storia dedicata a chi vede il coming out solo come un gesto esibizionistico per mettersi in mostra , ignorando o non sapendo che molto spesso dietro tale gesto si nasconde una liberazione da sensi di colpa e sofferenze come la storia che propongo oggi
«Non parlare con me. Se parli con me la gente penserà che sono frocio». Questa
è stata una delle frasi che, quando ero adolescente, mi sono sentito
dire più volte in classe, nei corridoi, nei bagni della mia scuola. A
volte ciò succedeva di fronte gli insegnanti stessi, che si limitavano a
invitare al silenzio. A volte imbarazzati, incapaci di reagire e di
dire l’unica cosa possibile. Ciò mi umiliava due volte, come essere umano e come studente. E la mia vita è andava avanti così per diversi anni, fino a quando le cose si sono normalizzate. Ho fatto coming out e quel corredo di insulti e di parole acuminate si è dissolto nel nulla.
La gente ha paura delle cose che addita come sbagliate e quando queste
si palesano con un volto, un nome e il coraggio di dire «sì, è così. E
allora?» certe persone scappano via. Come sempre succede ai codardi. Ma questa è, appunto, una storia vecchia. Almeno per quello che mi riguarda.
Qualche
anno fa insegnavo in una scuola di un quartiere popolare di Roma, fuori
raccordo. Una scuola ritenuta difficile. Moltissimi migranti, bambini/e
i cui genitori si alzano alle quattro e tornano a casa col buio.
Persone umili e oneste, ma a causa delle condizioni
di lavoro a cui sono sottoposti, spesso assenti. Quei bambini e quelle
bambine, in non pochi casi, sono lasciati a loro stessi e lo vedi dai
loro volti, dal loro sguardo, quanta rabbia può fare vivere in un mondo
che ti descrive come corpo estraneo, ostile, e ti tratta come un
reietto. In quella scuola qualcuno ebbe la brillante idea di fare un profilo falso su Facebook con il mio nome, intervallato da un bell’insulto a sfondo omofobico. “Dario er frocio Accolla” mi chiese l’amicizia.
Sprofondai in un malessere che pensavo di aver archiviato più di venti
anni prima, ma evidentemente certe ferite erano ancora lì, per quanto
piccole o lontane. Il sostegno di colleghi e colleghe e delle mie classi stesse mi diede il coraggio necessario. voleva picchiarmi,
a sentir lui. Perché ero frocio. Mi vide da lontano e mi raggiunse. Una
mia allieva, nigeriana e bellissima, si frappose tra noi. «Embè? Qualche problema?» e il tipo scappò via. Come sempre succede ai codardi, appunto.
Una volta un bulletto di un metro e novanta, quasi sedicenne, venne perché
L’altro pomeriggio, durante l’ultima ora di lezione, un mio alunno mi ha detto che i suoi compagni di classe lo insultano dandogli del “gay”. Capirete da soli le ragioni per cui ho fatto coming out…
«Non c’è niente di male, ad essere gay» gli ho detto.
«Ok, ma a me dà fastidio!»
«E allora impareremo due cose» ho detto alla mia classe «la prima è che
non si dice “gay” per insultare nessuno e la seconda è che se dite
questo potreste offendere anche altre persone. Magari avete un prof omosessuale e non lo sapete. Oppure lo sapete, e fate finta di nulla…».
E quando i loro occhi si sono cercati, forse vedendosi scoperti, ho sorriso e sono andato avanti con le mie parole.
«Ho già detto che usare la parola “ebreo” come offesa non fa male solo a
chi la subisce, ma a tutte le persone che sono ebree. Ebbene usare
“gay” come parolaccia, non dà fastidio solo al vostro compagno, ma
rischia di offendere anche me».
Ne è seguita una discussione sul rispetto reciproco, sulla pacifica convivenza e per premiarli ho mandato tutti e tutte a giocare in giardino qualche minuto prima.
Quanto
accaduto quel pomeriggio, nella mia aula, è una tappa di un percorso
lungo, che si sovrappone a una vita intera. Credo sia un atto di onestà intellettuale dare un nome alla propria identità, soprattutto di fronte a casi di discriminazione, in un contesto così delicato come quello scolastico. Fare coming out ci rende forti,
aiuta ad incontrarsi, a capire che il mostro descritto da chi ne ha
paura e scappa via quando lo vede, è solo un essere umano. Forse è per
questo che i soliti noti non vogliono che se ne parli a scuola: per non essere scoperti di fronte alla loro vigliaccheria.
Ai miei tempi mi avrebbe fatto piacere che un prof avesse detto ai
miei compagni quel «non c’è nulla di male nell’essere gay, non ha senso
usare quella parola come insulto». Quel pomeriggio, un po’ grigio e un
po’ gelido, ho sanato quella ferita fatta al bambino che ero trent’anni fa. E, lo credo davvero, non solo a lui.
e consigliando tale libro
Nel 2010, dopo alcuni suicidi di ragazzi
omosessuali vittime delle prese in giro dei loro coetanei, lo scrittore e
attivista Dan Savage e suo marito Terry Miller hanno caricato su
YouTube un messaggio diretto agli adolescenti che subivano bullismo e
discriminazioni a scuola o in famiglia: "Quando avevamo la vostra età"
raccontano "è stata dura anche per noi essere gay in mezzo a persone che
non ci capivano, ma se oggi potessimo parlare ai quindicenni che
eravamo gli diremmo di resistere, perché presto andrà tutto meglio,
troveranno degli amici fantastici, troveranno l'amore e un giorno
avranno una vita molto più felice di quanto immaginano". È stata la
prima di migliaia di testimonianze che hanno dato vita a un sito e a una
fenomenale campagna sul web, chiamata It Gets Better. Nel 2013 il
progetto è sbarcato anche in Italia, con il nome "Le Cose Cambiano".
Dall'esperienza e dal successo dell'iniziativa ha preso forma questo
libro, che raccoglie i racconti e le testimonianze più belli provenienti
dal progetto italiano e da quello americano. Un archivio
di buoni consigli, episodi tristi e divertenti e storie a lieto fine,
che unisce le parole di personaggi famosi e persone comuni, scrittori,
musicisti, attori, comici, studenti, insegnanti, avvocati, attivisti,
omosessuali ed eterosessuali, transessuali e queer. Per ricordare a
tutti i ragazzi LGBT che stanno affrontando un momento difficile o fanno
fatica a immaginare come sarà il loro futuro, che non sono soli, e che
le cose presto cambieranno...