…And still we sing
“Ma come si fa ad essere giovani nel 2007 e leggere Platone?”
Davanti all’esaltazione suscitata in me da una particolarmente accurata edizione in greco de
Come se ad un tratto il peso immateriale delle pagine che stringevo, si fosse fatto fisico e percepibile dal corpo, ogni sillaba, nata per liberare lo spirito dalle costrizioni, sembrava ora afflitta dal peso di quelle stesse catene ed anche le mie braccia parevano a stento riuscire a reggere saldamente il volume.
Ma le catene di cui parlo, non sono certo strumenti di sofferenza, al contrario, sono la strada più sicura per la felicità, se con felicità indichiamo quel comune tendere ad un senso di benessere e certezza, o meglio, di benessere nella certezza.
Abbandonare il conforto e la sicurezza delle proprie convinzioni, significa cedere al dubbio, all’incertezza della sfumatura, significa spezzare uno per volta, gli anelli della catena che ci tiene relegati nell’oscurità del calore delle sicurezze sin dalla nascita.
Ebbene, leggere Platone è scegliere la luce invece che il buio, ma di certo non so dire se questa sia la scelta migliore.
Auguriamo ai nostri figli la più grande delle felicità, e ci prodighiamo affinché la ottengono, costruendo con zelo attorno al loro un microcosmo dall’aspetto di mondo, conformato solo da specchi, da opposti, da bianchi e da neri.
Platone è la scheggia sottile che riga ogni specchio, provoca un’immagine distorta capace di insinuare nella mente la folle e assurda idea che forse la verità restituita dagli occhi non è la reale verità, se non addirittura insinuare che esista una verità altra, separata e diversa da quella che conosciamo.
Leggere Platone rappresenta un terribile atto di auto-inflizione del dolore: significa andare in contro alla scheggia e lasciarsi rompere volontariamente, pur sapendo che ciò che si sta perdendo non potrà mai essere rimesso assieme, e che a nostra volta diverremo schegge.
Con il nostro inchiostro, con il nostro pensiero, siamo simili ad armi scariche o con la sicura ancora inserita, solo chi volontariamente porge lo sguardo verso di noi e tende l’orecchio ai nostri sussurri, viene ferito.
Per il resto, rimaniamo inermi, nel solo ruolo di testimoni, non certo per nostra volontà, ma come conseguenza del nostro ardire, la separazione, siamo così costretti ad essere solo testimoni, perché chi ancora vive relegato nel buio, non sente le nostre voci, o meglio le percepisce come fossero canti, ché le catene impediscono loro di percepire le urla che dietro di essi si celano, Kierkegaardianamente parlando.
Ed allora qual è il vantaggio che un giovane trae dalla lettura di Platone? E ci può essere un vantaggio nello scegliere la sofferenza, implicata in ogni riga che sfregia lo specchio, invece che il benessere della certezza? Io ho scelto la prima, e dal troppo cantare, quasi ho perso la voce, senza che nessuno abbia mai teso le orecchie oltre quelle semplici note. Ed allora a che scopo continuare a cantare?
(“And still we sing” fa riferimento alla canzone Magpie di Marienne Faithfull/Patrick Wolf dall’ultimo album The Magic Position)
1 commento:
capisco
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