Insegna l’italiano a una compagna arrivata dal Marocco: la piccola Aya premiata al Quirinale La dodicenne, nata in Sardegna, ha aiutato una coetanea appena arrivata, permettendole di integrarsi. Mattarella l’ha nominata Alfiere della Repubblica
La piccola Aya (Foto concessa)
Aya è nata in Sardegna, il papà e la mamma sono marocchini e vivono a Marcalagonis. Oggi ha 12 anni e il 14 dicembre, assieme ad altri 29 premiati in tutta Italia (compresi alcuni sardi), riceverà l'attestato d’onore di "Alfiere della Repubblica" dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Aya Jedidi parla l’arabo e l’italiano. Durante l’anno scolastico ha aiutato Hayears, una coetanea arrivata dal Marocco e che non conosceva una parola d'italiano. La dirigente scolastica dell'Istituto Manzoni di Maracalagonis, Emanuela Lampis, ha subito promosso un progetto di studio con l'insegnante Francesca Congiu, dove Aya è stata la vera protagonista. Ha iniziato a seguire l'amichetta appena arrivata in Sardegna, le ha insegnato le prime parole di italiano, poi tanto di più, facendo anche lezioni a distanza alla connazionale durante la chiusura della scuola per la pandemia.
La professoressa Congiu (Foto concessa)
"Aya è una ragazzina straordinaria - ha detto la professoressa Lampis - una ragazzina altruista, bravissima, seria, umile, capace di interagire con tutti. Così anche Hayears, arrivata da noi senza parlare una parola di italiano, si è inserita a scuola, ha trovato l'amicizia di tutti. Una storia bellissima, straordinaria. Una lezione per tutti. Questa è la scuola vera, una scuola soprattutto di vita”.
La preside Lampis (Foro concessa)
La bella notizia è stata anche commentata dal sindaco Francesca Fadda: “Aya, grazie ai suoi gesti, al suo altruismo, alla sua bontà è diventata un ponte prezioso per i docenti e per i compagni, sempre pronta a offrire chiarimenti o spiegazioni, nei contesti didattici come in quelli ricreativi. Col suo slancio di solidarietà attraverso gesti spontanei e gentili ha conquistato i compagni e per questo è riconosciuta come un modello di buoni comportamenti”.
Nel cuore della Marina, in via Dettori, spunta il laboratorio di Giovanni Polla, uno degli ultimi fabbri rimasti a Cagliari. Infanzia trascorsa a Laconi sino ai 12 anni, da trent'anni è uno dei volti riconoscibili del rione anche perché è un musicista. Il suo laboratorio è illuminato da una luce fioca, contraddistinto da due archi a mattoni e in pietra, oltre che da un soffitto in legno costituito da tronchi di zinnibiri. Tutto parla del suo mestiere e al suo interno sembra che il tempo si sia fermato: trapani a colonna, ercoline per
piegare i tubi, piegatrici per le lamiere, troncatrici, saldatrici a filo continuo, forgia a propano, pinze, punzonatrici, forbici, taglia tubi, morsetti, soffietti sono alcuni dei macchinari che usa giornalmente per le sue creazioni. «Per me il fabbro non è mai stato solo una professione ma una passione ereditata da mio nonno Efisio che mi regalò il suo martello che ancora conservo, il primo da me usato, un cimelio». Il lavoro «Realizzo scale a chiocciola, cancelli, grate, mensole, tettoie, porte, ringhiere, balconi. Mediamente per realizzare un cancello impiego 15 giorni mentre le grandi multinazionali due ma il ferro che io uso è più spesso, circa due millimetri, quindi più resistente. C’è una cura maggiore». Occhiali in volto, ventaglio in pelle per proteggersi dalle scintille della forgia e dai raggi della saldatrice, non manca l’occasione per dare spazio al proprio estro. «Creo anche lampadari con decorazioni naturali, dove si gioca con i dettagli realizzando geometrie perfette. Oppure soli a specchio, pavoncelle per bastoni da tenda, insomma la fantasia non manca». Dalle pinze alla chitarra Fantasia che riversa nell’altra sua grande passione, la musica. «Suono la chitarra e il basso, sono cresciuto ascoltando Jimmy Hendrix, i Beatles, i Rolling Stones. Tra una pausa e un’altra scrivo canzoni, mi raggiunge qualche amico con cui suono e diamo vita a jam sessions. Negli anni Settanta formai una band chiamata “I Diavoli Rossi” con cui abbiamo girato la Sardegna suonando in vari locali e feste». Marito, padre di due figli e nonno di quattro nipoti, come conciliare i suoi due grandi amori? «Lavorare il ferro e suonare sono due aspetti complementari della mia vita», conclude. «Non c’è differenza: in entrambi i contesti faccio uscire la poesia che ho dentro di me. Non sono né un poeta né voglio essere ritenuto un esempio ma un uomo semplice che affronta la quotidianità con il sorriso».
BISCA - UGO IL PRIMO UOMO SECESSO ( testo e video )
Almamegretta - Figli di Annibale
ai razzisti nostrani che dicono che ci vogliono africanizzare e cazzate amenità varie
di Francesco Giovannetti
Tra elefanti e bufali, Roma era come la savana Dove ora imperversano i cinghiali un tempo c’erano enormi pachidermi. Ma anche iene, scimmie e altri animali insoliti a queste latitudini. Lo testimoniano studi e scavi
indipendentemente da essere laici , credenti , atei , confessionali ( miscredenti come dicevano le mie nonne ) ai cattolici ( ma non solo visto che in italia del nord ovest esiste una forte minoranza valdese ) dobbiamo molto a loro .
Como è sempre stata una città accogliente ma la scomparsa di Don Roberto ( vedere video ) ha aperto una lunga riflessione su come il povero e gli ultimi siano nostri fratelli". Parla chiaro Luigi Nessi, volontario, da anni in prima linea in carcere e nell'aiuto verso i più bisognosi. Nessi conosceva Malgesini da tanto tempo e insieme a lui andava a distribuire le colazioni tutte le mattine davanti alla chiesa di San Rocco, la parrocchia di don Roberto. "Oggi quella macchina non si è fermata" racconta Luisa, ostetrica in pensione da anni volontaria al fianco del don nella distribuzione di colazioni. "I volontari continuano il loro lavoro nonostante la figura fisica di Roberto non ci sia più". Ma a Como non c'era solo Don Roberto a fare un lavoro di accoglienza. Da anni la parrocchia di San Martino, guidata da Don giusto della Valle, si occupa di integrazione attraverso progetti educativi mirati per i migranti e gli ex detenuti. "Lo stile di Don Roberto è un'ispirazione perché era uno stile gentile e sempre disponibile per tutti noi che facciamo accoglienza - spiega Giusto - un modo e l'opportunità che ci sfida tutti i giorni".
Ovviamente questo non vuole dire assistenzialismo anche se il rischio c'è che si possa trasformarsi in esso . Ma sia che sia fatto in maniera laica ( come la storia che riporto sotto ) sia in maniera confessionale o semi confessionale come il caso sopra riportato , esso ti arricchisce e arricchisce se fatto bene chi lo riceve come la storia che riporto sotto . Infatti L’esperienza di Assia ha fatto da apripista al progetto “adotta uno scolaro” nella Provincia di Rovigo. Insegnanti in pensione aiutano bambini o ragazzi in difficoltà gratuitamente.
Lei è Assia. Vive in Marocco. La famiglia è numerosa, tira avanti a fatica. Ha 5 anni. Il padre decide per tutti. Si va in Italia, in Veneto. Assia apre la porta della sua nuova casa. È tutto grigio, freddo. Piange per giorni. Mamma e papà lavorano nei campi, si spezzano la schiena tutto il santo giorno, purtroppo non hanno tempo per asciugare le sue lacrime. Assia trascorre le giornate dai vicini di casa. Madre, padre, e tre figli la accolgono, le offrono gentilezza, cibo, giochi, le regalano il materiale scolastico. A scuola però è una tragedia. Assia è timida, spaventata. I compagni la tengono a distanza, le insegnanti non la aiutano. Questo è sbagliato, sei lenta, non capisci. A fine anno convocano i genitori e mettono le cose in chiaro. Vostra figlia non andrà lontano. Bocciata. Assia piange così tanto che le bruciano gli occhi. Quella che intanto è diventata la sua famiglia italiana corre in soccorso e apre le porte di casa per le vacanze. Può stare da noi, farà una full immersion di italiano, i ragazzi le daranno una mano a studiare. I genitori sono commossi, ringraziano e colgono l’opportunità. Assia è diffidente, ma Guglielmo, Paola, Tatiana, Olga e Yuri credono in lei, la incoraggiano e la sostengono. Le giornate volano, Assia torna in classe che sembra un’altra, ora non ha niente da invidiare ai compagni. Spiega le vele, naviga senza paura. Si pappa il liceo Linguistico in un boccone. Studia Lingue a Bologna, fa un viaggio studio in Cina, un Erasmus a Lione, in Finlandia e anche in Marocco. È lanciata, finché il padre la riporta con i piedi per terra. Fai le valigie, ci trasferiamo in Francia. Assia barcolla. Il freddo e la solitudine sono dietro l’angolo. Ma adesso è una donna forte, che ha ben chiaro cosa vuole fare nella vita. Mi dispiace papà, io vi voglio bene, vi sono grata per tutti i sacrifici che avete fatto per me, ma ora voglio camminare sulle mie gambe, la mia casa è qui, in Italia. Oggi Assia ha 26 anni, parla sette lingue e fa l’insegnante.
La bambina che non doveva andare lontano ha girato il mondo, macinato chilometri, visto, assorbito, imparato. Poi è tornata a casa. Il primo giorno in cattedra, davanti a quegli occhietti che la fissavano, ha pianto di gioia. Dietro ogni studente non vede problemi, ma infinite possibilità.
Miccoli, ascesa e caduta di una stella del calcio dalle amicizie criminali L'attaccante pugliese ha militato nel Palermo dal 2007 al 2013 ed è il giocatore rosanero che ha realizzato il maggior numero di gol di Massimo Norrito
Sei anni di magie con la maglia rosanero, ma anche inchieste giudiziarie, sdegno per le frasi ingiuriose nei confronti di Giovanni Falcone sino alla condanna per estorsione resa definitiva dalla Cassazione. La storia a Palermo di Fabrizio Miccoli è una storia di grandi successi sul campo finita nel peggiore dei modi. Miccoli ha indossato la maglia rosanero dal 2007 al 2013 ed è ad oggi il giocatore del Palermo che ha realizzato il maggior numero di gol. Sono 81: 74 dei quali in serie A, nelle 179 partite disputate. Con Miccoli in campo il Palermo ha raggiunto alcuni dei traguardi più importanti della gestione di Maurizio Zamparini quando la squadra teneva testa e batteva le grandi del calcio italiano in un susseguirsi di successi e di partite che hanno fatto la storia del calcio rosanero. Ultima, prima dell'avvio del declino che poi ha portato al fallimento della società, la finale di Coppa Italia giocata e persa contro l'Inter in uno stadio Olimpico colorato di rosanero. Miccoli arrivava dal Benfica dove aveva giocato per due stagioni. Zamparini lo volle a Palermo per formare la coppia d'attacco insieme ad Amauri. E fu una scelta vincente perché Miccoli entrò subito nel cuore dei tifosi rosanero e a suon di gol portò il Palermo alla soglia della qualificazione in Champions.
Un traguardo che la squadra rosanero fallì in una sorta di spareggio contro la Sampdoria finito 1 a 1 nel quale Miccoli segnò un calcio di rigore con il legamento crociato del ginocchio rotto. Una epopea calcistica con la quale però troppo spesso si sono intrecciate le vicende giudiziarie che hanno visto coinvolto l'attaccante pugliese. Miccoli arrivò tra i cori dei tifosi che lo accolsero in un hotel di Mondello ed è andato via tra le lacrime dopo una conferenza stampa in un altro albergo cittadino. Allora il Miccoli protagonista negli stadi aveva già lasciato il posto al Miccoli protagonista a palazzo di giustizia.
Purtroppo il fenomeno dell'infiltrazione mafiosa non riguarda solo lo sport ma anche la sanità ed le sue strutture , " fortunatamente " solo in poche regioni , ma se si continua cosi , s'estenderà a tutto il paese .
Un'emergenza circoscritta , come dice questa inchiesta di repubblica ( purtroppo il link è a pagamento o scaricabile free con il codice QR ) da cui ho tratto la cartina sotto , a Campania e Calabria, con ripercussioni sui costi e sulla qualità del servizio sanitario nazionale. Oltre agli interessi economici, perseguita l'assunzione di persone legate ai clan locali per accrescere il consenso della popolazione intorno alle organizzazioni criminali
“Sono Agnese e sono trans, nella mia tesi di laurea racconto i diritti negati” di Salvo Palazzolo
Agnese Vittoria
CATANIA - "Quando arrivai in città per frequentare l'università nessuno voleva affittarmi una stanza", racconta. "Al telefono, mi dicevano che il posto era disponibile. Poi, quando mi vedevano, sostenevano l'opposto". Agnese Vittoria ne ha fatte tante di battaglie contro le discriminazioni. All'anagrafe ha ancora un nome maschile, ma rivendica quello che chiama il suo "diritto a una vita normale". Dopo l'iscrizione alla facoltà di Scienze della comunicazione, ha chiesto al senato accademico un libretto col suo nome. L'ha ottenuto? "Certo. Un gesto di grande attenzione da parte dell'istituzione universitaria. Direi, un caso raro. Perché spesso le istituzioni sono indifferenti rispetto a certi temi. O, peggio, non comprendono. Questa volta no, è stato colto il mio disagio davanti a quel libretto col nome maschile: a ogni esame provavo un grande imbarazzo a essere chiamata davanti a tutti". Martedì si è laureata con una tesi in sociologia. Ha passato in rassegna le discriminazioni che troppo spesso vengono lanciate da uomini delle istituzioni, politici e operatori dell'informazione. Ci fa qualche esempio? "Ho voluto trasformare la mia tesi in un momento di impegno, per far comprendere a tutti cosa accade nell'indifferenza generale. Sono grata al professore Davide Bennato, che mi ha sostenuto nella ricerca sulle violenze omofobe in Europa e negli Stati Uniti, violenze che continuano a esserci nonostante leggi e diritti approvati. Un esempio ad alto livello? L'ex presidente Donald Trump, disse: "Farò tutto ciò che è in mio potere per proteggere i nostri cittadini Lgbt dalla violenza e dall'oppressione di un'odiosa ideologia straniera". Come se la comunità Lgbt+ fosse vittima solo dell'integralismo islamico". Mi dica un caso italiano che cita nella sua tesi? "Giorgia Meloni. Nel programma televisivo Pomeriggio Cinque, condotto da Barbara D'Urso, ha dichiarato che lo "Stato non fa le leggi sull'amore. Lo Stato incentiva la famiglia naturale fondata sul matrimonio perché gli serve in quanto finalizzata alla procreazione". Una frase che, oltre a mimetizzare un sentimento razzista e sessista, rappresenta anche una forma di discriminazione delle donne non fertili". Nella sua ricerca critica anche il modo di fare informazione sul tema. Quali stereotipi vengono ripetuti? "Si tratta di omotransfobia senza focalizzare l'attenzione sulle cause scatenanti del fenomeno. E si parla di soggettività Lgbt+ solo in funzione di qualcos'altro di carattere negativo: casi di cronaca che hanno come protagoniste persone aggredite, giri di droga e prostituzione, ovvero rivendicazione di diritti che vengono ritenuti lesivi dei valori della famiglia tradizionale e degli unici due generi possibili, femminile e maschile. Per il resto non esiste una rappresentazione sociale delle soggettività Lgbt+". Com'è la vita di una giovane transgender a Catania? "Da ragazza mi sono trovata a vivere in un ambiente inclusivo, nonostante vivessi in un piccolo paese della provincia catanese. Il liceo l'ho frequentato dalle suore di Caltagirone, lì ho avuto sempre la massima accoglienza. I problemi sono iniziati quando sono arrivata a Catania: anni fa, avevo paura di tornare a casa la sera. Diverse volte fui molestata e spesso le forze dell'ordine consideravano pretestuose le mie segnalazioni. Oggi, per fortuna, tante cose sono cambiate. Ma resta ancora tanto da fare". Dopo la laurea quali sono i suoi progetti? "Mi iscriverò alla magistrale in filosofia. E continuo a coltivare la mia passione per il mondo del cinema, mi piacerebbe fare l'attrice o la regista. Chissà, magari scriverò un libro per ripercorrere la mia storia. Intanto, con la tesi ho scritto di tante persone discriminate". Cos'è l'omofobia oggi in Italia? "È soprattutto un problema culturale che non riguarda solamente una determinata fascia della popolazione, magari meno istruita, come si vuole far credere. Riguarda anche persone che ricoprono cariche istituzionali"
Leggere Lolita a Kabul: la resistenza delle ragazze afghane che sfidano i talebani con i libri di Mattia Sorbi
Inizialmente in una libereria della capitale afghana, poi nella case private: la storia di come un gruppo di donne cerca di non soccombere al nuovo regime studiando e scambiandosi testi Le ragazze arrivano alla spicciolata, non vogliono dare nell'occhio. All'interno della libreria si respira un cauto ottimismo. Non sembrano esserci problemi di sicurezza. Non si vedono talebani o guardie armate, sempre presenti per spegnere sul nascere ogni manifestazione pubblica, anche piccola. Il "movimento spontaneo delle donne afgane" si è dato appuntamento in un luogo sicuro per ragionare sul libro La strada: protesta e potere di Ramin Kamangar e Shahir Sirat. Questo è il primo di una serie d' incontri che il movimento promuoverà come programma di formazione. "Siamo rimaste senza lavoro o educazione, queste riunioni sono fondamentali per ritrovarci e approfondire tematiche legate al nostro futuro", spiega Zainab, una laurea interrotta all'università di Kabul. Le donne si dispongono in cerchio. È un vero e proprio laboratorio d'opinioni. La programmazione delle presentazioni spazia da Leggere lolita a Teheran alla biografia di Malala Yousafzai fino a quella di Michelle Obama. Alcune settimane fa, le ragazze, sono state circondate dalle forze speciali talebane che - senza toccarle - hanno impedito alla stampa locale e internazionale di raccontare la loro storia. "La prossima volta sarà diverso", promettono. Alcune di queste donne appartengono alla minoranza sciita hazara, una comunità particolarmente istruita. Le donne hazara sono emancipate e sono attive anche per la difesa della comunità a cui appartengono perseguitata dai talebani e presa di mira dai terroristi dell'Isis. Sono tra le leader di questo movimento spontaneo che si è creato a settembre. Tutte le ragazze sono state schedate nel corso delle manifestazioni dai servizi segreti talebani. Alcune hanno ricevuto minacce dai soldati e ad altre è stata fatta pressione perché si fidanzassero con gli studenti coranici. Il rischio che corrono a scendere in piazza o riunirsi è enorme. Per ora, l'iniziativa del circolo letterario sembra essere stata tollerata dal governo dei mullah ma le ragazze, dopo l'ennesimo attentato di pochi giorni fa contro la comunità hazara, hanno deciso di riunirsi in una casa privata per "leggere Lolita a Teheran".
Caro Giuseppe la tua lunga tirata contro i no vax potrebbe benissimo adattarsi a tutti quelli che come lei non potranno mai convincersi di avere sbagliato tutto. Leggo il tuo blog solo vedere fino a che punto possono giungere il conformismo e l’allineamento al potere e vedere come ti smentisci visto che usi spesso come slogan \ motto padroni di niente servi di nessuno . Marcella
Spett. Marcella intanto le sono grato che continua a seguirmi anzi seguirci in quanto , come certamente saprai , il blog ma soprattutto l'appendice social la più usata è multi autore e di opinioni diverse spesso contrastanti . Ma voglio rassicurarla: l’unico “potere” a cui sono allineato è quello del buon senso e di rimettere in discussione le proprie convinzioni .
[...]
Non li capisco più questi no vax . Se prima si potevano distinguere anche se con difficoltà fra chi non lo faceva per paura visto che rispetto ai vaccini di vecchio tipo sono pieni d'incognite e dainegazionisti . Adesso è impossibile distinguerli . A dirlo è uno che era molto scettico , ha aspettato per paura a farsi il vaccino . E lo ha dovuto convincere nonostante ha sempre fatto i vaccini contro l'influenza : 1) il medico curante ., 2) il pericolo per : se stesso , è soggetto debole soffrendo d'ipertensione e problemi respiratori ( pertosse e ringospasmo ) , ed i genitori 80 enni con protesi e pacemaker .
Ora L'’immagine del no-vax ( foto in alto a sinistra ) in un letto d’ospedale a pancia in giù in Alto Adige che, a PiazzaPulita, si ostina a negare l’efficacia del vaccino, a parlare di “vaccino sperimentale”, di “colpo da vaccino collaterale” è il punto di non ritorno di un delirio di massa che non ha precedenti. Un uomo curato da medici e infermieri perchè
<< La sanità pubblica italiana cura chiunque, sempre, senza distinzioni. Ed è meraviglioso, qualcosa di cui tutti dovremmo essere orgogliosi. Non importa che tu sia bianco, nero, giallo, ebreo, santo o criminale, fascista o comunista, pro o contro i vaccini: sarai sempre trattato con la stessa identica cura e dedizione di chiunque altro. Ma. Anzi, MA. Mettetevelo in testa:
a) La sanità NON è gratuita: la paghiamo tutti noi con le nostre tasse. b) NON è infinita: a un certo punto finiscono i letti, gli spazi, le risorse; abusarne e togliere quelle risorse a chi non ha avuto scelta o ha fatto di tutto per non finirci non è solo immorale. È criminale. c) NON è scontata: esistono dei luoghi in cui, senza un’assicurazione sanitaria, rischi di morire per un mal di denti e altri in cui i vaccini sono un privilegio da ricchi e si muore per una banale diarrea. Perciò, se proprio volete riempirvi la bocca di “sanità pubblica”, senza neanche sapere cosa sia, prima imparate a rispettarla.
E ringraziate, ogni giorno, che esista che considera “complici”, imbottito di farmaci di cui a parole nega l’efficacia, che insulta e offende la scienza che gli sta salvando la vita. Salvando la vita, cazzo. Per coerenza con le proprie idee, stacchi tutto e torni a “curarsi” a casa con l’omeopatia e le gambe al sole. Perché tutti hanno diritto alle cure, ma all’ignoranza e all’ipocrisia c’è un limite >> ( dalla pagina Facebook Lorenzo Tosa )
Nel corso della puntata di ieri di Piazzapulita su La7, un servizio ha mostrato un no vax ricoverato in ospedale a Bolzano con l’ossigeno che si ostinava a negare l’efficacia del vaccino . Neanche la morte spaventa i no vax. Lo testimonia bene Alessio Lasta, giornalista di La7 che nel suo servizio andato in onda ieri sera a Piazzapulita ha intervistato un uomo positivo al Covid in un letto di ospedale a Bolzano che si ostina a negare l’efficacia del vaccino, a negare che sia uno strumento capace di aiutare a ridurre il rischio di contrarre la malattia, di incappare nella malattia grave e, addirittura, di morire .
“Inizialmente mi curavo con l’omeopatia. Sappiamo tutti che questo è un vaccino sperimentale. La cosa non mi convince anche perché lo Stato non c’è, ti fanno firmare la liberatoria. A Roma si dice che fanno il fr..o col c..o degli altri. Ho tre figli, non posso permettermi il lusso, con un mutuo sulle spalle, di prendermi un colpo da vaccino collaterale. La morte non mi dà assolutamente nessuna paura. Non è che voglio morire, ma non ho un rapporto di paura”, dice l’uomo, disteso a pancia in giù e con gli occhi chiusi mentre gli viene somministrato ossigeno.
Parole che destano stupore, e che hanno generato la reazione di SelvaggiaLucarelli, che in un post pubblicato sul suo profilo Twitter ha commentato: “Se si muore di Covid invece il mutuo lo paga lo stato, certo”. Stando a un rapporto mostrato dal conduttore del programma, Corrado Formigli, i no vax “oltranzisti” come quello mostrato nel reportage sono in netta minoranza all’interno della galassia dei non vaccinati, dove quasi 2 milioni di persone sono indecise, bloccate dalla paura, quindi convincibili con una accurata campagna promozionale. Le telecamere del programma si sono spinte poi fino a Ortisei per documentare le scuole parentali, sempre più numerose in Alto Adige, dove ci sono circa 600 bambini che non frequentano le scuole pubbliche perché figli di genitori no vax che non riconoscono le regole attualmente in vigore, nemmeno le mascherine.
Quindi caro no vax non ti vuoi vaccinare ok però se sei coerente dovresti rifiutare di farti curare negli ospedali pubblici continuare a curati co quelle che tu reputi cure .
Kevin Strickland era stato condannato ingiustamente all'ergastolo e senza diritto alla condizionale per 50. Un anno fa il suo caso è stato riaperto ed è emersa la verità: è innocente
Era stato condannato ingiustamente, ora, dopo 42 anni di carcere un uomo è tornato in libertà. L’ennesimo caso che ha sconvolto gli Stati Uniti con protagonista un cittadino Afroamericanoinnocente; si tratta della storia di Kevin Strickland condannato per un reato che non ha commesso risalente al 1979. L’uomo, ora libero ha espresso due desideri che vorrebbe realizzare .“Non credevo che questo giorno sarebbe mai arrivato“, così Kevin Strickland oggi 62enne, ha commentato la decisione del giudice che lo ha liberato. Kevin non ci credeva più ma ora non solo è un uomo libero, la sua innocenza è stata riconosciuta.La storia della condanna di Kevin Strickland risale al 1979 quando una testimone lo aveva indicato come uno degli autori di una rapina finita male avvenuta in una casa di Kansas City. Tre persone erano rimaste uccise, tutte giovanissime di età compresa tra i 20 e i 22 anni; era stata l’unica sopravvissuta a testimoniare contro Strickland.
L’innocenza di Kevin Strickland e la verità della testimone
Kevin Strickland era stato arrestato il giorno dopo la rapina, nonostante si fosse professato innocente, affermando di aver passato la serata a guardare la tv, è stato condannato a scontare l’ergastolo senza la possibilità di ricorrere alla condizionale per 50 anni.
Cynthia Douglas, questo il nome della sopravvissuta e testimone, anni dopo ha ritrattato la sua testimonianza, lasciando intendere che le era stato quasi estorto il nome dell’uomo e di aver subito molte pressioni dagli agenti. Douglas è morta prima di poter verbalizzare questa nuova testimonianza, che avrebbe così permesso di riaprire il caso Strickland e, insieme alle prove (accantonate) che dimostravano che lui non era mai stato nel luogo del delitto, e che chi aveva commesso la rapina aveva ribadito che lui non c’era, l’uomo avrebbe potuto essere scarcerato. Il caso è stato riaperto solo un anno fa, grazie all’intervento di un’organizzazione no profit che si occupa di condanne ingiuste e ha portato ad un riesame del caso e alla scarcerazione dell’uomo perché innocente. L’oceano e la tomba della madre: i due desideri di Kevin Ora che Kevin Strickland è tornato ad essere un uomo libero ha espresso due desideri
come si legge sul The Washington Post, ci sono due posti che vuole assolutamente visitare: l’oceano, che non ha mai visto, e la tomba di sua madre: “Se non ci fermiamo prima alla tomba, scenderò dalla macchina e cercherò di farcela con le mani e le ginocchia” (l’uomo è su una sedia a rotelle n.d.r.).
Cercando il mio scritto offline per il post d'oggi ( lo trovate dopo questo ) ho trovato quest articolo del
FQ d'oggi 26 Novembre 2021 di Antonio Padellaro che volevo archiviare per il prossimo 25 novembre ma fatti come quelli che riporto oggi mi hanno fatto cambiare idea . Ma andiamo con ordine.
Fanfare sui femminicidi
Speriamo che trascorsa la Giornata contro la violenza sulle donne non si debba poi dire, ancora una volta, molto rumore per nulla. Viva mille volte il rumore che anche questa volta è stato fragoroso, ma che dovrebbe rimanere assordante a rammentarci l’esistenza di un’infamia di cui non riusciamo a liberarci. Attenzione però al nulla di fatto, implacabile ogniqualvolta in Italia si cerca di risolvere la questione delle tutele dei più deboli. Leggiamo su La Stampa: “Femminicidi, il governo accelera, ‘Ora leggi e pene più severe’”. Fantastico. Da applausi anche la proposta della ministra per il Sud, Mara Carfagna: “Aiuti alle donne coi fondi tolti alle mafie”. Ma chi ci assicura che provvedimenti così duri, una volta giunti in Parlamento, non affondino nella palude dei veti “garantisti” della destra, e addio, come avvenuto con il ddl Zan? Certo, attendiamo che la voce di Matteo Salvini e Giorgia Meloni su tali proposte si levi forte e chiara, ma siamo proprio sicuri che l’occhiuto senatore Pillon non abbia obiezioni sul merito? Esiste poi il problema delle aule di giustizia chiamate a giudicare gli autori dei misfatti. Leggiamo sul manifesto: “Femminicidi: se c’è la gelosia, l’aggravante spesso non è concessa”. In un’analisi qualitativa su 370 sentenze condotta da Alessandra Dino, docente a Palermo, emerge che nel 44% delle motivazioni i giudici definiscono le uccisioni di donne “come sentimentali, per rifiuto o abbandono, oppure relazionali, per possesso”. Per gli assassini implicite attenuanti coerenti con la descrizione della vittima “che molto spesso viene vista come ondivaga, fragile, quando non si evidenzia la sua condotta sessuale disinibita all’origine dei gesti”. Poi, c’è un contesto pubblico nel quale si fatica a considerare i femminicidi come reati marchiati dal particolare allarme sociale che suscitano. Infatti, su Libero, Filippo Facci scrive, citando numeri ufficiali, che “l’italia è il paese sviluppato dove le donne corrono il minor rischio di essere uccise, anche perché il tasso di omicidi è tra i più bassi del mondo”. Dati che, va riconosciuto, rappresentano un motivo di consolazione, e anche di pacata riflessione, per le 109 donne che dall’inizio dell’anno sono state sparate, accoltellate, sgozzate, sventrate, strangolate, massacrate di botte e, in definitiva, cancellate dalla faccia della terra. Anche perché, probabilmente, se l’erano cercata.
Per realizzare uno speciale contro la violenza sulle donne viene cancellata una trasmissione in programma e già registrata che riguardava proprio la violenza sulle donne. Via Fiorella Mannoia, dentro Franco Di Mare. Ieri sera su Rai3 è andato in onda uno Speciale Frontiere condotto dal direttore di rete Di Mare dal titolo evocativo: “Gli uomini non cambiano”, come la nota canzone di Mia Martini.
Peccato, però, che, per allungarsi sul palinsesto, Di Mare abbia commesso una piccola violenza televisiva nei confronti di Fiorella Mannoia, sfrattando la puntata già registrata de La versione di Fiorella, che ieri sera avrebbe trattato gli stessi argomenti. “Per motivi di palinsesto questa sera non andremo in onda”, ha twittato Mannoia ieri mattina a cose ormai fatte. Il cambio di palinsesto, a quanto si sa, è stato stabilito mercoledì. Sembrava che i due programmi potessero coesistere. Poi però Di Mare ha deciso che gli serviva più tempo, fino a mezzanotte. E quindi addio Fiorella, nemmeno invitata a partecipare al nuovo programma. La cantante tornerà in onda questa sera con la puntata già registrata sulle violenze contro le donne. Questione che sembra stare molto a cuore alla nuova dirigenza. “Il servizio pubblico può e deve contribuire a contrastare la violenza contro le donne”, hanno detto ieri l’ad Carlo Fuortes e la presidente Marinella Soldi.
fare un programma in due o unirli sarebbe stata la cosa migliore .
Lui è Mirko. Nasce a Copertino, in Puglia, nel 2001. Ha 9 anni, mette un piede in classe, si blocca, tende l’orecchio. Qualcuno in corridoio si sta facendo delle gran risate. Mirko è curioso, fa dietrofront, si avvicina al gruppetto disposto in cerchio. Hey, fate ridere anche me! Al centro c’è un bambino, è immobile, lo sguardo basso, le lacrime sulle guance. Mirko non fa in tempo ad aprire bocca che uno del gruppo si fionda sul piccolo e gli tira giù i pantaloni. Il suo pianto è coperto dagli sghignazzi del branco. Mirko li sente rimbombare nelle orecchie, il suo cuore prende a battere forte, il respiro aumenta. Stringe i pugni, si butta nel mucchio e aiuta il compagno a rivestirsi. Poi affronta gli altri a muso duro.
Non azzardatevi mai più a fare una cosa simile! Quelli lo guardano increduli, qualcuno alza le spalle, qualcun altro se la svigna. Solo uno di loro resta dov’è. Mirko si fa avanti, sono faccia a faccia. Quello non regge, abbassa lo sguardo, sussurra. Mi dispiace. Mirko vorrebbe dirgliene tante, invece fa solo una cosa, lo abbraccia. Va bene così, è meglio così. Nei giorni successi, lo incontra nei corridoi. Il bambino agita la mano, gli sorride. Mirko ricambia, è contento. Il tempo passa. Mirko ha 14 anni, guarda la televisione, sta bevendo. L’acqua gli va di traverso. Raccontano di una ragazza che ha tentato il suicidio perché veniva presa regolarmente di mira dai compagni. La sua mente torna subito dentro la sua vecchia scuola, in quel corridoio. La rabbia, il petto che scoppia, le mani che prudono. Quelle emozioni combattono, si scontrano, si mischiano, alla fine ne esce un sorriso. Chiaro, luminoso, pieno di speranza. Il giorno dopo, Mirko condivide i suoi pensieri con i compagni. Parlano, si confrontano, tutti insieme sono d’accordo. Basta voltarsi dall’altra parte, bisogna fare qualcosa. Oggi Mirko ha 20 anni, ha fondato con gli amici un’associazione che cerca di prevenire il bullismo. Gira le scuole di tutta Italia, tende una mano alle vittime, ma anche ai carnefici.
“Il mare, il vento e le reti da pesca sono la mia famiglia. Ringrazio gli anziani che mi hanno aiutato a trovare la libertà” Cavallino Treporti – Ci sono uomini che, nella loro semplicità, capiscono il vero senso della vita e la affrontano ogni giorno a muso duro.
Di Agostino Cavestro ammiro la profonda conoscenza del mare, delle correnti, delle maree, del tempo che cambia imperturbabile quando sei in mezzo alle onde e devi affrontare una tempesta. È un uomo che ama il suo lavoro. Un lavoro duro che richiede fatica e che lui riesce a vivere con passione, scrivendo poesie per il suo mare.La sua è una vocazione, è il suo modo personale di dare un senso alla vita. Agostino Cavestro è un poeta-pescatore.
Lo puoi trovare in un bar di Cavallino Treporti e farti raccontare del suo pescato, oppure lo puoi trovare in laguna, immerso nell’acqua in qualsiasi stagione intento a pescare le vongole. A me ha raccontato della sua vita difficile, costruita a suon di rinunce e sofferenze.
Agostino non conosce la sua famiglia di origine, perché, appena nato, è stato abbandonato sull’isola di Pellestrina.
“Sono cresciuto in un orfanotrofio – racconta – con suore e preti. Ero piccolissimo e le violenze continue erano castighi. Scappavo dall’asilo e mi nascondevo sotto la prua delle barche da pesca: è lì che ho cominciato ad amare il mestiere di pescatore”.” Gli anziani pescatori dell’isola, vista la mia grande passione per il mare, mi hanno trasmesso tutte le loro conoscenze. Con tempo, il mare è diventata la mia vera famiglia, la mia vera casa, mi dà lavoro e mi permette di vivere in libertà”.
Ha imparato ad ascoltare gli anziani in silenzio, a riparare reti di qualsiasi tipo, a pescare con umiltà e rispetto nei confronti di chi gli insegnava le tecniche.
“Oggi, la mia famiglia è il mare. Il vento e la salsedine, tutto è famiglia”, dice.E io amo la semplicità con cui si esprime. Oggi Agostino ha più di 60 anni, vive da solo in una casa popolare di Cavallino Treporti, scrive poesie e racconti di mare. Gli piace trascorrere i pomeriggi raccontando della sua vita. Io guardo il suo mondo in silenzio, attraverso l’obiettivo della mia macchina fotografica.
Scattando, le emozioni mi arrivano più forti e mi invitano a fermare il tempo e comunicare le sensazioni di questi momenti unici irripetibili.
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Teresa Soardi, il suo volontariato in America Latina per dipingere volti, paesaggi e popoli Con la sua arte ha rappresentato la quotidianità e l’anima di tante persone in opere sacre esposte in chiese, case e luoghi di accoglienza
Linda Scuizzato
Montemezzo (Vicenza) – Per arrivare nella contrada di campagna dove vive Teresa Soardi
si guida attraverso una vallata bellissima che porta a Montemezzo, in
provincia di Vicenza. La casa della pittrice si trova esattamente di
fronte al suo studio, un vecchio fienile ristrutturato con il soffitto
alto di legno e una vetrata luminosa perfetta per dipingere. Teresa Soardi è nata a Vicenza 90 anni fa e la intervisto alcuni giorni prima del suo compleanno.
La sua passione per la pittura è iniziata da ragazzina, ricorda
sorridendo: “Ogni pezzo di carta era mio!”. Alla fine della guerra, suo padre ha deciso di farle prendere lezioni nello studio della famosa pittrice Mina Anselmi,
per capire se la sua fosse realmente una passione profonda e duratura.
Teresa si è entusiasmata e ha continuato a dipingere, diplomandosi in
arte a Venezia e tornando poi a Vincenza per insegnare educazione
artistica alle scuole medie.
Nel tempo libero ha continuato a dipingere sul cavalletto e a
sperimentare diverse tecniche di pittura. Nel 1967, suo fratello, un
frate missionario, è stato mandato in Patagonia, nell’isoletta di Porto
Aguirre, nell’arcipelago di “Las Huichas”, e Teresa ha deciso di prendere un anno di aspettativa dalla scuola per andare a fare volontariato e conoscere il Sud America. Dopo il primo anno, ha prolungato la sua permanenza fino al 1969, lasciando qualcosa di sé alle persone del luogo: la sua pittura e i suoi dipinti in cambio dell’esperienza nell’isola.
Come primo lavoro, le è stato chiesto di rappresentare la storia sacra della salvezza in una chiesetta di legno.
Aiutata dai bambini del paese, ha dipinto lo sfondo di verde, l’unico
colore presente nell’isola e quello utilizzato per dipingere le barche.
In seguito, il vescovo le ha commissionato un dipinto a Puerto Ayse’n s,
sulla terraferma. Nel 1969 Teresa è tornata a insegnare in Italia, ma il segno lasciato dal Sud America, che lei definisce la sua “seconda patria”, l’ha tenuta legata a quei luoghi, che ha continuato a visitare durante le vacanze estive.In Ecuador, Nicaragua, Perù e Brasile, ha continuato a dipingere, su commissione, opere sacre che oggi sono esposte sulle pareti delle cappelle, in chiese e case delle comunità sudamericane.
Nel 1995 Teresa è tornata in Patagonia, dove le è stato chiesto di dipingere nella cattedrale della capitale un’opera di 10×10, a forma di triangolo, con al centro un Cristo di legno, attaccato alla croce ma con le braccia alzate.
E’ stato il lavoro più grande che abbia mai realizzato, assistita da un
pittore locale appassionato di cavalli, che, onorato dall’essere stato
al suo fianco al termine della collaborazione, le ha regalato il disegno
di un cavallo su un pezzo di legno. Spesso i tre mesi di
visto turistico non erano abbastanza per terminare le opere e alcuni
dipinti venivano terminati l’anno successivo.
Fra le opere di arte sacra di Teresa Soardi ci sono ritratti di persone reali, incontrate
nei luoghi in cui ha vissuto. In uno dei dipinti del Cristo risorto, il
volto di Cristo è proprio quello di un abitante del luogo. Teresa
ricorda di aver aspettato che non ci fosse nessuno in giro per
dipingerlo, ma una bambina del paese, arrivando di corsa per ammirare
l’opera, se ne è accorta subito: “E’ uno di noi!,” ha detto,
riconoscendo il volto del noto abitante.
“Cerco di adattare la mia pittura al posto in cui mi trovo e alle persone che lo vivono”, spiega la pittrice vicentina.
Per
Teresa Soardi, la pittura non è solo ricerca artistica ma anche documentazione del sociale, denuncia politica, un modo per dare voce a mondi isolati e realtà poco conosciute, ma ricche di storia, dignità e profondità. Le sue opere sono testimonianza del lavoro nei campi,
della resilienza e della forza delle donne con il volto segnato dalle
rughe, nei loro occhi puliti e vivi. Donne dignitose alle quali la vita
non ha regalato nulla, vittime di ingiustizie che prendono vita sulle
tele e sono documento storico di quegli anni. Nelle opere di Teresa Soardi si riconosce anche un ordine
architettonico. “Mi ha sempre affascinata l’architettura e mi viene
naturale dipingere seguendo delle linee guida e la prospettiva
corretta”, spiega. “Mi sarebbe piaciuto studiare architettura,
ma non volevo lavorare nello studio di qualcun altro. Quando ero
giovane, una donna architetto faticava a trovare lavoro e quindi la
pittura ha preso il sopravvento”.
Lo studio di Teresa Soardi a Vicenza è un trionfo di tele, ritratti, mondi, colori e stili diversi:
vi sono, infatti, sia opere del periodo sudamericano, sia dipinti che
ritraggono le località venete e le montagne dell’altopiano dei Sette
Comuni. Tra i numerosi dipinti, ne noto uno con gli alberi ammassati sul dorso della montagna dopo la tempesta Vaia il 26 ottobre 2018;
un altro con le colline vicentine e i dintorni, e il più recente, che
celebra i 500 anni dal giro del mondo del navigatore vicentino Antonio
Pigafetta. Un dipinto ancora fermo sul cavalletto perché, in tempo di
Covid, non è possibile presentarlo con un evento pubblico. Quando arriva il momento di salutarci, Teresa, mi saluta mostrandomi il ricordo del suo ultimo viaggio in Patagonia, nel 2012.Quando le chiedo in quale paese vorrebbe tornare subito, risponde sorridendo: “Tutti!”.
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Giovanbattista Fiorese e il sogno di “Kroitzabeg”, l’azienda agricola che parla cimbro Uva “bacò”, bacche di ginepro e aglio orsino per sfornare pane e dolci secondo la tradizione di famiglia
Linda Scuizzato
Per raggiungere la mia meta prendo la strada che da Vicenza sale verso le colline, dopo il paese di Marostica: un panorama di ulivi e vallate si allunga dolcemente verso Lusiana, passando per la frazione di Crosara, che lascio alle mie spalle.
Sulla destra un cartello segnala l’azienda “Kroitzabeg e Le marmellate di Rosi”,
entrambe attività gestite da Giovanbattista Fiorese, con la
collaborazione della mamma, Rosella Frigo (“Rosi”). Oltrepassando
un’antica contrada, e incrociando il cammino di alcuni caprioli fra un
tornante e l’altro, raggiungo la loro casa di famiglia, che domina un
panorama mozzafiato sulle colline.
Mi accoglie prima di tutti Amos, uno staffordshire bull terrier nero,
che salta sul sedile della mia auto scodinzolando non appena apro la
porta. Giovanbattista lo segue, vestito nel suo abito tradizionale cimbro,
che indossa generalmente quando partecipa ai mercatini tradizionali e
medievali, abbinandolo a un cappello di paglia realizzato con i fastughi
del grano vernisso, ossia la lavorazione tipica della paglia di Crosara
che ha caratterizzato il territorio sin dalla fine del 1600.
Giovanbattista Fiorese, per tutti “Gioby”, ha 24 anni e, sin da
bambino, coltiva una grande passione per la farina e per gli impasti,
dolci e salati. Prima di iscriversi alla scuola alberghiera, innamorato
del disegno e la scultura, ha tentato la strada del liceo artistico, ma
si è reso conto ben presto che voleva dedicare la sua vita alla cucina, unendo arte e fornelli, ed esprimendo così al meglio la sua creatività.Ha frequentato la scuola alberghiera a Tonezza del Cimone,
proseguendo con un’esperienza di tre mesi negli Stati Uniti, al servizio
di una pasticceria francese. Ha lavorato, inoltre, in una panetteria di
Asiago e successivamente, per quattro anni, in una pasticceria a Conco.
La sua attuale azienda agricola “Kroitzabeg”, che significa “Crosara” in cimbro,
è nata un anno fa, verso la fine del 2020, proprio nella casa dove
Giovanbattista è cresciuto con la sua famiglia. Con la mamma, la sorella
e il padre, scomparso qualche anno fa.“Il legame con la nostra terra e con gli insegnamenti di mio
padre è molto forte, così come lo sono le tradizioni del mio paese di
nascita, Roana, dove la cultura cimbra è ancora molto sentita”, racconta. “Ho deciso di valorizzarla e farla conoscere attraverso la mia attività”.
La frazione vicentina di Crosara, che anticamente faceva parte della Federazione dei Sette Comuni,
è diventata comune autonomo per la tradizionale lavorazione della
paglia e, nel 1938, è stata inglobata nel comune di Marostica.
Giovanbattista Fiorese lavora in un laboratorio annesso alla storica
casa di famiglia. È una bellissima casa con panorama mozzafiato sui
colli di Marostica, circondata da 6,5 ettari di terreno tra orti,
frutteti, piantagioni e boschi di castagni. Il laboratorio, che
inizialmente era dedicato alla sola produzione di marmellate della madre
Rosy, è stato ingrandito e attrezzato ulteriormente per poter produrre
pane e dolci. Tutte le erbe e i frutti utilizzati nelle sue
ricette provengono dai suoi terreni, alcune, come le ortiche, vengono
raccolte nei boschi circostanti.
Quello che rende unico il sapore delle sue creazioni sono gli ingredienti: per la produzione di pane e dolci utilizza farine antiche biologiche di sua produzione, a basso contenuto di glutine, per ricette particolari attinge a farine di grani antichi di un mulino di sua fiducia.
L’acqua arriva invece da un’antica fonte di una contrada vicina,
a cui si accede attraverso il bosco in cinque minuti di passeggiata. Le
diverse erbe e gli ingredienti aggiunti al pane e ai dolci vengono
prodotti con metodi naturali nel suo terreno in base al susseguirsi
delle stagioni. A breve, per esempio, verrà sfornato il pane alla
castagne, un inno all’autunno.
Ho la fortuna di assistere alla preparazione e alla cottura del pane con le bacche di ginepro, l’aglio
“orsino” – così chiamato perché è il primo pasto dell’orso quando esce
dal letargo – le ortiche, famose per le loro caratteristiche curative, e
l’uva bacò. Quest’ultima, dal 2019, è entrata a far parte del patrimonio Slow Food,
l’associazione che si impegna per la difesa della biodiversità e dei
diritti dei popoli alla sovranità alimentare, battendosi contro
l’omologazione dei sapori, l’agricoltura di massa e le manipolazioni
genetiche.“Quando, nel 2002, siamo venuti ad abitare a Crosara, un
contadino, conoscente di mio padre, ha piantato alcuni butti recuperati
da piante madri antiche di uva bacò nel terreno di famiglia”, racconta Giovanbattista Fiorese. Con la pazienza, la costanza del lavoro e l’amore per la terra,
prima del padre e poi di Giovanbattista stesso, l’uva è cresciuta e, da
una sola pianta, ne sono nate altre cinquanta, che si trovano sulla
parte più alta del terreno in pendenza, una si scorge sotto uno dei
ciliegi centenari. “Lavorare la terra è dura, ma farlo, dà anche grande soddisfazione”, mi racconta “Gioby”. I prodotti dell’azienda agricola “Kroitzabeg” si
possono trovare in sede a Crosara, al panificio di Roana “Vacca strada”,
ad Asiago da “Annette”, a Bassano alla “Quinta essenza” oltre che ai
mercatini – tra i più famosi “Made in Malga”, “Formaggi in Villa”,
“Pomopero” ed eventi eno-gastronomici legati al territorio.Mentre intervisto e fotografo, il profumo di pane invade il laboratorio, e ho la fortuna di assaggiare il pane di uva bacò appena sfornato, di colore rosato per il mosto, e con il disegno della foglia di vite.
Prima di andare non posso non scattare due ritratti a Amos, seduto composto esattamente sotto il tavolo con le pagnotte appena sfornate, in attesa di qualche briciola.Una frase mi è rimasta impressa delle parole di Giovanbattista: “Prima di andare devi scoprire le tue radici, prima di andare via devi sapere da dove vieni”. Sono certa che le sue creazioni culinarie andranno lontano, ad addolcire i palati di molti buongustai.
La curiosità
Lo stemma dell’azienda agricola “Kroitzabeg” include l’albero
ritratto nei letti in ferro battuto (per rappresentare la famiglia), il
braccio di un cavaliere che afferra un’ascia (per rappresentare il
lavoro), e la pianta di canapa (una pianta forte e curativa). A
sinistra, invece, ci sono tre castagne, che nella simbologia Araldica
rappresentano valori nascosti.