13.1.14

Posta (non) prioritaria Germania, da Est a Ovest la cartolina arriva dopo 44 anni [ coincidenze storico -letterarie ]

in sottofondo  Sag mir, wo die Blumen sind -  cantatata  da Marlene Dietrich

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stavo  finendo di  rileggere  l'ultimo numero   della collana de le storie di Sergio Bonelli editore 





 Dopo  http://www.sergiobonellieditore.it/scheda/9150/Ritorno-a-Berlino.html   questo numero   è ambientato a Berlino Est, durante gli anni cupi della Guerra Fredda, nel bel mezzo dell’Impero del terrore della Stasi. Il protagonista è Friedrich, un uomo gelido e implacabile che di mestiere fa l’agente della polizia politica. Il suo compito è semplice: controllare, scovare, distruggere ogni forma di dissenso, nascondere ogni tentativo di fuga. Non è facile per lui avere tutto sotto controllo, poiché solo apparentemente è così freddo ed impenetrabile. Il muro che ha costruito intorno a sé ha una frattura evidente e che potrebbe creargli grandi difficoltà: è segretamente innamorato di Marlene Becker, una celebre cantante che potrebbe metterlo in ginocchio con un solo sguardo.E per  cui  ..... 
La casa editrice Bonelli ha introdotto l’opera, come di consueto, con una frase che racchiude tutto il senso dell’opera di Alessandro Bilotta:“Il seme di un amore impossibile germoglia nel cuore di un gelido agente della Stasi!”Un buon noir  storico  esistenziale  , una   buona   mescolanza  di triller  e sentimento  senza  mai  sfociare  ne sentimentalismo  melenso  e  quasi stucchevole  tipici  della  letteratura   e dell'arte    del genere  come    .....  mi fermo qui altrimenti  sconfino  dal post   d'oggi  . 


Leggo    su    http://www.rainews.it/

questa storia   della  guerra  fredda  




Era stata spedita nel 1969, l'aveva fermata la Stasi, la polizia segreta della Germania orientale. Il motivo? Era diretta a Ovest, verso la sede di una radio con una trasmissione poco gradita
La cartolina arrivata in ritardo (Epa/Daniel Karmann)12 gennaio 2014

Gunter Zettl,  con la  cartolina  
Ci sono voluti 44 anni, ma poi è arrivata. Si tratta di una cartolina che Gunter Zettl, allora studente nella Germania dell'Est aveva spedito a una radio tedesca dell'Ovest. Ma alla Stasi l'idea non era piaciuta e così la polizia segreta della Ddr l'aveva intercettata, bloccata e archiviata ne file costruito su quel cittadino "dissidente".Intercettata dalla polizia segreta . Zettl aveva scritto la cartolina nel 1969, per partecipare a un quiz musicale della Saarland Radio, dopo che l'aveva ascoltata durante la trasmissione Europawelle. Il giovane aveva indovinato il titolo della canzone "Painter Man", del suo gruppo preferito "The Creation" e così ha spedito la soluzione. Ma l'emittente era a Ovest e così la cartolina fu intercettata dal ministero per la Sicurezza dello Stato, ovvero la Stasi e finì nei suoi archivi: negli anni della Germania comunista, era proibito leggere giornali occidentali o ascoltare trasmissioni al di fuori della Rdt.

Quel pensiero fisso sul concorso  . Alcuni anni dopo, nel 1983 Zettl emigrò nella Germania ovest, dopo che la Repubblica Democratica Tedesca gli aveva impedito di lavorare come insegnante tecnico per non essere andato a votare. Prima un lavoro da venditore, poi il viaggio in Spagna, per tornare in terra tedesca quattro anni fa. Ma Zettl non scorda la cartolina. E così ha deciso di consultare il dossier che la polizia segreta aveva su di lui, un'operazione che oggi qualsiasi cittadino col sospetto di essere stato spiato in quegli anni può fare, negli archivi della Stasi. E' stato così che Zettl ha scoperto la cartolina: dopo 44 anni è arrivata a destinazione. La trasmissione non esiste più, ma la radio sì: l'emittente ha così deciso di dedicargli una trasmissione speciale. 







Saint-Exupèry tradotto in gallurese: «Lu principeddhu» diventa un caso

questa  si è che   diffusione del sardo   non  quella  campidanese  centrico  o  limba  comune     cioè un miscuglio fra le varianti del sardo


 fonte la nuova sardegna  cronaca  gallura  del  13\1\2014


12.1.14

Crescono i contagi fra i giovani, così l'Aids torna a fare paura

Streets of PhiladelphiaBruce Springsteen 

PERCHE'  LO FAI - MARCO MASINI 


non voglio fare  il predicozzo perchè  :  << Credo che non è giusto giudicare la vita degli altri, perché comunque non puoi sapere proprio un cazzo della vita degli altri. Credo che per credere, certi momenti ti serve molta energia.   (...)  [  cit   cinematografica  ]  >> . Ma  purtroppo dagli Usa   ( specie da gli anni 80   importiamo e prendiamo il peggio    e non  il meglio  )  . 

Un minimo di precauzione  ..... . Qui non solo è a rischio la tua  vita , ma  anche   quella degli altri\e . Quindi se  vuoi rovinarti  ..... ma   non rovinare  anche  quella  degli altri\e  .  

da repubblica  online  


Crescono i contagi fra i giovani, così l'Aids torna a fare paura 

Allarme degli esperti: i ragazzi non usano preservativi. Gli adolescenti di oggi non hanno vissuto gli anni dell'emergenza e non vedono i rischi



NEW YORK - Nel paradosso della vittoria si nasconde il rischio della sconfitta, al tempo in cui finalmente la comunità scientifica può dire di aver battuto o comunque messo sotto controllo l'Aids arrivano numeri che raccontano un mondo alla rovescia: i contagiati crescono a ritmi vertiginosi tra i giovani. L'allarme parte dagli Stati Uniti, ma è una tendenza globale, tocca Canada, Australia, Francia, Inghilterra, Olanda e in Cina i ricercatori parlano addirittura "di un'epidemia tra gli studenti". 





Negli Usa la comunità più colpita è quella dei gay sotto i 25 anni che vede il virus in ripresa a ritmi del 22% rispetto alle ultime rilevazioni ufficiali di 12 mesi fa: tra gli afroamericani si arriva a quota 48%. Ma anche i dati sui ragazzi etero preoccupano: "Non ci sono statistiche aggiornate attendibili, ma alcuni studi indicano un aumento addirittura superiore al 20%": spiega John Schneider dell'Università di Chicago e poi aggiunge: "Vedo sempre più spesso adolescenti tra i 13 e i 16 anni contagiati".
Quella in corso è una vera e proprio controrivoluzione sessuale: con il virus ai suoi minimi storici e ormai messo sotto controllo dalle cure farmacologiche, i giovani di oggi sono la prima generazione che cresce senza l'incubo del contagio. Finita l'emergenza, le campagne di prevenzione si attenuano, i fiocchetti rossi non brillano più sui vestiti delle star, molte storiche associazioni devono chiudere per mancanza di fondi. I "millennials", quelli che hanno tra i 18 e i 30 anni, non hanno mai visto un amico morire in un letto d'ospedale dopo mesi di sofferenza, non hanno memoria delle immense coperte colorate con i nomi delle vittime, non hanno pianto guardando il film Philadelphia e dunque non pensano di correre un pericolo tutte le volte che fanno sesso non protetto. Oltre il 20% ammette candidamente di non usare il preservativo, ma nei sondaggi ufficiosi la cifra triplica. Uno su tre, anche tra gli omosessuali adulti, non ha mai fatto un test Hiv e di sicuro non lo ha fatto negli ultimi 12 mesi: "In queste condizioni è come giocare alla roulette russa: mettono senza pensarci in pericolo la loro vita", dice al New York Times Thomas Frieden che dirige il Centers for Disease Control and Prevention, l'ente federale che vigila sulla sanità pubblica. 
Oltre all'ignoranza, pesa anche il cambio di percezione della malattia, vissuta ormai con un disturbo cronico, poco più di un fastidioso raffreddore con cui si può convivere prendendo qualche farmaco: "Molti sono convinti che basta prendere antivirali per non ammalarsi e dunque si credono immuni dal contagio: ma non è così": dice ancora Frieden. Ogni anno ci sono 50mila pazienti e nonostante gli investimenti dell'amministrazione Obama non si riesce ad abbattere quella soglia proprio per i nuovi casi. Così i programmi federali e le Ong si concentrano adesso sui giovani, da New York a Chicago, da San Francisco a Washington nascono applicazioni per gli smartphone e le campagne di pubblicità progresso inondano i social network, i furgoni colorati dei volontari si fermano nel fine settimana davanti a bar e locali notturni: consegnano preservativi e invogliano a fare subito l'esame. Nei campus universitari si lancia "la giornata del test" provando a trasformare l'appuntamento in una sorta di party collettivo, si organizzano spettacoli teatrali e concerti a tema.
"Ma è difficile, il problema è proprio l'educazione sessuale. Da noi si concentra sempre di più solo su astinenza e prevenzione della gravidanza. Quasi nessuno si azzarda a parlare di Aids, figuriamoci di omosessualità" spiega a Usa Today lo psicologo Robert Garafalo. Poi conclude amaro: "Viviamo dentro una contraddizione: mai come ora i nostri ragazzi sono bombardati da messaggi sessuali espliciti, modificano le loro abitudini, hanno rapporti sempre più precoci, cambiano spesso partner e affrontano tutte queste esperienze nella più totale ignoranza".







la storia di Samia Yusuf Omar, quando a morire come un clandestino non è un criminale


canzoni consigliate  Senza catene  di Massimo Bubbola  (  video sotto ) 

Samia Yusuf Omar, somala, partecipa a 17 anni alle Olimpiadi di Pechino 2008. La gara è di velocità, 200 metri da compiere nel più breve tempo possibile. Impiega 32 secondi e 16 primi, record personale, ma ultimo tempo di tutte le batterie. Il pubblico presente allo stadio la applaude, la incoraggia. Samia non è un'atleta professionista ma ha una determinazione da campioni: vuole giungere in Europa e trovare un allenatore per partecipare alle Olimpiadi di Londra 2012. Ma un muro d'acqua, il 2 aprile di quell'anno, la fa annegare a largo di Lampedusa: Samira voleva raggiungere le coste italiane su un barcone di migranti col quale era partita dalla Libia. Le immagini di quella corsa



Ora  lo so  che la storia  di Samia --- foto a  sinistra  --  è vecchia    ma  certe storie non hanno mai tempo   soprattutto  al giorno d'oggi  dove  per  la velocità nelle   informazioni e  e delle news   l'occidente (  ma  anche  no  )  dimentica  in fretta o tende  a generalizzare  ( tutti ladri,spacciatori , assasini,pedofili,fondamentalisti,ecc  ) ma   me ne frego è la racconto lo stesso    soprattutto ora  che  la  sua  vita ( vedere articolo sotto   di repubblica  del 11\1\2014  ) e i suoi sogni sono stati raccolti da Giuseppe Catozzella nel romanzo “Non dirmi che hai paura” appena pubblicato da Feltrinelli  che ne    ripercorre la vicenda dell'atleta somala, dalle strade di Mogadiscio ai Giochi, fino a quell'ultimo fatale viaggio della speranza

Esiste ancora possibilità di romanzo nel nostro tempo? Domanda solita perenne identica che si pronuncia ormai da un secolo. La risposta chiave che annulla la sua ridondanza venne da Goffredo Parise: "Il fatto romanzesco come categoria il romanzo come tecnica - lo ripeto ancor una volta - penso non sia interessante. Quello che è interessante è scrivere un libro che si sente necessario di scrivere".
Non dirmi che hai paura (Feltrinelli, pagg. 240, euro 15) è un libro necessario. Giuseppe Catozzella ha scovato e scritto con l'imperativo della narrazione necessaria questo libro. È una storia che nessuna fantasia avrebbe potuto creare. Una storia che crea vertigine per quanto ci si senta colpevoli a non averla raccontata ovunque fosse possibile. Al tavolo da pranzo, a scuola, in radio, tra amici, a letto prima del sonno o dopo l'amore. È la storia di Samia Yusuf Omar, storia che i giornali di tutto il mondo narrarono ma che poi scomparve nel solito silenzio che segue qualsiasi vicenda consumata tra click e commenti di un'ora. Samia è una ragazza somala nata per correre. Vive a Bondere, quartiere di Mogadiscio, un dedalo di stradine di sabbia e polvere schiacciate fra abitazioni in muratura, lame di acacie, svettare rado di eucalipti. In mezzo alla polvere di quelle straduzze fra piccoli mercati, scuole coraniche, corrono i ragazzini. Anche Samia Yusuf Omar ha cominciato a correre lì. Samia appare nel romanzo quando il talento della corsa la sta rivelando a se stessa e le sue gambe secche e forti le chiedono consapevolezza, leggerezza, ritmo. L'amico Alì ne cronometra il tempo, ne registra i progressi, con strumenti non perfetti, ma con una sensibilità degna del più acuto degli allenatori. La famiglia non ha paura di capire quel talento e la sostiene. Tanto basta perché in Samia metta radici l'ambizione di redimere la fatica, la povertà, l'ostilità, il volto severo del suo paese, il silenzio in cui sono nascoste le donne, la minaccia che quelle stesse gambe secche possano fermarsi. Per niente al mondo si fermerà, la piccola Samia. 


Catozzella dinanzi a questa storia non riesce solo a riportarne traccia. Non vuole solo mettere i piedi nelle orme già pestate. Prende Samia e la accende dentro la sua storia di ragazzina prima e poi di giovane donna. Lo fa dandole voce, immaginandosi la voce che può avere una ragazza che non ha paura di trovarsi da sola con il suo talento e con la sua anima. Non è trucco, non è gioco di prestigio. A volte succede che la realtà sappia dirsi con la semplicità dei pensieri di una fanciulla. Catozzella sembra accordare la voce di Samia alle sfumature di Anna Frank, dei diari di Etty Hillesum. La Samia di Giuseppe Catozzella va a cercare quella trasparenza, quella tonalità cilestrina, quella malinconica tolleranza che solo l'adolescenza visitata dalla speranza e dalla tentazione del futuro sa trovare con naturalezza, con gentilezza. Samia è protetta da una famiglia che riesce a costruire uno spazio di affetto miracoloso intorno a lei mentre la Somalia cede all'integralismo, si insanguina di repressione, e viene lacerata dal terrorismo. Samia non è cieca né ottusamente ottimista: perde il suo più caro amico, vede morire il padre, e lascia partire la sorella per l'Europa ma tutto ciò non sembra spezzare la possibilità di raggiungere una forma di felicità. È il lascito più prezioso della sua famiglia. Che cosa può fare una piccola atleta contro tutto questo? "Tutti si chiedevano come fosse possibile che una ragazzina magra come un'acacia appena piantata e con due gambine che sembravano ramoscelli di ulivo potesse vincere. Il fatto era che vincevo e basta. Ero più veloce degli altri. Almeno, di quelli che mi era capitato di incontrare. Con i mesi, ho capito che la mia specialità erano i duecento metri". Eccola Samia. Concentrata su se stessa. Concentrata sul corpo. Fuori c'è il silenzio, il sole a picco, la morsa del caldo. Dentro il giovane corpo dell'atleta macina il futuro. Un futuro che si alimenta di preghiera, una preghiera laica che si celebra alzando gli occhi sulla foto che tiene sopra il letto. Mo Farah somalo, campione olimpionico e tre volte campione del mondo di mezzo fondo. È lui il dio benigno che accompagna Samia. E riesce da sola senza sponsor, senza allenatori professionisti, senza medici e massaggiatori a qualificarsi alle Olimpiadi di Pechino. Il miracolo di Samia ha inizio. 
A  Pechino si fa appena notare ma conosce l'arena, il campo, il luogo dove ci si batte. Sa che il vero traguardo è Londra, perché è là che Samia avrà gli occhi sereni e appagati. Per averli si allena di notte, si affoga nel burqa, testimone della sua corsa solo il cielo stellato, e quando nascondersi non basta più, quando il suo paese non le offre il vessillo di una identità, quando le donne somale alle quali volentieri avrebbe offerto le sue vittorie sembrano entrate nella notte della loro storia, è allora che Samia entra nella favola epica del suo destino. Il corpo che l'integralismo vorrebbe coperto. Il corpo che non esprime più talento ma solo resistenza, e si asciuga, si consuma, si infiacchisce, si rattrappisce, si lascia violentare, svuotare, sfinire. Samia sa che per vivere deve correre, per correre deve allenarsi, per allenarsi dev'essere libera per riuscire a vivere deve provare ad allenarsi in Europa deve raggiungere l'Europa altrimenti tutto finisce. Sono pagine fra le più potenti quelle in cui si narra il "Viaggio", lo spaventoso viaggio che porta Samia e tutti i migranti del Corno d'Africa su per le vie dei deserti da Addis Abeba verso il Sudan e la Libia, per arrivare infine al mare. Per viaggiare, 72 ore nel cassone di un fuoristrada, i trafficanti chiedono di alleggerire il bagaglio. Nessuno vuole lasciare le proprie cose ma l'alternativa è restare ad Addis Abeba. "Davvero volevo restare ad Addis Abeba? Per quanto tempo? Tutta la vita? Ho aperto la borsa e ho preso la fascia di aabe, la foto di Mo Farah, un qamar e un garbasar, e ho lasciato il resto nell'angolo". Samia si spoglia e si prepara al grande duello. In quei momenti sembra un'eroina omerica. Ma ogni tentativo della mente di trovare dimensioni note per capire quei momenti è destinato a fallire. 
Da quel momento in poi, la spoliazione è una spoliazione che arriva fino alla pelle dell'anima, eppure proprio da quel momento la voce di Samia ci dice che il corpo indebolito esiste appena, anzi che quanto più si infragilisce tanto più forte è il sogno di arrivare, di varcare il mare, di vincere. "Ho trattenuto le lacrime, mordendomi forte le labbra. Ho chiuso gli occhi in mezzo a tutte quelle braccia, spalle, gomiti, e ho pregato aabe e Allah. Che mi facessero trovare la via. La mia via". La via di Samia. Dopo un viaggio come quello non c'è più cerbiatto, non c'è più farfalla, e bisogna ancora attraversare il mare. Cosa sia quel mare, lo sappiamo sin troppo bene - è il mare dei migranti, il mare fatale, ma quando Samia sale sul gommone è ancora il mare del sogno. Com'è finito il viaggio di Samia lo si apprende dalle parole del primo grande atleta somalo Abdi Bile campione del mondo dei 1500 metri a Roma nell'87. Bile celebra il trionfo di Mo Farah alle Olimpiadi di Londra e in quel momento ricorda Samia, morta nelle acque di Lampedusa mentre cercava di raggiungere l'Europa per qualificarsi alle Olimpiadi. 
La storia della giovanissima atleta ha cominciato a girare il mondo e a lasciare tracce. Giuseppe Catozzella è riuscito ad affacciarsi sull'abisso della cronaca senza cedere alla tentazione del patetico. Catozzella ha ascoltato (in Finlandia è riuscito a contattare la sorella di Samia, ad averne la confidenza). Quanto più è vivo il sogno di Samia, quanto più soave è la voce che lo canta, tanto più, come in una visione dall'alto, il destino è visibile, l'ingiustizia incide, il dolore strazia. "Presto nel Viaggio si imparano il silenzio e la preghiera. Presto nel Viaggio si impara a dimenticare il motivo per cui sei lì, e a praticare silenzio e preghiera". Così dice Samia, ma infine il "motivo" torna. Ricominciare a correre, ad allenarsi. A vincere. Ma qui, dopo questo romanzo, la vittoria è il sentimento che non ci riconcilia, che ci lascia stupefatti davanti alla bellezza perduta, al futuro che non arriva.


  



Sulcis, 'invisibili' Rockwool proseguono occupazione in miniera

forse  se  viene  in loro soccorso qualche politicante  nazionale   (  ogni riferimento  è puramente  casuale  )  regionale o italiano o gli  bloccano  l'arrivo degli aerei  o delle navi  allora  i media nazionali ne  parlano



da la nuova sardegna del 11\1\2014 

Sono in 13 e dalla notte tra giovedì e venerdì si sono asserragliati nella galleria Villamarina di Monteponi per chiedere di essere stabilizzati come i 54 colleghi che hanno trovato sistemazione nella società Ati-Ifras dopo l'entrata in mobilità a seguito della chiusura definitiva della fabbrica di lana di roccia. Mobilità scaduta il 31 dicembre



IGLESIAS - Nuova giornata di protesta per gli "invisibili" ex Rockwool di Iglesias, fabbrica di lana di roccia chiusa dal 2010. Si tratta di 13 lavoratori interinali penetrati nella notte tra giovedì 9 e venerdì 10 gennaio nella galleria Villamarina della miniera di piombo e zinco di Monteponi, in Sardegna. Questa mattina il sindaco di Iglesias Emilio Gariazzo ha incontrato gli operai, che chiedono di essere stabilizzati con l'inserimento nei progetti di riqualificazione e al lavoro. Gariazzo ha garantito l'interessamento del Comune affinché venga riallacciata anche l'energia elettrica nella galleria, staccata da ieri mattina. 
"Per lunedì mattina è prevista la riunione del direttivo regionale della Fismic nel piazzale antistante - spiega Giorgio Piras, segretario regionale dell'organizzazione sindacale - poi andremo a Cagliari per incontrare i rappresentanti dei gruppi politici cui sottoporre la nostra vertenza". Dal sindacalista anche un altro appello: "In questa vertenza è necessario che i rappresentanti di tutte le parti sociali si impegnino per aiutarci a trovare una soluzione".
Protagonisti della protesta sono 13 interinali che non hanno trovato collocazione definitiva nella società Ati-Ifras, nella quale hanno trovato invece sistemazione altri 54 lavoratori. In cassa integrazione dal 2010, quando chiuse definitivamente la Rockwool, agli operai è scaduta la mobilità il 31 dicembre. 
Da qui la decisione di occupare la galleria Villamarina
in attesa di una decisione urgente del Consiglio Regionale della Sardegna. In un documento, i lavoratori hanno rivolto un appello alla Regione Sardegna proprio perché si trovi una soluzione alla loro vertenza prima dell'ultimo Consiglio Regionale.
Nel documento i lavoratori ricostruiscono la loro vicenda che li ha visti operare "con continuità nell'ultimo decennio prima della chiusura dello stabilimento di Iglesias". "Nel 2010 i lavoratori sono stati collocati in mobilità con accordo istituzionale del 6 ottobre 2009 e inseriti nella linea di intervento 2 della Regione Sardegna il cui obiettivo è favorirne la riqualificazione e reinserimento lavorativo. Ma a tutt'oggi - scrivono - tutti i provvedimenti in materia di riqualificazione e ricollocamento sono rimasti sulla carta e non attuati".
Da qui la decisione di occupare la galleria che negli ultimi 14 anni è stata teatro di numerose proteste per il lavoro. Dal 2000 al 2001, la galleria Villamarina ha "ospitato" per un anno l'occupazione portata avanti dall'allora consigliere regionale dei Ds Giampiero Pinna per sollecitare l'istituzione del Parco Geominerario della Sardegna. Nel 2011 e 2012 è stata la volta dei lavoratori cassintegrati (diretti) sempre della Rockwool, che proprio nel dicembre del 2012 avevano trascorso anche il Natale in galleria. Nel 2013, invece, è stata la volta dei lavoratori Igea che si sono asserragliati nella stessa galleria per sollecitare interventi della Regione in favore dell'azienda.
Ieri, a portare solidarietà ai lavoratori sono arrivati anche il presidente del Consiglio comunale di Iglesias, Mauro Usai, e dei consiglieri regionali Pietro Cocco e Tarcisio Agus che sulla vicenda hanno presentato un'interrogazione al presidente della Regione Ugo Cappellacci e all'assessore del Lavoro Mariano Contu. 

11.1.14

morti da crisi economica Folgorato mentre ruba cavi di rame sul lungomare, un morto a Porto Torres

 In questo ost intendo sfatare un luogo comune    cioè che  a rubare il rame   sono solo i rom \  zingari  o rumeni   . A causa   di questa crisi  , adesso sono anche  gli italiani  a procurarsi da vivere   rubando il rame  e  a morire per  questo   come il fatto  di cronaca di qualche giorno fa 
dalla  nuova sardegna   edizione  regionale  ed  edizione di Sassari  


PORTO TORRES. È morto sul colpo, folgorato da una scarica elettrica che lo ha investito mentre stava rubando dei cavi di rame. deceduto così, sul lungomare di Balai a Porto Torres (Sassari), 

poco prima di mezzanotte, Roberto Sechi, di 45 anni, un disoccupato nato ad Aqui Terme, in Piemonte, ma residente a Porto Torres.L'uomo, insieme a un complice,, stava cercando di rubare dei cavi di rame da un palo dell'illuminazione quando è stato investito da scarica elettrica a 380 volt.Roberto Sechi  è morto sul colpo. Sul posto sono intervenuti i carabinieri, i vigili del fuoco e un'equipe del 118, ma per il disoccupato non c'è stato niente da fare.





«Gesto disperato, Roberto ha sbagliato»
la tragedia di porto torres
Abbiamo cominciato bene l’anno, viene da chiedersi: chi sarà il prossimo?


di Gianni Bazzoni 
SASSARI Nella pista ciclabile dove l’altra notte è morto folgorato Roberto Sechi, il disoccupato di Porto Torres di 45 anni, ci sono le transenne del Comune. Il sindaco ha emanato l’ordinanza che stabilisce la chiusura dalle 17 alle 8 del mattino seguente. Un provvedimento adottato per ragioni di sicurezza, almeno fino a quando non saranno completati i lavori per il ripristino della linea elettrica. La gente passa e guarda, niente fiori. C’è chi si ferma, chi si fa il segno della croce. Vicino al pozzetto dove la vittima ha perso la vita mentre cercava di tagliare i cavi con una pinza - tra lo Scoglio Ricco e la Grotta dell’Inferno, nel litorale di Balai - ci sono i segni per terra che indicano i rilievi dei carabinieri. Tratti con il gesso bianco, sul muretto il giubbotto azzurro è ancora lì. Dall’altra parte della città, nel quartiere Satellite, zona popolare dove è cresciuto Roberto Sechi, ieri sono comparsi due striscioni bianchi con scritte effettuate con bombolette spray che aprono un fronte di riflessione al quale è difficile sottrarsi. «L’alternativa al lavoro? E’ quella che ha trovato Roberto». E poi: 




«Il 2014 è arrivato. Tanti auguri, abbiamo iniziato bene. Chi sarà il prossimo?». La firma è quella di un quartiere intero, sintetizzata in «Villaggio disperato». La morte di Roberto Sechi apre un fronte polemico e quello che emerge è chiaro: la morte di un ragazzo senza lavoro, che commette un errore - e anche un reato, perchè rubare cavi elettrici della linea pubblica lo è - non può essere slegata dal contesto generale di una città in crisi. Disoccupazione, non solo giovanile, ma di massa, con intere famiglie senza reddito e disperazione dilagante, difficoltà per tirare avanti la giornata (altro che arrivare a fine mese), sono questi i temi attuali. Insomma, la tragedia di Balai è un campanello d’allarme, e nasce da un momento di

debolezza, dallo sbandamento di un ragazzo non certo fortunato che ha creduto di poter tamponare una situazione sempre più complicata e senza uscita seguendo il richiamo del mercato clandestino del rame. Dove è facile ricavare qualche centinaio di euro tagliando e tirando cavi. Ora si sa che non è un gioco. Che chi lo fa rischia la vita, anzi la può perdere. Illegalità e disperazione spesso vanno di pari passo, ma la protesta silenziosa che rimbalza dal Villaggio Satellite, il grande quartiere popolare di Porto Torres non ha certo l’obiettivo di creare eroi o di utilizzare la morte di un ragazzo per altri fini. «Sai cosa ti dico? Che a pancia piena sono tutti dei grandi filosofi e moralisti – dice con rabbia Francesco – che vengano qui a parlare con la gente. Porto Torres è in ginocchio, attraversa il momento più difficile, nessuno va a rubare per scelta, ma qualche volta per necessità succede. E non c’è bisogno che tutti indossino la toga per giudicare». Sotto gli striscioni c’è anche chi attacca con durezza: «Se Roberto si impiccava di cosa avrebbero parlato? Cosa avrebbero detto?». Rabbia e silenzio, ma anche voglia di reagire. L’inchiesta sull'incidente è chiusa, i carabinieri hanno completato il loro lavoro. I funerali di Roberto Sechi si svolgeranno domani pomeriggio nella parrocchia dello Spirito Santo. Ci sarà tutto il quartiere. 



Clematide in fiore in pieno inverno

molti mi chiedono  di mettere foto della mia attività  eccone   alcune prese dal blog  di mio padre http://costasmeraldagarden.blogspot.it/ il quale  si  prefigge lo scopo  di promuovere,diffondere , discutere le problematiche del verde pubblico e privato in Gallura ed in Sardegna.Ma  alo stesso tempo  di uscire   dal localismo  . Infatti : <<  Questo ambito oggi mi appare troppo ristretto. La mia tesi iniziale era che la Sardegna è un giardino Sardinia is a garden , questo è vero ove il paesaggio della Sardegna non è stato irrimediabilmente alterato, ma i giardini fatti dall'uomo non sono quasi mai il giardino di Sardegna. >>  Nel rispetto   della biodiversità : <<  Non lo sono i grandi prati artificiali nè l'uso di piante esotiche solo per rendere lussuoso e pretenzioso il giardino. No può esserlo il tanto decantato giardino berlusconiano in cui esibire ricchezza è l'anima del progetto e le piante sono lì a questo scopo,come le Audi o le BMW dei ministri o la cartapesta nella scenografia di regime.Il giardino di Sardegna ho cercato di rappresentarlo con le foto dei paesaggi dell'interno o delle coste ancora intatte, come  ad esempio  con le rocce e le torri di pietra nel post  http://tinyurl.com/nn5hqrr . La creazione di spazi verdi artificiali non dovrebbe prescindere da questa autentica scenografia in cui l'intervento umano poco ha alterato.>>  Prende  , sempre  nel manifestro del  suo blog  , Un altro aspetto da prendere in considerazione è la tecnica culturale. Molti arrivano a questo blog per sapere come potare una pianta, quanto e come irrigarla e quindi anche molto sommariamente ci vorranno delle indicazioni o anche dei link a siti specialistici.


da  il suo blog  

                          Clematide in fiore in pieno inverno






Cresce arrampicata sui cespugli sul bordo della strada che conduce al mare. In gennaio, incurante del maestrale che spesso la flagella.



l'eredità del berlusconismo è quella della milano da bere e del rampanti \ boiardi di stato cioè i socialisti di craxi [ parte 2 ]

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 http://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2014/01/leredita-del-berlusconismo-e-quiello.html



Uno Sponsor per non Interrompere il Sogno dei Bambini Diversamente Abili




da https://www.facebook.com/notes/rita-scopece/


riporto questo appello 11 gennaio 2014 alle ore 19.23



Un bambino con una disabilità fisica spesso ha lo stesso desiderio per lo sport come un bambino non disabile. La maggior parte dei bambini con handicap fisici pensano a se stessi come diversamente abili anziché disabilitati 

L'ASH TARANTO,si basa solo sui contributi dei privati e sponsor.In questo momento sono in serie difficoltà.Il loro Sponsor si è ritirato, e non hanno fondi per continuare l'attività sportiva per questi bambini.
Oggi il sogno di tanti ragazzi potrebbe non continuare.Sono in cerca di  uno sponsor o persone disponibili senza impegno ad una piccola donazione.La palestra che hanno preso in affitto da un privato (visto che il Comune è la Regione si sono rifiutati giustificandosi che non ci sono soldi disponibili) costa 500 euro mensili,per un solo allenamento settimanale.
Se volete contribuire, anche organizzando un evento nella vostra città, farete felice un bambino anche solo per permettergli di giocare una partita in più, quella  della loro vita.

Il sito dell'Associazione è:

http://www.ashtaranto.it

Se volete contattare il Presidente Aniello Diana per avere ulteriori informazioni,scrivete a questo indirizzo:

ashtaranto@libero.it 

Se volete contattare me, Rita Scopece:

 ritascopece@hotmail.it   o tramite fb.

l'eredità del berlusconismo è quella della milano da bere parte 1

canzone     consigliata  Cosa resterà degli anni '80 - Raf

Come da titolo , infatti , non sono completamente d'accordo  sulle conclusioni finali di questo interessantissimo e  notevole   documentario  


cioè sulla decadenza degli yuppies ( almeno dal punto di vista culturale ) , in quanto essi hanno e continuano in forza italia vedi i casi di corona e lele mora ed i relativi scandali . ottimo almeno per me che sono della generazione del '76 comunque documentario su riflusso e l'endonismo 



Evoi cari amici\che siete di un altra generazione e lo avete vissuto in pieno e meglio di me cosa ne pensate ?

Alfred Hitchcock: restaurato il suo documentario inedito sulla Shoah





LONDRA – Nel 1945 Hitchcock partecipò alla realizzazione di un documentario sugli orrori dell’Olocausto utilizzando filmati originali dell’esercito, alcuni dei quali girati dai militari inglesi e sovietici all’apertura dei cancelli del campo di concentramento di Bergen-Belsen. La pellicola, mai mostrata al pubblico (se non in versioni incomplete e di scarsa qualità), sarà interamente restaurata entro la fine dell’anno per essere poi proiettata – a riferirlo è l’Independent – ai festival e nei cinema e, soprattutto, trasmessa dalla televisione inglese all’inizio del 2015 per commemorare i 70 anni dalla liberazione dell’Europa dal nazismo. Per l’occasione verrà prodotto anche un altro documentario (“Night Will Fall”) diretto daAndré Singer (produttore esecutivo di “The Act of Killing”) con la collaborazione di Stephen Frears.All’epoca il film “fu occultato a causa del cambiamento della situazione politica, soprattutto per il Regno Unito”, ha spiegato Toby Haggith, responsabile del Dipartimento di Ricerca dell’Imperial War Museum di Londra e curatore, tra gli altri, del restauro. “Quando scoprirono i campi di concentramento gli americani e gli inglesi
decisero di realizzare velocemente un documentario che mostrasse quei luoghi e che costringesse i tedeschi ad accettare la loro responsabilità per le atrocità commesse”. Poi in realtà la lavorazione durò più del previsto e alla fine del ‘45 il governo militare delle forze alleate decise che infierire sulla colpa della Germania non avrebbe aiutato il processo di ricostruzione del dopoguerra. Il progetto fu quindi presto dimenticato e cinque delle sei bobine furono depositate all’Imperial War Museum, dove furono rinvenute più di trent’anni dopo da uno studioso americano (che le ripescò da un bidone arrugginito). Il documentario fu allora intitolato “Memory of the Camps” e proiettato al Festival di Berlino nel 1984 e poi trasmesso dalla PBS l’anno successivo.Solo oggi però ci si è decisi a intraprendere un’attenta opera di restauro e montaggio utilizzando la tecnologia digitale e recuperando anche il materiale della sesta bobina affinché il film assuma la fisionomia originariamente concepita da Hitchcock (anche se non si conosce il ruolo assunto dal grande regista durante la lavorazione, secondo gli esperti è evidente che furono seguite le sue idee per la costruzione del film). Il documentario sarà mostrato al pubblico con un nuovo titolo che per ora Haggith non vuole rivelare.Quel che è certo, invece, è che “Memory of the Camps” fu l’unico lavoro che non permise a Hitchcock di  esorcizzare sullo schermo le sue paure. Il materiale girato, in quel caso, era la realtà e pare che quando il maestro del brivido vide per la prima volta le riprese della liberazione del campo di Bergen-Belsen rimase così traumatizzato che non volle mettere più piede negli studi per una settimana.All’epoca peraltro non era chiaro che cosa fosse accaduto esattamente, le riprese non costituivano ancora una fonte storica e questo naturalmente influenzò l’approccio del regista, tanto che Toby Haggith ha definito il film “molto più candido” di qualsiasi altro documentario sull’Olocausto. Perché si ha la sensazione che gli stessi cameramen dell’esercito abbiano tentato di opporre all’orrore e alla disperazione un po’ di speranza, alternando scene di morte a immagini che mostrano i prigionieri mentre si fanno la doccia e lavano i loro vestiti. Per poi mostrare i tedeschi che, mentre aiutano a seppellire i cadaveri, cominciano a confrontarsi con l’enormità del crimine commesso nel nome del loro popolo.
(G.Bo.)
→ Guarda “Memory of the Camps” (versione non restaurata)

distruggere i tumori da amianto Importante scoperta di un team di ricercatori campani che in due diversi studi hanno testato l’efficacia di nuove terapie molecolari per combattere il mesotelioma cioè i tumori dell'ammianto

questa   è ricerca  scientifica   altro che il metodo stamina ( almeno per il momento  )   da  http://www.campaniasuweb.it  del  9\1\2014  



questa   è ricerca  scientifica   altro che il metodo stamina ( almeno per il momento  )





Si chiama Rita ed è stata progettata per distruggere i tumori da amianto
Importante scoperta di un team di ricercatori campani che in due diversi studi hanno testato l’efficacia di nuove terapie molecolari per combattere il mesotelioma. Le terapie potrebbero essere velocemente applicate a livello clinico






IL MESOTELIOMA – Si tratta un tumore molto aggressivo, spesso diagnosticato tardivamente e con una sopravvivenza media inferiore a due anni. La quasi totalità dei casi attualmente rilevati del cancro si riferisce a mesotelioma pleurico ed è correlata all’esposizione alle fibre aerodisperse dell’amianto, con una latenza temporale particolarmente elevata (15-45 anni) e un decorso di 1-2 anni.
PRIMO STUDIO – Nel primo, pubblicato sulla rivista Cell Cycle, hanno verificato l’effetto di nuovi agenti antitumorali su cellule di mesotelioma. «Abbiamo utilizzato dei farmaci ideati per riattivare la proteina p53 - spiega Francesca Pentimalli, coordinatrice dello studio - uno dei più importanti “oncosoppressori”, che viene disattivato nella maggior parte dei tumori. Nel mesotelioma la p53 è inattivata da alterazioni nel suo percorso. Tra i due farmaci usati per bersagliare la proteina p53 con diversi meccanismi d’azione, uno in particolare, Rita, si è rivelato molto tossico solo per le cellule tumorali, inducendone la morte programmata». Il trattamento con questo farmaco ha funzionato associato al cisplatino, un chemioterapico.
SECONDO STUDIO – Nel secondo lavoro, pubblicato su Cancer biology and therapy, è stato testato per la prima volta nel mesotelioma un nuovo farmaco, l’MK-1775, un inibitore della proteina WEE1, in combinazione con il cisplatino. L’MK-1775 – spiega Giordano – è già in fase di sperimentazione clinica per altri tipi di tumori negli Usa».





10.1.14

meglio essere impulsivi o spaventati ?

io  sono troppo il primo  devo  cercare una  via  di mezzo


Vende il ristorante per pagare le cure alla cameriera 19enne malata di cancro

unione  sarda  10\1\2014

  sia  che  ci sia del tenero  fra i due  sia  che non ci sia in quanto   lui è felicemente sposato, e la moglie lo sostiene in questo . Mi. chiedo che importanza ha se hanno o no una relazione  ? Questo non lo obbligherebbe a vendersi l'attività..... Se ha fatto questa scelta vuol dire che ha valutato e capito quali sono per lui le priorità!!!!! Grande!!!!!

Una storia che commuove l'America: una giovane cameriera scopre di essere malata di cancro e il suo datore di lavoro decide di vendere il ristorante per pagarle le cure.
Protagonista della storia Michael De Beyer, ristoratore di Montgomery, in Texas. L'uomo, da 17 anni proprietario del Kaiserhof Restaurant and Wunderbar, un locale di specialità tedesche, ha deciso di metterlo sul mercato per aiutare la sua dipendente Brittany Mathis. La ragazza, che lavora nel ristorante
                                                                    Michael De Beyer e Brittany Mathis

con la madre, ha solo 19 anni, e il mese scorso ha scoperto di avere un tumore al cervello, la stessa terribile malattia che nel 2000 ha ucciso suo padre John a soli 33 anni. Secondo quanto riportato dai media statunitensi, che hanno preso molto a cuore la vicenda, il locale vale circa due milioni di dollari. Ma De Beyer sarebbe disposto anche a venderlo per un prezzo minore pur di portare a termine velocemente l'operazione e riuscire a pagare le cure di Brittany prima che sia troppo tardi. La giovane infatti non ha un'assicurazione sanitaria e non può permettersi di pagare le spese. Una condizione in cui si trovano molti giovani lavoratori negli Stati Uniti. Tutto è iniziato nel mese di dicembre, quando la diciannovenne ha scoperto di avere una sporgenza sulla gamba sinistra, e si è recata in ospedale: i medici le hanno detto che si trattava di un coagulo di sangue anomalo e l'hanno sottoposta ad una serie di accertamenti dai quali hanno scoperto il tumore, grande quanto una pallina da ping pong. "Non sarei mai riuscito a rimanere qui seduto senza far niente - ha raccontato il ristoratore - E non avrei mai potuto continuare a guadagnare soldi mentre lei aveva bisogno di aiuto". De Beyer ha spiegato che quando avrà venduto il locale avrà più tempo da trascorrere con la moglie e i figli. Ancora incredula della generosità mostrata dal suo datore di lavoro è proprio Brittany, la quale ha definito una "benedizione" il gesto dell'uomo. "Non potrò mai ringraziare abbastanza lui e la sua famiglia - ha aggiunto la giovane - Non ho mai creduto che esistesse qualcuno in grado di fare una cosa del genere, e invece è successo. Tutto ciò mi fa sentire davvero felice". Nonostante la terribile malattia.

Il latitante buono e la grazia del Presidente

il film  visto  ieri sera  



mi ha  ricordato la storia   che  leggerete sotto  quella de Il latitante buono e la grazia del Presidente

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Sessantuno anni, di cui 29 in latitanza. Passati a fare il pastore, come sempre aveva fatto. Questa l’incredibile storia di Chircheddu Calvisi, il “latitante buono”, e di quella sera di giugno del 1990 quando tornò a casa, dopo la grazia ricevuta dal presidente Cossiga. Un’emozione grande per una comunità intera suggellata dalle lacrime trattenute a stento del vecchio padre Arcangelo, della amatissima moglie Caterina, che mai si era arresa di fronte all’incredibile odissea giudiziaria, fatta di condanne, assoluzioni, processi clamorosamente riaperti (solo per la terza volta nel dopoguerra, si applicò l’articolo 554 che permetteva la revisione di una sentenza già passata in giudicato), e un paese, Bitti, che, nonostante la condanna per l’omicidio di Andrea Oronesu, aveva invece firmato convinto la sua assoluzione
Un paese dove Calvisi tornava ogni tanto, a vedere la primogenita, Lucia Angela, diventata medico. E il secondo figlio, nato poco dopo la fuga in montagna in quella gelida notte del 1957, Diego, pastore come lui. Disse in quei giorni il maresciallo Romundo, il sottufficiale che per vent’anni gli ha dato la caccia: «Sapevamo bene che Calvisi spesso veniva in paese. Noi cercavamo di incastrarlo. Ma era molto astuto. Evitava trappole e tranelli». Ma molti pensano che invece di incastrarlo non cercassero proprio. Perché Chircheddu era un “bandito” di quelli che non esistono più. Uno che si era dato alla latitanza per dimostrare il suo malessere contro un’accusa che riteneva ingiusta. Che prima di fuggire aveva giurato alla moglie «tornerò pulito». E che in latitanza mai aveva avuto a che fare con banditi, sequestri, atti di delinquenza di qualsiasi tipo. «Lavoravo, quando potevo – raccontò – facendo il pastore, magari sotto falso nome. Pensavo, tanto. E soffrivo. Ma non mi sono mai interessati i banditi, la vendetta. Non è cosa per me». Fu festa grande quelle sera a Bitti. Chircheddu era tornato. Graziato, caso unico, in latitanza dal “suo” Cossiga. Ultimo bandito buono di un mondo che non esiste ne esisterà mai più.

odio non rete non serve la censura serve piuttosto l'etica e non violenza , leggi ,impegno

da  repuubblica   del  9\1\2014  un interessante  articolo  

Leggi, etica, impegno  "E la censura non serve"
Inchiesta intorno agli ultimi insulti comparsi su internet, a caccia di rimedi. Dire che l'odio nasce dal web è ridicolo. Ma il grido "nessuno tocchi la Rete" non porta da nessuna parte
di CARMINE SAVIANO


                                                       Caterina Simonsen (ansa)



L'urgenza è parlarne. Analizzare, confrontarsi, elaborare ipotesi operative. Perché il caso dei macabri commenti online indirizzati a Caterina Simonsen,Pierluigi Bersani prima, e ad Angela Merkel poi, entra nel dibattito sull'esercizio pubblico della comunicazione. E coinvolge il mondo del giornalismo. Tout court, non solo nella sua versione digitale. Di più: lo chiama ad un impegno sul legame futuro tra giornali, social media e lettori. Moderazione delle inconsulte esplosioni di rabbia, ruolo delle redazioni e delle testate, tutela della libertà d'espressione e condanna, netta, di ogni istigazione alla violenza.
I temi sul tavolo sono tanti. Ritornano ciclicamente e sono infiammabili. Basta pensare alle recenti polemiche che, sul caso Bersani, hanno coinvolto numerose testate d'informazione. Tra cui anche Repubblica.it. Dove esiste una squadra di moderatori che segue i commenti che appaiono in calce agli articoli. Una policy precisa: nessuna offesa, nessuna forma di violenza verbale è permessa. Qui, invece, le linee-guida del Guardian. Più difficile, se non impossibile, il controllo sulle pagine Facebook, in cui il social network continua ad essere estremamente carente.
In questi giorni sono state numerose le proposte formulate dagli addetti ai lavori. Iniziamo qui ricordando quelle che Vittorio Zambardino ha affidato a Wired. Sei punti. Sei tracce per iniziare a sondare il territorio, a "definire il problema". Si parte dai postulati. Tra cui: il bando al giornalismo delle emozioni, la dismissione dell'interminabile "guerricciola di religione intitolata Odio sul web" e la fine dell'integralismo "del Nessuno Tocchi La Rete che di digitale, cioè della flessibilità e della disponibilità a comprendere il nuovo che è propria della cultura scientifica, non ha assolutamente nulla".Poi la proposta. Il cui primo punto è l'analisi delle "leggi degli altri". Ovvero: "come il problema viene definito da altri paesi: analisi delle loro legislazioni, delle pratiche giudiziarie, della giurisprudenza". Il secondo punto riguarda i "diritti da non violare". Perché bisogna conoscere "cosa si è scritto nel campo dei diritti digitali, una corrente di pensiero che nel mondo non è che sia proprio a zero". Consigli per approfondire: Stefano Rodotà e il lavoro del gruppo coordinato da Andrea Rossetti all'università Bicocca di Milano.
Terzo passo, lo "stato dell'arte in Italia". Qui si tratta di formulare la domanda sulle "pratiche giurisprudenziali e lo stato (anche culturale) di chi si trova a giudicare di questi fatti". Il quarto punto riguarda "l'analisi delle policy dei social network e l'interazione tra questi e le autorità governative, qui, in Italia e altrove". Poi la raccolta del parere "delle polizie e dei giudici". Perché "bisogna sentire cosa ne pensano le agenzie di enforcement e coloro che stanno nei tribunali e nelle procure: che parlino allo scoperto una volta tanto, invece di fare il loro lobbying con parlamentari e istituzioni, con i singoli giornalisti e i direttori". Infine "ci vuole un punto di coordinamento e circolazione di questo lavoro. Di solito è ciò che fa un giornale, che, certo, può organizzare un convegno ma poi contano le cose scritte, le cose che vanno al grande pubblico".
Sul versante "etica dell'utente", arriva l'idea di Luca Bottura. Che in post intitolato "Una cosa civile" - pubblicato sul suo sito - rivolge un invito. Andare sulla pagine che raccolgono i commenti al malore di Bersani, "scegliere un tizio - ne basta uno - che esulta e gli augura la morte. Poi, se vi va, gli scrivete, in posta privata, per evitare flame, una cosa del tipo: credo che lei abbia scritto una cosa davvero incivile. Capita, sui social, di andare oltre. Siamo tutti fallibili. La cancelli, ci fa una figura migliore. Cordiali saluti. Poi guardate l'effetto che fa. Una (risposta) garbata li seppellirà. Forse".
Le cause di queste cicliche esplosioni di violenza? "E' ridicolo pensare che sia colpa della rete. Online metto per iscritto le mie conversazioni. Sono cose che già dico al bar, per strada, nei corridoi. Il punto è che esiste un'aggressività diffusa legata alla crisi, al sentimento anti-casta. Internet è solo uno specchio di quello che c'è già", dice a Repubblica.it Giovanna Cosenza, professoressa di Comunicazione Politica a Bologna. "E non collegherei il problema della violenza verbale all'anonimato: chi offende è una persona con nome e cognome. Ingenua - perché rintracciabile - oltre che stupida. Il tema è l'assenza del faccia a faccia, una comunicazione a distanza che non diventa conversazione. Non ci si guarda negli occhi, non è presente il corpo dell'altro".
Poi l'avvertimento: "Non bisogna dimenticare che l'aggressività dipende anche dalle modalità con cui comunico. E la si può prevenire, in parte, con lo stile attraverso cui ci si pone. Abbassare i toni, e i politici potrebbero dare l'esempio, di certo aiuta. La comunicazione va gestita". E la soluzione - una strada verso la soluzione del problema - è nella società: diffondere un'etica della comunicazione utilizzando tutte le agenzie culturali di cui si dispone, dalla scuola ai partiti. Senza dimenticare, ancora, che "è folle incolpare internet: basta pensare che le radici mediatiche di questo fenomeno risalgono a vent'anni fa, alle prime fasi del talk show".
Su anonimato e politiche giornalistiche sulla moderazione dei commenti,interviene, su Wired, anche Fabio Chiusi. "Si può decidere di far sparire al più presto possibile i commenti di odio con politiche di moderazione molto severe, o addirittura eliminando la possibilità di commentare. Ma è arduo se non impossibile sostenere che così facendo si elimina il problema. Ammesso che lo sia". Perché si tratta di comprendere "che vietando l'idiozia non la si combatte, ma rende affascinante. E, soprattutto, la si nasconde". Il punto è capire che "i social media hanno questo enorme pregio di metterci di fronte all'imbecillità umana come al suo genio, di datizzare e mettere per iscritto entrambi, così che siano fruibili oggi e forse sempre. Un'opportunità inedita per capire noi stessi (non ipotetici avatar del virtuale) e la società in cui viviamo, più che per indignarci per avere finalmente realizzato quanto poco ci piaccia".
Da ricordare, infine, le parole di Arianna Ciccone, fondatrice del Festival del Giornalismo di Perugia. Che il 5 gennaio, poche ore dopo il malore di Bersani, scriveva su Valigia Blu, il blog collettivo sul "giornalismo che cambia":"Non si capisce questa pretesa di "bello" per la dimensione digitale. Siamo brutti, bruttissimi, cattivi, meschini, vigliacchi. In Rete c'è l'Umanità, la nostra umanità. Siamo tanti e la nostra bruttezza così messa in scena tutta insieme contemporaneamente spaventa, certamente. Quello che fa forse più tenerezza è la mancanza di senso estetico. Ecco: l'odio esige un certo stile. Tutto qui".

Rudolf Raftl, il portiere che rimase senza patria


La sera dell’11 marzo del ’38  sono andato a dormire ed ero austriaco. Quando mi sono svegliato avevano fatto di me un tedesco. Anschluß. L’annessione di Hitler. Ero andato ai Mondiali del ’34 in Italia come portiere dell’Austria, quella mattina in cui mi svegliai senza patria mancavano tre mesi ai Il Wunderteam era Bican, Josef Bican, attaccante, l’uomo che ha segnato due gol più di Pelé. Li ha contati la rivista argentina El Gràfico, escludendo quelli delle amichevoli. Bican 759, Pelé 757. Da bambino giocava senza scarpe, per questo era diventato così bravo. Una volta sua madre invase il campo e picchiò con un ombrello l’avversario che gli aveva fatto fallo. Finì a giocare per la
Cecoslovacchia. Il Wunderteam era stato Hiden, Rudi Hiden, portiere. Il mio modello. Respingeva con i pugni e andava incontro agli attaccanti urlando, aveva fatto il fornaio. Poi giocò per la Francia. Il Wunderteam era Sindelar, Matthias Sindelar, attaccante. Che dico attaccante, fuoriclasse. Magro da fare spavento, trasparente, lo chiamavamo cartavelina. Anche per la sua eleganza, oltre che per la leggerezza. Non giocò mai per altri, neppure per la Germania che nel ’38 voleva imporglielo. Io per la Germania giocai. Hitler fece tenere un referendum il 10 aprile del ’38 per ratificare l’annessione, sette giorni prima a Vienna avevano organizzato la Anschlußspiele, la partita dell’annessione. Austria contro Germania, dopo saremmo stati convocati dall’altra parte. Un clima festoso, almeno in apparenza. Vennero in 60 mila al Prater per dire addio alla nostra squadra, ci era stato concesso di salutare per l’ultima volta il pubblico. Il nostro ct, Hugo Meisl, era morto 13 mesi prima. In campo ci guidava Sindelar, capitano. Un artista della finta, così lo chiamava Vittorio Pozzo, allenatore dell’Italia e giornalista. Rimasi a guardare, in porta andò Peter Platzer, del quale ero stato riserva già ai Mondiali. Platzer, Sesta, Schmaus; Wagner, Mock, Skoumal; Hahnemann, Stroh, Sindelar, Binder, Pesser. Questa fu l’ultima Austria, questo fu l’ultimo Wunderteam. Sindelar volle che rinunciassimo alla nostra solita maglia bianca, disse Oggi la mettiamo rossa. Non aveva simpatie per i nazisti. Tenne il braccio basso mentre noi lo alzavamo per il saluto a centrocampo, poi fu il padrone della partita. Scartava mezza Germania e davanti alla porta la buttava fuori. Si disse che fu la sua protesta. Fino al 62′, quando preferì ribellarsi facendo gol. Nove minuti dopo Sesta segnò il 2-0, Sindelar andò a esultare sotto la tribuna dei burocrati e dei militari tedeschi. Qualcuno vide un pugno chiuso. Nove mesi dopo, a 36 anni, lo trovarono morto in casa con la sua compagna italiana. Un incidente, dissero, chiudendo il caso in grande fretta. Diedero la colpa al cattivo funzionamento di un caminetto. Un dolore e un grande mistero. Il 5 giugno del ’38, lo stade de Gerland a Lione rimase chiuso. Si sarebbe dovuta giocare lì una delle partite del primo turno dei Mondiali del ’38. Svezia contro Austria. Ma l’Austria non c’era più. Partita cancellata. Passò la Svezia. Nove di noi erano stati convocati dalla nazionale tedesca: 

Hahnemann, Mock, Neumer, Pesser, Schmaus, Skoumal, Stroh, Wagner e io. Sepp Herberger, lo stesso ct che nel ’54 avrebbe poi portato la Germania al titolo mondiale, mi schierò da titolare contro la Svizzera al Parco dei Principi. Il capitano era Mock, di Vienna, come me. Ma in Austria eravamo stati rivali: lui dell’Austria, io del Rapid. Finì 1-1, cinque giorni dopo la ripetemmo. Mock però rimase in panchina, la fascia da capitano finì sul braccio di Fritz Szepan. A molti non parve una scelta casuale. Szepan era di Gelsenkirchen, in Westfalia. Quando dopo l’Anschluß ci eravamo allenati per la prima volta insieme, austriaci e tedeschi, lui aveva reagito male a un’esibizione di palleggi messa in scena da Stroh a centrocampo. Noi di Vienna avevamo applaudito tutti, lui provò a ripetere lo stesso numero e alla fine calciò il pallone addosso a Stroh, chiudendo tutto con un insulto. E Herberger adesso gli dava la fascia da capitano. Perdemmo 4-2, ci davano favoriti per quel Mondiale, invece tornammo subito a casa. Senza sapere, molti di noi, quale luogo dovessimo chiamare casa. Heimat.Peter Platzer, durante la guerra, andò due volte a bussare alla porta di Silvio Piola con la divisa da ufficiale addosso, ma solo per abbracciarlo. Quanto a me, nel ’41 con il Rapid Vienna ho battuto lo Schalke 04 degli anni d’oro nella finale per il titolo. Recuperammo tre gol e vincemmo 4-3, parai di tutto. Gli unici di Vienna a essere stati campioni di Germania.Rudolf Raftl è morto nel settembre del 1994. Da austriaco.(Come per tutta la serie, i pensieri e le parole attribuite a Rudolf Raftl sono rielaborazioni di fantasia, ricostruite su fonti storiche e liberamente ispirate a fatti realmente accaduti)


Mondiali di Francia, per i quali eravamo già qualificati. Cosa sarebbe stato di me, Rudolf Raftl, di noi cittadini austriaci e del nostro Wunderteam famoso in tutto il mondo?
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