Cerca nel blog

7.10.25

7 ottobre 203 - 7 ottobre 2025 l'odio della propaganda e degli opportunisti ipocriti pro israele

e  ti pareva    che  neppure una  gioranta    che  dovrebbe  essere  di  riflessione  , di  lutto   che i soliti     



 scrivano   tali  abberazioni    cosi  faziose  (  e  fin qui  niente  d'eccezionale   la  faziosità  è sempre  esista  ed  è  difficile   da  evitare  ed  in alcuni  casi  è pacata  e  non offensiva  e ci  puoi anche  a  dialogare  conforintarsi  come   in  questo  ,  uno  dei  pochi ‹‹ Il 7 ottobre spiegato a chi non lo capisce |  ››  da Il Foglio  )   , idioti , che  negano  persino l'evidenza  , .....   e  qiui  mi fermo  per  non abbassarmi al loro   stesso   livello di  volgarità  e  d'odio . Il  più  odioso  è   quello  che  proviene  dal sito(  che  asmetterò  di seguire    ,  se  lo seguivo  era  per avere una  visione   a  360 gradi   ma    quando  è  troppo  è  troppo     ri porto il  link  solo  er  dovere  di cronaca )  di nicola Porro : « Flotilla, i veri ostaggi sono quelli di Hamas: le vostre lagne fanno pena » di Max Del Papa.  Ma   soprattutto    la  maggioranza  dei  pro  israele     è  costituita     d'analfabeti  funzionali   o  che  hanno mandato il  loro  cervello  al'ammasso  ,  che  davanti    all'evidenza    di storici  seri     commentano  cosi  



18 h 
Condiviso con Tutti
Antonio Deiana In pratica se la sono cercata?
  • Rispondi
  • Nascondi
Autore
Giuseppe Scano
Antonio Deiana 🧠🐵🙉🙊🤬💩

 o   in  risposta    aun mio  evento  sulla  palestina


Marcello Ranedda

Ma succede l'inverso voi siete convinti che palistinesi ci aiutano, pensiamo alla guerra che abbiamo noi in Italia che c'è gente morendo di fame, e voi aiutate gli stranieri


6.10.25

Non tutta la scienza nasce dal dolore. Ma parte della sua storia è scritta sul corpo di chi non ha potuto scegliere. di Elisa Lapenna

 Anarcha ci ricorda che la conoscenza, se perde l’etica, smette di essere progresso e diventa potere.Non è un’accusa alla scienza, è un promemoria per l’umanità.Perché anche oggi, quando non servono più corpi ma consensi, la responsabilità resta la stessa: ricordare, rispettare, comprendere.Ricordare Anarcha non significa guardare indietro con rabbia, ma avanti con coscienza.Perché la scienza migliore non dimentica mai da dove viene.

da AnimaMente 5 h

Il suo nome era Anarcha. Un nome che la polvere della storia ha cercato di nascondere. Un nome che oggi merita di tornare alla luce, carico di rispetto, di dolore, di verità. Anarcha era solo una ragazza. Diciassette anni. Un’età che dovrebbe profumare di sogni, non di catene.Ma per lei, il mondo era una prigione. Era schiava. Quando arrivò il momento di partorire, lo fece da sola. Senza mani che la accarezzassero.Senza parole che la rassicurassero.Senza nessuna dignità. Il parto la lacerò nel corpo e nell’anima. Avrebbe avuto bisogno di cure, di conforto, di umanità.Ma le fu negato tutto. Fu portata da un medico. Non per salvarla, ma per essere usata.Il suo nome era J. Marion Sims.Un nome celebrato dai libri, dalle statue, dalla medicina ufficiale.“Il padre della ginecologia moderna”, lo chiamano ancora.Ma dietro quel titolo si nasconde un orrore.Un orrore fatto di bisturi, di sangue, di grida soffocate.Sims non vide in Anarcha una persona.Vedeva solo un corpo.Un corpo da sezionare, da sperimentare, da sfruttare.Le praticò più di trenta interventi chirurgici.Trenta.Senza anestesia.Perché lui credeva — o voleva credere — che le donne nere “non sentissero dolore come le bianche”.Trenta volte il suo corpo fu violato.Trenta urla.Trenta ferite.E nessuno che ascoltasse.Anarcha gridava. Piangeva. Resisteva.Ma era una schiava. E il dolore di una schiava, per molti, non valeva nulla.Intanto, la medicina avanzava.Le sue sofferenze diventavano scienza.Il suo corpo, un manuale vivente.Sims, un eroe.A lui: statue, onorificenze, nomi incisi nella pietra.A lei: l’oblio.Eppure, il suo corpo ha parlato.Anche se nessuno voleva ascoltarlo.Il suo sacrificio ha lasciato un’impronta.Profonda. Indelebile.Oggi possiamo fare ciò che ieri è stato negato:Restituirle il nome.La voce.La memoria.Anarcha non fu solo una vittima.Fu una giovane donna con sogni negati, con la forza di sopportare l’insopportabile.Una vita spezzata, usata, dimenticata.Ma non più.Oggi, ricordarla non è solo un gesto di giustizia.È un dovere.Perché la medicina che cura non può più permettersi di ignorare il dolore che l’ha costruita.Perché senza memoria, il progresso è solo una menzogna elegante.Ricordiamo Anarcha.Non come un caso clinico. Ma come una donna.Non come uno strumento. Ma come una storia.Una storia che ci guarda dritto negli occhi e ci chiede:“Che cosa state costruendo, se dimenticate da dove venite?”E forse, proprio lì, tra le sue ferite mai curate,possiamo ritrovare un pezzo della nostra umanità perduta.

Michela Florean racconta la vita assieme al compagno scomparso a Venezia dopo anni di stato vegetativo : “Per accudirlo lasciai anche il lavoro” “L’incidente sugli sci, la disabilità, le terapie I miei 26 anni con Luca nel nome dell’amore

A  chi  mi  dice     che  voglio  impore  il testamento    biologico  o  il suicidio assistito  a  tuti  i costi      si  sbaglia  di grosso .  In  quanto  ciascuno  di  noi è libero  di  fare  , come  la storia  sotto    riportata  la  propia  scelta    in merito  .  E come tale  va rispettato  che  sceglie    di  vivere e far  vivere  in coma 

o  stato vegetativo  una persona    chi invece  sceglie   e  chiede  di morire   o sceglie  ( qui   c'è  solo la  comprensione   etico \ morale   ma non la  giusificazione    perchè  si tratta    di  omicidio  nel  primo caso  ) di  non voler  soffrire   nel vederlo cosi   e quindi  gli da l'eutanasia   o decide di non tenerlo in vita spegendo le macchine  

    da la stama del 5\10\2025. 

 Gli amici hanno lasciato da poco l’appartamento di Concordia Sagittaria, nel Veneziano, ricavato all’interno della casa dei genitori di Luca Romanin. Michela Florean, la compagna, è sola, «forse per la prima volta, da quando Luca non c’è più». Intorno, ogni cosa parla di lui: dalle promesse del suo passato da sportivo, fino ai ricordi degli ultimi 26 anni, aggrappati a qualsiasi speranza di un ritorno a una parvenza di normalità.Nella loro vita di ragazzi, è cambiato tutto nell’inverno del ‘99. Luca, 23 anni, era andato a sciare con il fratello Marco e un cugino sulla pista della Gran Risa, in Alta Badia. «Io non ero andata con loro» ricorda Michela. Che, di quella giornata, ricorda tutto. Ricorda l’ultima telefonata al suo Luca, prima che inforcasse gli sci e si lanciasse giù a valle, sfrecciando sulla pista nera. E ricorda la telefonata successiva, dal contenuto drammatico: Luca era caduto, aveva sbattuto la testa e loavevano trasferito con l’elicottero all’ospedale di Bolzano. «I successivi 7-15 giorni li ha trascorsi in prognosi riservata. Sembrano pochi, in realtà non passavano più», ripercorre ora. Dopo due anni, Luca Romanin esce dall’ospedale su una sedia a rotelle. Non cammina e non parla. Una vita stravolta, ma con Michela ancora accanto. È giovanissima, come lo è il suo amore per Luca, sul quale però ha già deciso di investire il suo futuro: Michela lascia il lavoro e si trasferisce in un appartamento ricavato all’interno della casa dei genitori di Luca. Si prende cura di lui. Lo fa per 26 anni, fino a sabato scorso, quando Romanin, a 49 anni, è morto.Eravate ragazzi - 22 anni lei e 23 Luca - quando ha deciso di lasciare ogni cosa, per dedicarsi completamente al suo compagno…«In realtà non l’ho deciso.Perché, quando si prova unamore così grande, non si sceglie.Semplicemente si vive la situazione, e poi gli eventi fanno il loro corso.Con questo non voglio dire che sia stato facile, tutt’altro. E io non volevo fare la crocerossina. Semplicemente, io per Luca ho provato,provo e proverò sempre un amore immenso».Marco, il fratello di Luca, ha detto che in un tempo attraversato dalle storie di  violenza, la vostra è una  boccata d’ossigeno, per mostrare che esiste anche tanto altro.
«Sono rimasta colpita dalla sorpresa della gente. In questi 26 anni, le difficoltà sono state tante, ma i sentimenti ci hanno fatto superare discese erisalite.Del resto,le difficoltà fanno parte di qualsiasi vita. Vedo famiglie che sisgretolano per nulla, e per me è incomprensibile. Io sono contenta della persona che sono e di tutte le scelte che ho fatto. Luca è ancora accanto a me, miguida.Sento la sua forza, che ormai non è più terrena».Che cosa vi ha fatto innamorare?«Sono passati talmente tantianni.Diciotto anni io,diciannove lui.Ci siamo conosciuti perché era venuto a giocare a basket nella palestra del mio paese,ed è stato il classico colpo di fulmine. Anch’io giocavo a basket, pure a un livello discreto, e lavoravo in un negozio di articoli sportivi. Mentre lui, a 23 anni,era il più giovane istruttore di sub italiano. Era bellissimo,ed è la prima cosa che mi ha colpito. Ci siamo conosciuti e il mese dopo eravamo già inseparabili. Stavamo iniziando a pianificare la nostra vita futura».
Dopo l’incidente, come è stata la vostra quotidianità?«Dopo un po’, io ho smesso di lavorare e sono andata a vivere con lui. Luca non camminava e non parlava: il nostro era un linguaggio empatico, fatto di sguardi ed energie molto più sottili.Ma così siamo andati avanti.A livello di terapie,abbiamo provato di tutto:medicina salvavita, farmaci, fisioterapia,computer col puntatore oculare, osteopatia. A volte, prendevo la macchina per andare in giornata a Firenze, dall’omeopata, e tornare la sera a Concordia.Qualsiasi cosa, per fargli fare una vita il più normale possibile.Ho cercato di avere fede nel futuro, dedicandogli tutto il mio amore,sperando che piano piano i tasselli si mettessero aposto».
È stata aiutata?«Le persone che restano, inqueste situazioni, sono poche.È stata una vita scandita dagli orari,dalla routine,dalla dedizione. Però le poche persone che sono rimaste, e quelle che si sono aggiunte, sono straordinarie.Ho conosciuto terapisti che sono diventati amici sinceri».Michela, cosa farà ora?«Non voglio fare progetti,ma vivere il presente. Io so che il dolore va attraversato,metabolizzato, e che dopoun po’ inizia a scemare. E io questo voglio fare ora, senza pensare al domani. Vivere come ho sempre fatto finora,Luca è accanto a me».


Parla Ilan Pappé: l'intervista allo storico israeliano ebreo non sionista sulla guerra a Gaza. ecco coasa dice sul 7 ottobre 2023

a chi mi accusa d'essere antisemita per il mio precedente post sul 7 ottre 2023 ascolti questo stralcio di intervista  allo storico Istraeliano ebreo non sionista Ilan Pappè


   

 sotto intervista integrale
 
 

 allo stesso storico Istraeliano . se  non vi basta    e  continuate  a  dirmi  che  sono  filo hamas    o  antisemita    potete   pure  andare  a  .....  . Scusate la  volgarità ma  non  si  che  altro dire  sul 7 ottobre   che  non sia un appiattimento sulla  propaganda  . Ma soprattutto far  capire   ai sionisti    e alla loro cricca  fatta  per  lo più   da  opportunisti ed ipocriti  \ falsi convertiti sulla via di Damasco   che  non sono  e  mi  sarò  mai (  anche  se  che mi legge  , sa   che   parlando  di gaza   ci sono  caduto   ma   poi  mi sono ripreso ed  ho  capito     che avevo  preso una cantonata  ) antisemita   . Non ci rieso   fa  parte del mio Dna  . E  che Antisionismo  non  vuol dire Antisemitismo   . 

La morte che dona la vita: nascita di un bambino da una trapiantata d'utero da donatore morto per morte celebrale

Non riuscendo a scaricare con downloahelper  il  video  delle  iene  della  puntata  del  5\10\20025    riporto qui  l'url    La morte che dona la vita: trapianto d'utero
La  storia    di Mattia è uno dei pochissimi bambini al mondo nati grazie a un trapianto d'utero da donatore con morte cerebrale. Un intervento ancora sperimentale, eseguito all'ospedale Cannizzaro di Catania, che apre nuove speranze per molte donne. Gaetano Pecoraro ha incontrato i protagonisti di questa straordinaria innovazione medica.
Ecco  quindi  che  per  approfondire      ho  cercato altri   siti    ecco  cosa  ho  trovato  


  da   https://www.panorama.it/lifestyle/salute/

Il trapianto di utero apre nuove strade alla maternità: un miracolo tutto italiano




A Catania si è concluso con successo il secondo trapianto di utero della storia italiana, che ha permesso la nascita di Mattia, dopo quella di Alessandra nel 2022. Un traguardo medico ed etico che colloca l’Italia tra i pochi Paesi al mondo capaci di trasformare un sogno impossibile in realtà.
Un bambino che nasce da un utero trapiantato non è solo il frutto di una gravidanza attesa: è il simbolo di un confine che la medicina sta lentamente spostando in avanti, là dove chirurgia dei grandi organi e medicina riproduttiva si incontrano. In Sicilia, a Catania, questo confine è stato varcato per la seconda volta: a settembre 2025 è venuto alla luce Mattia, figlio di una madre senza utero dalla nascita. E’ un lieto evento che non ha il sapore del miracolo, ma quello della scienza e della determinazione e di un’équipe di medici che ha deciso di sfidare i limiti della biologia per restituire un’opportunità negata dalla natura. In Italia il programma di trapianto di utero è attivo solo nella città etnea, presso il Policlinico “G. Rodolico” che fa parte della rete trapianti assieme all’Ismett di Palermo. Qui è stato appunto eseguito il secondo trapianto di utero nel Paese, con esito positivo e la nascita, a settembre 2025, di un neonato sano.
Al Policlinico etneo la storia è iniziata cinque anni fa, quando il Centro nazionale trapianti e il Consiglio superiore di sanità hanno autorizzato un protocollo sperimentale che consente esclusivamente il trapianto di utero da donatrici decedute. L’indicazione principale riguarda donne affette da sindrome di Mayer-Rokitansky-Küster-Hauser, una malformazione congenita che comporta l’assenza dell’utero pur in presenza di ovaie funzionanti. Si tratta di una forma di infertilità assoluta, che non può essere trattata con le tecniche di procreazione medicalmente assistita tradizionali. Il primo trapianto italiano è stato eseguito nell’agosto del 2020 e ha portato, due anni dopo, alla nascita della piccola Alessandra. Il secondo, realizzato nel 2022, si è concluso a settembre 2025 con la nascita di Mattia. Entrambi i casi confermano che, in condizioni selezionate, la procedura è in grado di restituire la possibilità di gravidanza a donne che altrimenti non potrebbero concepire. Il professor Pierfrancesco Veroux, direttore del Centro Trapianti di Catania, spiega così le caratteristiche di questa chirurgia: «Il nostro è l’unico centro in Italia e uno dei pochissimi al mondo autorizzato ai trapianti di utero. Si tratta di un intervento tecnicamente complesso: l’utero è un organo molto vascolarizzato, e l’operazione richiede oltre venti ore di lavoro e un’équipe multidisciplinare di circa 25 professionisti. A differenza di altri trapianti, inoltre, non ha finalità salvavita ma riproduttiva: si tratta di operare una donna sana che si sottopone a rischi importanti per la possibilità di avere un figlio».
Dal punto di vista clinico, la difficoltà non si esaurisce nell’atto chirurgico. Dopo l’impianto, la paziente deve seguire una terapia immunosoppressiva, con i rischi ben noti di infezioni e complicanze. Solo dopo la stabilizzazione dell’organo trapiantato è possibile procedere al trasferimento embrionale tramite fecondazione in vitro, e monitorare la gravidanza fino al parto, che avviene necessariamente con taglio cesareo. Una volta completato il percorso, l’utero può essere rimosso per interrompere la terapia immunosoppressiva e ridurre i rischi a lungo termine. L’esperienza catanese non è isolata, ma si inserisce in un contesto internazionale ancora limitato. I primi trapianti di utero sono stati eseguiti in Svezia, con nascite documentate dal 2014, seguiti da programmi negli Stati Uniti, in Brasile e in altri pochi Paesi. Le casistiche rimangono esigue, dell’ordine di poche decine di interventi, e gli esiti variano in base alla selezione delle pazienti, alla qualità dei centri e alla tipologia di donazione. In Italia, la scelta regolatoria di utilizzare esclusivamente donatrici decedute riduce i rischi per la donatrice ma aumenta le difficoltà tecniche rispetto ai trapianti da vivente, dove i vasi sanguigni possono essere preparati in condizioni più controllate. L’aspetto etico rimane però centrale. Come sottolinea lo stesso Veroux, il trapianto di utero non rientra nella logica classica dei trapianti salvavita: non serve a evitare un decesso, ma a permettere la possibilità di una gravidanza. Ciò pone interrogativi sulla proporzionalità dei rischi per la ricevente e sulla priorità nell’allocazione delle risorse sanitarie. Allo stesso tempo, però, offre a molte donne l’unica strada per una maternità biologica, senza ricorrere alla maternità surrogata, vietata in Italia. La prospettiva è ora quella di consolidare i dati clinici. Il centro di Catania ha altre sette pazienti in lista d’attesa, con richieste provenienti da tutto il Paese. Ogni nuovo caso permette di raccogliere informazioni preziose sulla durata funzionale dell’organo, sulla risposta ai farmaci e sulla gestione delle gravidanze successive. Gli studi internazionali, inoltre, indicano che la percentuale di gravidanze portate a termine dopo trapianto di utero si aggira intorno al 30-40% dei casi, un dato incoraggiante ma che richiede cautela.

-----

[....] 
La vicenda 

La persona che ha ricevuto l’utero ne era nata senza e al momento del trapianto, nel settembre del 2016, aveva 32 anni. La sua diagnosi era quella della sindrome di Mayer-Rokitansky-Küster-Hauser, una condizione genetica che colpisce una donna ogni 4.500. Causa l’assenza o lo sviluppo incompleto della vagina e dell’utero, anche se i genitali esternamente sembrano normali e le ovaie funzionano. Prima di ricevere il trapianto la donna si è sottoposta alla fecondazione in vitro, per poi congelare gli embrioni, in attesa del trapianto.La donatrice era una donna di 45 anni che è morta per un ictus. Aveva avuto tre figlie. L’operazione è durata oltre 10 ore.

La bimba è nata un anno fa

Cinque mesi dopo il trapianto, la ricevente non ha mostrato segni di rigetto e per la prima volta nella sua vita ha avuto le mestruazioni. Dopo sette mesi i medici le hanno impiantato un singolo uovo fecondato. Dopo 10 giorni la gravidanza è stata confermata. Alla fine il 15 dicembre del 2017 è nata una bimba di 2,7 chili

Perché è un trapianto rivoluzionario

L’utero trapiantato è rimasto senza ossigeno per 8 ore. Il nuovo studio prova in questa modo che può rimanere attivo. Questo caso apre alla possibilità alla donazione degli organi da donatrici morte.



7 ottobre 2023 - 7 ottobre 2025 risposta israeliana a brutture di hamas con un genocidio

Oggi apro gli aggiornamenti dei canali di Whatsapp e leggo qusto articolo   del canale   Fanpage Sono trascorsi due anni dall'attacco di Hamas nel sud di Israele. Due anni da quel giorno in cui i nomi delle vittime, dei rapiti in kibbutz, a Sderot, al rave party, sono entrati per sempre nella nostra memoria

collettiva, sostenuti da immagini che abbiamo visto e rivisto. Accanto a questi, ci sono decine di migliaia di altri nomi, quelli delle vittime palestinesi nella Striscia di Gaza: un conteggio che, nella sua drammatica stima al ribasso, si fa fatica a tenere e che le stime ufficiali ci parlano di oltre 60.000 morti. È la cifra di una tragedia in corso, del genocidio che anche gli storici israeliani ormai ammettono essere tale, oltre alle Nazioni Uniti e alla Corte di Giustizia Internazionale. Eppure, proprio in Italia, questo dramma si scontra con una narrazione politica che nega o minimizza. La destra italiana, tra stampa e esponenti di governo, usa la dichiarazione di Liliana Segre nella quale nega l’atto genocidario a Gaza, e la destra lo usa come un "grimaldello" per delegittimare un movimento globale che si è levato a sostegno del popolo palestinese e contro l'orrore. Da Tokyo a Montreal, le piazze del mondo manifestano, in alcune piazza gli striscioni dicono “Facciamo come l’Italia, blocchiamo tutto!” mentre proprio il nostro Paese sembra avvitato in una spirale di polarizzazione. [.... ] continua in quest articolo    di https://www.fanpage.it/podcast/scanner/

Il   che   conferma    quanto   questo  nostro  blog    con le   sue appendici social ( sia con facebook.com/redbepeulisse1 dissattivasto da fb e non più recuperabile sia con quello attuale www.facebbok.com/redbeppeulisse2 con la  pagina  fb Compagnidistrada  e  gli accounts istrangram\ thereads ( redbeppeulisse1 e  redbeppeulisse2  ) e  ora sempre  con redbeppeulisse   su   Bluesky ha seguitoe  segue  , con post più o meno regolari aggiornamenti, il genocidio in atto nei confronti della 
popolazione palestinese della Striscia di Gaza da parte di Israele.Oggi  come    fa  lo  stesso 
 il  fatto quotidiano   in : « Il 7 ottobre 2023 e i crimini di guerra di Hamas: tutto ciò che Amnesty ha documentato finora  » da  cui  ho  preso   le  notrizia     riportate  sotto   torniamo al primo giorno di questi due anni: agli attacchi guidati da Hamas nel sud d’Israele il 7 ottobre 2023.



Quel giorno, secondo una banca dati prodotta dal quotidiano israeliano Haaretz e incrociata con altri elenchi, sono state prese in ostaggio 251 persone. Di queste, 27 erano soldati in servizio attivo e 224, dunque la stragrande maggioranza, civili: 124 uomini, 64 donne e 36 minori. Al momento della presa in ostaggio, 16 persone avevano meno di 10 anni, nove erano ultraottantenni. In gran parte erano ebrei israeliani, sette erano beduini con cittadinanza israeliana e 35 cittadini stranieri. In 36 casi le persone prese in ostaggio erano già morte quando sono state portate nella Striscia di Gaza.
Dal 7 ottobre 2023 è iniziato uno straziante calvario. Tutte le persone prese in ostaggio sono state isolate dal mondo esterno, private di ogni contatto con le famiglie e dell’accesso al Comitato internazionale della Croce rossa fino al momento in cui alcune di loro sono tornate a casa. Per mesi e mesi, molte famiglie non hanno mai ricevuto segnali che i loro cari fossero vivi o morti e questo ha aumentato la loro sofferenza.
Shoshan Haran, fondatrice e presidente dell’organizzazione non governativa per lo sviluppo Fair Planet ed esponente del movimento pacifista Women Wage Peace ,è stata rapita da Hamas insieme a sei familiari, tra i quali tre minori. Allora aveva 67 anni e viveva nel kibbutz di Be’eri, a quattro chilometri dalla barriera di separazione che circonda la Striscia di Gaza. Ha raccontato ad Amnesty International che, dopo aver ricevuto un allarme via Whatsapp, lei e i suoi familiari si sono riparati in una stanza sicura.
Uomini armati li hanno costretti a uscire. Uno di loro, in inglese, ha detto: “Donne e bambini, con noi. Gli uomini, bum-bum”. Shoshan e i sei familiari sono stati portati nella Striscia di Gaza. Lei e cinque familiari sono stati liberati dopo quelli che ha definito “50 orribili giorni di prigionia”. Solo allora ha saputo che suo marito, Avshalom Haran, era stato ucciso quando la famiglia era stata costretta a uscire dalla stanza sicura. Suo genero, Tal Shoham, è tornato in libertà dopo oltre 500 giorni di prigionia.
Nelle testimonianze fornite ad Amnesty International, agli organi d’informazione o ai professionisti sanitari, gli ostaggi rimessi in libertà hanno denunciato di essere stati sottoposti a violenza. Uno di loro ha raccontato che lui e altri quattro ostaggi sono stati picchiati per diversi giorni subito dopo la cattura e collocati in un tunnel senza livelli adeguati di cibo e acqua. Almeno cinque altri ostaggi tornati in libertà, quattro uomini e una donna, hanno reso noto di aver subito pestaggi e altre violenze fisiche. Quattro donne, due ragazze e due uomini hanno dichiarato pubblicamente di aver subito aggressioni sessuali, di aver dovuto denudarsi e di aver subito minacce di matrimoni forzati. Tutte queste forme di violenza fisica e sessuale costituiscono, secondo il diritto internazionale, maltrattamenti o tortura.
Nel settembre 2024 la Commissione internazionale indipendente d’inchiesta sul Territorio palestinese occupato compresa Gerusalemme Est ha dichiarato di “aver ricevuto informazioni credibili circa il fatto che alcune persone in ostaggio sono state sottoposte a violenza sessuale e di genere”, compresa una donna che ha denunciato di essere stata stuprata.
L’Ufficio della rappresentante speciale del segretario generale sulla violenza sessuale durante i conflitti e l’Ufficio del procuratore della Corte penale internazionale hanno a loro volta individuato prove di violenza sessuale, stupri compresi, nei confronti delle persone prese in ostaggio. La Camera preprocessuale della Corte penale internazionale, quando ha approvato la richiesta del mandato d’arresto contro Mohammed Diab Ibrahim al-Masri (conosciuto come Mohammed Deif), comandante dell’ala militare di Hamas, ha sottolineato che “mentre erano trattenute a Gaza, alcune persone prese in ostaggio, per lo più donne, sono state sottoposte a violenza sessuale e di genere, come penetrazioni forzate, nudità forzata e trattamenti inumani e degradanti”.
Hamas e gli altri gruppi armati palestinesi hanno pubblicato foto e video di ostaggi spesso feriti, angosciati, impauriti o imploranti la propria liberazione. Li hanno fatti sfilare in mezzo alla folla mentre li portavano all’interno della Striscia di Gaza e li hanno sottoposti a umilianti “cerimonie della liberazione”. Sottoporre persone in ostaggio a trattamenti umilianti e degradanti del genere è una forma di oltraggio alla libertà personale, vietata dal diritto internazionale e che costituisce un crimine di guerra.
Tra la fine di luglio e l’inizio di agosto del 2025 i gruppi armati palestinesi hanno pubblicato online video di due ostaggi da cui si capiva che erano stati sottoposti a gravi maltrattamenti. Uno di loro, Rom Braslavski, è inquadrato in un video col logo delle Brigate al-Quds (l’ala militare del Jihad islamico palestinese) mentre si trova sul pavimento di un tunnel, emaciato e sudato: afferma di essere troppo debole per stare in piedi e di essere in punto di morte. Per aumentare la sofferenza dei suoi familiari, il Jihad islamico palestinese ha affermato che, dopo le riprese, ha perso i contatti coi rapitori dell’ostaggio.
Nel video di Evyatar David, pubblicato il 2 agosto 2025 dalle Brigate al-Qassam, l’uomo appare profondamente provato, all’interno di un tunnel e costretto a scavare quella che dichiara di ritenere essere la propria fossa. Fornisce dettagli, facendo riferimento a note scritte su un calendario, sul numero di giorni da cui è privo di cibo. Essere costretti a scavare la propria fossa in circostanze del genere equivale a tortura così come lo è il diniego intenzionale di cibo per lunghi periodi di tempo in condizioni di prigionia e di violenza psicologica.
La cattura di ostaggi e la diffusione di video sulla loro sofferenza è un crimine non solo nei riguardi delle vittime dirette. L’incertezza e l’angoscia causate alle famiglie degli ostaggi costituiscono a loro volta forme di maltrattamento e di tortura.
Delle 47 persone che continuano a essere illegalmente trattenute nella Striscia di Gaza, si ritiene che 20 uomini siano ancora vivi.
Amnesty International continua a chiedere che questi ultimi siano rimessi in libertà, così come che siano riconsegnati i corpi degli ostaggi morti o uccisi durante il rapimento o nel corso della prigionia

Ora   capisco   non  significa   che   condvida o essere a favore la reazione  di Hamas  contro  le angherie  ed  i  sopprusi  pluridecennali    del  governo e dei coloni  Israeliani   . Ma  non è modo   di  combattere  il terrorismo e  l'odio  verso gli ebrei  non solo  quelli  sionisti   ritornando  all'antisemitismo   , anzi  lo  si rafforza di  più  .  I  loro   moo di combattere  è  , lo so che  il  paragone  sarà improprio    ma   simili  cose   le  facevano  i nazisti  o erano  usate  in guerre    dell'antichità  cioè  fino al XV\XVI  secolo  cioè  quando ancora  on c'erano  le armi  da  fuoco con la  polvere da sparo   . 

5.10.25

la favola della gomma e della matita [ autore ignoto ]

  trovata in rete  su  Ti Amo Amore



Un giorno, la gomma guardò la matita e, con voce gentile, le chiese:
– Come stai, amico mio?
La matita rispose seccamente, senza nemmeno alzare lo sguardo:
– Non sono tuo amico. Ti odio.
La gomma, colpita da quelle parole taglienti, domandò con tristezza:
– Perché?
– Perché cancelli sempre quello che scrivo – ribatté la matita con rabbia trattenuta.
Ma la gomma, con la dolcezza che nasce da chi conosce il proprio scopo, disse:
– Io cancello solo gli errori. Lo faccio per aiutarti.
– E perché dovresti farlo? – insistette la matita, ancora diffidente.
– Perché è la mia natura. Sono nata per questo – spiegò la gomma, con una calma che non chiedeva nulla in cambio.
La matita scosse la testa:
– Questo non è un vero lavoro.
– Eppure il mio compito è tanto importante quanto il tuo – rispose la gomma con convinzione.
– Ti sbagli, sei arrogante. Scrivere è più nobile che cancellare – insistette la matita, alzando la voce.
Ma la gomma non si scompose:
– Togliere ciò che è sbagliato è come riscrivere ciò che è giusto.
A quel punto, la matita restò in silenzio, colpita da quelle parole semplici ma profonde. Poi, con un filo di malinconia, sussurrò:
– Ti vedo ogni giorno più piccola…
La gomma sorrise teneramente:
– È vero. Ogni volta che cancello un errore, perdo un pezzetto di me. Ma lo faccio volentieri, perché so che sto aiutando.
La matita, con voce roca e occhi lucidi, aggiunse:
– Anche io mi sento più corta ogni giorno…
La gomma allora gli si avvicinò e lo consolò:
– Vedi? Nessuno può fare del bene senza rinunciare a qualcosa di sé. È questo il segreto.
Poi lo guardò con affetto sincero e chiese:
– Mi odi ancora?
La matita, finalmente serena, sorrise:
– Come potrei? Ti vedo sacrificarti ogni giorno per gli altri. Ogni mattina ti svegli, e sei un po’ meno di ieri… ma solo perché hai donato speranza e sollievo.
E allora, con la voce del cuore, concluse:
– Se non puoi essere una matita per scrivere la felicità degli altri, sii una buona gomma che cancella i loro dolori. E semina speranza, ovunque tu passi.Perché il bene non fa rumore… ma lascia un segno che nessuna gomma potrà mai cancellare.

Fabrizia Olianas la libertà sui verdi pascoli ., «Vado sott’acqua contro i pregiudizi» Alessandro Vacca ha la sindrome di down: ottiene il brevetto da sub

unione sarda 5\10\2025





Dall’altopiano si scorge il lago Flumendosa, tutto attorno silenzio e verde. C’è solo lei, con un gregge di capre e una mandria di mucche. Questo è il lavoro che ha scelto: la pastora, lasciando l’attività di famiglia circa dodici anni fa. L’incontro con le caprette è folgorante, non c’è più modo di tornare indietro, segue il suo istinto e il bisogno di una vita all’aria aperta abbandonando una strada già tracciata. «Nella mia famiglia nessuno ha fatto o fa il pastore. Mio padre ha una macelleria dove ho lavorato dall’età di 16 anni fino ai 26, poi ho deciso di cambiare vita», racconta Fabrizia Olianas, 41 anni di Villanova Strisaili.
A prima vista
Un amico pastore le fa conoscere da vicino questo mestiere e l’incontro con gli animali è amore a prima vista, così Fabrizia comincia ad aiutarlo tutti i giorni con le varie mansioni, impara a mungere e a fare il formaggio. «Sono sempre stata amante degli animali fin da piccolina – ricorda -, e anche un po’ ribelle. Non amavo un lavoro chiuso fra quattro mura, così nel 2013 ho iniziato ad allevare capre e mucche. La scelta di lasciare la macelleria non è stata vissuta in maniera molto felice da mio padre, ma poi si è rassegnato». In questo periodo dell’anno il lavoro è meno pesante, principalmente si occupa di dare da mangiare alle capre e alle mucche e di portarle al pascolo; in altre stagioni si dedica anche alla mungitura e a fare il formaggio, anche se i problemi non mancano mai. Burocrazia e malattie che colpiscono gli animali mettono a dura prova Fabrizia: «A volte mi viene voglia di mollare tutto, da quando ho iniziato le cose sono notevolmente peggiorate – spiega -, e il futuro non lo vedo roseo. Lavori tanto, le spese sono sempre più delle entrate e le malattie dimezzano il gregge. Però quando arrivo nelle stalle, loro mi incontrano e mi fanno le feste, mi passa tutto. Continuo per amore verso i miei animali».
Appena nati
Un amore così grande che arriva ad ospitare in casa propria intere famigliole di capretti appena nati, a rotazione, da novembre fino a marzo. Infatti, per tentare di salvarli dalle malattie l’unico modo è tenerli lontani dalle stalle. «Il mio sogno nel cassetto è sempre stato quello di aprire un mini caseificio per lavorare il prodotto, ma visti i tempi penso che dovrò abbandonarlo. Non mi sento aiutata burocraticamente. In Trentino, per esempio, i pastori possono fare il formaggio nelle malghe e possono venderlo, qui bisogna per forza avere un caseificio. Ma, se ci pensate, con il caseificio il prodotto diventa “unificato”e uguale per tutti, mi piacerebbe che cambiassero tèle regole», spiega Fabrizia. Ai giovani non consiglierebbe mai di intraprendere questa strada, ma per fortuna il denaro non è l’unico metro di giudizio: «Alla fine dei conti, questo lavoro mi fa stare bene. Mi ha insegnato a stare da sola, a conoscermi meglio, a convivere con me stessa. Sei solo tu e gli animali, la forza me la danno loro», conclude.


Infatti da La storia della pastora Fabrizia Olianas | Ogliastra - Vistanet

«Mestiere difficile, non si stacca mai»: la storia della pastora sarda Fabrizia Olianas



Non ci sono giorni liberi, in alcuni periodi le giornate dovrebbero diventare di 45-50 ore tanta è la mole di lavoro e – soprattutto ultimamente, tra aumenti e difficoltà – tirare avanti non è semplice. A parlarcene è la pastora ogliastrina 38enne Fabrizia OlianasNon ci sono giorni liberi, in alcuni periodi le giornate dovrebbero diventare di 45-50 ore tanta è la mole di lavoro e – soprattutto ultimamente, tra aumenti e altre cose – sopravvivere non è semplice: stiamo parlando della vita dei pastori, lasciati liberi a se stessi.
A parlarcene è la pastora villanovese 38enne Fabrizia Olianas, in attivo fin dal 2013. «Carriera impegnativa senza riposo, non si stacca mai del tutto,» dice «nemmeno la notte. Torni a casa e pensi a quell’animale che sta poco bene, a quello che non ce l’ha fatta Nonostante ciò, mi piace tantissimo.» La motivazione deve essere tanta: «Io la avevo» ammette. «Non nego che ora la stragrande maggioranza dell’entusiasmo se ne sia andata.»
Olianas, che alleva mucche e capre, lamenta la mancanza delle istituzioni nel risolvimento dei problemi
relativi a quello che, nell’Isola, è un settore trainante: «In Sardegna, ormai, gli animali vengono colpiti da tantissime malattie. Siamo lasciati soli, manca proprio un piano preciso di risanamento delle greggi, mancano i veterinari che dicano come fare, che aiutino nell’arginarle. Il problema, ad oggi, è più che altro pratico.»
Ma non manca il problema economico. Olianas è perentoria: con gli attuali prezzi di mangime è difficile poter arrivare a fine mese sereni, senza contare il prezzo bassissimo del latte – che negli anni scorsi portò a una violenta rivolta popolare.
«Le capre si ammalano di CAEV, di paratubercolosi e c’è anche il tumore nasale enzootico che le affligge per il quale non c’è cura, non ci son vaccini. Per i bovini, adesso, ci mancava solo la malattia emorragica epizootica del Cervo, che sta portando conseguenze disastrose. Una moria di animali non indifferente, che rischia di mandare tutto sul lastrico. Senza considerare che quelli che restano in stalla, fermi, non procurano soldi ma solo spese.»
«Le malattie che ci sono sembra quasi non le vogliano debellare, mentre ci si concentra su quelle quasi sparite, a mio parere.»
Oltretutto, in questo periodo non è nemmeno possibile organizzare o partecipare a proteste: «Siamo a novembre, non ci si può allontanare nemmeno mezza giornata. Le proteste si possono fare d’estate, non ora che sarebbe dannoso spostarsi.»
Tanto si parla di biodiversità che Fabrizia aveva anche l’idea, che pensava di concretizzare a breve, di allevare la tipica capra sarda: «Fanno solo un litro di latte, sono molto piccole, ma quel litro è veramente buonissimo. Ho fatto anche corsi per fare il formaggio e altre cose, ma purtroppo ormai si munge poco. Tra prezzo del latte e rincaro sul mangime non è possibile fare passi simili.»
Una situazione disastrosa, come lamenta Olianas, che è destinata ad andare sempre peggio, a meno che le istituzioni, con una mano sul cuore, non si impegnino a salvare quello che è un settore importantissimo per l’Isola.
............
  cazzegiando     fra  le  pagine  social  trovo     su L'Eco di Barbagia   -  da  cui  ho    tratto  la  foto  a  sinistra  - e   su  - non  riesco ad  incorporare  il video - :  ALESSANDRO, IL SUB SPECIALE ADOTTATO DAL "COMSUBIN": IERI LA CONSEGNA DEL BREVETTO -  di Videolina 
 Poi oggi    asullì'unione  ho  letto   la sua   storia 

Lui è Alessandro Vacca, uno dei ragazzi della Polisportiva Olimpia Onlus, dove ogni giorno l’amico e fondatore Carlo Mascia promuove l’inclusione sociale delle persone diversamente abili.Dopo mesi di
duro impegno con il suo istruttore Marco Barbarossa, nei giorni scorsi, Alessandro ha ritirato il brevetto da sommozzatore.
Per Alessandro, affetto dalla sindrome di down, il ritiro dell'attestato nella caserma dei Comsubin, le forze speciali della marina italiana, in Liguria. Congratulazioni campione! Sei un esempio per tutti! Poi ogg sull'unione sarda ho letto quest articolo che lo riguarda

Il re dei fondali ha casa a San Michele, a Cagliari, gli occhi raggianti e un’evidente avversione per il politicamente corretto: «Sono down, mica scemo». E già questo basterebbe a inquadrare il personaggio, che in tre ore d’intervista tira fuori una sfilza di certezze granitiche in grado d’abbattere luoghi comuni e pregiudizi e un certificato che mette nero su bianco l’impresa appena compiuta: Alessandro Vacca, 41 anni e dodici tra fratelli e sorelle che lo precedono, è il primo down in Sardegna ad aver ottenuto il brevetto ufficiale da sommozzatore. Un primato che ha il sapore dolce del riscatto da una vita che non è stata esattamente gentilissima con lui.
Emozione
Dice che a casa hanno pianto tutti - di felicità, ovviamente -, anche i vicini. Perché nel quartiere cagliaritano che solitamente fa parlare più per il male che per il bene, Alessandro lo conoscono in tanti e fanno il tifo per lui. Scarpe da ginnastica, bermuda blu e t-shirt in tinta, si sistema sulla poltrona, tira fuori il tesserino e lo mostra con orgoglio. Non ha certamente problemi d’autostima. Così se gli chiedi cosa si prova a essere unici non ha neanche bisogno di pensarci: «Sono diventato famoso in tutto il mondo». Poi ritratta: «Magari lo diventerò dopo l’articolo. Ma davvero lo pubblicate sul giornale?». E tra un abbraccio e un altro racconta la sua storia, che alla fine non è poi così diversa da quella di qualunque altra persona normodotata. Fatta di sfide, di cadute, di amicizie e di amore. Tanto. «Quando ero piccolo mi prendevano in giro, soprattutto a scuola. È capitato che anche un’insegnante mi escludesse mandandomi fuori a mangiare il panino». Ricordi dolorosi, che per un istante adombrano il suo volto e testimoniano un passato dove ancora la diversità era vista come un qualcosa da relegare in un angolino, quasi a volerla tenere nascosta. «Per fortuna le cose sono cambiate: ora ci sono meno pregiudizi e vorrei che la mia storia servisse per dimostrare che anche se sono down posso fare tutto».
I due mondi
E in quel tutto non manca nulla. Ci sono le bombole, la tuta da sub e tanta determinazione, che dopo cinque mesi di immersioni gli hanno permesso di ottenere il tanto atteso brevetto. Come se tra i fondali trasparenti come il suo animo avesse abbattuto uno di quei limiti di chi s’ostina a vedere soltanto le difficoltà e non le straordinarie potenzialità di Alessandro e di tanti altri ragazzi diversamente abili. Che come lui, passo dopo passo, sono riusciti a integrarsi perfettamente nella società. «Nel mondo c’è spazio per tutti e un posto comodo per ognuno di noi».
Lui forse lo ha capito grazie alla polisportiva Olimpia Onlus, fondata da Carlo Mascia, che è andato a prenderselo a casa dieci anni fa. Perché, come dice sempre, la vita è fuori, anche per i disabili. Non dentro gli istituti o tra le mura di una cameretta. Da allora Alessandro non si è più fermato. Ha una vita super impegnata, a casa aiuta mamma Franca che fa l’ambulante al mercato di Sant’Elia. Contribuisce alle spese familiari con la sua pensione di invalidità, e gli altri soldi li mette da parte per le trasferte, dentro una borraccia. Niente salvadanaio: «È la prima cosa che ruberebbero i ladri». Sorride ancora. Anche mentre pensa al sua papà che non c’è più: «Se fosse ancora qui sarebbe stato tanto orgoglioso del brevetto».
L’amore e le amicizie
«Vorrei che la gente sapesse che anche i disabili si innamorano. Cioè, voglio dire che l’amore non è un’esclusiva dei normodotati». Un concetto a cui Alessandro tiene particolarmente. Lo dice a modo suo, e lo dimostra benissimo con i fatti. «Ho conosciuto Veronica quattro anni fa, al mare. È stato un colpo di fulmine, la amo tantissimo». Sentimento ricambiato, da lei che ha trent’anni, e con Alessandro condivide quella stessa sindrome di down che evidentemente non ferma la vita. «Puoi scriverlo per favore che le ho anche chiesto di sposarmi?». E siccome è uno che le cose le fa seriamente, si è messo in ginocchio, le ha regalato l’anello e guardandola dritta negli occhi le ha chiesto di diventare sua moglie. Così, dopo la discesa nei fondali ora è pronto a salire sull’altare. Ci saranno anche i suoi amici, ad accompagnarlo. Quelli della polisportiva, e tanti altri che gli vogliono bene per ciò che è. Un 41enne che ha dimostrato a se stesso e a chiunque altro che con buona volontà, impegno e un’assistenza che dovrebbe essere garantita a tutti, si può arrivare in altro. Sempre di più. Anche se sei down.

IL GRANDE RINCOGLIONIMENTO😊 di © Carmen Cascone

Carmen Cascone
3 ottobre alle ore 16:06 ·

 IL GRANDE RINCOGLIONIMENTO😊
Al bar chiedi l’acqua naturale. Arriva la frizzante. Sempre.🤔 Al ristorante c’è chi fotografa la cena come se fosse l’Ultima Cena: quattro angolazioni, tre filtri, due stories. Quando finalmente mangia… è fredda...ma tanto su Instagram sembra calda. Per strada, ragazzi con le cuffie: occhi persi nel vuoto, testa che dondola. Non stanno pensando, stanno solo aspettando il drop della playlist. E quelli che parlano da
soli? Auricolari invisibili. Ma sembrano pazzi lo stesso. Famiglie al ristorante: cinque persone, cinque cellulari. Silenzio assoluto. L’unico dialogo è: “Papà, mi passi il Wi-Fi?”. Piccoli episodi sparsi... Ma messi insieme raccontano una verità enorme: stiamo vivendo nell’era del Grande Rincoglionimento. Scorriamo, scorriamo, scorriamo... Non solo i telefoni. Scorriamo la vita stessa. Gatti, influencer, complotti assurdi, tutorial improbabili. La mente va in fumo. Il cervello si spegne in attesa della prossima notifica. Anch’io scorro. Anch’io rido. Anch'io mi indigno. Poi mi accorgo che sto diventando un vegetale tecnologico. Allora provo a fermarmi. Respiro... Guardo il vento negli alberi. Seguo un cane che cammina piano... Osservo il cielo che cambia colore. E per un attimo… ritorno viva. Platone ci aveva avvertiti con la caverna. Seneca diceva che non è poco il tempo che abbiamo, ma molto quello che sprechiamo. Noi oggi lo sprechiamo guardando reels di gente che taglia saponi colorati. La vera resistenza non è armata. È leggere un libro senza controllare il telefono ogni sei secondi. È camminare senza cuffie, accettando di ascoltare… i propri pensieri. Ogni gesto cosciente diventa eroico: guardare un volto negli occhi senza sembrare Hannibal Lecter, ascoltare una voce senza dire “scusa, ero su WhatsApp”, mangiare un piatto di pasta senza fotografarlo come fosse un’eclissi totale. Piccole rivoluzioni quotidiane... Fermiamoci. Guardiamo. Respiriamo... Ogni respiro consapevole è un antidoto al Grande Rincoglionimento. E forse, un giorno, quando chiederemo l’acqua naturale…ci porteranno davvero la naturale. Ma su questo non facciamoci illusioni: sarebbe troppo rivoluzionario. ⭐️Carmen Cascone

Suicidio assistito, la richiesta di Ada, malata di Sla: «Chiedo solo un po' di umanità»



Ada, 44enne campana malata di Sla, vuole il suicidio assistito e ha deciso di uscire dall’anonimato, raccontando la propria situazione in un video. A leggere le sue parole, la sorella Celeste poiché Ada, colpita dalla SLA diagnosticata lo scorso anno, non riesce più a parlare: «In meno di 8 mesi la malattia mi ha consumata. Con una violenza fulminea mi ha tolto le mani, le gambe, la parola. La vita è una cosa meravigliosa finché la si può vivere e io l’ho fatto. Ho vissuto con ardore gioie e dolori, e ho sempre combattuto per quello in cui credo, come la libertà di scelta.

. Mi sono rivolta alla mia Asl, coinvolgendo anche il tribunale, chiedendo ora quella libertà per me stessa: poter scegliere una vita dignitosa e una morte serena, vicino alla mia famiglia, nel mio Paese, quando la mia condizione diventerà definitivamente insopportabile. E ho intenzione di combattere per questo diritto finché ne avrò le forze. Ma quanto è crudele dover sprecare le ultime forze per una guerra?». Ada, infatti, dopo aver ricevuto dalla propria azienda sanitaria il diniego al suicidio assistito, ha dovuto presentare, tramite il collegio legale coordinato dall’avvocata Filomena Gallo, Segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni, un ricorso d’urgenza al tribunale di Napoli, a seguito dell’opposizione al diniego, visto che l’azienda sanitaria non dava seguito alle richieste. Durante l’udienza con l’azienda sanitaria si è concordata una nuova valutazione delle condizioni di Ada. Le visite sono state effettuate e ora è in attesa

4.10.25

I negozi che resistono all’onda online

unione  sarda  4\10\2025






In mezzo a tanti che chiudono, ci sono quelli che resistono. Sono i negozi storici incastonati nel centro e nel litorale che da anni accolgono generazioni di quartesi. Sono quelli che non si sono fatti spazzare via nemmeno dai grandi centri commerciali e dal boom degli acquisti online, forti del rapporto di familiarità instaurato con i clienti.
Geppetto fa 60 anni
In via Paganini, ha nei giorni scorsi festeggiato i sessant’anni il negozio di giocattoli Mastro Geppetto. Ad aprire l’attività fu Luisanna Vacca nel 1965. Per lei che aveva la passione per le bambole di porcellana fu quasi un sogno portarle nel suo negozio. A lei subentrò la figlia e poi il nipote Davide Orgiana 48 anni che è attualmente alla guida del negozio assieme alla moglie Stefania Siddi 47. «Dopo le bambole di porcellana nel negozio di mia nonna arrivò piano piano anche altro», racconta Orgiana, «prima le bambole di pezza, poi quelle in legno fino ad arrivare ai giocattoli vari». Fu la prima giocattoleria nell’hinterland. «Siamo arrivati alla terza generazione» aggiunge Orgiana, «ma oggi è cambiato tutto. Anche se i bambini hanno sempre quella meraviglia negli occhi quando entrano qui, è cambiata la mentalità dei genitori. Si preferiscono i giochi tecnologici. Le case sono più piccole non ci sta più tanto».
Abbigliamento dal 1950
Nel cuore del centro storico, in via Vittorio Emanuele, c’è uno dei pochi negozi di vestiti rimasti in città: l’Abbigliamento Caria, aperto da 75 anni.«Ad avviare l’attività fu mia mamma Elena Caria a cui siamo subentrati io e mio fratello» racconta Franco Ziri, «all’inizio vendeva di tutto: tessuti, vestiti, merceria. I clienti non sono mai mancati, ma quello che è inevitabilmente cambiato in tutti questi anni è il mercato. Soprattutto i negozi di abbigliamento chiudono con grande facilità perché molti si improvvisano. Io credo che il segreto per resistere sia la costanza. Essere al servizio della gente e non perdere mai la gentilezza». Aperto dal 1950 è anche il famosissimo negozio di stoffe Geppino in via Umberto, proprio davanti al mercato civico.E poi ci sono la pizzeria Vecchio Forno in via Diaz che a giugno ha festeggiato 70 anni e il negozio di elettrodomestici Murru in via Diaz.
L’ottantenne al comando
In via Umberto, si avvicina al traguardo dei sessant’anni la Ferramenta di Giorgio Cardia 80 anni: «Ho preso l’attività 57 anni fa. Prima non ci facevano tanti problemi e si poteva vedere di tutto, così c’era ferramenta ma anche generi alimentari. Erano gli anni del boom dell’edilizia quindi vendevamo tanto. Adesso, continuiamo a vendere ma i prezzi dei prodotti sono aumentati e i clienti fanno più fatica». Per andare avanti, «si lavora giorno e notte, perché i clienti sono esigenti e senza soldi». Con lui dietro il banco c’è suo figlio Andrea. «Mio figlio ha voluto seguirmi in questa attività. Peggio per lui. Io gli dico sempre che è come un condannato a morte. Tutto il giorno qui dentro».

Pietro Sedda il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti

   dopo a  morte    di  Maurizio Fercioni ( foto   sotto  a  centro ) , fondatore del Teatro Parenti a Milano e primo tatuatore d’Italia Gia...