25.4.08

Senza titolo 464




Quando s'andiede sulle montagne s'eramo in pochi all'inizio a combattere; quando ci rastrellonno fu un macello.


di  Andrea Bagni (insegnante fiorentino)


Di nuovo il 25 aprile, quello della lotta di liberazione, rara memoria decente d'Italia. Per alcuni di noi adulti di oggi, di nuovo la tentazione di tornare in piazza, magari sotto la pioggia, come nel '94. E la sensazione però che non si può fare proprio uguale uguale; che le cose se si ripetono sono ripetizioni e rischiano di lasciarti dentro un di più di amarezza.


A parlare del 25 aprile sono venuti nella mia scuola due vecchi partigiani. Quando s'andiede sulle montagne s'eramo in pochi all'inizio a combattere; quando ci rastrellonno fu un macello. Parlano così dalle mie parti i vecchi. Come mio nonno e mio padre. Mentre raccontano si commuovono, ricordano i compagni perduti, prima il cognome poi il nome, perché sentono la sede ufficiale forse; cantano pezzi delle loro canzoni. Dicono sempre che sono felici di avere tanti giovani davanti: li abbracciano con gli occhi, come li accarezzassero, come vedessero tutto inseme il nuovo mondo. E non gli fosse proprio possibile smettere di avere speranza. Si capisce che sono anni che quello è il compito della loro vita: lasciare una memoria, trasmettere il testimone. Guardano indietro ormai, a quello che è stato il loro tempo, il senso della loro esistenza – che un senso l'ha avuto. Mi ricordano i miei genitori che mi hanno chiesto un mare di libri (loro che non leggevano mai) sui campi di sterminio, su Sant'Anna di Stazzema, sulla seconda guerra mondiale. A una certa età ci si volta indietro, avanti forse c'è poco da guardare.


Ma l'altro giorno a scuola sembrava tutto più amaro. All'indomani delle elezioni, certo, ma forse non solo per questo. Non per il passare del tempo ma per il passare del futuro. Non è che le ragazze e i ragazzi non ascoltassero, anzi. Chi racconta, racconta non spiega, è tutt'altro che un professore, il suo discorso è lontanissimo dai manuali di storia. E appassiona. Tanto che anche qualcuno dei giovani si commuove. Ma non ho chiaro dove la collocano quella storia nella loro mente, come la archiviano nella memoria. Partecipano intensamente ma ho paura che ascoltino come il bambino di Guccini di fronte al vecchio: mi piaccion le fiabe raccontane altre... Sanno ovviamente che è tutta storia vera, vissuta e autentica, ma temo appartenga per loro a un mondo mitico, pieno di fascino ma lontano – anzi a un altro tempo e a un altro spazio: quando le montagne erano verdi e ci si andiede per liberare l'Italia e s'aveva solo le rivoltelle neanche i fucili. Poi si leggono alcuni brani delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza, e il salto del tempo - del futuro - è ancora più evidente. Straziante, quasi. Ragazzi di diciassette anni che scrivono alle mamme che muoiono felici perché lo fanno per un'idea, hanno combattuto per una causa giusta: il comunismo, la libertà, la fratellanza. Il futuro. La nostra Italia mamma vedrai sarà diversa; ricordami ai fratelli e alle sorelle e non siate tristi pensando a me, io muoio felice. Giustizia, fratellanza, comunismo: che cosa significheranno per i giovani d'oggi non è mica facile dire. Il materiale si è separato dall'immaginario. La propria vita, i problemi e le sofferenze, da un ordine simbolico che le poteva spiegare e collocare in un quadro di liberazione. Dal quale derivavano senso, relazioni e politica. Potevi portare tutta la tua storia e narrarla dentro un pensiero e una pratica collettiva. Crescere oggi, invece, mi pare un bel casino. Anni fa una ragazza a proposito di Berlusconi ha scritto, fa i suoi interessi al potere, è vero, ma pensiamoci: chi di noi potendo non farebbe altrettanto, chi non sfrutterebbe la possibilità. Una brava ragazza di diciott'anni. Normale. Ci penso quando riascolto ogni tanto le canzoni di lotta del De Martino di Ivan della Mea: un bel po' di elogio della violenza anche, l'idea che si è parte di un esercito in guerra, contro l'ingiustizia – ma quanta passione ed entusiasmo, quanta speranza nella vittoria. Anzi più che speranza, certezza incrollabile. Magari non mi ritrovo moltissimo, però penso che sono cresciuto con questa idea, che il futuro era nelle nostre mani. Che potevamo cambiare il mondo. Dalle ragazze e dai ragazzi di oggi, mi accorgo ogni tanto che arriva quasi un messaggio di nostalgia e di invidia. Anche del 68. In quegli anni, profe, facevate davvero un sacco di cose, eravate importanti, vi ascoltavano.


Da dove ripartire oggi? Tornare alla società, si dice. Fare inchiesta. Ma dopo aver ascoltato cosa possiamo dire agli operai della Lega – vi occupate solo di froci e zingari, perché dovremmo votarvi – che non sia solo predica dei nostri valori, che li faccia vivere come principi concretamente nella vita concreta? Forse tocca ripartire da questo “grado zero” della storia. Dal mutuo soccorso, orizzontale, capace di piccole liberazioni in spazi ravvicinati ma non di nicchia, su cui ricostruire rappresentanza e tutto il resto. In fondo le donne partigiane che hanno raccontato la “resistenza taciuta” hanno parlato di rapporti di gruppo intensi, di cura dei corpi e dei morti, cioè del tessuto simbolico che fa una comunità. Di relazioni nuove che dovevano prefigurare un'altra Italia: quella Patria libera e giusta scritta proprio con la maiuscola, per amore e immaginazione. Per la rappresentanza e una nuova storia, radicalmente democratica, penso ci vorrà tempo – e molta immaginazione. Proprio fantasia. Non avremo la certezza della vittoria nel sole dell'avvenire, ma forse può avere senso anche solo la ricerca di altro nel presente. Aperto, per quanto difficile. E intanto fare società potrebbe spostare qualcosa, ottenere risultati concreti nella vita d'intorno, dove imperversano rastrellamenti che delle montagne verdi fanno un deserto di solitudine in cui cresce di tutto.


Chiaro che i due partigiani saprebbero subito come rispondere. Infuria la bufera, scarpe rotte eppur bisogna andar. Per loro noi che le scarpe ce l'abbiamo, anche di lusso, non abbiamo scuse. Va a spiegarglielo che sono le nostre teste incasinate a non sapere bene dove andare.





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