6.11.13

strage di nassyria dieci anni dopo parlano 5 vedove

Voglio proporre  , anticipando quel fiume di retorica  e  becero nazionalismo   che  ci sarà   tra qualche giorno  per  il deccenale  dei fatti di nassyria  un articolo interessante senza quella  retorica ( almeno da parte della giornalista ) che invaderà tra qualche giorno i media internet compreso . Un articolo che ho giudicato  come : << un articolo pessimo perchè non viene , come sempre si parla di nassyria , di Adele Parillo compagna del regista morto con i militari .ma solo delle vedove di militari . >> Ma  poi  la  risposta  della giornalista Emanuela Zuccalà   di io donna del corriere del  a sera su una bacheca  di un amica  comune  che aveva  condiviso  l'articolo  : << 


.Emanuela Zuccalà Avrei tanto voluto intervistare anche Adele, perche' conosco bene la sua storia. L'ho cercata, ci siamo parlate, e lei con grande gentilezza e sincerita' mi ha spiegato perche' non se la sentiva di comparire. Cosi' anche la vedova di Marco Beci, l'altro civile vittima della strage.

Giuseppe Scano Grazie delle informazioni.leggero con vivo interesse l.articolo mi scuso x giudizio affrettato


>>

 mi ha indotto   a rileggermi l'articolo   che sotto  riporto   e quindi a cambiare  giudizio espresso a caldo   ed   ritornare  ed  a rafforzare la mia opinione che  m'ero fatto  su tale evento   che ho  appreso sia   corrispondendo  via fb  con Adele  Parrillo     sia  leggendo  ( oltre  che a sentirli  quandoi erano venuti a presentare   qui a tempio il libro  )    20 sigarette  a  nassyria  . Un libro  che  si legge in un ora per la fluidità e schiettezza con cui è scritto ( anche se io , causa tristezza , piangevo ad ogni pagina ci ho messo 2 giorni ) da cui l'autore ha tratto il film omonimo http://it.wikipedia.org/wiki/20_sigarette

DIECI ANNI DOPO

Noi, vedove di Nassirya

Il 12 novembre 2003 un camion-bomba devastò la base Maestrale causando una strage. Come ha trascorso questo decennio chi, quel giorno, vide saltare in aria il proprio amore e la propria vita?

di Emanuela Zuccalà - 28 ottobre 2013



8.40, 12 novembre 2003. Alessandra e Monica lavorano. Paola va in palestra, Miriam alle prove in teatro, Margherita dal pediatra. A 4mila chilometri, un camion-bomba uccide i loro mariti, carabinieri in missione in Iraq. Sono passati dieci anni dalla strage alla base Maestrale di Nassiriya: 19 morti italiani (12 carabinieri, 5 soldati e 2 civili), 9 iracheni, 19 feriti gravi. Dieci anni di memoria collettiva a fasi alterne. E di inchieste: l’ideatore dell’attacco viene impiccato in Iraq; tre alti militari italiani, accusati di non aver difeso la base, sono assolti. I familiari di 7 vittime si costituiscono parte civile e la Cassazione riconosce il loro diritto a un risarcimento. Ma com’è trascorso il decennio nel privato di chi, quel giorno, ha visto saltare in aria il proprio amore e la propria vita? 

PAOLA COEN GIALLI

69 anni, moglie del maresciallo luogotenente Enzo Fregosi
«Un ragazzo atletico si tuffava da un trampolino altissimo, in uno stabilimento qui a Livorno: si accorse del mio sguardo affascinato e, con la classica scusa del fiammifero per la sigaretta, mi si avvicinò. Era il 1972. Io mi ritengo fortunata: ho avuto il tempo di godere di mio marito, i miei figli hanno imparato tanto da lui ed Enzo è morto nel pieno del suo vigore, senza invecchiare. Lo so, le suona strano ciò che dico...». Paola è livornese; Enzo, di La Spezia, è stato fra i fondatori del Gis, il Gruppo di intervento speciale dei carabinieri. Nel 2003 aveva 56 anni ed era comandante del Nas: «Voleva concludere la carriera in bellezza, con una missione all’estero. Del suo corpo non è rimasto nulla». Restano i bei ricordi e tre oggetti da cui Enzo non si separava mai, ma prima di partire per l’Iraq li ha lasciati a casa: «Oggi io ho la sua fede nuziale, mio figlio Pietro la catenina e mia figlia Allegra un anello». L’immagine più nitida del 12 novembre è di lei che corre su un’auto dei carabinieri a sirene spiegate, per raggiungere la figlia a Firenze prima che apprenda la notizia della morte del padre dalla televisione. Oggi Paola è fra coloro che si sono costituiti parte civile al 

processo e sperano nella medaglia d’oro. Ha un solo rimpianto: «Nella base vivevano in condizioni durissime, la chiamavanoAnimal House, tanto era malmessa. Lui però non faceva trapelare nulla e io al telefono gli parlavo di stupidaggini, dei nostri cani, delle feste di compleanno...». Solo ora Paola si commuove.



ALESSANDRA SAVIO 
51 anni, moglie del maresciallo Filippo Merlino

«Non sentivo nulla, come se mi fosse colato addosso del ghiaccio. Di quei giorni ricordo solo mio padre che mi accarezza i capelli e Miriam (moglie di Daniele Ghione, ndr) che grida ai funerali. Per un anno ho atteso che lui entrasse da quella porta». Sulla porta una targa recita La casa di Penelope, ma oggi l’attesa di Alessandra è un’altra: quella della medaglia d’oro al valor militare. «L’hanno promessa allora, mi appello al presidente della Repubblica perché ce la conceda. E l’ultima sentenza della Cassazione fa finalmente luce su responsabilità e omissioni. Nassiriya è il nostro 11 settembre: un attacco all’Italia. I caduti meritano questo riconoscimento ». Alessandra incontra Filippo a 15 anni. Corre in motorino e lui, carabiniere lucano di stanza al Nord, la ferma. La corteggia, la sposa nell’85. Abitano a Viadana, nel Mantovano. Cinque anni dopo nasce Fabio, affetto da un’atrofia muscolare che lo costringe in sedia a rotelle. «Filippo alternava il comando della caserma alle missioni all’estero per poter costruire una casa su misura per lui». Ma alla vigilia dell’Iraq appare insolitamente teso. 
Le dice: «Non sarà una missione come le altre». «Rinuncia» abbozza lei. Filippo è lapidario: «Non posso». «L’ho visto per l’ultima volta il 13 luglio 2003, era il mio compleanno e lui ci raggiunse a Ischia per festeggiare». Fabio oggi è impiegato nella caserma di Viadana, la stessa del padre, ed è solare e positivo nonostante la disabilità. Lei ancora rabbrividisce alla parola vedova: «Di Filippo Merlino, io sono la moglie».


MARGHERITA CARUSO 
43 anni, moglie del brigadiere Giuseppe Coletta


«Si amavano da quando erano ragazzini ad Avola, in Sicilia, e nel ’97 avevano condiviso la sofferenza più atroce, la morte per leucemia del primo figlio Paolo, a sei anni. «Negli occhi dei bambini che incontrava nelle missioni all’estero, lui ritrovava Paolo. Aiutandoli, leniva il suo dolore ». Ma l’11 novembre del 2003, quando Giuseppe telefona come ogni sera, lei lo avverte freddo, distante. «Mi sono svegliata all’alba con un groppo in gola, finché le notizie hanno iniziato a rincorrersi... Mi guardavo allo specchio e non mi vedevo, tanto era lo strazio». Margherita ha una fede cattolica granitica, in quelle ore tremende dichiara il perdono per gli assassini del suo amore e spedisce incubatrici all’ospedale di Nassiriya. «Mi davano della pazza, ma io dovevo rispondere a quell’atto inumano con l’amore, altrimenti sarei morta». Torna ad Avola con la seconda figlia, che oggi ha 12 anni, e finanzia un orfanotrofio in Burkina Faso. Scrive due libri (con Lucia Bellaspiga, 
edizioni Ancora: l’ultimo è Nassiriya fonte di vita ). «Tre anni fa mi sono trasferita a Roma, ad Avola ero cristallizzata nel ruolo di “vedova di”, e io volevo tornare a vivere». Oggi ha un compagno. «È un amore grande che convive con quello per Giuseppe, mi batte ancora il cuore per lui». Lei non si è costituita parte civile al processo: «Non avrei potuto mettermi contro l’Arma, Giuseppe era tutt’uno con la divisa, si è fusa con la sua pelle, quando è saltato in aria. È un eroe non per com’è morto, ma per come ha vissuto».


MIRIAM AGRESTA 
36 anni, moglie del maresciallo capo Daniele Ghione

«E' difficile scindere i ricordi di lui da ciò che è accaduto dopo: così forte, così pesante». Daniele aveva 31 anni e Miriam 26, la più giovane delle vedove di Nassiriya. Quella che, ai funerali di Stato nella Basilica di San Paolo a Roma, gridava come impazzita per un disguido sui posti a sedere. Aveva gridato anche il 12 novembre, dopo ore a sentirsi dire che suo marito era disperso. Infine la notizia, lei scagliava via il telefono, dava pugni al frigorifero. Piombava in un buco nero, e ha lottato a lungo per riemergere. Lei e Daniele erano di Finale Ligure, Miriam aveva scelto Roma per la sua carriera di ballerina, mentre lui era assegnato al reggimento di Gorizia. «Stava chiedendo il trasferimento a Roma. Non ha fatto in tempo». Lei schiva rabbiosa le interviste, e lascia subito il mondo dello spettacolo. «Non esisteva più la ragazzina che viveva in una favola con il suo principe azzurro. Sono cresciuta di colpo e mi sono indurita». E si tiene fuori dai processi. «Mi sarei fatta del male» dice. Oggi insegna ginnastica ed è tornata a Finale. Il suo compagno è carabiniere, anche lui, e conosceva bene Daniele. Hanno una bimba di quattro anni. «Le parlo dello zio Daniele, la porto al cimitero, e lei chiama nonni i suoi genitori. Lo so, è difficile da comprendere, ma anche se ho una nuova vita, io sarò sempre la signora Ghione». 
In sala, accanto alla foto della sua nuova famiglia, c’è un primo piano di Daniele. Guardandolo, la tensione di Miriam si scioglie in un sorriso.



MONICA CABIDDU 
42 anni, moglie dell’appuntato Andrea Filippa
«
Poco tempo prima avevo sognato che una bomba dilaniava il suo braccio destro. All’obitorio, sollevando il lenzuolo e vedendo che l’unica parte offesa era proprio quella, ho avuto un brivido». Quella mattina Andrea Filippa era di guardia alla base Maestrale, protetto da sacchi di sabbia, solo il braccio destro era scoperto, per sparare al camion-bomba. Senza le sue raffiche di mitra, il mezzo sarebbe penetrato all’interno distruggendo più vite. «Andrea ha solo fatto il suo lavoro» sussurra Monica, che lo amava da 11 anni e, dalla loro Torino, lo aveva seguito a Gorizia. Lui era nel 13° Reggimento dei Carabinieri, specializzato in missioni all’estero; lei faceva l’insegnante di sostegno. «Era stato in Bosnia, Kosovo, Eritrea. Ma quando mi ha annunciato l’Iraq, non ho parlato per tre giorni, qualcosa mi si era già spezzato dentro». Andrea è stato l’ultimo a essere ritrovato nella base sventrata, «Un burlone, fino alla fine...». All’inizio Monica non mangia, non vive. Finché incontra un altro carabiniere, sta indagando sull’attentato, è



un uomo rassicurante, e lei lentamente torna ad assaporare sentimenti ed emozioni. Oggi continua a insegnare e vive con il compagno a Ladispoli, vicino a Roma: «Volevo il mare». A lei la medaglia d’oro non interessa. «Lo Stato mi ha già accudita molto e tanto lui non torna». In salotto, le altre medaglie ricevute dal marito sono in una vetrina, accanto a una foto di lui in divisa, con la frase dei loro momenti difficili: «Se mi ami, non piangere».

Nel labirinto del Sol Levante: da Nuoro a Tokyo, sola andata


Nel labirinto del Sol Levante: da Nuoro a Tokyo, sola andata
di GIORGIO PISANO

Adesso fa la 'soressa di italiano nella televisione di Stato del Giappone, un po' come faceva con noi il maestro Manzi negli anni Sessanta. Prima di tutto questo, destinazione finale di un cammino iniziato molti anni prima, Eva Cambedda era una ragazzina di sedici anni che girava per Nuoro, capelli rasati a zero e tribali di cinque colori. Una volta in piazza Italia una comare non ha resistito: non ti vergogni ad andare in giro conciata così? Fortunatamente no, difatti ha tirato dritto senza degnarla.
In famiglia, d'altra parte, era considerata «una che fa di testa sua». Figlia di un bancario e di una donna che ancora oggi insegue la pensione sulle macerie dell'Enichem Fibre di Ottana, ha annunciato la partenza verso l'altra parte del mondo con la stessa naturalezza di quando s'è messa in testa un futuro speciale, magari cominciando dall'Istituto universitario Orientale di Napoli. La famiglia è rimasta a guardarla mentre faceva con calma la valigia, nemmeno una parola che potesse far vacillare una decisione che in ogni caso non prevedeva Appello.
Peccato che la strada da Nuoro a Tokyo, sola andata e scalo intermedio in Campania, non sia semplicissima. Nel bagaglio dev'esserci molta testardaggine, un pizzico di autostima e la certezza che alla fine - quando il portellone dell'aereo si spalancherà su un mondo nuovo - non mancherà l'happy end
Trentaquattro anni, sposata ad un napoletano che l'ha seguita in questa avventura, Eva Cambedda ( foto a sinistra presa dalla sua pagina di facebok) non ha figli «ma un centinaio di studenti, tra i 18 e gli 85 anni, da accudire». A voler essere precisi, nella casa del quartiere dove abita - su un lungofiume presidiato dai ciliegi - ci sono anche quattro pesci che il marito confida di trasferire in un acquario più ampio per infoltire i residenti. «Stiamo al quinto piano di una zona molto tranquilla, un passo da Shibuya, che è il quartiere più vivace della città. Quando esco, saluto qualche vicino... cosa abbastanza insolita per i giapponesi. A un passo c'è un ristorante sardo, Tharros, dove mi fermo anche solo per un caffè. E la mia giornata può finalmente decollare».
La storia di Eva si racconta in poche righe: dopo aver inutilmente cercato un'occupazione legata alla sua laurea, ha deciso di abbandonare Napoli e cercare un'alternativa a Tokyo. Entrata con un visto studentesco, ha trovato lavoro (molto pesante) in un'azienda di vini. Il salto lo ha fatto arrivando poi in cattedra alla Berlitz School, scuola di lingue dove attualmente insegna. Nel frattempo l'ha chiamata la tivù per proporle un corso di lingua italiana. Tra poco inizierà a girare un telefilm che è una sorta di traduttore applicato alla quotidianità: come ordinare in un ristorante (italiano ovviamente), dove e a chi chiedere informazioni, come comportarsi in hotel eccetera.
Senza scomodare la felicità, termine troppo impegnativo e ferocemente selettivo, cosa le manca? «Ci stavo riflettendo giusto un mese fa. Dovessi dirlo in una parola: la Sardegna. Ma è scontato, ovvio. Vorrei invece una casa più grande, per esempio con un giardino. Però so già che poi mi lamenterei perché non avrei tempo per starle dietro».
Sette anni in Giappone: quante volte è rientrata in Sardegna?
«Ci sono tornata tre volte. Purtroppo amo molto il mio lavoro e ho difficoltà a staccarmene».
Quante lingue parla?
«Giapponese e inglese correntemente. Parlavo molto bene anche francese e spagnolo ma non utilizzandoli da anni li ho un po' persi, comunque me la cavo».
Marito napoletano, lavoro giapponese: una nuorese dalla mentalità aperta.
«Ho avuto la fortuna di avere una famiglia molto severa che mi ha però sempre lasciata libera di fare le mie scelte. Fin dall'adolescenza avevo tendenze poco convenzionali ma allo stesso tempo ho sempre amato la tradizione. Non sono andata via da Nuoro perché non era abbastanza, me ne sono andata perché la Eva del tempo non mi bastava, dovevo crescere».
Appassionata di Storia antica del Giappone: come nasce questo interesse?
«È stato un processo graduale, come tutto nella mia vita: non sono una persona che si fa folgorare, ho bisogno di metabolizzare gli eventi per dargli il giusto peso. Forse però tutto è cominciato quando facevo judo. Mi affascinava il concetto del rispetto dell'avversario dettato dal Codice dei samurai».
Vivere a Tokyo.
«Tutto dipende dal lavoro che si fa ma in linea di massima Tokyo non dorme mai, milioni di persone si spostano ogni giorno sempre con una meta e spesso in solitudine. Vedere persone che mangiano o bevono da sole nei ristoranti o nei bar è all'ordine del giorno. I giapponesi non amano vivere la casa come noi, quindi la città diventa un vero teatro della vita quotidiana: lavoro, relazioni sociali, amore...».
Dà l'impressione d'essere un popolo felice?
«So che il Giappone figura tra i Paesi col maggior numero di suicidi. Felici? Non ne ho idea, probabilmente lo sono secondo i loro canoni. Che non sono affatto i nostri».
Dovesse descrivere in sintesi telegrafica i giapponesi?
«Popolo complesso difficilmente riassumibile in due parole. Il loro comportamento varia a seconda del contesto in cui si trovano. Li definirei sicuramente stoici, pervasi dal senso dell'effimero, impeccabili nel processo produttivo, carenti in quello decisionale».
Somiglianze e differenze.
«Coi sardi hanno in comune l'insularità e questo li porta per natura ad una chiusura caratteriale e a una generica diffidenza verso l'esterno. Siamo diversi nella spiccata curiosità che hanno nei confronti delle altre culture. Viaggiano ovunque e seguono corsi su qualsiasi cosa e a qualsiasi età. Basti dire che ho studenti ultraottantenni, tra l'altro i migliori direi, ricchi di storia e vivacità. Decisamente un po' lontani dallo stereotipo italiano».
Qual è l'atteggiamento comune verso l'Italia e gli italiani?
«Siamo fortunati, direi: amano l'Italia anche quando noi italiani non facciamo nulla per farci voler bene. Senza il loro estremo amore per il nostro Paese non avrei la possibilità di fare il mio lavoro. I ristoranti italiani e i centri di cultura italiani crescono come funghi. Permane un pochino l'immagine negativa dell'italiano fanfarone ma c'è anche quella dell'italiano ottimista e capace di arrangiarsi con il sorriso anche nelle situazioni più critiche».
Comportamento verso gli immigrati.
«Domanda alla quale preferirei non rispondere per la complessità dei contenuti poco riassumibili in due parole che porterebbero a fraintendimenti. Sicuramente non amano un'assoluta presenza straniera nel loro Paese. Le regole sull'immigrazione sono molto severe e spesso ce ne sono di speciali per gli stranieri, specialmente per quelli asiatici coinvolti nella seconda guerra mondiale. Giapponesi si nasce, non si diventa. Nel momento in cui sai di non voler diventare giapponese ma semplicemente essere italiano nel loro Paese rispettandone in tutto e per tutto tradizioni e regole, la vivi in modo molto positivo. Comunque noi italiani facciamo parte di una categoria speciale, appena sanno che siamo italiani gli brillano gli occhi».
Cosa non sopporta del Giappone?
«Non sopporto il loro disinteresse, almeno apparente, nei confronti dei temi politico-sociali. Sembra sempre che non abbiano curiosità o un'opinione su quello che succede. Il fatto che si viva bene li porta a non pensare che possa cambiare qualcosa. Si adagiano sulle decisioni altrui, soprattutto quelle della classe politica».
Qualunquismo o disinteresse?
«Credo sia solo indifferenza. Sono abituati a rispettare le regole e non metterle in discussione. Ne consegue una carenza di capacità critica».
Dopo la laurea ha fatto per un anno la commessa: avvilente?
«Avvilente certo, ma non per il lavoro in sé, che va rispettato. Avvilente come qualsiasi lavoro che non si sia scelto e per il quale si viene sfruttati. Ad ogni modo facevo del mio meglio e mi riusciva bene, forse avrei fatto carriera».
A quante porte ha bussato prima di partire?
«Troppe. Ricordo che avevo un'e-mail preimpostata con dentro gli indirizzi di centinaia di aziende italiane che avevano rapporti con il Sol Levante. Ogni mese la spedivo e ogni mattina accendevo il Pc con la speranza che qualcuno araccogliesse il mio sos ma, a parte le solite risposte automatiche prive del mio stesso nome nell'intestazione della lettera, nulla di nulla. Era quello che più mi spaventava dopo anni di studi».
Appena arrivata in Giappone ha invece trovato subito lavoro.
«Sì. In un'azienda che importava vini da tutto il mondo. Io mi occupavo della promozione locale e fungevo da interprete durante le manifestazioni con i produttori che venivano dall'estero».
Orari massacranti, giusto?
«Si comincia tardi rispetto all'Italia, di solito alle 9.30, ma non si sa quando si finisce. Se il superiore non va via nessuno va via, anche se non si ha niente da fare. Quante ore? Anche dodici, quattordici al giorno, spesso anche il fine settimana e dopo il lavoro a cena con il capo e i colleghi. Sembra comunque che ora le cose stiano cambiando: i giovani preferiscono essere assunti part-time anziché impiegati a tempo indeterminato in quelle che sembrano aziende-famiglia».
Lei parla di grande stress psicologico. Cioè?
«Mai una gratifica. Si deve sempre fare di più, sempre di più, non è mai abbastanza. Psicologicamente ti uccide».
Ottenuto il visto di lavoro, piovono offerte: come mai?
«Il punto sta nell'azienda per la quale lavoravo e tuttora lavoro, la Berlitz. È una scuola molto stimata, prestigiosa e super-cara (tipo: 40 minuti di lezione 80 euro) che ti apre le porte».
Insegnante alla Berlitz e ora prof nella tivù di Stato.
«Lavoro ancora per la Berlitz. In realtà sono una libera professionista. Di solito ho contratti annuali che si rinnovano automaticamente ogni anno. Mi piace decidere per quanto e per chi lavorare, non amo essere dipendente di un'azienda. La tv pubblica, la Nhk, è arrivata quasi per caso. Mi trovavo a registrare le voci per il corso di italiano della radio di Stato ed era presente, a mia insaputa, un produttore televisivo col quale ho parlato per un po'. Dopo qualche giorno mi arriva la sua e-mail in cui mi chiede di presentarmi per un colloquio: era stato colpito dalla mia vitalità e dal mio lavoro alla Berlitz».
Contraria all'idea del posto fisso?
«Non sono contraria, semplicemente non la ritengo indispensabile. Qui il salario minimo è di 1.500 euro: in una città come Tokyo ci si vive dignitosamente. Io tuttavia preferisco essere una libera professionista e decidere quali lavori mi vanno bene e a quali condizioni. In Giappone si può scegliere tra le due soluzioni».
È stata la televisione di Stato a chiamarla?
«Sì, non è qualcosa che ho cercato e in questo ho avuto fortuna. Ero nel posto giusto al momento giusto».
E sta pure girando un telefilm, adesso.
«Una serie di storielline che insegnano le regole della lingua italiana senza la pesantezza accademica che tende alla mera spiegazione grammaticale. Il mio motto sul lavoro è studiare divertendosi».
La tivù l'ha fatta diventare un personaggio popolare.
«Nell'ambito di chi studia o ama l'Italia sono conosciuta. Mi fermano per strada, oppure mi chiedono autografi e foto da fare insieme, per loro sono Eva dell'Nhk».
Voglia di tornare?
«Idealmente sì. Praticamente però è difficile lasciare il Paese che ti ha accolto a braccia aperte e ti ha dato quello che volevi. Amo il mio lavoro e amo farlo in un luogo che lo rispetta molto. Difficile lasciare qualcosa per cui si è lottato tanto».












Iosefa idem il coraggio di rincominciare partendo dalla fine e M.Tyson partendo dall'inzio e arrivando alla fine

musica consigliata Bill Conti - Gonna fly now (Rocky)

In questo caso, come  le  altre  , cerco di  appplicare  il  : << Nolite iudicare, ut non iudicemini (Vangelo secondo Matteo 7, 2)>> oppure  << Nolite iudicare, et non iudicabimini" (Luca 6,37)  >> oppure ancora  "Chi sono io per giudicare?" (Papa Francesco).
Dico solo che l'articolo su tysn me lo fa sentire vicinissimo come l'imperatore indiano Ashoka che dopo tante guerre e strage di uomini si converti' al buddismo e prese ad erigere templi e non piu' eserciti e guerre



dal'unione sarda del 3\11\2013


Iosefa Idem, gloria poi dimissioni E il coraggio di ripartire dalla fine
di LUCA TELESE


Quel giorno, il 24 giugno del 2013, se lo ricorda bene: «Ero sul volo Dusseldolf-Roma. Ero andata in Germania per il matrimonio di mia sorella. In Italia esplodeva la polemica sulla mia casa. Quel giorno sono morta. Ero la ministra affondata, imprigionata nella fila numero otto. Piangevo. Le mie dimissioni erano diventate inevitabili». Non ne ha parlato a lungo, adesso lo racconta. Non ha voluto rispondere a nessuna domanda, adesso spiega.
IL PIANTO SOLITARIO Quel giorno Iosefa Idem, campionessa tedesca prima e italiana poi, quindi senatrice del Pd e infine ministra se lo ricorda bene: è il giorno in cui in quel pianto silenzioso nella
poltrona di un volo di linea è finita una delle sue tre vite. Il giorno dell'addio al governo. Oggi, pubblicando l'autobiografia, con il coraggio che i campioni veri hanno, ha deciso di partire da quella sconfitta, per raccontare (anche) le pagine più belle della sua carriera. Iosefa, per gli amici “Sefi”, ha intitolato il proprio libro Partiamo dalla fine (Mondadori, 245 pagine), proprio per dire questo: chi vince deve sempre saper ripartire dal fondo, da quello che non va, dalla cifra che non torna. Quando l'ho incontrata per intervistarla le ho fatto rivedere le immagini di quella sua ultima conferenza stampa a Palazzo Chigi, quella con cui - prima di quel viaggio in Germania - si era difesa ruggendo: «Mi hanno chiamata Sefi la furbetta dell'Imu... Mi hanno dato della puttana...». Per un attimo la Idem di oggi è rimasta interdetta guardandosi: «Non mi ero mai riguardata. E - ammette - oggi rivedendomi non mi piaccio. Non ero me stessa, non ero io. Ero una persona che si sentiva accusata ingiustamente e braccata dai media. Era vero che mi hanno braccata. Ma ho dato il peggio di me».
IL CASO IMU Adesso invece può parlare di quella vicenda: dell'Imu agevolata sulla sua seconda casa, delle polemiche feroci, della palestra che c'era dentro, dell'accusa di abuso edilizio. «Il giorno in cui ho visto Maradona fare il gesto dell'ombrello - mi dice - ho pensato: non posso sembrare nemmeno lontanamente come lui. Ho tutte le mie ottime ragioni, la mia spiegazione, ho pagato l'ammenda di tremila euro che mi hanno comminato, ma non posso confondermi con lui. Oggi dico: sulla casa ho sbagliato. Ma ho sbagliato perché non ho controllato abbastanza, non perché ho mentito. Ho sbagliato perché ho commesso una leggerezza e non ho controllato i miei collaboratori, non perché volessi nascondere qualcosa. Sulla vicenda della palestra - spiega la Idem - non sono stata incastrata da qualche indagine, ma dalla mia stessa richiesta di sanatoria, la Scia, che ho depositato perché ammettevo una irregolarità e mi offrivo di sanarla. Per la vicenda della residenza sono stata leggera - dice ancora - ma sarei pazza se, come ha ipotizzato qualcuno, avessi fatto figurare la mia residenza sotto un tetto diverso da quello di mio marito per risparmiare duecento euro l'anno!». Fa una pausa. «In ogni caso - conclude - posso essere orgogliosa di questo: in un paese in cui non si dimette nessuno, io per tutto questo ho pagato: ho lasciato un posto da ministra». E poi: «Fino a quella polemica la gente mi vedeva con l'aureola. Dopo per mesi ho sentito il peso di una gogna. Adesso sono in pace».
VITA COME UN ROMANZO Se però oggi vi parlo della Idem, è perché il suo Partiamo dalla fine non è solo uno slogan, ma anche il racconto avvincente di chi dopo aver raggiunto traguardi impensabili si volta indietro e prova a spiegare come ce l'ha fatta. È un viaggio intrigante, questo percorso a ritroso, anche per chi non è appassionato di sport o di atletica. Perché Iosefa ha una vita che pare un romanzo, o uno di quei film americani che partono male e finiscono con un lieto fine. Prima di vincere trentotto medaglie, infatti, prima di diventare l'unica donna (fino ad ora nessuna meglio di lei) che è riuscita a partecipare a otto diverse olimpiadi, la Idem è stata una ragazza capace di dubitare cento volte del proprio talento. Una atleta di cui a 24 anni, e prima che battesse ogni record di longevità, il suo allenatore tedesco arrivò a dire: «Iosefa ormai sei troppo anziana per diventare campionessa». Lei stessa dice di sé: «Ho un cuore da 56 battiti a riposo: certi campioni ne contano la metà. Ho una soglia anaerobica normale. L'emoglobina bassa, l'ematocrito di una casalinga». E ride. Dopo i primi anni di gare, il padre, uomo di provincia e di buonsenso arriva a dirle: «Senti, fai il concorso per diventare poliziotta: se con lo sport non riesci a combinare nulla, almeno un lavoro sicuro lo hai». E lei il concorso, quando era una atleta tedesca, lo fa e lo vince pure.
È vero però che la Idem ha cambiato paese, e cittadinanza, perché sente che il mondo, e la mentalità in cui è cresciuta non le bastano più. Ma il cuore di tutto sono quelle benedette partenze false. «Io, in tutta la mia vita, ho avuto sempre la partenza lenta: sono un diesel». La partenza lenta è quella che la frega in tuta la prima parte della carriera, nelle prime due olimpiadi combattute portando il tricolore tedesco. Il suo allenatore tedesco la tempesta di allenamenti, le impone uno stile da caserma, le fa crescere dentro insicurezze e dubbi.
SCEGLIE L'ITALIA Poi la svolta. Conosce il suo futuro marito, Guglielmo, un romagnolo che allena una squadra di pallavolo. Sceglie insieme lui e l'Italia. Insieme inventano un nuovo metodo. La Idem prende la cittadinanza italiana. Cambia il lavoro sul corpo, ma soprattuto quello sulla sua testa: «Sono quello che sono perché ho sommato al rigore tedesco la fantasia italiana. Oggi so che l'agonismo sportivo è come un muscolo: se vai in canoa pensando solo al risultato sei sempre in lotta tra i tuoi muscoli e la tua volontà. Ma il muscolo contratto - osserva la Idem - è un muscolo che fatica di più, e alla fine si spezza». Cambiare paese significa cambiare vita: trovare un nuovo metodo di allenamento con Guglielmo, dire addìo ai ritiri-prigione, fare dei figli, e portarseli sorridendo in giro per il mondo come pochi altri. «In una olimpiade mio marito si arrabbia: non puoi rimanere concentrata se ti svegli la notte per il piccolo. Lo farò io». Così la Idem riesce a partire più veloce, a passare dal bronzo all'oro, ad arrivare a quella ultima olimpiade, nel 2012: «A Londra sono arrivata quinta- sorride - ma alla mia età per me è stato come prendere un oro». Perché questa è l'ultima lezione: «I traguardi non sono tutti uguali». Adesso la Idem fa la senatrice. Sa che il suo difetto è sempre partire lenta. Ma ha imparato che sulla sua canoa - come nella vita di tutti - chi non perde il controllo e l'equilibrio arriva sempre lontano.




da repubblica del 4\11\2013












Mike Tyson a 47 anni è un uomo diverso dalla “belva” campione del mondo dei pesi massimi. Ora si confessa in un libro. Emanuela Audisio l’ha incontrato a New York



Mike Tyson, c'era una belva: "Cerco solo tranquillità gettatemi nella polvere"
Mike Tyson Arrogante, rabbioso e violento, picchiatore sul ring, disperato fuori: una vita di pugni e droga, alcol e solitudine. L'ex pugile si confessa mentre esce la sua autobiografia
dalla nostra inviata EMANUELA AUDISIO






Mike, c'era una belva Cerco solo tranquillità gettatemi nella polvere

NEW YORK - La sua arroganza sul ring era splendida. Una rabbia genuina, i sottotitoli non servivano. Un mostro attraente. Brutto, sporco, cattivo. Ora ha gli occhi bui, le cosce grosse, e sbadiglia spesso. Un animale stanco che sbatte tristemente la coda. Da campione dell'eccesso a uomo dimesso. Letargico, cloroformizzato. Chiede un piatto di spaghetti con gamberetti. La solita voce da gattina. Il tatuaggio maori che copre metà del viso non mette più paura, un vecchio graffito stinto. Più vere le cicatrici sulle sopracciglia. Mike Tyson, 47 anni, tanti soprannomi, da King-Kong al Cannibale, da Iron Mike a conte Ugolino della boxe. Ma anche tanta sostanza: il più giovane campione mondiale dei massimi della storia a soli 20 anni. Un picchiatore, il re dei ko: 44 in 58 incontri. Vi staccava la testa senza problemi. Pure l'orecchio, masticato e sputato come un chewing-gum. Se soffrivate, meglio. A lui non fregava. Un bruto. Molto bravo e very fast. Ci sono cattivi mediocri, lui non lo era. Puntava al bersaglio grosso. Era ripagato: vita da nababbo, 300 milioni di dollari in tasca. Tutti bruciati. In bancarotta dal 2003. Come e dove lo racconta nella sua autobiografia "True" (Piemme edizioni, dal 19 novembre in Italia) scritta con il giornalista Larry Sloman. Una vita pesante: droghe, pugni, alcol, dolore, solitudine, tradimenti. Un angolo disperato. Da cui oggi implora di uscire. Vuole una mano.
La sua arroganza sul ring era splendida. Una rabbia genuina, i sottotitoli non servivano. Un mostro attraente. Brutto, sporco, cattivo. Ora ha gli occhi bui, le cosce grosse,e sbadiglia spesso. Un animale stanco che sbatte tristemente la coda. Da campione dell'eccesso a uomo dimesso.



Letargico, cloroformizzato. Chiede un piatto di spaghetti con gamberetti. La solita voce da gattina. Il tatuaggio maori che copre metà del viso non mette più paura, un vecchio graffito stinto. Più vere le cicatrici sulle sopracciglia.
Mike Tyson, 47 anni, tanti soprannomi, da King-Kong al Cannibale, da Iron Mike a conte Ugolino della boxe. Ma anche tanta sostanza: il più giovane campione mondiale dei massimi della storia a soli 20 anni. Un picchiatore, il re dei ko: 44 in 58 incontri. Vi staccava la testa senza problemi. Pure l'orecchio, masticato e sputato come un chewing-gum. Se soffrivate, meglio. A lui non fregava. Un bruto. Molto bravoe very fast. Ci sono cattivi mediocri, lui non lo era. Puntava al bersaglio grosso. Era ripagato: vita da nababbo, 300 milioni di dollari in tasca. Tutti bruciati. In bancarotta dal 2003. Come e dove lo racconta nella sua autobiografia "True" (Piemme edizioni, dal 19 novembre in Italia) scritta con il giornalista Larry Sloman.
Una vita pesante: droghe, pugni, alcol, dolore, solitudine, tradimenti. Un angolo disperato. Da cui oggi implora di uscire.
Vuole una mano. «Sono diventato vecchio troppo presto e intelligente troppo tardi». Ha otto figli, una, Exodus, è morta a quattro anni nel 2009 strozzandosi per sbaglio con una corda.< Tyson, è stata una fatica scrivere? «È stata una sofferenza, riandare indietro a tutto quello che mi è successo. E non mi sono nemmeno censurato. Non ne esco per niente bene. Un egoista, un porco, un arrogante, un bullo, una merda, troppo ubriaco, quasi sempre drogato.
Erba e cocaina, insieme. Morfina. Allucinogeni. Malato di sesso. Abbonato alle orge, se non eravamo in venti non mi divertivo. Un manesco che sragionava. Per dirla con uno slogan: boxing, bitches and babies. Pugni, puttane,e bambini. Non mi sono mai sentito amato, a quel punto chissenefregava di comportarsi bene. Sono stato a Saint-Tropez, belle feste e yacht da sogno, ma c'erano solo bianchi. Mi sono sentito a disagio, io sono un topo da strada, vengo dal ghetto. Da ragazzo non sapevo nemmeno cosa fosse l'igiene, nessuno mi aveva detto che bisognava pulirsi il sedere. Nel libro non ci faccio una bella figura. Ma non mi importa: io rivendico il ghetto, gli appartengo, non mi vergogno».

Però Hollywood veniva ai suoi incontri.

«Adoro Barbra Streisand, anche lei è di Brooklyn. È sempre stata carina con me, le ho anche detto che ha un naso molto sexy. Con Naomi Campbell ci siamo attratti, eravamo tutti e due agli inizi, mi hanno subito detto che dovevo lasciar perdere, lei stava diventando una modella importante. Sono andato a Neverland da Michael Jackson che continuava a ripetermi quanto fosse importante riposarsi la notte e mi chiedeva: tu dormi? Come potevo sapere che si faceva fare delle pere micidiali per prendere sonno? Magic Johnson venne a testimoniare per me quando si trattò di ridarmi la licenza dopo il morso a Holyfield, ma le sue parole non mi piacquero per niente. Disse che voleva insegnarmi a diventare un uomo d'affari, che conoscevo i soldi, ma non li capivo, e li davo via.

Che c'è da capire sui soldi?
 O li hai o non li hai».

E John Kennedy Jr. arrivò a trovarla in carcere.

«Nel '99 quando ero rifinito in prigione nel Maryland per un tamponamento, anche umano. Cinque mesi in cella. Conoscevo John da quando andava in bicicletta a New York, mi aveva invitato nell'ufficio dove pubblicava "George". John venne in aereo con l'istruttore.
Mi pregò di non dire alla sua famiglia della visita, non ero ben visto. Mi spiegò che era male aggredire verbalmente e fisicamente qualcuno. E che il mondo è pieno di stronzi da mandare a quel paese, ma dentro di te, senza urlare davanti alla gente.
Diceva che ero lì solo perché nero. Voleva portami con lui ad Aspen. Ma non ci sono neri ad Aspen, gli dissi. Ne convenne.
Allora gli chiesi di raccomandarmi a una sua cugina, governatrice del Maryland. Avevo già fatto quattro mesi, me ne aspettava un altro. Non la conosco, mi rispose. Ma se giocate insieme a football ad Hyannis Port, replicai. Sorrise e se ne andò.
Guarda caso, poco dopo fui liberato».

 Le sue prigioni però non sono state un dramma.

«Tre anni per uno stupro non commesso. Ho fatto sesso sì, ne ero malato, ma in tante si sono approfittate e mi hanno fatto causa. Ho anche filmato i miei incontri a letto, ho comprato video porno nei negozi, usato il Viagra, dormito negli stripclub, ho tradito e ritradito, preferivo le spogliarelliste, già nude. Non ne vado fiero, ma l'ho fatto. In carcere mi incontravo con una donna, varie volte al giorno, usavo lo stratagemma del vestito allacciato con dei bottoncini. Ordinavo i pasti fuori, pure per gli altri. Se qualcuno aveva bisogno, risolvevo io. Pagavo anche i funerali dei miei amici che nel frattempo venivano uccisi. Chiamavo al telefono a carico del destinatario, poi mi sono anche procurato un cellulare. Il carcere non riabilita, anzi disabilita, diventi paranoico. Larry King venne ad intervistarmi, mi lamentai, non potevo mica dirgli la verità che Versace mi mandava gli inviti.Sono sempre stato un material boy». Tanto, tutto, troppo.

«Cafone, volgare, miserabile.

Ce l'ho scritto in faccia. Entravo nei negozi e compravo tutte le Rolls, le amplificazioni dentro costavano più dell'auto. Presi la casa più grande del Connecticut: 13 cucine, 19 stanze da letto, volevo metterci 19 ragazze, la mia camera era di oltre 600 metri quadrati, mi sembrava di essere Scarface. Per più di una settimana ho dimenticatoa terra una sacca con 100 mila dollari. Mi piaceva la storia dei grandi pugili: Jack Johnson, campione dei massimi, avvolgeva un fazzoletto attorno al pene per farlo sembrare più grande e suscitare l'invidia sessuale dei bianchi. Joe Louis si faceva di coca e di donne. Ma di lui nessuno parla male. Il cattivo sono sempre stato io, non i falsi buoni. In tutte le cliniche di disintossicazione che ho frequentato c'erano attori, cantanti artisti. Di loro non si sarebbe mai detto, eppure venivano da me a cercare roba. Io avevo tutto del tossico, ero riconoscibile, loro no. E questa è la gente che vuole insegnarmi come vivere? Si fottano con le loro belle maniere. Io sono scoppiato ogni volta che hanno tentato di rendermi mansueto. Non è la mia identità fare la scimmia ammaestrata. Prendete Holyfield: sul ring mi ha dato 15 testate, ma per tutti era un santo perché cantava i gospel. Mi hanno dovuto tenere in cinquanta. Ero una belva, molto più della mia tigre».

Che fine ha fatto Kenya?
 gelosa di me. Dormivamo a letto insieme, la portavo ai miei incontri, la lasciavo in albergo e lei distruggeva la stanza. Ho dovuto comprare un camion con 18 ruote per trasportarla. Si è mangiata il tetto di una mia Maserati e ha mozzicato anche una signora che era venuta ad ammirarla. Gli animali sono strani, ti fanno avvicinare, e un bel giorno decidono che ne hanno abbastanza».

Las Vegas non è il posto migliore per una tigre.

«Nemmeno per un leone, stava in giardino, metteva pauraa tutti. Mi ha morsoa un braccio, all'ospedale mi hanno dato sei punti, non ho detto che era stato lui, anche se l'avrei ammazzato». Più bello stare lassù, in cima al mondo, o a terra? «Meglio ora. Senza gloria.

Non bevo più champagne, non ho la Ferrari ma sono più consapevole. Cerco di stare lontano dai guai, di non avere problemi, di non tradire mia moglie, di fare una vita normale. Mi sveglio presto, alle 4-5, faccio ginnastica, accompagno i bimbi a scuola, vado in palestra nel pomeriggio e la sera a nanna alle sette. Mi mantengo facendo l'ospite, documentari, pubblicità. Guardo avanti, ringrazio di non essermi preso l'Aids, con tutti i rapporti non protetti con professioniste del mestiere. Ho avuto fifa quando ho iniziato a perdere peso, anche perché io sono ciccione di natura, ho tempestato i dottori, invece era solo un'intossicazione alimentare presa a Cuba».

La boxe di Ali aveva altre letture. La sua?
 «Non ero Ali. Sono un depresso cronico, lo era anche mia madre, morta alcolizzata, mia sorella, obesa, si è fatta un tiro di coca sbagliato, e non si è più risvegliata, io ho fumato l'eroina da ragazzo, da piccolo mi addormentavo con un bicchiere di gin Gordon, a 11 sono passato alla cocaina. Di cosa stiamo parlando? La mia lista di farmaci è stata sempre lunga: Decapote, Neurontin, Zyprexa, Abiligy, Cymbalta, Wellbutrin XL, Tricor, Zocor. A parte qualcosa per il colesterolo sono tutte droghe, stabilizzano l'umore. Mi battevo per me, per chi non ha soldi, ho rubato per comprarmi i vestiti per il funerale di mia madre, buttata lì senza una lapide. Mia madre non mi ha mai baciato, picchiava i suoi uomini, mai vista dare una carezza. Quando il reverendo Jackson mi ha ribattezzato, da grande, io mi sono portato a letto una corista, che avevo subito adocchiato. Volevate discorsi intelligenti sulla società?». Il pugilato l'ha salvata o condannata? « La boxe mi ha dato una grande opportunità. Non è colpa sua. Ancora non capisco come Cus D'Amato, che mi ha preso dal riformatorio e che per me è stato come un padre, abbia potuto vedere in me un campione del mondo. Avevo solo 13 anni, e nessuna autostima. Ma nella boxe ci sono squali e profittatori. Gente che si avvantaggia e guadagna su dolori e debolezze umane. I pugili sentono, mica sono scemi, D'Amato agli inizi mi aveva perfino portato da un ipnotizzatore». Come va la disintossicazione? «Sono pulito da due mesi e mezzo. Cerco tranquillità.
Quando muoio voglio una lapide con la scritta: Ora sono in pace. Chiedo il funerale più povero del mondo. Nessun abito bello, nemmeno la bara voglio, buttatemi nella polvere. Ma sono sicuro che i pugili del futuro verranno a trovarmi, così come io sono andato sulle tombe dei grandi del passato. Prima ero qualcosa. Ora mi basta essere qualcuno. Per me e la mia famiglia»..






Il 3 dicembre esce il suo primo album, "Pure Heroine", e l'industria della musica è in piena fibrillazione. Lorde, la diciassettenne cantante neozelandese al centro dell'attenzione, è già un fenomeno. Il suo singolo "Royals"


 ha venduto oltre due milioni di copie e il video è stato visto da 60 milioni di persone su youtube. Non
da http://www.repubblica.it/spettacoli/musica/2013/11/06
solo: adesso il brano è finito pure nello spot pubblicitario nel quale è protagonista Messi... Lorde intanto ha già conquistato le copertine dei magazine di tutto il mondo. E le sue polemiche contro la "leggerezza" poco femminista di alcune colleghe ha avuto ampia eco. Di sicuro, sentiremo parlare di lei per molto tempo...

La più anziana maratoneta di New York muore il giorno dopo la gara

incoscienza  o tenacia  verso un sogno ?  a voi la  risposta  . Comunque n esso sia  ha realizzato il sogno  .


musica  consigliata la  colonna  del film    momenti di gloria  

unione  sarda  




Joy Johnson, 86 anni, sognava di morire correndo. Il giorno dopo la maratona si è addormentata nel letto di un albergo e non si è più svegliata.
Il suo sogno era quello di morire correndo. E così, più o meno, è stato. Joy Johnson, 86 anni, domenica scorsa è stata la più anziana a correre la maratona di New York. Durante la gara è caduta ma, stoicamente, si è rialzata e ha continuato. Il giorno seguente ha partecipato a una diretta tv sul dopo maratona, mostrando la sua medaglia. Tornata in albergo, ha detto alla sorella che si sentiva un po' stanca. E' andata a riposare, con indosso le scarpe da ginnastica, e non si è più svegliata.
La donna, originaria della California, domenica ha percorso tutti i 42 chilometri previsti dal percorso. Al 36esimo chilometro è caduta, sbattendo la testa. I medici, prontamente intervenuti, hanno insistito per portarla in ospedale, ma lei non ha voluto sentire ragioni e ha continuato la gara, che ha terminato in 7 ore, 57 minuti e 41 secondi. Il giorno dopo, la Nbc ha voluto intervistarla in diretta tv; durante il programma ha spiegato che si trattava della venticinquesima volta che partecipava alla maratona, e ha mostrato con orgoglio la sua medaglia. Poi il ritorno in albergo, dove si è addormentata, per sempre, nella sua tenuta da atleta, come aveva dichiarato al Wall Street Journal: "Voglio morire correndo. Questa è la mia meta".

5.11.13

Tideland - Il mondo capovolto Il talento visionario di Gilliam al servizio di una sceneggiatura piatta e banale

Per  non cadere  nella  routine   ( che  come  al solito finisce  in un mal  di testa    per  il troppo bere  e il troppo rumore  ,  soffro di cefalea  ) di Halloween li   morti  e morti   ho scelto a  caso  forse    questo  film  
Trailer  in italiano ed  in inglese





A  farmi decidere   di prenderlo    senza  chiedere consiglio  al mio amico negoziante   o  basandomi  suille recensioni  , trailler visti in rete o  in tv  , ecc  è stata  proprio la trama alla dylan dog   .

Ecco  la  qui  presa  dagli extra del film  

Jeliza-Rose (Jodelle Ferland) è una bambina precoce di dieci anni che vive a Los Angeles con la madre ed il padre, entrambi tossicodipendenti. Quando la madre muore per overdose, lei e il padre Noah (Jeff Bridges), ex musicista rock'n roll, si mettono in viaggio verso una casa sperduta nella prateria, che apparteneva alla nonna. Lì, poco dopo, muore anche Noah. Jeliza-Rose, convinta che il padre sia solo caduto in un sonno molto profondo, si ritrova così sola con se stessa in una casa fatiscente e persa nel nulla. Esplorando l'abitazione e i dintorni, per fuggire alla solitudine, la bambina comincia lentamente a disegnare con la sua fervida immaginazione uno strano, colorato mondo di fantasia, popolato da teste di Barbie che le danno consigli, lucciole dai nomi stravaganti e scoiattoli parlanti. Jeliza-Rose non è completamente sola. Presto scopre di avere dei vicini: l'enigmatica Dell, che non si leva mai di dosso il suo velo nero da apicoltrice, e suo fratello Dickens, un ragazzo con la mente di un bambino di dieci anni, che nutre la passione per i sottomarini e la dinamite. Anche Dickens è dotato di grande immaginazione: da la caccia a uno squalo mostruoso che infesta la vicina ferrovia. Insieme porteranno avanti una battaglia a colpi di fantasia e creatività, uniche risorse per salvarsi dalla realtà.
Il film oscilla tra realtà e fantasia, Jeliza-Rose fugge dall'enorme solitudine della sua nuova casa per rifugiarsi nel mondo fantastico che esiste nella sua immaginazione.
Tideland-Il mondo capovolto è una sorta di Alice nel paese delle meraviglie popolato da fantasmi e personaggi immaginari: il mondo di una bambina costretta precocemente ad affrontare drammi più grandi di lei. Illuminando quelle zone d'ombra in cui reale e fantastico si mescolano, Tideland-Il mondo capovolto è una commovente riflessione sulla prima adolescenza.
Tanto ottimistico quanto surreale, tanto divertente quanto pieno di suspence – Tideland-Il mondo capovolto è la celebrazione del potere dell’immaginazione e delle risorse nascoste dei bambini.

Ora Il talento visionario di Gilliam non è in discussione e alcuni momenti del film lasciano a bocca aperta (basti pensare alla scena del pullman che, attraversando un ponte, passa dalla notte al giorno o alle carrellate sui campi di grano che circondano la casa dove vive la protagonista), tuttavia la sceneggiatura è a dir poco atroce. In due ore non succede praticamente nulla e le pur curiose litanie che la bravissima Modelle Ferland va continuamente ripetendo a sé stessa o alle sue teste di bambola, atipiche coprotagoniste della pellicola, stancano velocemente. 
I personaggi di contorno sono appena abbozzati ed il senso dell'intera operazione resta poco chiaro. Tideland - Il mondo capovolto infatti convince poco come fiaba grottesca (il finale è di una sconcertante banalità) e non tocca le acide vette raggiunte da Paura e delirio a Las Vegas, che, pur criptico, almeno resta coerente con se stesso dal primo all'ultimo minuto. Peccato per Jeff Bridges (grandissimo attore qui sprecato) che vorremmo tornare a vedere più spesso. Un film  che nonostante  i  suoi limiti     ti  costringe  a   guardarlo   <<  con gli occhi di  un bambino .Perché >>  come suggerisce  il regista  stesso   nell'introduzione  << è scioccante  [ anche  se   a me non sembra  completamente   ho visto di meglio ]  ed innocente  >> . Ora  per poterlo  godere   in pieno , ma non è  detto che  ci si riesca  il regista  suggerisce di  <<   dimenticare    tutto  quello che avete imparato   d'adulti  , le  cose  che limitano  le  vostre  visioni   sul mondo , le  vostre paure   , i vostri pregiudizi e  i vostri preconcetti   >> . Insomma  imparare  a  riscoprire   ad essere bambini  e recuperare  con esso  la capacità   di stupirsi   e  l'innocenza  . Riscoprire il bambino  che  è in noi  .Infatti   secondo   questa  Rassegna stampa presa  da  http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=35935

Jeliza-Rose, la bambina che non sopportava Giffoni
di Roberto Silvestri Il Manifesto
Provocatorio, offensivo, romantico. Il capolavoro di Terry Gilliam arriva finalmente in Italia (ultimo paese al mondo). Fiaba nera, imperdibile e indipendente, Tideland-Il mondo capovolto (2005) è uscito in 25 copie e la neonata Officine Ubu, che distribuisce, non può diffonderlo ovunque (a Roma è al Farnese e al Politecnico). È una storia sconvolgente che, aggrappandosi a Lewis Carroll, diventa sostenibile. E che lancia Jodelle Ferland, star di 9 anni e mezzo della tv canadese, qui capace di trasformarsi in 19enne o 30enne a seconda delle necessità del copione, lì dove la situazione potrebbe traumatizzarla ed è invece lei, aiutata dalle sue 4 bamboline dalla testa mozza, a traumatizzarci con innocenza feroce (a 9 anni si metabolizzano da dio i telefilm, meglio degli adulti). »


Favola senza case di marzapane
di Boris Sollazzo Liberazione
Il senso della vita, Terry Gilliam, non l'ha trovato con i Monty Python. Lì il suo talento è esploso, si è scontrato con altri cinque geni, ha contribuito alla creazione di capolavori cinematografici, televisivi, comici. Quattordici anni di leggenda, dal "Flyng Circus" all'immenso Brian di Nazareth. Ma Terry Gilliam, come e più di quei compagni di viaggio, è molto altro. E' uno storico, è un cartoonist, è un cinematografaro a tutto tondo (scrive, produce, dirige da sempre). Ora che va per i 70 non ha rallentato e continua a far l'amore con il cinema, nonostante per lui sia sempre stato un amante bizzoso e pericoloso. »

di Sandro Rezoagli Ciak
Nel mondo capovolto del sottotitolo italiano vive la decenne Jeliza-Rose. È il suo rifugio da una vita orrenda (povertà, precarietà, genitori eroinomani) di cui la bambina non sente nemmeno tanto il peso, perché vi è nata e cresciuta. Un universo fatto di teste di Barbie, animali parlanti, vicini di prateria che credono di essere cacciatori di squali, streghe imbalsamatrici e necrofile... Dopo la morte dei genitori (a cui la bambina prepara le dosi come se scaldasse il latte per la colazione, una delle sequenze più sconvolgenti della nostra carriera di spettatori) Jeliza-Rose resta sola con i suoi amati fantasmi in una surreale (e simbolica) "terra delle maree". »

I mali della vita visti dalla parte dei bambini
di Alberto Castellano Il Mattino
Con «Tideland» Terry Gilliam è tornato a sconvolgere il cinema contemporaneo con la crudeltà visionaria, la disperazione apocalittica, l'insofferenza verso le convenzioni narrative, la voglia di far deflagrare le codificate dimensioni spazio-temporali, la vocazione a trasgredire modelli culturali radicati nell'immaginario. L'ex Monty Python, autore di film importanti come «Brazil», «L'esercito delle dodici scimmie», stavolta ha rivisitato il modello «Alice nel paese delle meraviglie» e molta letteratura per l'infanzia per ripensare il rapporto tra i figli e i genitori, restituire lo sguardo adulto e maturo di una bambina, capovolgere la gerarchia tra il mondo dei grandi e quello dei piccoli. »

Esso  è quindi  un film distinto e  discreto . un po' più di coraggio   nell'approfondire i personaggi  con cui la  bambina viene in conto non sarebbe  guastato  . In definitiva  Bof.... giusto se siete appassionati del genere e non avete di meglio per passare la serata




2.11.13

Bruno Mautone alla Fondazione Vico a Vatolla (Salerno), Palazzo De Vargas. ha presentato l'interessantissimo saggio "Rino Gaetano. La tragica scomparsa di un eroe"

  ti potrebbe interessare la mia intervista  all'autore  

nonostante come dice lo stesso autore nel secondo   video sotto



 il boicottaggio dei media ufficiali che di solito recensiscono anche le cagate

 il libro Rino Gaetano. La tragica scomparsa di un eroe" . 
Continuano in tutt'Italia le presentazioni dell'interessantissimo e notevole  saggio "Rino Gaetano. La tragica scomparsa di un eroe" dell'avvocato agropolese Bruno Mautone.
Sempre più persone acquistano il saggio e partecipano attivamente - attraverso gli incontri diretti ma anche grazie agli spazi offerti dal web - con le proprie idee, opinioni e valutazioni.
Qui potete trovate lo spazio nel blog dell'editore "L'Argo Libro" attraverso il quale è possibile acquistare il saggio ( tra l'altro, si possono leggere on line l'introduzione e il primo capitolo) e qui il calendario aggiornato con tutte le date delle presentazioni (prossimi appuntamenti: Amantea, Bitonto, Torino... passate parola tra i vostri amici !!! (  visto  che , l'unico mezzo   per  vincere  il silenzio dei media ufficiali è il passaparola corsivo mio  ).Ecco le locandina della presentazione che si è tenuta ieri pomeriggio nella prestigiosa sede della Fondazione Vico a Vatolla (Salerno), Palazzo De Vargas per le foto http://occhidiargo.blogspot.it/2013/11/bruno-mautone-alla-fondazione-vico-le.html



vi lascio con le note  , della  più bella  ,  secondo me  , di rino  i  miei sogni d'anarechia  

L'ULTIMA NOTTE AL MONDO di Daniela Tuscano

  musica  consigliata
  Una storia  sbagliata  di F. De. Andre  
  Wake Me Up di Avicii

Caro Pier Paolo,




è la notte più nera, questa. La notte in cui ti cancellarono il viso, lasciando al suo posto una informe maschera cremisi. Notte esausta. Notte da macelleria.
Era notte anche in Calabria, da bambina. Udivo, senza comprenderli, oscuri e sommessi muggiti, mischiati agli aromi squillanti della pasticceria sotto casa, in un buio già africano. A pochi passi da me c'era un macello clandestino: e quei muggiti erano l'estremo e inutile lamento di povere bestie senza scampo.
Ecco, immagino quella tua ultima notte nello stesso modo: un che di impietoso e, al tempo stesso, d'inesorabile. Tu che tentavi la fuga, venivi riacciuffato, macellato, violato...
Intorno, un'ovatta d'indifferenza.
Il giorno dopo, poeta fosti. 
Sipario. Letteralmente, ti velasti, separasti ai nostri sguardi. 
Il tuo, ormai altrove. Per sempre. Ricordi? Da vivo, lo nascondevi spesso dietro occhiali nerofumo. Scrutavi con svagatezza febbrile, come quel Cristo di Porta Venezia, a Milano, ricavato nella nicchia d'un albergo diurno. Un Grande Fratello macilento, senza cattiveria. Forse era pudore. Forse paura. Privi di quella protezione, restavano i tuoi occhi chiari, dilatati, eccessivi. Per te e chi li incrociava.
Di te raccontò, molti anni dopo, un artista popolare: "Non volli conoscerlo. I miei amici della borgata mi dicevano che era un tipo poco raccomandabile. Così, ne avevo paura".
Poco raccomandabile, senza dubbio. Infatti non ti raccomandò nessuno. Tu rischiavi in proprio e, se cercavi il martirio, lo facevi perché costretto. Avevi un destino di testimonianza, volevi espiare vivendo. 
Già: poco raccomandabile, naturalmente strano. Eliminandoti, tentarono di cancellare lo specchio dei loro peccati. Quei tuoi occhi chiari rimandavano ai tuoi interlocutori la loro cattiva coscienza. No, non eri proprio da raccomandare.
Non creasti un idioletto. "Sono un passatista", ripetevi. Le tue poesie restavano imperfette. Qualcuno cercò d'imitare la tua estetica della miseria. Ma restò un epigono. Gli mancava la tua forza remota, la tua estraneità tutta italiana, d'una italianità rinascimentale, all'Italia borghese ed esangue. Inodore come plastica.
E ora? Ora permane un sabato santo, senza resurrezione che non sia del popolo. Restano poche sentinelle nel deserto, anche d'immagini. Ma quella massificazione da te denunciata permette anche, sparsi tra pulvini lumescenti, di ritrovarci se vogliamo, e comunque adesso ci è dato vivere. La notte va superata qui, su questa terra. Uniti. Sotto le belle bandiere.

Gassman recita "Dei Sepolcri" - Ugo Foscolo





per ogni commento rinvio  al mio  post i morti non sono solo il 1-2 novembre \ anche la morte è vita

1.11.13

Una risata via Twitter ci salverà La creatività ai tempi del digitaleSms, cinguettii, istant messenger, blog: l'altra scrittura

stavo facendo la raccolta differenziata  dela carta  e  ho  trovato questo articolo interessante  che ho deciso  di  condividere  con voi

unione sarda del 25\11\2013

Si è chiusa la tre giorni di “Pazza Idea”, visioni di normale follia tra arte e letteratura

Una risata via Twitter ci salverà La creatività ai tempi del digitale

Sms, cinguettii, istant messenger, blog: l'altra scrittura

Quel pensiero creativo, protagonista a Cagliari della tre giorni di “Pazza idea”, nel caso della scrittura straripa godurioso nei registri dell'ironia. Così succede a Daniele Zito, esordiente con “La solitudine di un riporto” (Hacca, 2013), nel divertente incontro della serata conclusiva di ieri. E il rapporto tra sorriso e creatività fluisce rigogliosa nella conversazione tra l'autore radiotelevisivo Matteo Bianchi e lo scrittore Paolo Nori, accattivante con le pagine del suo “Momama” (Chiarelettere, 2013). Ovvio, l'ironia della carta corre anche sulla Rete. Le scritture invadono Twitter e disegnano un mondo affascinante da scoprire.
Di narrazioni digitali hanno parlato con Vito Biolchini il direttore della Fondazione Cesare Pavese Pierluigi Vaccaneo (tra i fondatori della twitteratura), la blogger esperta in community Mafe de Baggis e il consulente di innovazione editoriale e ideatore di Galizio Filippo Pretolani. Che porge quesiti per gli editori, perché «la scrittura è diventata normalissima con sms e l'istant messenger: non si può ignorare che ormai chiunque scrive tanto». Per non dire che in questa interconnessione di tutti «possono nascere improvvise connessioni tra cose di qualità». Rendere continua la narrazione è possibile futuro della lettura. «Il libro di carta, che ha un inizio e una fine, mi è sembrato limitato. Il limite del libro è il punto di partenza della narrativa digitale, che però per ora l'editoria rifiuta», evidenzia la blogger che in borsa tiene la “Morfologia della fiaba” di Vladimir Propp in cartaceo e sul Kindle tutte le favole esaminate.
Tra gli ospiti anche il social media strategist Alessandro Paolucci. @Iddio è il nom de plume con cui su Twitter viene seguito da oltre 170 mila persone. A Francesca Madrigali spiega come ha trovato sulla piattaforma di microblogging una dimensione ideale per la propria creatività. E le sue battute folgoranti sono raccolte in “Dio non gioca ai dadi, tiene il banco” (Kowalski, 2013). «Quando accumuli follower sei diventato influencer, che tu lo voglia o no. E se tantissimi utenti condividono qualcosa parte un fenomeno di massa che non si può fermare». Rivaluta gli umanisti in quanto possono fare buona comunicazione online anche per le imprese. «Possono essere più bravi degli ingegneri: fanno un lavoro migliore, perché sanno usare i testi e distinguere le situazioni».
Leggerezza e simpatia sono l'approccio vincente. Sottolinea di fare attenzione a ciò che si scrive perché Internet conserva i dati e, in futuro, potrebbe rovinarci la reputazione. E figurarsi cosa succede se si fa girare un preoccupante allerta meteo - però del giorno prima - nei momenti drammatici dell'alluvione in Sardegna. Controllo delle fonti a parte, un'avvertenza da ripetere per avere i conseguenti giovamenti è che sui 140 caratteri di Twitter si può essere fraintesi con facilità maggiore rispetto, per esempio, a Facebook. Le offese, infine, non hanno a che fare solo con la reputazione ma possono diventare minacce. Cita il caso degli attacchi alla presidente della Camera Laura Boldrini via Twitter.
Purtroppo se ne parla in chiusura di incontro. Una precisazione su quanto sentito, allora, va fatta: le minacce sulla Rete sono un reato esattamente come nel reale. È un problema di effettività della tutela rispetto al mondo non virtuale: il pensiero (creativo) del legislatore è stato previdente.
Manuela Vacca

Un pezzo della nostra storia Una strada al professore Luongo, la strana Cassandra con i palloncini Indimenticabile volto di una città che non c’è più. I figli, ammoniva, hanno troppi soldi in tasca!

  Grazie  tina galante https://www.facebook.com/tina.galante e https://www.facebook.com/dr.antfus  per  avermi  fatto apprendere da  http://www.orticalab.it/  questa news  


Un pezzo della nostra storia
Una strada al professore Luongo, la strana Cassandra con i palloncini
Indimenticabile volto di una città che non c’è più. I figli, ammoniva, hanno troppi soldi in tasca!




Staglianò - Nigro
Mercoledì, 17 Ottobre 2012

Avellino è una piccola città, con i suoi pregi e i suoi difetti. Qualcuno non vede l’ora di fuggirne via, qualche altro, invece, non saprebbe farne a meno. Ed è giusto che sia così. Quello su cui, però, tutti devono per forza di cose concordare è che ha una sua storia, fatta di eventi, tradizioni, cultura e, soprattutto, uomini.
Uomini come l’indimenticato, almeno per quelli che hanno più di vent’anni, professore Giovanni Luongo.
Sì, proprio quel dolce anziano che se ne andava in giro esponendo cartelli e regalando palloncini colorati ai bambini. Un’ “attività” portata avanti per circa trent’anni in ogni parte d’Italia e iniziata, come lo stesso Luongo ebbe a dire nel corso di una memorabile intervista con Ottavio Giordano, lanciando il messaggio «Il peccato chi lo fa lo paga, prima qua poi là». Sempre in quella intervista il vecchio professore di liceo non nascose il desiderio di vedere, un giorno, una strada cittadina intestata a lui.
Tutti noi lo ricordiamo per il celeberrimo «E’ colpa tua, i figli hanno troppi soldi in tasca!». Un vero e proprio appello che il professore rivolgeva ai genitori affinché si ponesse un freno alla degenerazione dei costumi che avrebbe portato, prima o poi, ad un punto di non ritorno. In tanti ridevano con aria di sufficienza, in pochi riflettevano sul vero senso di quelle parole. Parole profetiche di una strana Cassandra.
Luongo morì nel 2007 a Prato, dove s’era trasferito per stare insieme alla sorella.
Da allora in molti lo hanno ricordato. Sul sito avellinesi.it ci sono anche alcune sue fotografie dalle quali abbiamo attinto quella che proponiamo. Qualcuno, poi, ha lanciato una petizione per intitolargli una strada, così come desiderava, e la proposta, in pochissimi giorni, raccolse l’adesione di oltre mille cittadini. Ma, come tante altre cose ad oggi nulla s’è mosso.
A noi, passeggiando per le vie di Avellino, e notando quanto sia pesante l’assenza di persone come lui, di quei palloncini colorati, del rumore del suo fischietto che attirava l’attenzione dei bambini, è venuto in mente che, forse, soddisfare il desiderio di un giusto può rappresentare un segnale importante per una città sempre più vittima della violenza e della mancanza di cultura. Perché il professore Luongo, per quanto bizzarro, era innanzitutto un uomo di cultura.
E allora abbiamo deciso di unirci a quanti ci hanno già provato in passato dando eco e nuovo slancio a quella proposta. Basterebbe davvero poco, anche un vicoletto di periferia, per onorare "l’uomo dei palloncini".

i morti non sono solo il 1-2 novembre \ anche la morte è vita







ti potrebe interessare anche 




in sottofondo  \  consigliati


Morire non è nulla; non vivere è spaventoso.(  V.Hugo  da  Les miserables  ) 

famosa   lapide  di un medico tempiese  
Lo so  che al  cimitero dovremmo andarci più spesso   del  periodo  fine ottobre  \ novembre in particolare il 1  e  il 2 novembre ma  fra  vari impegni  e motivi vari (  il mio  è psicologico , mi sciolgo in lacrime   sia per i parenti indiretti e diretti   che  ho  sepolti  nei vari cimiteri   galluresi e  non   sia per le persone   che  ho conosciuto durante  il mio arco di vita  fin qui  trascorso  )  .
 Ma    onde  a evitare , quello che ho visto stamattina  ( non l'ho fotografata  , rispetto a quest'altra  foto in alto a sinistra  )  

                           William-Adolphe Bouguereau (1825-1905) - The Day of the Dead (1859)  da                                      wikipedia.org



  perchè  c'era  troppa  gente   e perchè con la  fotografia risultavano  i nomi  di quelli  affianco e  sopra  e  poi   non so  usare    gli strumenti  per  modificare   le  foto ) una  toba  senza  fiori  , scolorit  di cui non ci sono neppure  i classici  fiori  finti ,  proprio come  il finale  di Les Miserables  di  V.Hugo 

                L'ERBA NASCONDE E LA PIOGGIA    CANCELLA
Nel cimitero del Père-Lachaise, in vicinanza della  fossa comune, lontano dal quartiere elegante di quella  città dei sepolcri, lontano da tutte quelle tombe stravaganti  che ostentano di fronte all'eternità le orribili mode  della morte, v'è, in un angolo deserto, lungo un vecchio muro, sotto un grande tasso lungo il quale s'arrampicano, in mezzo alla gramigna ed al muschio, i convolvoli,
una pietra. Quella pietra non è più delle altre esente dalla lebbra del tempo, dalla muffa, dal lichene e dallo sterco degli uccelli; l'acqua la fa divenire verde, l'aria l'annerisce.
Non è vicina a nessun sentiero e a nessuno vienein mente d'andare da quella parte, perché l'erba vi cresce folta e ci si bagna subito i piedi. Quando v'è un po' di sole, vengon le lucertole; intorno intorno, è tutto un fremere d'avena selvatica. In primavera, le capinere cantano sull'albero.
Quella pietra è completamente spoglia. Colui che  la tagliò pensò soltanto al puro necessario della tomba e  l'unica cura fu di far la pietra abbastanza stretta perché potesse coprire un uomo.
Non vi si legge nessun nome. Solo (sono passati molti anni da allora), una mano  vi scrisse colla matita codesti quattro versi, divenuti a poco a poco illeggibili sotto la pioggia e sotto la polvere e che, probabilmente, oggi sono scomparsi:

Ei dorme. Sebben strana fosse con lui la sorte,
Vivea. L'angel suo sparve, ed egli venne a morte.
Così, semplicemente, la vita sua finì,
Come la notte scende, quando tramonta il dì.



Infatti concordo con il commento  di




Finché sono vive nei ricordi, queste persone non saranno mai morte.
Buon Ognissanti, buon novembre, buon ponte. Un abbraccione! ^^

E  poi  perchè  ( nel prossimo post  metterò delle  foto   di alcune tombe di quello  cittadino  ) i  cimiteri    come dimostra questa  puntata  di questa trasmissione  essi oltre luogo di  culto   e  di cultura  


indicano  la  storia  di un popolo e  della  sua storia ed  il cimitero di  
  

Concludo   riportando oltre  i  soliti link  nel finale  parte  di un post    dal