il nord  , Cagliari Sud   o  peggio ancora  illa pensiola  e  l'estero )  Il progetto esplora la realtà di comuni molto piccoli dell’isola – con popolazione al di sotto di 600 abitanti – per comporre una galleria di ritratti di sindaci, testimoni oculari di ricchezze culturali e identitarie degne di attenzione. Insieme agli scatti fotografici sono state realizzate interviste video in presa diretta. Diversi i testi di accompagnamento in catalogo, firmati da Tino Demuro, Sonia Borsato, Giulio Angioni , Pietro Soddu . L'esposizione è organizzata da  : Su Palatu-Fotografia & Vigne Surrau, dall'Anci, dall'Isre, dalla Banca di Sassari, dalla Fondazione Banco di Sardegna e da Soter editrice. La mostra rimarrà aperta sino al 6 ottobre tutti i giorni dalle 10.30 alle 21. Ingresso libero. Sito www.atlantesardo.it  oppure la pagina facebook per  ulteriori informazioni  Su Palatu-Fotografia cell. 349 2974 462 - Vigne Surrau tel. 0789 82933

 Tale iniziativa  è confermata  da    da un estratto  dell’intervento di Giulio Angioni, scrittore e antropologo preso  Dal catalogo della mostra    riportato dalla nuova sardegna del  15\9\2013



A Vigne Surrau fotografie e video con i sindaci dei cinquanta paesi sardi più piccoli 
Ecco perché un paese ci vuole
Dal 19 settembre ad Arzachena una mostra con le immagini di Salvatore Ligios e le video interviste di Vincenzo Ligios
Dal catalogo della mostra pubblichiamo un brano dell’intervento di Giulio Angioni, scrittore e antropologo.

di Giulio Angioni Questi sindaci non ci parlano di luoghi e di problemi decentrati, di marginalità. E non ci parlano di lontananze. E non è per questo che i due Ligios li hanno scelti. Credo che abbiano piuttosto deciso di fare il giro lungo per tornare a casa senza perdersi per strada. In casa ce l'abbiamo tutti oggi, in Occidente, per esempio, il fenomeno della diminuzione della popolazione e insieme dell'aumento percentuale dei vecchi, della denatalità, del nuovo che avanza e non si riesce a dargli senso. E dunque cercare di capire il difficile e confuso rapporto degli abitanti dei piccoli centri dell'interno sardo con il presente è anche, per chi vive nelle conurbazioni moderne (anche sarde), un “de te fabula narratur”. Non solo loro: ma questi sindaci, specie se giovani, così nuovi e così antichi, sono gli eredi più diretti di un modo di vivere infranto e sostituito. Un modo di vivere che oggi appare, ed è, come spesso capita di considerare, specie ai più vecchi di questi sindaci di paese, di un'infanzia più simile all'infanzia dell'età dei nuraghi che all'infanzia di oggi. Lavorare per vivere e vivere per lavorare sono state per millenni regole senza scampo, in cui la costrizione del vivere per lavorare dava significato alla prima regola universale umana del lavorare per vivere. Per tutti, anche per i ricchi di paese, i proprietari maggiori di terre e di animali. Ma soprattutto per coloro, la maggioranza, che vivevano nella precarietà, spesso estrema, obbligati a inventarsi espedienti per procacciare anche solo il cibo per sé e per la famiglia. (…) Tanti paesi della Sardegna interna sono oggi sull'orlo di un precipizio demografico. Oggi s'impone il fenomeno dello spopolamento, dei piccoli comuni che negli ultimi tempi paiono in via di estinzione nelle cosiddette zone interne, ma anche più in generale in Europa ancora prima che in Sardegna. Tutte le società agropastorali hanno avuto e hanno tassi di natalità elevati, perché questo permette appunto di incrementare agricoltura e allevamento. Nelle nostre società industriali, urbane, i vantaggi dell'allevare meno figli ma più costosi sono superiori ai vantaggi dell'allevarne molti ma meno costosi e presto produttivi. Ci sono altri motivi, ma sono certamente anche, e forse principalmente, i mutamenti negli oneri dell'allevare figli, connessi col mutare dei modi della produzione, che spiegano meglio i mutamenti nei modi della riproduzione anche in Sardegna. Anche nei paesi sardi agropastorali i bambini non sono più "produttivi", e sono più "costosi" di un tempo. La terziarizzazione, in questi paesi, non ancora turistici ma che ci aspirano in modi vari, si aggiunge a produrre spopolamento di centri che per millenni sono stati agropastorali. Più un paese sardo è lontano dalla costa, tanto più pare destinato allo spopolamento, perfino all'estinzione, se il turismo sardo continua a essere soprattutto costiero e balneare. Coste fino a ieri spopolate da secoli si popolano oggi, alla rinfusa e confusamente, di immigranti dai paesi dell'interno. Così come nel caos urbanistico e confusamente si formano le nostre piccole conurbazioni, come quella di Cagliari e di Sassari. Lì i sardi di città hanno invece verso le coste il tipico rapporto da seconda casa. Nella Sardegna interna, però, ha preso piede anche l'idea di agriturismo, in nome del casereccio, del tradizionale, del pane formaggio e cannonau. E dunque vale ancora la pena sposarsi ad Assolo o ad Armungia, se uno si aggiorna riciclando la tradizione locale e il colore e il sapore locali, e farci anche figli. Ma nelle varie Armunge o Villenove sarde continua anche il vecchio non riciclato dal turismo. Il senso comune dei giovani sdegna ancora i mestieri rurali, specie quelli vecchi. Per molti l'istruzione è ancora un modo per lasciare la campagna. Ma anche a ragione, perché da noi l'agricoltura e l'allevamento spesso non sono al passo con i tempi, e i prodotti agropastorali restano di frequente deprezzati o fuori dal normale mercato, a meno di inventarsi nuove nicchie per prodotti locali d'eccellenza, o a meno che non esistano tradizioni industriali e mercantili come quella ormai secolare del pecorino romano fatto in Sardegna e venduto in America quasi all'insaputa dei sardi allevatori di pecore (e di capre) anche in questi paesi, da oltre un secolo produttori del latte che serve a fare quel tipo di formaggio. Ma se intanto parliamo di villaggio globale, e constatiamo che tra città e campagna in Occidente non c'è più vera differenza di modi e di livelli di vita (qualcuno l'ha chiamata rurbanizzazione), sappiamo di non esagerare, tanto più che di questa omologazione tra città e campagna fa parte anche il non fare i molti figli di un tempo, visto che la denatalità in Italia è più o meno la stessa a Milano come a Pompu o ad Allai. Ma dalla campagna la gente continua ad andarsene, mentre dal Terzo Mondo vi si inizia a immigrare, sicché anche ad Aidomaggiore e a Pompu si riproduce in piccolo la diversità del mondo. Però anche chi restava nella proverbiale Pompu per decenni ha continuato a emigrare, distruggendo molto del proprio passato, in nome di una modernità simboleggiabile a lungo in negativo, per esempio, nel blocchetto in calcestruzzo messo in mostra brutalmente dal non finito edile. Che non ci si accorga abbastanza che non c'è più vera differenza, se non a favore della campagna, come genere di vita, magari residuale, ibrido, tra campi e cellulari? È possibile che "l'arretratezza" dei luoghi come i paesi sardi dell'interno consista anche, e principalmente, nel non riuscire ancora a vedere che si è compiuta l'omologazione con la città, nel bene e nel male, e che perciò la si persegue ancora a oltranza in modo distruttivo? Eppure con un residuo di maggiore agio, di una qualche superiorità del genere di vita paesano almeno in quanto possiamo dire che vivere ad Armungia è ancora più sano che vivere a Milano, in tutti i vecchi sensi dati al mito e alla realtà della sana vita di campagna e in tutti i nuovi sensi dell'ecologismo e dell'ambientalismo di oggi, anche se Roma taglia la scuola e l'ospedale decentrati e Bruxelles s'immischia, come un rinoceronte in un negozio di porcellane, nelle fragili cose dell'agricoltura costretta al bricolage. Ormai però anche ai sardi di luoghi come Lodè e Loculi si vende molto di ciò che si produce in Sardegna in nome della continuità, della tradizione, della genuinità locale e di lunga durata, soprattutto in nome dell'origine sarda irrefutabile, magari con marchi di origine controllata. Segno che quella continuità e quella tradizione si sono spezzate, tanto da poter essere trasfigurate nel positivo di un "come eravamo" che il tempo e la memoria leniscono, come spesso leniscono le preoccupazioni diuturne di questi nostri sindaci, che mi rafforzano nella convinzione che oggi proprio loro, i sindaci, in Sardegna come in continente, sono i migliori gestori della cosa pubblica.

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