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22.3.23

QUEI TRE CARABINIERI. .UCCISI IN VIA SCOBAR.

Fra le  tante  storie     delle  vittime delle mafie  ce n'è  una poco   nota     essa     riguarda      LA STRAGE DEL 1983 L’appuntato Bommarito, assieme ai colleghi D’aleo e Morici, intuì l’importanza nello scacchiere di Cosa Nostra di un paese come Monreale e mise in luce complicità di politica e mafia

 

  •  da 
  • Il Fatto Quotidiano
  • » NINO DI MATTEO
  •  QUEI TRE CARABINIERI. .UCCISI IN VIA SCOBAR.

    FOTO ANSA
    “Palermo come Beirut” Così titolavano i giornali sulla lunga scia di omicidi di mafia che agli inizi degli anni 80 scosse la città

    l 13 giugno 1983, in via Scobar, tra i palazzoni senz’anima del sacco edilizio di Palermo, venivano uccisi tre carabinieri, il capitano Mario D’aleo, l’appuntato Giuseppe Bommarito e il carabiniere scelto Pietro Morici.

    L’ennesimo efferato delitto in quella Palermo infuocata e disperata dei primi anni Ottanta quando, sotto il piombo della mafia e di chi ne armava la mano, cadevano uno dietro l’altro servitori dello Stato che avevano soltanto la colpa di voler fare il loro dovere. Un triplice omicidio per certi versi dimenticato. Soffocato, quasi schiacciato nell’immaginario collettivo dal clamore di altri delitti che lo precedettero e lo seguirono di poco. Il 3 settembre 1982 era stato ucciso il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Dopo poco più di quaranta giorni dall’agguato di via Scobar, il 29 luglio del 1983, in via Pipitone Federico nel centro residenziale di Palermo, si sarebbe scatenato l’inferno con il primo attentato nei confronti di un magistrato, il dottor Rocco Chinnici, realizzato con il sistema dell’autobomba piazzata sotto l’abitazione. Le prime pagine dei giornali nazionali titolavano: “Palermo come Beirut”. Forse anche per questo, forse perché ci si stava abituando a tutto, forse perché l’opinione pubblica nazionale, da sempre distratta, scopriva poco alla volta la pericolosità di “Cosa Nostra” solo quando uccideva personaggi “eccellenti”, la feroce esecuzione di D’aleo, Morici e Bommarito passò quasi inosservata. I soliti funerali di Stato, la solita finta indignazione delle autorità, la disperazione dei parenti delle vittime, la partecipazione del Capo dello Stato Sandro Pertini alle esequie. Poi, subito dopo, l’oblio.

    E invece questo libro scritto da Francesca Bommarito, sorella dell’appuntato Bommarito, contribuisce non solo a rendere onore alle vittime di quel vile agguato, ma anche a inquadrarlo finalmente in un preciso disegno strategico della mafia corleonese e dei suoi vertici di allora, primi tra tutti Salvatore Riina e Bernardo Brusca. Un altro grande merito dobbiamo riconoscere al paziente lavoro di ricostruzione della dottoressa Bommarito: quello di chiarire a un’opinione pubblica solo sommariamente informata sull’esito dei processi che si sono celebrati, che l’appuntato Bommarito non morì “per caso” solo perché in quel momento accompagnava il suo capitano, ma perché così vollero i mandanti dell’agguato. Quei mafiosi avevano un interesse specifico a uccidere il capitano all’epoca comandante della compagnia di Monreale, ma anche a eliminare l’appuntato Bommarito; un valoroso carabiniere che aveva dimostrato di sapere alimentare le indagini antimafia più delicate con le notizie confidenziali acquisite sul territorio e con la certosina attività di verifica.

    Il giorno dopo la strage di via Scobar Leonardo Sciascia, che di mafia se ne intendeva e che la mafia aveva descritto nei suoi romanzi nelle sfaccettature più diverse, in una intervista pubblicata sulle pagine del glorioso quotidiano L’ora affermò: “Di fronte a questo nuovo delitto ci si chiede se la mafia non vuole più carabinieri a Monreale e perciò ha in programma di uccidere tutti i comandanti che succederanno a Basile e a D’aleo oppure se questo capitano come il suo predecessore sono stati uccisi perché avevano capito qualcosa”. Una dichiarazione importante, un dubbio angoscioso che prendeva spunto dal fatto che solo tre anni prima, nel maggio del 1980, era stato ucciso a Monreale il capitano Emanuele Basile, il predecessore del capitano D’aleo. Anche quella, una esecuzione impressionante per la sua forza brutale. Basile venne ucciso durante la festa del paese mentre teneva in braccio la sua bambina. Da quel delitto scaturì una vicenda processuale infinita caratterizzata da numerosi tentativi, alcuni riusciti, di aggiustare il processo nei confronti degli imputati, Armando Bonanno, Giuseppe Madonia e Vincenzo Puccio. Corruzione di giudici, intimidazioni nei confronti di togati e giudici popolari, promesse politiche di interessamento in Cassazione,

    annullamenti inspiegabili di sentenze di condanna, spietata vendetta nei confronti del giudice Antonino Saetta che, in appello, ribaltando il verdetto di primo grado, aveva condannato gli esecutori materiali e che per questo pochi mesi dopo venne ucciso con il figlio Stefano lungo la strada che collega Agrigento a Caltanissetta.

    Tutto questo ruotava attorno al processo per l’omicidio del capitano Basile. Non si comprende la centralità della questione se non si ha chiara l’importanza mafiosa del territorio di Monreale, popoloso paese alle porte di Palermo, facente parte del mandamento mafioso di San Giuseppe Jato, quello dei Brusca, quello degli allora più fedeli alleati di Salvatore Riina. Quei carabinieri, pur con le limitate risorse di una compagnia di provincia, avevano avuto le intuizioni giuste, la forza e il coraggio di portare avanti indagini delicatissime che partendo dal basso arrivavano fino ai vertici dell’organizzazione mafiosa. Per questo fu prima ucciso il capitano Basile e tre anni dopo il capitano D’aleo. Sia l’uno che l’altro si erano avvalsi della preziosa collaborazione di un umile appuntato dei carabinieri, Giuseppe Bommarito, che con la sua tenacia, il suo fiuto investigativo, la sua capacità di conoscere e controllare il territorio, aveva intuito l’importanza di Monreale nello scacchiere complessivo di “Cosa Nostra” e messo in luce le complicità di politici e pubblici amministratori con i mafiosi. Per questo fu ucciso Bommarito. (...)

    Gli elementi che l’autrice mette in fila, uno dopo l’altro, indicano che Bommarito non è morto “per caso” e sono emersi negli ultimi anni grazie alla perseveranza della sorella che nelle pieghe dei processi già celebrati ha saputo trovare e valorizzare l’importanza di quel lavoro investigativo.

    Questo è un libro fondamentale perché restituisce la dovuta centralità a un delitto in parte dimenticato e aiuta a comprendere che, nella lunga teoria dei morti di mafia, non ci possono essere vittime di serie A e vittime di serie B. Tutti coloro che hanno sacrificato la loro vita per svolgere con passione, impegno e correttezza la loro “missione” meritano lo stesso rispetto. Devono essere ricordati non come esercizio di mera retorica ma con la conoscenza e la divulgazione del loro lavoro, l’analisi e l’individuazione dei moventi della loro uccisione. È per questo che il libro rappresenta una tappa importante per ricordare quanti (anche vittime del tutto sconosciute all’opinione pubblica) hanno, da veri servitori del Paese, onorato fino all’ultimo la divisa che indossavano. In Sicilia, in una terra difficile ma per fortuna anche capace di slanci, di genuine reazioni, di ribellione al sistema mafioso. Circostanze che meritano, come si fa in queste pagine, di essere ricordate e valorizzate. E ciò è ancora più bello ed emozionante quando è frutto dell’amore di una sorella, del suo senso di ribellione alle ingiustizie, della sua perseveranza nel dimostrarsi appassionata di giustizia e verità.

    LA STRAGE DEL 1983 L’appuntato Bommarito, assieme ai colleghi D’aleo e Morici, intuì l’importanza nello scacchiere di Cosa Nostra di un paese come Monreale e mise in luce complicità di politica e mafia

    nella lega c'è chi dice no iil caso Mario Conte, sindaco leghista di Treviso, ha annunciato che trascriverà all’anagrafe i figli di coppie omogenitoriali

     C’è chi dice No.

    Mario Conte, sindaco leghista di Treviso, in aperto dissenso dal leader Matteo Salvini, ha annunciato che trascriverà all’anagrafe i figli di coppie omogenitoriali, sulla scia di Beppe Sala e altri sindaci “ribelli”.Lo farà anche contro la posizione del governo Meloni e cercando un modo per superare la circolare emanata dai prefetti che blocca le trascrizioni. “Bisogna dare risposte a queste famiglie che chiedono semplicemente di vedere registrati i propri figli” ha detto. “Non ci sono figli di serie A e figli di serie B, perché qui si parla di figli, di persone, del registro dell’anagrafe, di esigenze sacrosante. Se c’è un vuoto normativo, come è evidente in questo momento, va assolutamente colmato”. Mentre Salvini straparla di utero in affitto senza neanche sapere cosa significhi, c’è qualcuno, anche in un partito bigotto come la Lega, dotato di apertura, visione e rispetto delle persone e dei loro diritti. Non condivideremo molto, ma il sindaco Mario Conte per queste parole, per questo coraggio, merita solo un applauso.

    Cosa distingue un discorso di odio da un’espressione di dissenso ?

    Il primo ha per bersaglio l’esistenza di una persona o di una categoria. Il dissenso si rivolge a parole e azioni messe in essere da chicchessia contro i diritti di qualcun altro.  (  vedere  il mio  post   sulla  vicenda    di  Lucia  Annunziata   ) 

     Di solito questa rubrica parla di persone, perché raccontare le storie singole 

    o collettive  è spesso il modo più efficace per restituire la complessità in cui viviamo e mostrare che le sue potenzialità sono alla portata di chiunque. Stavolta non sarà così, perché non conosco nessuno che vorrebbe essere raccontato nella cornice dell’odio o    se    ci  e  caduto (  come  spesso capita  anche  al  sottoscritto  )   tende  a  giustificarsi   ed  a  sminuirlo   . Avete letto bene: ho detto proprio odio. C’è un’espressione ricorrente sui giornali e nel dibattito pubblico di questi anni: è hate speech, cioè discorso d’odio, un modo di dire che sembra applicarsi a qualunque situazione in cui una persona si esprime in modo forte contro qualcosa o qualcuno. La legittimità del discorso d’odio sfiora un principio del nostro sistema giuridico che abbiamo considerato sempre inalienabile: in Italia non esiste il reato d’opinione, neanche se l’opinione è di odio. Mi si dice più volte   via  email  o nei  commenti  su  facebook   che l’apologia di fascismo è un reato di opinione e in teoria è vero, ma il principio della libertà di opinione è talmente più forte che nei tribunali le sentenze di condanna in merito sono praticamente inesistenti, anche in casi come le braccia tese agli anniversari dei caduti di Salò o la vendita di gadget inneggianti al Duce, per citare solo due degli episodi di assoluzione più eclatanti degli ultimi anni.Se dal lato giudiziario far certificare un discorso di odio come reato è difficilissimo, nel dibattito pubblico ed  mediatico  succede l’opposto: qualunque espressione di dissenso viene definita molto facilmente discorso di odio e chi pratica dissenso per mestiere – primi tra tutti gli intellettuali e i giornalisti d’opinione – viene fatto rientrare con grande facilità nella categoria degli odiatori di professione. Ma che come  fare   a  distinguere un discorso di odio da un’espressione di dissenso? In realtà   se  ci si  pensa  bene  non è affatto difficile: il discorso di odio ha per bersaglio l’esistenza stessa di una persona o di una categoria di persone. Odiare gli ebrei in quanto ebrei è un’opinione di odio, così come lo è odiare le persone omosessuali, quelle di altre etnie, le donne in quanto tali, i praticanti di questa o quella religione e, in generale, chiunque rientri nella categoria del diverso da me. Intendiamoci: non è reato odiare una di queste categorie. Ciascuno è libero di odiare chi gli pare. L’odio è un sentimento umano normale esattamente come tutti gli altri. Diffiderei di chi mi dice «io non ho mai odiato niente o  nessuno  », perché :  l'odio  come   l'amore  fanno  parte  dei nostri  sentimenti . Infatti   caratteristica fondamentale dei discorsi d’odio è infatti che essi sono pericolosi. Oltre a ferire le persone contro cui sono diretti, fungono da valvola di sfogo per pulsioni antisociali che possono dilagare. Anche se tutelare la libertà di esprimere dissenso, disagio e malcontento rimane cruciale.
    I discorsi d’odio limitano la libertà di espressione delle vittime. Infatti  l’hate speech va inteso come più di una semplice contrapposizione tra due diritti – il diritto di libera espressione da un lato e quello alla dignità dall’altro. Esso può essere più efficacemente compreso come uno stesso diritto, esercitato da due soggetti, la cui espressione in uno può limitare l’altro. Difatti l’odio calpesta la libertà di espressione della vittima, sino anche a impedirle di denunciare il reato subito, per vergogna, timore, paura di non incontrare supporto – come dimostrato anche dal fenomeno dell’under-reporting, ovvero il fatto che i reati denunciati sono di entità nettamente inferiore rispetto a quelli compiuti.
    L’odio online e le sue peculiarità
    Il documento si sofferma anche sulle modalità di diffusione dell’odio, e in particolare su quelle digitali – anche se è importante sottolineare che l’hate speech è caratteristico anche dei media tradizionali.I discorsi d’odio online hanno caratteristiche peculiari. E  poi  online, l’odio rimane attivo più a lungo, si presenta in diversi formati ed è facilitato dalla generale percezione di anonimato e impunità. Inoltre è transnazionale, il che rende più complesso individuare i meccanismi legali idonei per combatterlo. Gli algoritmi poi distorcono ulteriormente le notizie, creando dei veri e propri filtri cognitivi. Oltre al fatto che la comunicazione digitale è più veloce, e che genera effetti a catena.
    A questo si aggiunge il fatto che le piattaforme esercitano ormai un enorme potere che non è solo sociale, ma anche economico, politico e tecnologico. Sono capaci di orientare il dibattito pubblico, come fossero un organo politico. Ecco    che   sta       noi  decidere  se    alimentarlo    o  stroncarlo  sul  nascere   insomma  contrastarlo

    • Informarci  sui fatti e sui dati riguardanti il tema in questione
    • Diffondere informazioni corrette e verificabili
    • Evitare di condividere notizie false o non verificate
    • Utilizzare un linguaggio rispettoso e non offensivo
    • Evitare di generalizzare o stereotipare le persone appartenenti a una determinata categoria
    • Promuovere la diversità e l’inclusione

    oppure   come     ho più volte  suggerito in particolare   nel  post   : <<  l'odio conserviamolo per le cose importanti non per le sciochezze e trasformarlo \ incanalo in qualcosa di positivo o non coltivarlo .  [ se  non le  leggete   le  foto   le  trovate qui   e qui   ]>>   Infatti  il mondo è pieno di situazioni odiose e non avere (o più esattamente non riconoscere) le emozioni corrette per reagire a qualcosa di odioso è indice di aridità emotiva o, peggio, di irresponsabilità verso i propri sentimenti. IL  problema sociale dell’odio comincia dopo, quando chi odia  non  riesce  a controllarlo   e  cerca di progettualizzare la sua emozione e diffonderla, al fine di creare delle strutture per trasformarla in azioni lesive verso le categorie odiate. È il passaggio fondamentale per cui quella che senza organizzazione resterebbe una semplice pulsione emotiva  un  atto  individuale      che   diventa un vero e proprio atto politico  e  di massa   . Un esempio  semplice   uomo che odia le donne – diremmo un misogino patologico – è un pericolo potenziale ma se quest’uomo aprisse un forum ,  pagina  social  dove invita a unirsi a lui tutti gli uomini che provano gli stessi sentimenti e insieme stabiliscono azioni lesive contro la categoria odiata, sia  l’evoluzione dell’odio da opinione a reato sarebbe palese. Se qualcuno fondasse un partito che ha come elemento fondante l’odio verso gli omosessuali e come obiettivo politico la creazione di leggi contro la libertà delle persone Lgbt, non sarebbe difficile per nessuno riconoscere il discorso d’odio nei suoi proclami. Poiché però nessuno è (    almeno  che  non  voglio  sconfinare  nell'illegalità   )  fesso, chi progetta il proprio odio non si esprime mai esplicitamente in termini di odio, ma si propone come difensore di un bene differente, presentato come alternativo. Chi odia gli omosessuali dirà che costituisce un partito per proteggere la famiglia tradizionale, per la quale i diritti degli omosessuali sarebbero un pericolo. Chi prova odio xenofobo dirà che sta strutturando un apparato per difendere i diritti degli italiani, messi in discussione dall’esistenza stessa degli stranieri sul territorio nazionale. Chi vuole fare azioni misogine strutturali non scriverà mai in un programma che odia la libertà di scelta delle donne, ma che intende promuovere e sostenere una certa idea di donna, la sola giusta, guarda caso la sua.
    Il paradosso è che criticare  e  denunciare queste vere e proprie forme di organizzazione dell’odio viene presentato a sua volta come atto di odio e come tale addirittura portato in tribunale come diffamazione  con  il rischio   d''essere  condannato   , per cui chi osserva il dibattito pubblico da spettatore comune ha l’impressione che tutti odino tutti. Non è così. La critica politica e l’odio non sono la stessa cosa. Che si tratti di un intellettuale (  radical  chic   o meno    )  che si indigna davanti a un bambino morto in mare per la volontà politica di far mancare i soccorsi ai migranti o di tre studenti che tirano vernice lavabile alla facciata del Senato per chiedere attenzione al cambiamento climatico, questo è dissenso , non odio. Occorre riacquisire la capacità di riconoscere quel che è odio verso le persone da quello che è dissenso verso le scelte, specialmente quelle di chi governa. L’odio è un terreno di coltura da tenere sotto controllo    certo  , mentre il dissenso è un bene democratico, perché si rivolge a parole e azioni messe in essere da chicchessia contro i diritti di qualcun altro, soprattutto se chi li compie ha il potere di far diventare questi atti legge dello Stato.

    21.3.23

    Questa campagna d'odio ti rende simpatico anche chi ti sta..... Antipatico il caso Lucia Annunziata

    In queste ore Lucia Annunziata sta subendo una gogna pubblica da parte di più o meno tutta la destra in Vigilanza Rai (e non solo purtroppo), tra esposti all’Agcom e addirittura Salvini che chiede - tenetevi forte - l’abolizione del canone Rai.

    La sua “colpa”? Le è scappata una parolaccia, “ca***” ( 😂), del resto ,l a capisco. Quando ci vuole, ci vuole !!! Lei si è pure scusata subito e la ministra rideva pure.   Mi  chiedo    Perché a tutti i comici od ai politici di Destra è permesso il turpiloquio? che sarebbe scappata per altro a chiunque di fronte a una ministra per le Pari opportunità che nega l’aborto e parla a vanvera di “mercato dei bambini” ignorando e mettendoli tutti alla pari la distinzione tra fecondazione eterologa e gravidanza per altri o utero in affitto .  qui    sotto   un  breve guida    tratta da   il FQ  d'oggi



    Il tutto nelle stesse ore in cui, su Rai 1, il sottosegretario del governo Meloni Vittorio Sgarb

      da  

     [...] In venti secondi quest’individuo - che, incidentalmente, è pure Sottosegretario alla Cultura del governo Meloni - è riuscito nell’impresa di insultare in modo becero milioni di ragazze, tra cui anche sua figlia. A sua insaputa.
    Senza rendersi conto di essere riuscito a ridicolizzare, ancora una volta, solo e semplicemente sé stesso. Ma voi continuate a invitarlo sul Servizio Pubblico, mi raccomando

     dava tranquillamente delle “tr***” a tutte le ragazze nate nel 2000, senza che nessuno alzasse un sopracciglio o quasi .Una  destra , in questo caso , che si aggrappa a una cosa del genere per mettere il bavaglio a una giornalista ( servile o meno che sia ) è molto, molto, ma molto più scandalosa di una parolaccia , per la quale chi ha visto la diretta la trasmissione su rai replay , si è scusata subito dopo , è decisamente più pericolosa. Solidarietà quindi a Lucia Annunziata.

    Down problema prescinde dalla persona, perché è la persona stessa il problema di daniela Tuscano

     Anni fa alcuni strilli d’importanti quotidiani e agenzie annunciarono una conquista a tutta prima sensazionale, la scomparsa della sindrome da #trisomia21 in #Islanda, piccolo e avanzato paese dell’Europa settentrionale. “Nel paese nordico la scienza ha vinto sulla malattia”, titolava


    trionfalmente l’#Agicom; “In Islanda non nascono quasi più bambini con la sindrome di Down”, faceva eco #HuffingtonPost seguito da #Repubblica: “Sindrome di Down, in Islanda scelgono di evitarla”, frase invero sibillina, poiché nessuno “sceglie” una condizione così difficile­. Soltanto leggendo gli articoli per intero si scoperse che i medici islandesi avevano in realtà perfezionato le diagnosi di screening prenatale, consigliando vivamente alle madri di sottoporvisi al fine di diagnosticare la salute del nascituro/a con ampio margine di sicurezza. In caso di esito infausto, vale a dire se il bimbo/a presentava i sintomi della malattia, la sua sorte era quasi sempre di venir #abortito. La “scienza” pertanto non aveva affatto “sconfitto la malattia” ma i bambini, considerati non più esseri umani, ma problemi; e chi mai sceglierebbe i problemi? Se possibile li si evita; ed ecco che il titolo di “Repubblica”, inizialmente così assurdo, riacquistava tutta la sua logica. lI problema prescinde dalla persona, perché è la persona stessa il problema. E nell’evoluto mondo attuale la “scienza” non è più al servizio di quest'ultima, bensì la elimina se non risponde a precisi e irrinunciabili canoni di bellezza, efficienza, profitto. La “religione” dell’evoluto uomo è molto esigente e non prevede eccezioni, pentimenti o sviluppi. Non dà neppure il tempo di pensarci. Sul problema non bisogna farsi problemi, i tentennamenti sono inammissibili e stupidi. Quanti sono i genitori che, avendo “scelto” di fare nascere quel bambino/a, subiscono accuse e aggressioni, talora pure fisiche? L’evoluto mondo dei diritti un tanto al chilo preferisce smantellare le strutture assistenziali: onerose, fonti di problemi. Troppi rischi. Per alleggerire la coscienza bastano una giornata ad hoc e un poster variopinto.

    18.3.23

    Onori e sgarbi Dopo l’8 settembre Ettore Castiglioni portò in salvo un centinaio di persone, tra cui molti ebrei e il futuro capo dello Stato Il no a un monumento

     

    Questa storia è ormai di ordinaria meschinità politica. Ha radici lontane. Lo spunto è una data: il 12 marzo 1944. Ogni anno, sui social, in occasione di questa ricorrenza, si ricorda il grande alpinista e partigiano Ettore “Nino” Castiglioni, sottotenente degli Alpini che dopo l’8 settembre 1943 si era unitoai partigiani e che salvò oltre cento ebrei e antifascisti fra i quali il futuro presidente Luigi Einaudi, portandoli al sicuro in Svizzera, nel Cantone dei Grigioni, e queste imprese lo hanno eletto “Giusto tra le Nazioni”. Castiglioni, infatti, morì assiderato la notte del 12 marzo 1944 mentre fuggiva dalla Svizzera, dove era stato arrestato per la sua attività di passeur  . Indossava un lenzuolo e un plaid: i gendarmi elvetici gli avevano sequestrato gli scarponi, gli sci, la giacca a vento, persino i pantaloni. Se assurda e ingiusta è stata la morte di Castiglioni, ancor più assurda e ignobile è invece stata la decisione di Donato Seppi, sindaco di Ruffré-mendola che ha negato la posa di un monumento dedicato all’eroico alpinista nella piazza del paese, in provincia di Trento, dove Ettore era nato il 28 agosto 1908. Successe cinque anni fa, ma da allora, ogni 12 marzo, 

    un’ondata di indignazione si abbatte sul settantenne Seppi. Ancor prima di diventare partigiano, Castiglioni era stato tra le due guerre uno dei più forti scalatori europei (affrontò le Dolomiti a soli 15 anni), tanto da essere premiato con la medaglia d’oro al merito alpinistico. Autore di bellissime guide escursionistiche sulle Pale di San Martino, le Odle, il Sella, la Marmolada, le Dolomiti di Brenta, con il trentino Bruno Detassis aprì oltre 200 vie. Conosceva a menadito le montagne della Valtellina: accompagnava i fuggiaschi lungo sicuri percorsi in alta quota, sfruttando ogni valico, ogni passo, ogni scorciatoia. Una volta entrato in Svizzera, cercava di rabbonire le guardie con forme di formaggio. Ma non bastò. Arrestato per spionaggio e contrabbando, rimase in cella due settimane. Al rilascio, lo minacciarono: se rientri, ti sbattiamo in galera e gettiamo via la chiave della cella. Ettore non si spaventò. Continuò nei suoi percorsi clandestini, sfidando i nazisti e i loro alleati repubblichini. Un giorno, i gendarmi svizzeri lo intercettano. Addosso ha documenti falsi. Un’aggravante. Finisce rinchiuso in un hotel. Riesce a scappare lo stesso, calandosi dalla finestra con un lenzuolo, avvolto in una coperta. Troppo poco per proteggersi dal freddo. C’era la luna piena, quella notte. C’erano anche 20 gradi sottozero, mentre raggiunge il Passo del Forno. Il ghiacciaio non fece sconti. Stremato, Ettore si accostò a un masso. Forse voleva riposarsi, prima di riprendere il cammino verso il fondovalle. Non si rialza più. Il gelo lo uccide. Lo ritrovarono il 6 giugno. Appena oltre il Passo del Forno (quota 2770), sul versante italiano c’è un piccolo piano, formato dal letto di un ghiacciaio scomparso. Al centro, quel masso. Un po’ più grande degli altri che stanno attorno. E una piccola targa arrugginita: “Ettore Castiglioni – 12 marzo 1944 – alpinista patriota”. Ufficialmente, il sindaco di Ruffré ha motivato il rifiuto di concedere lo spazio pubblico al monumento perché “non aveva nulla a che fare con Ruffré, era uno di Milano”, scusa risibile, visto che Castiglioni era nato lì, dunque un legame tutt’altro che casuale (come il rapporto che Castiglioni aveva col Trentino). Era il 2018, il gesto del sindaco suscitò indignazione e proteste, alle quali Seppi replicò: se ci tenete tanto, potete erigere il monumento in un terreno privato. Lo fecero, in un bosco appena fuori Ruffré. Ma nessuno dimenticò l’affronto. Gli alpinisti sono come i marinai. Aiutano, soccorrono. Comprendono. Ma non perdonano gli inumani: “Stando a contatto coi profughi si può toccare con mano la gioia che si dà. Li si vede con la faccia stravolta dalla paura e poi, al confine, sereni e felici salutarti come un salvatore”, aveva appuntato Castiglioni nei giorni in cui salvava ebrei e antifascisti, “dare la libertà alla gente, aiutarli a fuggire per me adesso è un motivo di vita”. Disperatamente attuale.

    che fine hanno fatto quei vecchi valori . ? ripristinarli per combattere i femminicidi

    Oggi    stavo  mettendo  un  po'  d'ordine tra l'email ho trovato questa   risposta  che   per    dimenticanza   di  tempo  e  dimenticanza   non  la  pubblicai  subito  .  Essa   è  una   risposta  un po'  datata  ma  il  contenuto    è  ancora  valido     anche    riferibile   a qualche  femminicidio    fa   .   


    Spett Giuseppe 

     so di andare contro il pensiero  politicamente corretto, ma tanto è. Ritengo, purtroppo, che una significativa percentuale di  omicidi e femminicidi, in particolare, sia determinata da condotte di vita eticamente discutibili, Giacché oggi è vietato parlare di immoralità, in nome di una libertà assoluta, che spesso trascende in  libertinaggio, per poi degenerare in liberticidio. Ma   andiamo al dunque.

    Settantenni che sposano trentenni, anziché assumerle come badanti . Storie extraconiugali à go go. Madri cinquantenni che si vestono da ventenni e si mettono in competizione a volte con le loro figlie. Più in generale l’incapacità di accettare la terza età per quello che è, quasi che invecchiare sia una vergogna.  ,  ecc   Allora, benissimo i numeri verdi, gli osservatori  tipo  quello  di  Marilisa  D’Amico, ma qualche sano appello alla moralità e al  rispetto dei precetti cristiani credo sia un altrettanto  efficace deterrente di tanti omicidi. Cordiali saluti e complimenti per il blog  

                                                                                                       Emilia    


    Carissima Emilia  

     mentre leggo la tua lettera il mio pensiero, che non è affatto politicamente corretto, corre subito alla tragica vicenda di Saman Abbas. Questa ragazza ha pagato con la vita il suo sacrosanto diritto a scegliere  di     sposare una persona di cui era innamorata e non l’uomo che la famiglia aveva scelto per lei. Ha pagato anche la voglia di vivere in modo "disinibito", di vestirsi come vuole, di “postare” sui social,  un bacio con il suo !danzato. In poche parole: di vivere all’occidentale. Sì, c’è molto di discutibile nel nostro sistema di vivere. Certi valori, i valori che mi sono stati trasmessi dai miei familiari  , per esempio quello della famiglia, della  dignità, dell'etica ,  della  decenza  , ecc .  vengono  un ’ sacrificati   in nome di un certo libertinaggio  .  Io non condivido completamente  queste scelte. Ma 

     [...]
     Ognuno è libero
    di fare quello che gli va
    Tanto più che noi non cerchiam nessuno,
    non ci siam mai sognati
    di convincere gli altri
    a vivere come noi.
    Quel che fa la gente
    ci interessa poco:
    se anche uno andasse in giro
    col cilindro in testa a noi va bene così [...]

                                 Luigi Tenco  Ognuno è Libero,  

     purchè  aggiungo    non   imponga  il  suo modo   di   vivere  a  gli  altri \e  .  Infatti  questo è il prezzo della libertà. E per la libertà, lasciatelo dire, non c’è mai prezzo.  Infatti perché  dobbiamo   proibire   a gli  altri  \e   di  vivere  in modo  diverso  da  me      Come diceva   Churchill, la democrazia è il peggiore dei sistemi di governo... salvo tutti gli altri. Allora aggiungo che non c’è giustificazione alla violenza, in nessun modo ,  anche  se  va  compresa  e  contestualizzata  . Nessuno di noi è autorizzato a  fare la morale agli altri. Chi è   senza  peccato  scagli  la prima pietra   come  dicono  i  vangeli   I settantenni  \  ottantenni   che sposano le badanti (  ma  anche  no  ) trentenni mi fanno tristezza, perché  molto  , parlo per  esperienza   familiare  , spesso   è dovuto  all'alzaimer  e  per  approfittarsene  “Ti sposo perché mi fai comodo economicamente”, potremmo riassumere. Ma anche questa è libertà. E non c’è  niente di nuovo sotto il sole.
     Invece per  quanto riguarda    gli osservatori contro la  violenza di genere, come quello fondato   da   dalla   D’Amico, sono fondamentali. Per certe donne  sono l’unica ,  soprattutto quelle  più  deboli ,   ancora di salvezza in un contesto di soprusi e  degrado. Servono a fornire aiuto  concreto, anche dal punto di  vista legale, a tante donne che  non saprebbero dove sbattere la testa. Le leggi per difenderle ci   sarebbero, ma come sempre è difficile applicarle o  quando  vengono    applicate  veramente   lo  sono male  . Mancano uomini e mezzi,  ed preparazione  giuridica   ,   ma  soprattutto  prevenzione  culturale    ed  educativa   ma non ci si deve arrendere  ed  abbattere    cpme  mi  sembra  da  questa       tua lettera  . Sii tollerante, cara lettrice ,  anche     se  essa    è   una parola strana  , perchè se penso di dover tollerare qualcuno, vado al di fuori del principio di uguaglianza". 




    17.3.23

    Un viandante sulle tracce dell'Altrove. Giuseppe Scano intervista il Prof. Cristian A. Porcino Ferrara



     1) Questo altrove è diverso dal precedente oppure è la continuità d’esso ?


    «Sicuramente ti riferisci al mio libro precedente "Altro e Altrove" uscito nel 2018, ma la mia ricerca della Verità è quotidiana e costante. Sono sempre proiettato in quell'altrove che fa parte della mia vita. Esiste ovviamente un filo conduttore che lega i miei lavori ma "Sulle tracce dell'altrove" indaga nella mia vita con spietata sincerità e imparzialità. Non lo avevo mai fatto prima per paura delle conseguenze emotive e alla fine ho vinto le mie insicurezze»



    2) Dici che il parlare non è comunicare allora cosa sarebbe? Se ho ben capito stai rifiutando e mandando a ramengo la cultura orale ?



    «Parlare non vuol sempre dire veicolare contenuti di valore. Ci trinceriamo dietro parole vuote che sono lo specchio delle nostre effimere esistenze. Nella nostra società non c'è più spazio per i sentimenti e le emozioni. Il virtuale ha preso nettamente il sopravvento sul reale. Purtroppo continuiamo a ripetere parole trite e ritrite che non hanno più un vero significato. Siamo arrivati all'assassinio linguistico della Parola. L'idea di condivisione è solo un modo per acchiappare like e follower. In questa pratica riscontro la negazione del concetto di condivisione. 

    Le parole sono importanti ma le abbiamo talmente svilite che fatichiamo a comprenderle davvero»



    3) Oltre a Battiato e Sgalambro e agli altri riferimenti ce ne sono altri/e che ti hanno spronato per il tuo coming out ?



    «Non sono stato spinto da nessuno. Come ha ben scritto Ferzan Özpetek: “E quando trovi il coraggio di raccontarla, la tua storia, tutto cambia. Perché nel momento stesso in cui la vita si fa racconto, il buio si fa luce e la luce ti indica una strada”. È andata proprio così. Ho deciso innanzitutto di raccontare la mia storia per aiutare coloro i quali vivono il proprio orientamento sentimentale con difficoltà. Volevo semplicemente essere d'aiuto ma per farlo dovevo raccontarmi senza infingimenti. Per essere credibile devi essere trasparente e non ricattabile.»



    4) Rifiuti la religione considerandola come arma di distrazione di massa o oppio dei popoli ma poi citi esponenti delle religioni /fedi  diverse... non è una contraddizione? Forse sei come Battiato spirituale.



    «L'unica contraddizione che noto è confondere la religiosità con la spiritualità. Come ben sai il discorso è spiegato nel libro in modo dettagliato. Chi legge "Sulle tracce dell'altrove" comprende le mie riflessioni e di conseguenza preferisco non aggiungere nulla. Per quanto riguarda Franco Battiato io eviterei le etichette. Lui era un essere speciale e non si può definire in alcun modo»



     5) Per chi muove i primi passi critici ed autocritici verso la fede /religione imposta  dalla società e dalle convenzioni puoi spiegare se c'è la differenza tra religione e spiritualità ?



    «La spiritualità appartiene ad ogni essere umano mentre la religione è un percorso specifico che gli individui percorrono e in cui scelgono di credere. Spiritualità non è sinonimo di religiosità. Battiato ha scritto una canzone su quest'argomento e si chiama "I'm that". Io non posso fornire alcun consiglio in campo religioso. A me il cattolicesimo ha fatto molto male mentre a qualcun altro potrà invece essere d'aiuto. Io ho raccontato solo la mia esperienza e nulla più. Per tale motivo invito le persone interessate a leggere il libro per capire il percorso tracciato. A tal proposito Margherita Hack sosteneva che: "Le leggi morali non ce le ha date Dio, ma non per questo sono meno importanti. Questa dovrebbe essere l'etica dominante, senza aspettarsi una ricompensa nell'aldilà. Senza leggi etiche ci sarebbe il branco e non la società. E andrebbero insegnati valori comuni a credenti e non, il perdono, non fare del male agli altri, la solidarietà. Ma, soprattutto, bisognerebbe imparare a dubitare, a diventare scettici»



    6) Dov’è il tuo  altrove



    «Il mio altrove è ovunque e al contempo da nessuna parte. Si trova oltre l'arcobaleno e oltre gli steccati ideologici che ci rendono così superficiali. Sono così stanco di definirmi e definire che preferisco di gran lunga esistere e indagare altre piste. Sono un viandante sul sentiero dell'altrove»



    7) Quali scenari di felicità e possibilità creative possono aprirsi quando smettiamo di aspirare a una crescita infinita su un pianeta finito e iniziamo invece a crescere come persone, comunità e noi stessi natura che vive ?



    «Nel libro rifletto sul nostro egoismo e sui vari meccanismi che ci portano a disumanizzarci. Il libro si apre proprio con una riflessione sulla nostra infelicità. Siamo soggetti dediti all'apparenza e alla disarmonia. Rifiutiamo il concetto di parentela universale ma condividiamo un destino unico di fratellanza e sorellanza senza nessun tipo di distinzione. Fino a quando continueremo a violentare la natura con il nostro forsennato egoismo non ci potrà mai essere uno scenario felice per tutti noi.»



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    15.3.23

    Felicità è mare, yoga e libertà: la nuova vita di Camilla Pusateri Esperta di comunicazione, 44 anni, lavorava a Milano per lo studio Boeri. «Ho chiuso con lo stress, ho trovato la mia dimensione a Rena Majore»

    da la nuova sardegna del 15\3\2023


      Felicità è vedere il mare dietro la finestra, fare una passeggiata all’alba sulla spiaggia deserta, scegliere le verdure al mercato, raccogliere la legna per il fuoco nel caminetto. Felicità è respirare, respirare a lungo, prendersi del tempo per stare bene con se stessi e di conseguenza con gli altri. Camilla usa l’espressione “stare centrati”: vuol dire riuscire a capire cosa si vuole per conquistare il proprio posto nel mondo. Il suo è in Sardegna, a Rena Majore, tra Aglientu e Santa Teresa Gallura. È la casa di famiglia, quella che per gli altri è rimasta casa delle vacanze e per lei invece è diventata rifugio, nido, luogo dell’anima.


    La scelta di Camilla
    Si chiama Camilla Pusateri, ha 44 anni e il suo motto è “male non fare, paura non avere”. E lei paura non ne ha mai avuto, quando ha lasciato Cagliari per andare a studiare a Modena, quando ha cambiato più volte città e professione tra Venezia e Milano e quando infine si è guardata dentro e ha scelto ancora la Sardegna, la Gallura, «perché l’energia che c’è qui è unica e perché questi luoghi sono sempre stati un pensiero fisso, ricorrente in tante situazioni della mia vita». Poco più due anni fa Camilla ha chiuso la sua casa a Milano e si è trasferita definitamente in Sardegna. Lei lavorava per lo studio di architettura di Stefano Boeri come consulente della comunicazione, partecipava a eventi e iniziative bellissime e prestigiose. Usciva di casa presto al mattino e rientrava quando fuori era già buio. Oggi Camilla insegna yoga sulla spiaggia e nella pineta di Rena Majore d’estate e d’inverno, quando piove lei e il suo gruppo si spostano in un luogo al chiuso. Ogni mattina all’alba è in spiaggia, a camminare e a respirare, la sua giornata è scandita dai tempi della natura, del sole e del vento.

    Camilla Pusateri durante una lezione di yoga in spiaggia



    La ricerca della felicità Tante volte Camilla l’ha assaporata, perché la sua vita – racconta – è stata sempre piena e intensa. Ma solo ora ne ha colto davvero l’essenza. «Sono veneziana, ma ho vissuto in Sardegna, a Cagliari, sino ai 18 anni perché il lavoro di mio padre ci ha portato qui. Dopo la maturità classica al Liceo Siotto Pintor mi sono trasferita a Modena per studiare giurisprudenza. Dopo la laurea ho iniziato il praticantato a Venezia ma ho capito di non essere tagliata per fare l’avvocato ma per le relazioni, il mondo della comunicazione, e sono andata a a Milano». Per otto anni Camilla ha lavorato con l’ufficio stampa dei programmi televisivi di Maria De Filippi, a stretto contatto con volti noti e artisti emergenti, «un impegno molto stimolante e intensissimo». Poi ancora il tuffo nella musica con gruppi under ground che si autoproducevano e subito dopo la proposta di collaborazione dallo studio dell’architetto Stefano Boeri: ha lasciato i progetti musicali per dedicarsi alla comunicazione internazionale. La sua vita ha ricominciato ad andare a mille giri, Camilla ha fatto suoi i ritmi milanesi: sveglia presto, yoga e poi in ufficio sino a sera. «Pausa pranzo veloce, poi l’uscita con gli amici, l’aperitivo, la vita mondana, perché Milano ti offre tantissimo. A casa, nel mio monolocale di 30 metri quadrati, solo per dormire. Tutti i giorni così, come un criceto che corre dentro la ruota. Ero felice? Ni, perché il mio fisico mi stava presentando lo scontrino, tra gastrite e problemi di mobilità. Poi è arrivato il Covid».
    Pausa pandemia Il tempo si è fermato, il silenzio ha cancellato i rumori, la ruota si è fermata. «E io mi sono guardata dentro, ho dato ascolto a una voce che già sentivo». Il lockdown ha portato lo smart working «e a un certo punto eravamo tutti e sempre connessi, il bisogno di comunicazione è diventato eccessivo e io mi sono sentita prosciugata. Il tempo dello yoga, del mio benessere, è gradualmente aumentato». Ma quello è stato anche il tempo delle scoperte, per esempio del fatto che a casa si può stare davvero bene, e dei sapori veri. Come quello degli spinaci: «A 40 anni suonati li avevo visti solo a cubetti, surgelati nelle buste, di fronte a quelli del verduraio sono rimasta senza parole e mi sono sentita anche un po’ idiota....ho capito che in quella corsa continua stavo perdendo i sapori veri della vita». Appena possibile, Camilla ha fatto la valigia. «Sono andata in Sardegna, a Rena Majore, e ho continuato a lavorare in smart working. Dopo l’estate tutti ripartivano, io sono rimasta, non ero mai stata così bene. Bagno all’alba e al tramonto, passeggiate, meditazione, pause sempre più lunghe». La ripartenza a Milano viene rimandata, poi in autunno Camilla rientra, ma solo per una settimana al mese e poi è di nuovo in Sardegna, cordone ombelicale che non si taglia più. «A un certo punto è stato chiaro che la mia vita era qua. Il divorzio con l’ufficio è stato consensuale. Io e questo posto magico siamo diventati una cosa sola».
    La vita è adesso Eccola la felicità, fatta di cose semplici, di suoni, di natura. Di tempo per se stessi, per lo studio e la lettura, e per la condivisione: «È nato il progetto Sea yoga revolution, faccio lezioni in spiaggia, in un punto particolare che mi è molto caro. D’estate gli allievi sono turisti, ci incontriamo la mattina alle 8, il momento migliore per godere della sua bellezza. D’inverno faccio lezione a un gruppo di persone del posto, altri seguono online. Sto bene, i dolori sono passati, mai avuta tanta energia. Facevo un lavoro prestigioso, i miei genitori erano orgogliosi di me. Quando ho deciso di vivere qui erano preoccupati, ora vedono quanto sono felice. Mio padre dice sempre: “ Chi volta le spalle a Milan, volta le spalle al pan”. Io penso che dipenda da che “pan” vuoi mangiare... e io ho scelto questo». 

    14.3.23

    reportage su primaveraingiardino milis 2023


    Come tutti gli anni eccetto nei due anni di pandemia siamo stati invitati come le altre edizioni come espositori in quanto di piante rare ( le camelie nel nostro caso. ) alla   manifestazione    “Primavera in
    Giardino“,   divenuta     benel  c0rso  degli anni    la più importante manifestazione in Sardegna dedicata al vivaismo specializzato, con espositori da tutta Italia e dall’estero. In programma, come ogni anno, ci sono tante esposizioni, consigli e curiosità sia per gli esperti del settore che per gli appassionati di giardinaggio (tra giardini, orti e frutteti).
    Foto nostra locandina  di questa  edizione  all'edizione primavera in giardino di Milis .l 11 e  il  12    di marzo   Però Quest'anno per motivi gestionali burocratici si è tenuta non nel suggestivo agrumeto giardino di Milis , ma bensì presso la “Ros’e Mari Farm & Green house” in località Pauli Cannedu, a Donigala Fenughedu, frazione di Oristano, subito a nord della città. . Uno spazio   bellissimo       sia  da  quel poco   che  sono riuscito     a  vedere     ed  a  girare   durante le i  tempi  morti   della  vendita   sia     dalla  loro  storia   sia    dalle   foto  del sito  https://www.rosemarifarm.it/  .  Infatti  Esso  è  (  ancora  in   work  progress  )   un posto    in  cui   La natura ha ripreso dopo la chiusura dell'ex vivaio i suoi spazi ed ha creato meravigliosi ambienti affascinanti tra le strutture . Passeggiate tra le piante aromatiche, improvvisi scorci di bosco, gallerie fiorite accompagnate da rose e glicini e distese di prati all’aperto .La famiglia Schirru, composta da: Lucia, insieme al compagno Gian Michele Pilo e al nipote Davide Schirru, hanno rilevato nel 2019 l’Agricola Rosmarino, un vivaio nell’Oristanese. L’ingresso fu scoraggiante, con una situazione di totale abbandono e decadenza. Ma loro, grazie alla passione e al lavoro di squadra, hanno riportato l’uomo dentro gli 11 ettari di vasto parco, trasfigurato ormai in una giungla vergine. .
    Ritornando   alla  mia  esperienza  Sono  contento   d'aver  partecipato   a  tale  manifestazione      cosi  importante    qui   un  servizio   che  anche  il  sunto  della  manifestazione    a   cui  è  tratta  l'immagine  a  destra   e qui delle  ottime  foto     altro  che    le mie  .  Sono  contento   d'aver  ritrovato   vecchi  clienti     che  già avevano  acquistato  da  noi  nelle  edizioni precedenti  di   Milis  o  appassionati   di  vivaismo   vengono  a milis   solo  a trovarci  .    espositori       degli standard     vicini   .,  ma  anche   nuovi amici  in  particolare  Rosalba Loi  e  Luigi Pinna
      e    quelli  del bellissimo    B&B Torremana di Cabras  ed  e  loro  deliziose   colazioni  di  dolci  fatti  in  casa   ed  la  loro  gentilezza    ed  solidarietà   visto   che    sono venuti  alo standard  non solo  a  salutarci  ma   ad  acquistare  una  camelia  ed   ci  hanno consigliato  una buonissima pizzeria   a  prezzi  abbordali  . 


    9.3.23

    La linea aerea le fa a pezzi la valigia, la passeggera reclama e vince il "jackpot dei bagagli"

    Una donna statunitense ha avuto la sfortuna di avere il proprio bagaglio danneggiato durante un viaggio con la compagnia aerea Delta Air Lines. Tuttavia, l'azienda ha deciso di risarcirla
    sostituendo la valigia danneggiata con una nuova. Inaspettatamente, la donna ha ricevuto ben 13 valigie sostitutive, come si può vedere in un video che ha condiviso su TikTok. Sorpresa dalla quantità ha deciso di rispedirle al mittente, ma la Delta per la sua onestà e disponibilità le ha permesso di tenerne una in più. Gli utenti di TikTok hanno commentato la vicenda con ironia, dicendo che la donna aveva "vinto il jackpot dei bagagli".
     

    Sorpresa dalla quantità ha deciso di rispedirle al mittente, ma la Delta per la sua onestà e disponibilità le ha permesso di tenerne una in più. Gli utenti di TikTok hanno commentato la vicenda con ironia, dicendo che la donna aveva "vinto il jackpot dei bagagli".

    Pietro Sedda il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti

       Dopo  la  morte  nei  giorno scorsi  all'età  di  80 anni   di  Maurizio Fercioni ( foto sotto  a  sinistra )  considerato il primo t...