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28.8.25

Diario di Bordo n 145 anno III Giulia Tofana creatrice dell'acqua tofana uccise più di 600 uomini eroina contro i mariti violenti o serial killer ? anche l'italia ha i suo cammino di Santiago ., anche gli oggetti hanno una loro storia ed identità Il Mediterraneo ai piedi, storia delle espadrillas .,


fonte principale il portale msn.it poi sotto prima  di  ogi  post    i  vari  siti  portali degli articoli 

Geopop
Chi era Giulia Tofana, la donna che nel 1600 uccise circa 600 uomini grazie al suo veleno trasparente




C

Nel cuore dell’Italia del Seicento circolava un nome che ancora oggi suscita fascino e inquietudine: Giulia Tofana. Orfana e poverissima, proveniva dai bassifondi palermitani e fu Cortigiana della corte di Filippo IV di Spagna, ma era conosciuta da molte donne come fattucchiera. La sua fama nacque grazie alla sua invenzione mortale, l’Acqua Tofana, un veleno trasparente quasi insapore in grado di uccidere lentamente senza lasciare traccia. Tra il 1630 e il 1655, con questo intruglio sarebbero morti oltre seicento uomini, probabilmente tutti mariti violenti.
Le cronache la descrivono con due volti opposti: da un lato la “Vergine Nera”, spietata assassina che seminò morte nell’Europa barocca; dall’altro una sorta di alleata delle donne, capace di offrire un’arma invisibile contro un sistema patriarcale che non lasciava loro scampo. La verità, come spesso accade, si muove probabilmente tra i due estremi.
L’Acqua Tofana, il veleno che si mascherava da cosmetico
Il veleno veniva presentato come cosmetico o acqua santa, ma conteneva una miscela letale di arsenico, antimonio, belladonna e piombo. Bastavano poche gocce al giorno, versate nel vino o nella minestra, per uccidere senza destare sospetti: i sintomi imitavano malattie naturali (vomito e febbre) e lasciavano roseo il colorito del morto. Grazie alla sua intelligenza pratica e alla propensione per gli esperimenti, Giulia perfezionò la formula fino a renderla perfetta per la somministrazione discreta. Molte delle sue acquirenti erano donne intrappolate in matrimoni imposti o violenti, prive di protezione dalla legge o dalla Chiesa, e l’Acqua Tofana rappresentava per loro l’unica via di fuga.
Giulia Tofana, l'ultima strega bruciata a Roma: il suo veleno per i "matrimoni infelici" e la battaglia femminista.
Chi era
Giulia, pur agendo in modo spregiudicato, non perseguiva un diretto guadagno personale, ma creava un mezzo per consentire a queste donne di liberarsi di mariti crudeli. Non agiva mai da sola: attorno a lei ruotava una rete di farmaciste, levatrici e complici che distribuivano il veleno con discrezione. Con il tempo, anche la sua figliastra, Girolama Spana, avrebbe iniziato ad agire al suo fianco nella produzione e nella distribuzione del veleno. I flaconi erano decorati con l’immagine di San Nicola (l'immagine di un santo famoso e venerato, infatti, gli conferiva l'aria di una reliquia o di un'acqua miracolosa) circolarono per oltre vent’anni, trasformando l’attività in una vera e propria industria clandestina.






I clienti aumentavano rapidamente, consentendole di lasciare il malfamato quartiere del Papireto (inizialmente abitava infatti a Palermo) insieme alla sorella di latte Girolama. Successivamente, grazie a un frate amante, Giulia si trasferì a Roma, dove visse nel rione Trastevere, imparò a scrivere e si vestì come una dama d’alto rango.
La caduta e la condanna
Il destino di Giulia cambiò quando una cliente, la contessa di Ceri, contrariamente alle istruzioni, versò l’intera boccetta nella minestra del marito, uccidendolo subito e attirando i sospetti della famiglia. La polizia indagò, scoprendo la rete di Giulia. Durante il processo, che coinvolse anche centinaia delle sue clienti, molte spose furono condannate a morte e murate vive nel palazzo dell’Inquisizione a Porta Cavalleggeri (Roma). Tra le vittime di questa storia ci fu anche la figliastra Girolama, che finì impiccata a Campo dei Fiori il 5 luglio 1659 assieme ad altre quattro donne che la aiutavano a produrre e distribuire la pozione letale. Giulia, invece, sottoposta a tortura, sembra che sia fuggita dalla sua cella grazie all’intervento del suo amante frate, e di lei non si è più saputo nulla. La sua difesa in tribunale? Quei preparati erano cosmetici, e non era affare suo se le clienti li usavano diversamente.
L’Acqua Tofana continuò a circolare anche dopo la sua scomparsa. Pochi mesi prima di morire, nel 1791, Mozart confidò a sua moglie di sospettare di essere stato avvelenato proprio con questo veleno, testimonianza della fama e del timore che la miscela aveva suscitato quasi due secoli dopo la sua creazione. Oggi Giulia Tofana resta sospesa tra due figure: prima serial killer d’Europa o eroina silenziosa in un mondo che negava giustizia alle donne

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Runner's World Italia

È chiamato il Piccolo cammino di Santiago d’Italia e a settembre è perfetto



© Gina Pricope - Getty Images

Quante volte hai pensato di intraprendere il cammino di Santiago e poi per i più diversi motivi hai rinunciato? Ci vuole parecchio tempo, la preparazione fisica giusta, il suo costo non può essere sottovalutato e tanti altri piccoli fattori che alla fine ti hanno convinto a rimandare.
Ma certe situazioni, si sa, o le si prendono di petto oppure si finisce sempre per spostare la data un po’ più in là e diventa quasi una scusa quella che “intanto lo farò l’anno prossimo”. In attesa che quell’anno prossimo arrivi davvero, una soluzione te la diamo noi. Un’alternativa decisamente più alla portata di tutti che potrebbe essere il trampolino giusto per decidersi. Già, perché non tutti sanno che c’è un’escursione chiamato il Piccolo cammino di Santiago d’Italia e settembre può essere il mese perfetto per affrontarla.
Ecco dove si trova il Piccolo cammino di Santiago d’Italia, perfetto per settembre
Il Piccolo cammino di Santiago d’Italia è un percorso naturalistico lungo un centinaio di chilometri abbondanti, ma anche un'escursione storica dal sapore spirituale perché segue le orme di un santo. Si trova nel Trentino tra la Valle dell’Adige e le Dolomiti del Brenta, collega Trento a Madonna di Campiglio ed è formato da un’antica via romana. Stiamo parlando del Sentiero di San Vili, che prende il nome proprio da San Vigilio, un vescovo martire che nel IV secolo d.C. si incamminò su questo tracciato per un’opera di evangelizzazione.
Se sei un appassionato della natura, della storia, della religione e se ami il trekking questo percorso fa per te. E affrontarlo a settembre può essere un’ottima idea. Camminerai in mezzo alla natura incontrando boscaglie, tipici laghi montani e borghi storici che ti permetteranno di conoscere la loro storia affascinante e assaggiare prodotti tipici con sapori davvero unici. Proprio questo insieme di esperienze, che invitano alla riflessione e al viaggio spirituale (seppure se non è nato con funzione religiosa) grazie alle numerose chiese che si incontrano, ha fatto sì che il Sentiero di San Vili prendesse anche il nome di Piccolo cammino di Santiago d’Italia.Il Piccolo cammino di Santiago d’Italia va percorso in sei tappe
E per tenere fede a quello più famoso in tutto il mondo, anche il Piccolo cammino di Santiago si divide in tappe, per la precisione sei, con la possibilità però di scegliere un itinerario più impegnativo (definito “Alto”) adatto a esperti di trekking e uno più agevole che attraversa più centri abitati e ha un minore dislivello (definito “Basso”). Inoltre lo puoi percorrere in entrambi i sensi da Trento a Madonna di Campiglio e viceversa.
Il Sentiero di San Vili è stato inaugurato la prima volta nel 1988 dalla SAT, Società Alpinisti Tridentini. La prima tappa prende il via dal sobborgo trentino di Vela per raggiungere Covelo con un dislivello di circa 700 metri. La seconda tappa si conclude a Moline, nel comune di San Lorenzo in Banale, ed è particolarmente spirituale perché incontrerai numerose chiesette, oltre che le Gole del Sarca, canyon all’interno di un fiume. La terza tappa ti farà arrivare al borgo medievale di Irone, abbandonato a seguito della peste che nel Seicento colpì l’intera Europa. La quarta tappa, invece, ti condurrà al Passo Daone. È forse la più impegnativa, ma anche quella che ti regalerà panorami meravigliosi. La quinta farà capolino a Pinzolo con numerosi punti attrattivi tra cui la Pieve di San Vigilio, in val Rendena presunto punto dove il Santo fu martirizzato. Infine la sesta tappa con arrivo a Madonna di Campiglio, il luogo più turistico di tutto il cammino.

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Marie Claire Italia

Il Mediterraneo ai piedi, storia delle espadrillas



Che una scarpa così umile custodisca una storia sorprendente, fatta di arte, guerra e rivoluzione, potrebbe sembrare poco probabile, e invece le espadrillas – o espardenyas, per rispettare il loro antico nome catalano – nascono nel XIV secolo in Spagna come calzatura da lavoro, resistente ed economica, adatta a soldati, contadini e a chiunque avesse bisogno di praticità prima che di stile.
Il termine stesso, in ogni sua variazione, rimanda allo sparto, l’erba mediterranea utilizzata per intrecciare la suola. Allora era il risultato di produzione artigianale quasi corale, tra chi realizzava la tomaia in lino (oggi per lo più cotone), chi intrecciava e pressava le suole nei laboratori, chi cuciva a mano i punti ornamentali e chi sigillava tutto con la pece, oggi sostituita dalla gomma.




gettyimages-955105622© Gerard SIOEN - Getty Images

Col tempo, ogni regione aveva sviluppato il proprio stile, così si vedevano ai piedi espadrillas con nastri lunghi da avvolgere intorno al polpaccio, altre che si distinguevano per i pompon o le finiture a contrasto. E seppure indossate da entrambi i sessi, a consacrarle è stata la danza - la Sardana -, simbolo dell’identità catalana, eseguita in cerchio da ballerini con berretti rossi ed espadrillas ai piedi legate da nastri alti fino al ginocchio. Per secoli sono rimaste un affare esclusivamente spagnolo, diffuse tra i contadini della Catalogna e dei Paesi Baschi, ma a partire dal XIX secolo, complici il commercio internazionale e il nazionalismo, hanno iniziato a diffondersi, prima a Mauléon, nei Pirenei francesi, dove si è sviluppata un’industria fiorente, poi in Sud America, complice il clima tropicale che le ha rese un vero un successo.




Lady Diana© Anwar Hussein - Getty Images

Hanno cambiato ruolo con l’ascesa dei movimenti indipendentisti, diventando parte dell’abbigliamento popolare anche tra i combattenti baschi e catalani. Economiche, traspiranti e facili da sostituire, erano ideali per chi viveva in montagna o combatteva in clandestinità. Durante la Guerra Civile Spagnola le espadrillas si sono diffuse tra i repubblicani: molti marciavano contro l’esercito franchista con ai piedi le stesse scarpe che usavano nei campi. Non erano scarpe da battaglia, ma la penuria di equipaggiamento rendeva necessario l’uso di qualsiasi calzatura disponibile, e nemmeno Franco ne era rimasto indifferente, perché negli anni Trenta aveva requisito la fabbrica Castañer per convertire la produzione a uso militare. Un dettaglio che testimonia quanto questa calzatura fosse al tempo stesso radicata nella vita quotidiana e nelle lotte di un paese.
La storia della maison Castañer era iniziata nel 1927 a Girona, con Luis Castañer e suo cugino Tomàs Serra. Lavoravano lo sparto, cucivano a mano, vendevano localmente. Nel dopoguerra Salvador Dalì ne fece il proprio, se non ennesimo, dettaglio eccentrico, indossandole con i calzini rossi e un copricapo da giullare. Rita Hayworth le aveva sfoggiate in La signora di Shanghai (1947), mentre in L'isola di corallo (1948) Lauren Bacall, con camicia bianca, gonna dirndl ed espadrillas ai piedi, aveva lanciato un look che non è mai davvero passato di moda. Erano anche fisse nei guardaroba estivi di Audrey Hepburn e Gabrielle Chanel. Durante le sue fughe in Costa Azzurra, Coco ne portava spesso un paio in tela abbinate a uno o più giri di perle, un cappello da marinaio e l’aria di chi ha inventato il less is more senza doverlo mai dire. È stato però l’incontro con Yves Saint Laurent, nel 1972, a consacrare Castañer - insieme i due marchi hanno creato il primo modello con la zeppa e da lì in poi le espadrillas sono diventate parte dell’eleganza francese, perfette sia per le Baleari che per la Costa Brava, simbolo di un’estetica vacanziera e disinvolta.




gettyimages-508406316© Rico Puhlmann - Getty Images

Decenni dopo, è stato Karl Lagerfeld a recuperarle per la maison: le espadrillas Chanel hanno fatto il loro debutto con la collezione Primavera/Estate 2013. Il modello in tela pastello, con punta quasi dorata e le doppie C intrecciate, sembrava una ballerina con la licenza di prendersi una vacanza, e come accade sempre con Lagerfeld, poco dopo sono arrivate tutte le variazioni possibili, in pelle liscia, in tweed, in denim, in velluto trapuntato. Oggi le espadrillas Chanel sono considerate un’istituzione estiva quanto la 2.55 e la giacca bouclé, un classico off-duty, un ibrido perfetto tra informalità e savoir-faire.


gettyimages-650951986© Bernard Annebicque - Getty Images

A contribuire in maniera meno vistosa, e forse più radicale, al mito delle espadrillas fu Pablo Picasso, che amava indossarle durante le sue vacanze a Juan-les-Pins o sulla spiaggia di Dinard, abbinate a camicie di lino e pantaloni larghi. Il mercante e mecenate Paul Rosenberg, vero regista del suo successo mondano, si preoccupava personalmente che l’artista ricevesse regolarmente i modelli giusti, quelli più morbidi, con la suola flessibile. Quando nel 1919 Picasso era partito per Londra con i Ballets Russes, è stata la moglie di Rosenberg a spedirgli un paio di espadrillas nuove insieme a qualche consiglio su come arredare il soggiorno con eleganza. Quindi non sorprende che, tra i codici del “basque chic”, ci siano proprio le espadrillas, che con i loro colori bruciati – gialli, ocra, rossi terracotta – sono il simbolo stilistico di una Francia rurale e colta allo stesso tempo.



gettyimages-949589912© Francois ANCELLET - Getty Images


 Dal lino coltivato nei Paesi Baschi alle righe dei pescatori dell’Atlantico, fino ai berretti alla marinara, è tutto parte di un’estetica sobria, assolutamente riconoscibile, a cui Picasso ha contribuito in modo decisivo, sia con i suoi quadri che con il modo in cui abitava il mondo. Di questi tempi la maggior parte delle espadrillas è prodotta in Bangladesh, con metodi industriali e materiali sintetici, eppure ci sono ancora laboratori che resistono, come Castañer e Naguisa, a Barcellona, dove si lavora secondo metodi autentici - la suola in sparto è ancora modellata a mano, la tela ancora tagliata in due pezzi distinti, cuciti e poi fissati con cura maniacale. Un lavoro artigianale e di fino che, seppur invisibile, farà tutta la differenza.

Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata n XXXVIII. - per gestire stress ed ansia allenate la respirazione

 Scusate    se    non   converto il pdf   ma   questo caldo mi  uccide   . 

Qui  nella  punta  di questa  setimana Antonio bianco approndisce  ulteriormente quanto detto nella puntata  precedente .
Che altro aggiungere dunque a quanto già detto ? Niente   che la  Respirazione in momenti concitati accelerata o affannosa . Infatti : l’organismo mette in atto la risposta di attacco/fuga, quindi il cuore batte più forte, il sangue viene spinto nei muscoli degli arti per sostenere la reazione “attiva” ed i polmoni accelerano per sopperire all’aumentato fabbisogno di ossigeno ed ecco quindi che lo stress  e  la  tensione  aumenta  . Una reazione di questo tipo può portare a conseguenze quali iperventilazione e in casi estremi, allo svenimento  e  rendere  pià deboli e meno attenti\  vigili in caso di minaccce  e di aggressioni .
Quindi   è meglio   praticare  degli esercizi  per  controllarla e restare  vigili  davanti a situazioni di pericolo . Non so  che   altro aggiungere  se non   di suggerire  di  nuovo l'articolo  citato nella  puntata precedente   di  
Centro Ànemos - Lesmo (MB)






27.8.25

diario di bordo n 145 anno III “Ha giustificato l’assassinio di giornalisti a Gaza”: la clamorosa rottura della fotografa Valerie Zink con Reuters., Per i romani, c'era una punizione peggiore persino della morte o della schiavitù


facendomi  la  mia  solita  rasegna  stama web    ho trovato tramite  msn.it  un  'articolo  : << Ha giustificato l’assassinio di giornalisti a Gaza”: la clamorosa rottura della fotografa Valerie Zink con Reuters >>   su   InsideOver.






Un tesserino giornalistico strappato a metà, indicante chiaramente uno dei loghi più iconici dei media globali: l’agenzia Reuters. A corredo, un post durissimo: così la fotografa canadese Valerie Zink ha annunciato, dopo otto anni, la fine unilaterale del suo rapporto con l’importante agenzia britannica, adducendo come responsabilità della stessa Reuters il ruolo che avrebbe giocato nel giustificare la continua uccisione di giornalisti a Gaza da parte delle forze armate israeliane.
Zink è una reporter canadese che ha pubblicato importanti scatti riguardanti le grandi pianure del suo Paese natale, le eredità del colonialismo sui territori indigeni, il rapporto tra l’uomo e il suo spazio. Di fronte al massacro di Gaza, in cui un popolo è stato preso a bersaglio nella sua stessa terra, una logica di dominio è stata esercitata usando la risposta ai drammatici attentati di Hamas del 7 ottobre 2023 come pretesto e una campagna di pulizia etnica messa in atto, Zink ha visto probabilmente cadere molte sue certezze.
L’uccisione di giornalisti e il presunto lassismo di Reuters nel condannarle hanno fatto traboccare il vaso: “è diventato impossibile per me mantenere un rapporto con Reuters, dato il suo ruolo nel giustificare e consentire l’assassinio sistematico di 245 giornalisti a Gaza”, scrive Zink su Facebook, aggiungendo che “devo almeno questo ai miei colleghi in Palestina, e molto di più”.
La guerra di Gaza è ad oggi il conflitto che, di gran lunga, ha ucciso più giornalisti nella storia e, secondo la fotografa, ad aggravere la responsabilità dei media ci sarebbe l’assenza di deontologia nel gestire le problematiche notizie che riportano di sempre nuove uccisioni di reporter e fotografi: “Quando Israele ha assassinato Anas Al-Sharif, insieme all’intera troupe di Al-Jazeera, a Gaza City il 10 agosto, Reuters ha scelto di pubblicare l’affermazione del tutto infondata di Israele secondo cui Al-Sharif fosse un agente di Hamas – una delle innumerevoli bugie che organi di stampa come Reuters hanno diligentemente ripetuto e dignitosamente sostenuto”, scrive Zink. Non finisce qui.
Nella giornata di ieri proprio l’agenzia di proprietà canadese ha pianto una vittima, il cameraman e collaboratore Hossam al-Masri, ucciso all’ospedale Nasser di Gaza. Per la fotografa canadese la mattanza è stata favorita dall’impunità accordata ai media occidentali alle azioni di Israele, indicando come presunti “membri di Hamas” o danni collaterali le vittime.
Per la Zink “ripetendo le invenzioni genocide di Israele senza stabilire se abbiano credibilità – abbandonando volontariamente la responsabilità più elementare del giornalismo – i media occidentali hanno reso possibile l’uccisione di più giornalisti in due anni su una piccola striscia di terra che nella prima e nella seconda guerra mondiale e nelle guerre di Corea, Vietnam, Afghanistan, Jugoslavia e Ucraina messe insieme, per non parlare del fatto di aver fatto morire di fame un’intera popolazione, di aver fatto a pezzi i suoi bambini e di aver bruciato vive le persone”.
Di fronte a tanto dolore e tanto spaesamento si potrà perdonare a Zink di essere calata in maniera tanto netta su un sistema di potere e informazione intero. E si deve cogliere indubbiamente un grido d’allarme e di rabbia circa il tradimento di una deontologia altamente rispettabile da parte di un’ampia fetta delle alte sfere dell’editoria occidentale. A cui, purtroppo, molti stuoli di collaboratori e professionisti sono chiamati a uniformarsi pena la rinuncia a prospettive lavorative e di carriera. Valerie Zink dimostra che si può scegliere anche di chiamarsi fuori da questo tritacarne.
Una bella lezione nei giorni in cui in Italia direttori di giornali si presuppongono esperti di leucemie per provare a dimostrare che una giovane palestinese non si è ammalata ed è morta per la carestia indotta di Israele (e assolvere Tel Aviv) o editorialisti di peso si mettono a cavillare sul fatto che, no, Israele e gli Usa di Donald Trump non ritengono che la prevista evacuazione dei gazawi debba esser “forzata” perché nei documenti ufficiali queste parole mancano.
Certo, c’è da dire che il declino riguarda principalmente la stampa anglosassone e che esistono notevoli eccezioni: su Gaza ci sono testate come The Guardian, una parte consistente della stampa francese e i media di stampo cattolico legati al Vaticano (dal network Vatican News a L’Osservatore Romano e, in Italia, “Avvenire”) che hanno coperto con attenzione e competenza i massacri di Gaza e le problematiche politiche ad essi collegate. Noi di InsideOver siamo per la costruzione di ponti e riteniamo che finché c’è voce per l’informazione sana ci sarà speranza. Ma queste voci sono sempre meno udibili. E Valerie Zink fa bene a ricordarcelo.
  
  tale  notizia   mi  riporta   alla  mente  quest  altro articolo     sull'antica  romana  e  sull'antichità  . infatticambiano i  metodi oggi si  usa  la Shitstorm  \  macchina  di  fango   ma  i  metodi   per  elminare  le  voci scomode o  i personaggi  non conformi     è  lo stesso   .


Per i romani, c'era una punizione peggiore persino della morte o della schiavitù

  da  
Storica National Geographic
   tramite ms.it  









-© Antikensammlung Berlin

Gli imperatori romani spesso finivano la loro vita nel peggiore dei modi, traditi e uccisi dai loro uomini di fiducia e persino dai loro stessi familiari. Ma anche così, esisteva una punizione peggiore della morte: comportarsi come se non fossero mai esistiti. Il loro nome veniva cancellato dalle iscrizioni, il loro volto scalpellato dalle statue, le loro monete fuse e i loro ritratti sostituiti... Questo, nell'antica Roma, era chiamato damnatio memoriae, letteralmente «condanna della memoria».
La damnatio memoriae era una cancellazione deliberata di ogni iscrizione o oggetto che dimostrasse l'esistenza di una persona. L'obiettivo non era solo quello di umiliare il condannato, ma di estirparlo dal tessuto della storia romana. costituivano l’equivalente della memoria pubblica: se venivano eliminati, il ricordo di qualcuno svaniva nel giro di pochi decenni.
Diversi imperatori ne furono vittime. Nerone, nonostante la sua iniziale popolarità, fu cancellato dalla storia dopo la sua deriva verso la stravaganza. Commodo, che si credeva la reincarnazione di Ercole, venne assassinato e la sua memoria cancellata dal senato. Geta venne cancellato da tutti i ritratti per ordine del proprio fratello, Caracalla. Ma forse il caso più eclatante è quello di Domiziano: dopo la sua morte nel 96, il senato non solo ordinò la distruzione delle sue statue, ma proibì anche qualsiasi menzione ufficiale del suo nome. Paradossalmente, molti di questi imperatori che si volle cancellare dalla storia sono oggi tra i più ricordati.
Il processo era meticoloso e, allo stesso tempo, approssimativo. Non era regolato da una legge formale, ma il senato o il nuovo imperatore potevano ordinarlo nel caso in cui il sovrano appena eliminato avesse lasciato un ricordo molto negativo. Le iscrizioni su pietra venivano raschiate, lasciando vuoti sospetti. Le statue, a volte, venivano “riciclate”: il volto del condannato veniva scalpellato e sopra veniva scolpito quello di un nuovo imperatore. Le monete, più difficili da distruggere, venivano fuse o limate per eliminare l'effigie. Il messaggio era chiaro: l'individuo aveva cessato di far parte di Roma.
La memoria che non si poteva cancellare
Eppure, la damnatio memoriae aveva un effetto collaterale ironico. Cancellando qualcuno, si creava la prova che era esistito. Quei segni di scalpello, quelle statue con il volto strappato, sono oggi indizi preziosissimi per archeologi e storici proprio perché invitano a indagare. In un certo senso, il tentativo di oblio assoluto è stato un fallimento totale: ricordiamo i “dimenticati” proprio perché qualcuno ha cercato di cancellarli.
Questo meccanismo non era esclusivo di Roma. Nell'antico Egitto, faraoni come la regina Hatshepsut vennero cancellati dai rilievi e dalle liste reali dai loro successori. E se facciamo un salto in avanti di molti secoli, nell'URSS dopo le purghe di Stalin, le foto ufficiali venivano ritoccate per eliminare chi era caduto in disgrazia. Anche oggi, grazie alla facilità di modificare le immagini, persiste questa pulsione a riscrivere la memoria.
La damnatio memoriae ci lascia una lezione importante: il potere non solo detta il presente, ma cerca anche di plasmare il passato. Ma, come dimostrano i vuoti nei muri di Roma o le effigi scolpite nei templi egizi, l'oblio imposto raramente è completo. A volte, ciò che viene cancellato è ciò che attira maggiormente l'attenzione. E forse, in questo atto involontario, i condannati hanno ottenuto la loro piccola vendetta: essere ricordati per sempre, spesso più di coloro che hanno voluto cancellarli.


A 92 anni corre come una ventenne: il caso straordinario di Emma Mazzenga atleta dei record a 92 anni: «Sveglia alle 5 e vino tutti i giorni. Mi studiano, ho l'ossigenazione di una ventenne»

  fonti   Corriere.it  del 27\8\2025

Emma Mazzenga, atleta dei record a 92 anni: «Sveglia alle 5 e vino tutti i giorni. Mi studiano, ho l'ossigenazione di una ventenne»

di Alice D'Este

La padovana detiene il record del mondo nei 200 metri per over 90 e ha vinto 11 titoli mondiali: «Un consiglio? Non restare mai dentro casa un giorno intero»

nonna velocista

Il cellulare squilla. Lei, che è in vacanza in montagna, non poteva essere altrove: su un sentiero in salita, direzione rifugio. Col respiro incredibilmente regolare avvisa: «Sentiamoci più tardi». Emma Mazzenga, padovana di 92 anni, è campionessa di atletica e detiene 11 titoli mondiali (ma anche 31 europei e 115 italiani). Corre praticamente da sempre. O meglio, l’ha fatto quando era giovane e poi si è fermata per riprendere a livello agonistico quando di anni ne aveva già 53. Oggi ha un fisico a tal punto invidiabile da essere diventato oggetto di studio di diverse università (la Marquette University di Milwaukee e l’Università di Pavia). «Mi hanno detto che ho i muscoli di una settantenne e l’ossigenazione cellulare di una ventenne — scherza lei — mi sembra incredibile. Una cosa è certa: io ferma non ci sono stata mai».

Ci racconta la sua giornata tipo?
«Ho sempre dormito poco. Quando andavo a scuola (ha insegnato scienze al liceo scientifico, ndr) preparavo le lezioni dalle 5 alle 7 di mattina. E anche oggi, alle cinque, mi faccio il caffè, poi torno a letto a leggere. Faccio colazione alle otto, con un panino al prosciutto. Poi esco».

Dove va?
«A fare la spesa al mercato oppure faccio un po’ di pulizie. Dopo pranzo mi riposo un paio d’ore leggendo e poi esco nuovamente per andare al cinema, al gruppo lettura, per incontrarmi con le amiche o per allenarmi. La sera guardo la televisione, vado a letto verso le 23».

Cosa si mangia per restare così in forma fino a 92 anni?
«Un po’ di tutto. Adesso che sono anziana limito le porzioni. A pranzo mi preparo 30 o 40 grammi di pasta o riso, cui aggiungo un secondo e la verdura cotta. Alterno carne e pesce. La sera invece mi basta un po’ di verdura e un pezzetto di formaggio. Ah, ogni giorno bevo mezzo bicchiere di vino rosso a pranzo e mezzo a cena. E ogni tanto mi faccio qualche ricetta veneta».

Si muove a piedi?
«Sì, quasi sempre. Ma è sempre stato così. Anche oggi adopero l’auto solo due volte a settimana per andare ad allenarmi. La mia vita non è mai stata sedentaria. Con mio marito che era istruttore di roccia d’estate andavamo in montagna, d’inverno a sciare. Perfino durante il Covid correvo nel corridoio di casa mia. Dopo un’ora di allenamento, quando mi faccio la doccia, mi sento benissimo».

E quando piove?
«Non si può usare il meteo come scusa. Ci vuole volontà. Anch’io, a volte, rimarrei seduta sul sofà, ma so che se esco poi mi sentirò benissimo».

E poi vince pure i titoli mondiali.
«Sì, ma diciamocelo, ora ho poche concorrenti (sorride). A gennaio 2024 ho stabilito un nuovo record mondiale nei 200 metri per la categoria W90 (over 90 anni) e a giugno dello stesso anno ho abbassato di oltre un secondo il tempo. Vorrei dirlo a tutti: non è mai troppo tardi!».

Per allenarsi?
«Non solo. Non siamo tutti atleti. Intendo dire che non è mai troppo tardi per la socialità e il movimento. Io sono rimasta vedova a 55 anni, la corsa mi ha aiutato moltissimo. È una questione chimica, sono le endorfine. Ma è anche legato al benessere che ti dà stare con gli altri».

Se dovesse dare un’indicazione per l’elisir di lunga vita?
«Alzarsi dal divano. Non rimanere mai a casa un giorno intero. Stare chiusi tra quattro mura porta tristezza, depressione e non aiuta né la mente né il corpo».

  e    tgcom24  tramite msn.it




A 92 anni non trascorre le giornate sul divano o al telefono con i figli, ma correndo in pista e allenandosi con costanza. Emma Mazzenga non è la nonna che ci si aspetta. Padovana, ex insegnante di chimica, è oggi una leggenda dell’atletica master: vanta 11 titoli mondiali, 31 europei e ben 115 titoli italiani. Il suo spirito competitivo e la sua forma fisica eccezionale hanno attirato l’attenzione della comunità scientifica internazionale. Un team di ricercatori italiani e statunitensi sta conducendo studi approfonditi sul suo corpo: muscoli, nervi e mitocondri vengono analizzati per comprendere come sia possibile mantenere prestazioni atletiche simili in età così avanzata.
Record e prestazioni da primato La carriera sportiva di Emma è iniziata tardi. Dopo una giovinezza
dedicata allo studio e alla famiglia, ha ripreso a correre con serietà solo dopo i 50 anni. E da allora non si è più fermata. Attualmente detiene quattro record mondiali di categoria e ha recentemente battuto due volte il primato dei 200 metri. “Il segreto è non fermarsi mai” dichiara la nonna dei record.
Secondo uno studio citato dal Washington Post, le sue fibre muscolari sono comparabili a quelle di una settantenne in salute, mentre la sua ossigenazione muscolare è simile a quella di una ventenne. In particolare, la funzione mitocondriale - ovvero la capacità delle cellule di produrre energia - risulta straordinariamente ben conservata.
Il segreto? Mai smettere di muoversi Emma ha sempre creduto nel potere rigenerante dello sport. Nonostante gli impegni familiari e professionali, ha mantenuto un legame costante con l’attività fisica. Oggi si allena regolarmente e invita tutti, soprattutto gli anziani, a non rinunciare mai al movimento, anche nei limiti delle proprie capacità. "Non serve essere atleti agonisti. Basta evitare di restare fermi tutto il giorno chiusi in casa” afferma con semplicità.
Un caso da manuale per la scienza La sua alimentazione è equilibrata ma semplice: pasta, riso, pesce, carne e mezzo bicchiere di vino fanno parte della sua dieta quotidiana. A ciò aggiunge controlli medici regolari e una grande attenzione al proprio benessere interiore, alimentato dal piacere di fare sport. Tra i ricercatori che stanno studiando il "caso Mazzenga" c’è anche Chris Sundberg, coinvolto in una ricerca sul rallentamento dell’invecchiamento muscolare. Secondo lui, Emma rappresenta un esempio raro in cui la comunicazione tra cervello, nervi e muscoli si mantiene attiva e sana, a differenza di quanto avviene normalmente nella popolazione over 90. Anche Marta Colosio, ricercatrice alla Marquette University, si dice sbalordita: “Non ho mai visto nulla di simile. Sta invecchiando, certo, ma riesce a compiere azioni che per altri, alla sua età, sono impossibili”.
Il 3 agosto Emma ha festeggiato il suo 92° compleanno. Ma non ha alcuna intenzione di rallentare. Dopo la prossima gara, in programma a ottobre, sarà nuovamente sottoposta ad analisi da parte degli studiosi dell’Università di Padova e di altri enti statunitensi. Il suo messaggio è chiaro e potente: “Vivo alla giornata, ma mi diverto ancora”.

«Agli ebrei ritirate l’amicizia su Facebook, facciamoli sentire soli», il consiglio del prof Luca Nivarra dell’Università di Palermo. Scoppia la polemica

Leggo su   open ( qui  l'articolo    completo   ) che



Con un post su Facebook, il professor Luca Nivarra  ( foto a  sinistra  )  , docente della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo, ha suggerito di «togliere l’amicizia su Facebook» agli amici ebrei, «anche quelli buoni», per opporsi a quello che chiama «l’Olocausto palestinese». La sua “proposta” sul conflitto di Gaza ha scatenato l’indignazione del rettore del suo ateneo. E la condanna anche della ministra dell’Università e la Ricerca, Anna Maria Bernini, che ha definito le parole di Nivarra «offensive». E lo stesso docente ha poi replicato a chi lo ha accusato di antisemitismo. Nel suo post, Nivarra non ha usato mezzi termini: «Non voglio intromettermi in questioni che non mi riguardano direttamente ma, avendo a disposizione pochissimi strumenti per opporci all’Olocausto palestinese, un segnale, per quanto modesto, potrebbe consistere nel ritirare l’amicizia su Fb ai vostri “amici” ebrei, anche a quelli “buoni”, che si dichiarano disgustati da quello che sta facendo il governo di Israele e le IdF». Il docente ha rincarato la dose: «Mentono e con la loro menzogna contribuiscono a coprire l’orrore: è una piccola, piccolissima cosa ma cominciamo a farli sentire soli, faccia a faccia con la mostruosità di cui sono complici».




 Lo so,come ho  replicato     tempo  fa    suqueste  pagine     dell'errore che  feci    con  una battuta    dove si confondeva  antisemitismo  con antisionismo ,  che  il  confine     tra  i  due  termini  è   soprattutto in situazione   come questa  labissimo   . Ma    Questo   post    è atisemitismo puro . Infatti    come   dice  su quest articolo   di   https://www.huffingtonpost.it/  il  commento  di   


Andrea__gdSXfrt
16 ore fa


Ecco, questa è follia pura. Un discorso è addossare all'elettorato Israeliano (paese peraltro composto anche di non ebrei per almeno il 25%) la responsabilità di aver eletto e di sostenere il macellaio Netanyahu.Altro discorso è prendersela con "gli ebrei" in generale, la maggior parte dei quali non è nemmeno cittadino israeliano e quindi non ha responsabilità in quel che succede.La prima è una legittima posizione politica, sebbene magari discutibile... la seconda è lurido e vergognoso antisemitismo, ne più ne meno.Ciò detto, vista la quantità di "brava gente" che sui social ti toglie amicizia perché la dai a un albanese, la cosa non mi meraviglia proprio... purtroppo siamo quella roba lì, e il mito dell'Italia non razzista, ammesso che sia mai stato più di un mito, è comunque morto da un pezzo


 Come dice l'articlo di H ( vedi  url nelle righe sopra ) :  ‹‹ L’idea che una persona di tradizione ebraica, appartenente a una famiglia ebraica, di religione ebraica, per questo possa essere esclusa dal novero dei propri “simili” è la stessa idea che nel 1938 ispirò in Italia le leggi razziali »  .  Giustamente    non si è  fatta  attendere   la reazione   di Massimo Midiri, rettore dell’Università di Palermo, che ha bollato  sempre  su Open  l’iniziativa come «culturalmente pericolosa e lontana dai principi del nostro ateneo ». «Prendo le distanze da quanto dichiarato dal professore Luca Nivarra», ha dichiarato Midiri. «La sua è una proposta che rischierebbe di alimentare le stesse dinamiche che afferma di voler contrastare. Su temi complessi come il conflitto in Medio Oriente, la strada da percorrere deve essere quella del dialogo e del confronto critico, non dell’isolamento e di ciò che si avvicina a una censura ideologica».
La posizione dell’Università di Palermo sul conflitto a Gaza . Il rettore ha ricordato come l’università abbia già preso posizione sulla questione mediorientale: « Nel corso del 2024, e confermato anche nel 2025, il Senato e il Cda del nostro Ateneo hanno approvato diverse mozioni sul conflitto in Palestina, condannando sia il brutale e insensato attacco di Hamas dello scorso 7 ottobre, sia la successiva azione militare di Israele a Gaza». Midiri ha ribadito la linea dell’istituzione: « L’ateneo ha condannato e condanna con fermezza le atrocità commesse dal governo israeliano in Palestina, ribadendo la più decisa opposizione e la più aspra denuncia contro la prosecuzione di un conflitto che continua a ledere i diritti umani e a colpire programmaticamente un’intera popolazione ». Tuttavia, ha concluso, «l’appello del professore Nivarra rappresenta un’iniziativa personale culturalmente pericolosa e lontana dai principi del nostro ateneo ».


Giuste ache se faziose e un po' ipocrite e propagandistiche  le dichiarazioni ( qui  sul  suo   x \ twitter   il post completo ) del Ministro\a Il ministro dell’Università Anna Maria Bernini


Le  dichiarazioni del professore Nivarra non offendono solo il popolo ebraico ma tutti coloro che si riconoscono nei valori del rispetto e della convivenza civile – ha detto Bernini – Le parole del rettore Midiri rappresentano una presa di distanza netta e doverosa da affermazioni inaccettabili, rendendo onore all’intera comunità accademica palermitana. I conflitti si superano con il dialogo, non con l’isolamento, ed è solo attraverso questa via che si può costruire un autentico percorso di pace, obiettivo al quale l’Italia e la comunità internazionale continuano a dedicare il proprio impegno».
 Cosi   pure  alla  stessa  maniera   la  replica   del   docente che   è  come  un arrampicarsi sugli specchi   .  Infatti  sempre  secondo Open  dopo le prime polemiche e le accuse di antisemitismo, il prof. Nivarra ha scritto ancora altri post. Nell’ultimo parla proprio a chi lo ha insultato:

 «Mi rivolgo a chi, intervenendo sulla mia pagina, mi ha coperto di insulti e minacce, di cui, sinceramente, mi curo assai poco, anzi nulla. Potete continuare a sbraitare e a ricorrere ad un vocabolario da adolescenti a corto di fantasia; potete darmi dell”antisemita quando io non lo sono affatto. Ma una cosa è certa: che tra me e gli artefici di questi orrori c’è una distanza insuperabile; mentre per voi, nella migliore delle ipotesi, sono israeliani che sbagliano. Adesso potete riprendere a snocciolare il vostro rosario di insulti e minacce; nulla rispetto al rischio cui siete esposti voi, di avere qualcosa a che fare, anche così, solo alla lontana, con questi assassini».


 perchè  s'è vero   che    chi tace  è complice  ci sono anche  se  in minoranza   purtroppo  in israele  ebrei   che non la  pensano  come  i sionisti  .  Nient'altro d'aggiungere 






26.8.25

Il corpo di Sinigaglia non sarà recuperato (ed ecco perché è la montagna a chiedercelo

i parenti dovranno rassegnarsi a piangerlo davanti a un loculo cimiteriale o un vaso funebre se decidono di cremarlo e conservare le ceneri . Posso piangerlo , non c'è niente di male , ovviamente è u mio parere .


Msn.it  



Primo esempio: non sarà recuperato il corpo di Luca Sinigaglia, alpinista milanese morto sul Pobeda Peak (7.439 metri tra Kirghizistan e Cina) mentre tentava di raggiungere un'amica bloccata e che, con ogni probabilità, è già morta anche lei. I soccorritori erano pronti, ma l'autorizzazione del governo kirghiso è stata revocata senza spiegazioni com'è d'uso da quelle parti. La salma resterà lassù, e il gelo la conserverà intatta per decenni come pure accade a centinaia di alpinisti rimasti in quota. È relativamente normale, e va spiegato: in alta montagna non tutti i morti possono essere recuperati per via dei costi ma anche di logistica, di geopolitica e di sopravvivenza dei soccorritori: un corpo ghiacciato può pesare oltre cento chili e richiede una cordata di almeno otto uomini per essere trascinato, e, dai settemila in su, ogni sforzo in più significa rischiare seriamente la pelle. Secondo esempio, più vicino. Un alpinista pure lui lombardo è stato ucciso l'altro ieri dal crollo di un seracco (un blocco di ghiaccio formato da un ghiacciaio) e questo sul Mont Blanc du Tacul, vetta di 4.240 metri nel versante francese del Monte Bianco. Un suo compagno, ferito, è stato salvato da un elicottero: in questo caso i soccorsi sono stati possibili perché la quota è meno proibitiva e il meteo era compatibile, ma, già a 4mila metri, e coi seracchi che crollano e le nevi instabili, non sempre un recupero è scontato.
Daniele Nardi e Tom Ballard rappresentano il terzo esempio. Uno italiano e uno inglese, le loro salme sono a tutt'ora sul Nanga Parbat (8.126) dal febbraio 2019: droni, elicotteri e altri alpinisti permisero di localizzarne i corpi, i quali, tuttavia, erano e restano in un punto ritenuto troppo pericoloso per ogni tentativo: lo stesso Reinhold Messner aveva sconsigliato Nardi di provare per quella via. Le famiglie dei due alpinisti si opposero poi a ogni possibile tentativo di recupero e dissero che preferivano che diventassero parte integrante del Nanga Parbat.
A quelle altitudini vale una legge non scritta che sfiora la crudeltà: spesso non si può soccorre un compagno, o chicchessia, anche se sono ancora vivi, perché portarli o trascinarli può significare condannare anche se stessi insieme a loro. È accaduto sovente soprattutto sull'Everest, dove alpinisti agonizzanti sono stati superati da altri che salivano o scendevano senza che nessuno potesse o volesse intervenire: raramente per mancanza di pietà, più spesso perché salvarne uno avrebbe significato perderne due.
Nessun luogo concentra questa realtà come l'Everest. Nella cosiddetta Valle dell'Arcobaleno, sotto la cresta nord, visibili o invisibili, ci sono almeno duecento corpi, e alcuni sono divenuti dei veri e propri segnavia. Tra questi il celebre «Green Boots», probabilmente l'indiano Tsewang Paljor, morto nel 1996 e rimasto per vent'anni rannicchiato sotto un anfratto della via normale, fotografato da migliaia di alpinisti; oppure «Sleeping Beauty», la statunitense Francys Arsentiev, morta di sfinimento nel 1998 e icona macabra della salita. Dopo un paio di decenni li hanno spostati solo perché disturbavano le spedizioni commerciali. I corpi in alta quota, come detto, non decompongono e restano immobili, conservati dal gelo, spesso visibili, a volte spostati da valanghe. Per recuperarli servono mediamente 30-40 mila euro: non è strano che molti restino lì.
La montagna, insomma, a certe quote divora ogni tentativo e impone sacrifici insensati: chi va sa che può restare, chi resta può divenire parte del paesaggio o un segnavia, un ammonimento, un ricordo. Alcuni corpi riaffiorano dopo decenni, altri restano lassù. Anche da noi, in Italia: nelle Alpi, i ghiacciai che si ritirano stanno restituendo pezzi di un passato che pareva cancellato. Sul Cervino, nel 2005, fu ritrovato il corpo di Henri Le Masne, alpinista francese scomparso nel 1954 e riconosciuto solo nel 2018 grazie al Dna. Nel 2015 riemersero i resti di due giapponesi caduti nel 1970. Ossa, attrezzature e scarponi emergono con la stessa naturalezza con cui i ghiacciai si ritirano. Sembra tutto così normale.

Caterina Malavenda: «Io Perry Mason e giornalista, la democrazia funziona quando non si processano le opinioni»«I processi contro i cronisti? Così ho difeso la loro libertà». Il libro con dieci casi simbolo

non sono una signora - loredana berte
Gracias A La Vida - Mercedes Sosa


 fonte  corriere  della  sera  





Parla «l'avvocato» che difende i giornalisti. Il suo ultimo libro, «E io ti querelo», è sui 10 casi che l’hanno più appassionata Nino Luca, inviato in Liguria / CorriereTv



Riviera ligure, spiagge piene sotto il sole. Caterina Malavenda abbraccia la chitarra sul suo terrazzo e si lancia in «Vitti 'na crozza» e poi si concede a una inedita intervista con il suo libro ( «E io ti querelo»,) poggiato sul tavolo.
Come nasce la sua vocazione?
«Quando ero bambina, ero innamorata di Perry Mason. All’età di sei anni, impazzivo appena sentivo la sua sigla. Correvo davanti alla tv, anche di nascosto, a volte scappavo dal letto. E lui vinceva sempre. A me piace vincere, così ho deciso che lui era il mio idolo e l'ho seguito».
Lei ha detto che «l'esito dei processi è un eccellente termometro per misurare il reale stato della democrazia in Italia».
«In un processo, quello per diffamazione, dove mancano i fatti, spesso si discute di opinioni, di critiche, di satira. Si discute di cose molto impalpabili. Un po' come l’osceno e il senso del pudore. Per cui i giudici si misurano con concetti che vanno un po' fuori dai “processi normali”: rapine, droga, omicidi. Quindi se chi giudica ha un'apertura mentale adeguata, riesce a distinguere il giusto dall'ingiusto. Se invece uno ha la mente ristretta, è molto conformista, sta molto attento alla virgola, il processo può finire male. La democrazia, secondo me, è tale quando le informazioni circolano liberamente, le opinioni anche, senza passare per i processi penali».
Perché lei difende i giornalisti?
​«Un giornalista è una personalità molto complessa: narcisista, pessimista, è sempre scontento. Se fosse un po' più ottimista sarebbe meglio. Perché li difendo? Perché io volevo fare la giornalista. Io scrivevo sul giornalino del liceo, mi piaceva molto andare a fare un po' le pulci alla segreteria del liceo, al professore... A un certo punto ho detto Perry Mason oppure Il giornalista. Ho realizzato i miei sogni, sono diventata avvocato e giornalista pubblicista».
Ha detto avvocato e non avvocata.
«Sì, perché volevo fare l'avvocato, avvocato è il mio titolo. Dopodiché non ho nulla da dire su chi preferisce essere chiamata avvocata o avvocatessa».
Eppure tra avvocato e avvocata c'è qualche presidente di tribunale che invece la chiamava semplicemente signora.
«Questo è un aneddoto molto divertente perché dà il termometro della posizione delle donne ai tempi in cui ho iniziato, nei primi anni Ottanta. Il presidente del collegio si rivolgeva al mio collega dicendo “avvocato dica”, “avvocato faccia”. E a me, “signora dica”, “signora faccia”. Così su sollecitazione del mio cliente attacco: “Scusi presidente, mi chiede il mio cliente giustamente, perché mi chiama signora e non avvocato?” Risposta: “Perché per me prima è una signora e poi è un avvocato”. Quindi mi ha disinnescata, il mio cliente è stato assolto, tutto bene, però è rimasto il fatto che ho dovuto dimostrare di essere un avvocato oltre che una signora».
Si potrebbe citare Loredana Bertè, lievemente modificata. “Non sono una signora ma sono un avvocato…”.
«Esatto. Sono una signora, a volte sì, a volte no, ma sono un avvocato sicuramente. Non faccio l'avvocato, io sono un avvocato».
Quando non è una Signora?
«Quando guido per strada divento un scaricatore di porto».
Cioè cosa gli urla?
«Quello che mi passa per la testa».
Mai contro i giudici?
«Sì, mi è rimasto in testa qualche epiteto non gradevole per i giudici qualche volta. Per esempio, se un mio cliente è imputato di diffamazione e vuole difendersi, non può sentirsi chiedere “Fate un accordo, date dei soldi e chiudete”, perché non va bene».
Altra sua frase: «Il giornalismo, in passato soprattutto, non è stato una faccenda da donne».
«Se vado indietro nel tempo e voglio pensare a tre giornaliste di sesso femminile note negli anni ‘70, me ne viene in mente solo una: Oriana Fallaci. Non ce ne sono state altre. E ancora adesso i grandi quotidiani sono diretti da direttori di sesso maschile».
Gli uomini fanno muro?
«Premetto, io detesto le quote rosa. Perché le donne devono farsi largo per le loro capacità. Io sono arrivata senza avere padrini né madrine, con le mie forze. Però per noi è molto più difficile perché il mondo è maschile. Declina e pensa al maschile».
Qual è una firma che le piace leggere?
«Fabrizio Roncone mi diverte molto. È una persona che scrive delle cose interessanti in maniera molto leggera. E poi Fabrizio Gatti, un vero giornalista, uno dei più bravi d'Italia. Un processo sarà molto faticoso se il giornalista non ha curato bene i particolari. Luigi Ferrarella del Corriere della Sera è talmente scrupoloso che a volte mi scavalca. Fa cose che io neanche gli chiedo. Però ha avuto solo uno o due processi nella sua vita, quindi morirei di fame se fosse il solo».
Parliamo del suo maestro.
«Certo, l'avvocato Corso Bovio. Lui è stato il mio mentore. L'ho incontrato nell'85 per caso, mi chiese di entrare nel suo studio per sostituire i suoi collaboratori che stavano facendo gli esami di Stato. È stato amore a prima vista e sono rimasta con lui per 22 anni».
Poi però il tragico epilogo, Corso Bovio si tolse la vita.
«Spieghiamo una cosa. Lui si è tolto la vita anche se era una persona molto solare e divertente. È stata una cosa veramente imprevedibile, perché nulla lo lasciava pensare. Ci vuole coraggio per togliersi la vita e quando è andato via ha lasciato me e i miei colleghi davvero soli, perché lui era veramente un po' il sole intorno al quale noi giravamo».
Qual è stato il suo momento di svolta nella vita?
«Quando ho incontrato mio marito. Ho aperto una porta di un'aula in tribunale ed è apparso lui con i riccioli e in ciabatte. Era il cancelliere. Ho pensato: io questo me lo sposo. Un colpo di fulmine».
Si descriva con aggettivo inaspettato.
«Romantica. Piango guardando il film Bambi. Ho pianto quando la mamma di Bambi è morta. Ho pianto quando E.T. è tornato nel suo pianeta. Mi commuovo moltissimo. Però piango al cinema dove nessuno mi vede».
E invece, nelle aule del tribunale, è cinica.
«Sì, dicono quella cosa orribile: “Ha le palle”».
Maschilista, però il complimento rimane.
«Sì, ma un avvocato non deve essere capace. Il senso è che la bravura è solo in ambito maschile? L'errore è credere che l'avvocato debba essere uno che si fa valere, che alza la voce. Non serve. L'avvocato deve modularsi sul caso che sta affrontando».
E lei ha mai alzato la voce In tribunale?
«Una volta ho battuto un pugno sul tavolo perché il giudice stava facendo altro».
Cosa augura per se stessa nel futuro?
«La mia terza vita sarà fare la libraia, perché io possiedo quattro librerie in Liguria insieme con altri soci».
Cosa vorrebbe che si dicesse di lei?
«Che ho vissuto. Mi basta quello, ho una vita piena, ringrazio la vita tutti i giorni perché sono soddisfatta».
Ringrazia la vita, non Dio. Perché non crede?
«No, sono agnostica, nel senso che non professo».
Vuole le prove?
«Quando le avrò, crederò».


  fonte mdn.it 

Se ritenete di aver subito un danno e decidete di denunciare un giornalista, fate attenzione. Se il suo avvocato è Caterina Malavenda sarà difficile vincere. E non solo perché lei è tra i legali più bravi e preparati che ci siano, ma perché la sua determinazione e la sua idea di libertà di stampa sono un’arma potente, spesso infallibile.
Non fa sconti, soprattutto ai clienti, conosce i limiti di ogni causa, sa quando può oltrepassarli, pure rischiando ma ottenendo poi il risultato. Ecco perché il suo libro E io ti querelo, edito da Marsilio, è in realtà un romanzo che racconta in maniera diretta ed efficace i dieci processi che, dal suo punto di vista, certamente mettono in luce il non facile rapporto tra informazione e potere. E in realtà rappresentano lo specchio di un Paese dove il mestiere del cronista — sia esso applicato alla politica, all’economia o alla «nera» — è spesso mal sopportato oppure vissuto come un ostacolo a chi si sente disturbato dalla verità dei fatti.
Malavenda lo sa e non a caso nella premessa scrive: «Non so più quanti giornalisti ho difeso e, proprio grazie all’esperienza che ho maturato, posso affermare con sicurezza che l’andamento e, soprattutto, l’esito dei processi che li riguardano sono un eccellente termometro per misurare il reale stato della democrazia in Italia. La democrazia, infatti, funziona solo se notizie, critiche e polemiche circolano liberamente, consentendo all’opinione pubblica, quando ne ha bisogno, di sapere, capire e farsi un’idea su quel che accade. E questo è possibile solo se quella stessa democrazia garantisce un’informazione senza pressioni e condizionamenti. E il più subdolo modo per intimidire un giornalista che dà fastidio è senza dubbio trascinarlo in tribunale, accusandolo di diffamazione».
E io ti querelo non è un manuale, ogni vicenda è narrata andando oltre la scena, svelando quel rapporto speciale che Malavenda sa creare con i propri clienti, sfinendoli con la richiesta delle «pezze d’appoggio» fondamentali per dimostrare che il giornalista ha fatto il proprio mestiere — talvolta anche sbagliando — ma sempre con l’onestà di chi vuole semplicemente informare i lettori, gli ascoltatori, i telespettatori nel modo più completo possibile. Andando oltre quel che appare, ricostruendo con onestà quel che il cittadino non vede ma deve sapere.
Ogni caso è trattato rivelando il rapporto — talvolta complicato — che si crea tra l’avvocato e il suo assistito: le discussioni, la diversità di vedute e dunque di strategia, il compromesso finale che talvolta non soddisfa uno o l’altro però viene sempre raggiunto grazie a un confronto aperto e leale. Come accade quando l’imputato decide di rinunciare alla prescrizione e il difensore, pur non condividendo la scelta, deve accettarla, o quando è invece il legale a riuscire ad imporsi, sapendo bene che la strada è stretta, dunque la soluzione può essere soltanto una.
Ogni capitolo è dedicato a un giornalista, alla ricostruzione del processo in tutte le sue fasi, al confronto duro con le controparti. E si capisce quanto difficile sia stato affrontarlo quando Malavenda scrive: «Il dilemma del giornalista su cosa pubblicare e come, e cosa invece omettere, dunque, è difficile da risolvere. Specie quando dalla scelta possono derivare conseguenze deleterie per lui se tace, e per altri se scrive. La mia ricerca di una soluzione equa non si è ancora conclusa. E non sono certa che alla fine ne troverò una che mi convincerà davvero. Ma so di sicuro, e non ne faccio mistero, che, se si ha un dubbio, la cosa migliore è fermarsi e ricordare le parole di Gesù: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Matteo 7, 12). O, più semplicemente, non fare ad altri quel che non vorresti fosse fatto a te e alle persone cui tieni. Secondo me funziona».
Ma la parte che davvero colpisce è quella dedicata a Tangentopoli, quando Malavenda ha la fortuna di lavorare con il suo maestro Corso Bovio. Dai primi passi nel mondo dell’avvocatura fino alla scomparsa di lui, il loro è stato un sodalizio speciale e lo si capisce dalle pagine che gli dedica, dall’attenzione che usa quando racconta che «lui non mi ha mai fatto pesare di essere donna e del sud. Nella Milano degli anni Ottanta era un connubio che poteva creare qualche problema, se l’idea era quella di farsi largo e trovare uno spazio in un mondo di uomini».
Ma anche quando ricorda la bufera che dalla procura di Milano colpì politici, imprenditori, manager e lei era il difensore, ma certo anche qualcosa di più. Tanto che adesso dice «ancora mi vergogno un po’ di aver fatto cose che il mio ruolo non prevedeva e mi pento di non aver deciso sempre come avrei voluto. Ho persino aiutato, in quegli anni, chi doveva andare in carcere a preparare la valigia, selezionando quel che poteva portare in cella. Ricordo gli occhi increduli e smarriti con cui qualcuno di loro mi aveva guardata, scoprendo che non erano ammessi pipa e tabacco o dentifricio e schiuma da barba. Non erano preparati a quella prova; nessuno di loro l’aveva messa in conto, qualcuno non ha resistito e si è tolto la vita. Oggi sembra impossibile che tutto questo sia successo, ma è davvero accaduto. Ed è altrettanto incredibile che qualcuno, anche se costretto per un po’ a vivere in cella, abbia mantenuto, invece, una vena di ironia e la voglia di far sorridere, pur parlando di cose estremamente serie».
Nel finale del suo libro Malavenda si dichiara «grata alla vita». Una gratitudine che i suoi clienti, tutti, certamente condivideranno.

Altro che la "legge è uguale per tutti", per i migranti c'è comprensione Nei tribunali prende piede la teoria dei "reati culturalmente motivati"

Lo  so che perderò amici  e  verro etichettato     come  fascista     e razzista     che  non sono  . Ma 


 Hanno  ragione   purtroppo  a  prescindere   dall'ideologia     e dall'uso   fazioso propagandistico  di  tali fatti  .  




In tutti i tribunali italiani compare la scritta «la legge è uguale per tutti»: è davvero così ?
Tutti i cittadini «sono eguali davanti alla legge»: è quanto sancisce la nostra Costituzione. Tante persone però hanno il sospetto che alcuni siano al di sopra (o al di fuori) della legalità. La legge è davvero uguale per tutti? Si insegna infatti che la legge è generale ed astratta. In particolare, «la legge è generale» significa che la legge si applica indistintamente ai cittadini: cioè non è scritta per applicarsi solo a Tizio o a Caio, ma è pensata e scritta per tutti. Tuttavia, avrai notato che una certa legge può non applicarsi a tutti i cittadini indiscriminatamente. Ci sono leggi infatti che tutelano la maternità e queste si applicano alle sole donne incinte o leggi che prevedono dei contributi per le vittime di un terremoto o di un’alluvione e queste si applicano soltanto a coloro che sono stati colpiti da queste calamità. Com’è possibile allora? La legge non dovrebbe valere per tutti? Ci sono inoltre dei casi in cui determinate persone si possono sottrarre all’applicazione della legge: si parla in questi casi di «immunità». Infine, la giustizia ha un costo: a volte, non tutti possono permettersi di far valere i propri diritti. Ecco che allora per queste persone la legge è un po’ meno uguale rispetto agli altri.

alle donne che scimiottano gli uomini negli aspetti peggiori consiglio North Country – Storia di Josey (2005), diretto da Niki Caro e interpretato da Charlize Theron

A volte le donne ovviamente senza generalizzare, sono inquietanti e dovrebbero chiedere scusa al genere femminile( per i commenti su #marziasardo e non solo ) , rappresentate solo un insieme di stereotipi, frustrazione e maschilismo interiorizzato.Consiglio loro il film ( lo trovate anche su netflix ) North Country – Storia di Josey (2005), diretto da Niki Caro e interpretato dalla bravissima Charlize Theron e magari cambierebbero comportamento o quanto meno inizerebbero a rimetterlo indiscussione in quanto è tratto da una storia vera del caso giudiziario Jenson v. Eveleth Taconite Co., che ispirò a sua volta Clara Bingham e Laura Leedy Gansler nella stesura del libro Class action: the landmark case that changed sexual harassment law.
Grande cast per un film drammatico, duro e vero. Un film bellissimo, sullo sfondo di una cultura radicata e maschilista, la fabbrica diventa quasi una prigione.Immensa l'interpretazione di Charlize Theron. Il film narra la vicenda eroica di alcune donne che lottano per abbattere le barriere della discriminazione sessuale, lavorando nelle pericolose miniere d’acciaio del Minnesota… e cambiano le regole del gioco promuovendo la prima azione legale collettiva per molestie sessuali della nazione. Una cronaca esplosiva, ricca di emozioni, di una battaglia per affermare un principio che ogni lavoratore americano conosce: il rispetto sul posto di lavoro.

Moglie e marito a 80 anni in camper da Bassano del Grappa a Shanghai: «In Uzbekistan si è rotto il frigo, la polizia turistica ci ha trovato l'officina e ha voluto pagare le riparazioni»

 da https://corrieredelveneto.corriere.it/notizie/vicenza/cronaca/  25  agosto  20025

                     di Marianna Peluso

In 143 giorni hanno attraversato 20 Paesi e percorso oltre 32.000 chilometri: «L'accoglienza? Ovunque fantastica. Noi europei pensiamo di essere i migliori ma siamo molto indietro»

Nonni camper Anna e Aldo, 80 anni in camper in cina e ritorno

Foto Facebook «Nonni in camper sulla Via della Seta»


«Sono innamorato di Marco Polo da quando sono bambino. E ho sempre voluto seguire le sue orme, vedere quello che ha visto lui, anche se ottocento anno dopo». Così Aldo Serraiotto, classe 1946, racconta le origini di un sogno diventato realtà: percorrere la Via della Seta, da Bassano del Grappa fino a Shanghai. Un’idea maturata nel tempo, frenata dalla pandemia, ma mai accantonata. 

«Bastava un piccolo errore per finire tutto»

Con lui, sua moglie Anna Vaccaro, 77 anni, che di questa avventura è stata prima scettica, poi protagonista coraggiosa e appassionata. «Ero contraria. Non parliamo le lingue, non siamo tecnologici e, diciamolo, l’età è quella che è. Ma alla fine mi sono lasciata convincere. E dal 2 aprile abbiamo iniziato il nostro viaggio in camper». In 143 giorni hanno attraversato 20 Paesi, percorso oltre 32.000 chilometri e superato montagne, deserti e confini burocratici. Un’impresa che ha poco a che fare con l’età, e molto con lo spirito. Il loro mezzo, un camper Cartago più pesante della media, è diventato casa, confine e rifugio. Ma anche passaporto umano, capace di attirare incontri, aiuti e gesti inaspettati. Come quella volta sul Pamir, la mitica catena montuosa dell’Asia Centrale: salite sterrate a 4.600 metri, strade che diventano sentieri. «Tratti dove bastava un piccolo errore per finire tutto: il viaggio e anche qualcos’altro» racconta Anna «30 centimetri a destra c’era il fiume, a sinistra le rocce. Ma mio marito era tranquillissimo e voleva arrivare in cima. E ci è riuscito».

L'ospite è sacro

Quel tratto di strada tagikista, con il fiume Panj a fare da confine naturale con l’Afghanistan, è stato forse il simbolo più evidente di un viaggio dove ogni confine era insieme ostacolo e soglia. Ma a sostenere i due viaggiatori non sono state solo le gomme del camper, bensì le persone incontrate lungo la strada. «In Uzbekistan, dopo buche e salti, è saltato l’impianto elettrico. Freezer e frigorifero fuori uso, dove c’erano le nostre provviste, anche il pasticcio portato da casa! Sarebbe stato un disastro perdere tutto. Eppure anche in quel frangente siamo stati aiutati. La polizia turistica ci ha portato in un’officina super moderna. Dopo tre ore di lavoro, volevamo pagare, e loro: “No, siete ospiti, grazie a voi che venite qui”». Episodi simili si ripetono, ovunque: «In Iran siamo stati ospiti per quattro giorni a casa di un signore, che aveva anche perso il lavoro. Ma lì l’ospite è sacro: ci ha voluto offrire sempre colazione, pranzo e cena a casa. E la sera arrivavano i parenti, per fare festa. In Italia sarebbe impensabile» riflette Anna, con una lucidità che suona anche come rimprovero dolce a un’Europa che spesso ha dimenticato cosa sia l’accoglienza. «Abbiamo scoperto un’umanità che qui è scomparsa. Noi europei pensiamo di essere i migliori, ma in realtà siamo molto, molto indietro». 

Moglie e marito a 80 anni in camper da Bassano del Grappa a Shanghai: «L'accoglienza? Noi europei pensiamo di essere i migliori ma siamo molto indietro»

Con i figli a Pechino

Le emozioni si rincorrono, chilometro dopo chilometro, fino al culmine d’inizio giugno, nel giorno del loro cinquantesimo anniversario di matrimonio. Sono a Shanghai, fuori dalla chiesa di Sant’Ignazio. Piove. Anna entra: «Vedo mia figlia. Mi abbraccia. Penso: sto impazzendo. Poi vedo mio figlio. In un attimo, mi convinco che è un’allucinazione. E invece erano lì davvero, con noi. Ho dovuto abbracciarli, toccarli con le dita per capire che erano loro, in carne e ossa. Sono rimasti con noi una settimana e, insieme, abbiamo viaggiato da Shanghai a Pechino, per 1300 chilometri. Avevano fatto la patente cinese, abbiamo cambiato la targa del mezzo e passeggiato lungo la muraglia cinese. Questa sorpresa, architettata da loro con mio marito, è stata in assoluto l’emozione più grande della mia vita. Mai e poi mai mi sarei aspettata una cosa così». Anche il ritorno è stato un’avventura. Il momento dell’arrivo, sabato 23 agosto, è andato ben oltre le aspettative: «Siamo stati accolti in modo trionfale, anche troppo. C’erano il vicesindaco, le autorità di Cassola e di Bassano. A Castelfranco Veneto ci ha ricevuto il sindaco Stefano Marcon, che ha fatto un discorso bellissimo. Poi via, direzione Bassano. Arrivati lì, sono ammutolita: c’era un mare di gente. Avevano allestito un gazebo con porchetta, formaggi, vino e prosecco. Ci siamo fermati fino alle 21 a salutare e abbracciare amici». E ora? «Dormire nel mio letto mi è sembrato strano» sorride Anna. 

25.8.25

Il ragazzino aveva vinto un abbonamento il giorno della presentazione della squadra della torres e deciso di regalarlo .


dala  nuova  sardegna   
Il ragazzino aveva vinto un abbonamento il giorno della presentazione della squadra e deciso di regalarlo. La società sassarese lo rigrazia sui social: «Grazie, ci impegneremo affinché il suo desiderio possa compiersi»
La Torres risponde al grande cuore del 12enne Gianluca: «Il tuo sì, è proprio un Amori Sinzeru»

                                              di Luca Fiori


Sassari 
Ha solo 12 anni, ma ha già compreso il significato più profondo della parola “tifo”: condivisione. Gianluca Ginesu, sassarese che vive a Osilo e a settembre inizierà la terza media, è uno dei tre fortunati vincitori degli abbonamenti messi in palio dalla Torres durante la presentazione ufficiale della squadra, mercoledì scorso. Gianluca è un tifoso vero: allo stadio va sempre insieme al padre Giuseppe, con l’abbonamento in tribuna coperta in tasca e il cuore che batte per i colori rossoblù. Il suo idolo è il capitano Giuseppe Mastinu, un leader dentro e fuori dal campo, che per Gianluca rappresenta il volto più autentico della Torres.


Quando ha scoperto di aver vinto un secondo abbonamento, avrebbe potuto tenerlo e regalarlo a un amico o a un parente. Invece ha fatto una scelta diversa, più grande di lui: «Voglio donarlo a un bambino meno fortunato di me», ha detto senza pensarci due volte, con la spontaneità dei suoi 12 anni. Un’idea nata tutta da lui, come conferma il padre Giuseppe, direttore della filiale del Banco di Sardegna di Sorso: «Quando è tornato a casa e mi ha detto che voleva regalarlo a un bambino che non poteva permetterselo, mi sono emozionato. È stata una sua iniziativa e io non posso che essere orgoglioso».

Un gesto che non è passato inosservato: la Torres ha apprezzato moltissimo la sensibilità del giovane tifoso, e sarà la società stessa a individuare il piccolo destinatario di questo dono speciale. Perché un gesto del genere non è solo un abbonamento: è un biglietto per far parte di una famiglia, quella rossoblù. Un’occasione per vivere emozioni che restano nel cuore. Sabato contro il Pontedera Gianluca era sugli spalti del Vanni Sanna per la prima giornata di campionato, che ha visto la Torres imporsi sul Pontedera. «Mi sono piaciuti tanto Nicolò Antonelli Giacomo Zecca», racconta con entusiasmo, segno che per lui ogni partita è un pezzo di felicità. E la gioia sarà ancora più grande quando scoprirà chi, grazie al suo gesto, potrà vivere le stesse emozioni.
Forse il gol più bello della Torres quest’anno lo ha già segnato Gianluca, regalando a un altro bambino la possibilità di sognare con i colori rossoblù.


a che punto siamo arrivati con le gogne mediatiche uomini o donne che siate, vuol dire che siete ancor più merde del molestatore.

  non aggiungo altro  ne  ho parlato abbastanza  nei post precedenti  , andate a leggerveli  . Mi sento solo di dire    sia  che  abbia esagerato  o  meno   non merita  ciò 





canzone di fine estate The Pogues fiesta \ If I Should Fall from Grace with God

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