31.1.14

L'UOMO PIÙ VELOCE DI ROMA IL CAMPIONE PARTIGIANO la storia di Manlio Gelsomini ( 1907-1944 )


 musica  consigliata  sonata per pianoforte Die Sonate vom guten Menschen   di Bethoveen 





L'UOMO PIÙ VELOCE DI ROMA





Un libro di Valerio Piccioni racconta la tragica storia di un medico, campione sportivo e simbolo littorio che decise di aderire alla Resistenza Finì torturato in via Tasso e fu ucciso alle Ardeatine.
Tutto vestito di bianco correva, volava. Undici secondi netti sui cento metri. Era il più veloce di Roma. Lo vedevano allenarsi ogni giorno sulla pista della Farnesina, scatti, allunghi, ripetute e poi ancora scatti. La
tessera del partito fascista l'aveva presa nel '21, a quattordici anni. Poi quel ragazzo diventò un uomo, poi ancora un altro uomo, alla fine un uomo morto. Tradito da una spia, un collaborazionista delle Ss. Chi gli stava accanto non lo chiamava più con il suo nome, solo con quello di battaglia: Fiamma, comandante Ruggero Fiamma.Sono quattro le lapidi che lo ricordano nella sua città. E a lui è dedicata anche una grande strada che da piazza Albania arriva in via Marmorata, al Testaccio. In pochi però conoscono la sua vita, anzi le sue tante vite.Chi era quel giovanissimo atleta che abitava a un passo dalla casa del Duce, che nel '27 ebbe l'onore di parlare davanti a Sua Eccellenza Augusto Turati - il segretario del Pnf che sostituì Farinacci dopo il delitto Matteotti - e che poi fu giustiziato il 24 marzo del 1944 alle Fosse Ardeatine? 






Chi era Manlio Gelsomini, il più veloce di Roma? Indagando fra le pieghe della sua esistenza e raccogliendone ogni piccolo e grande segno, c'è chi ha scoperto quasi tutto su un italiano che ha cambiato se stesso nel cuore della guerra. Ricordo dopo ricordo, con lo sport che in ogni pagina si confonde con la storia, è nato questo libro -Manlio Gelsomini. Campione partigiano (Edizioni Gruppo Abele, pagg. 174, euro 14,00) - firmato da Valerio Piccioni, tanti Giri d'Italia e tanti Tour de France seguiti per La Gazzetta dello Sporte un'ultima passione che l'ha portato a ricostruire «il percorso personale e politico di un giovane che, come altri della sua generazione, le circostanze e gli ideali trasformarono suo malgrado in un eroe».Dai trionfi con la maglia della Nazionale a Basilea del 1930 a una laurea in medicina, dal palcoscenico degli stadi all'arruolamento come capitano nel 79° Battaglione Camicie nere. Sembrava tutta dritta la strada di Manlio Gelsomini. Fino a quando, un giorno, qualcuno lo sospese «precauzionalmente dal grado». Non ci fu nulla di inatteso. Prima Gelsomini aveva prestato la sua opera di medico al Policlinico Umberto I, poi in un ambulatorio in piazza dell'Immacolata, a San Lorenzo. Come assistente tirocinante aveva Giorgio Piperno, un ebreo in quell'Italia dove Mussolini aveva appena fatto pubblicare «Il Manifesto della Razza».
Era già dentro un'altra vita Manlio Gelsomini.E un'altra ancora stavaper cominciare.Il suo nome, che da qualche anno non compariva più sulle cronache dei quotidiani sportivi, ora non c'era neanche nell'elenco dei medici chirurghi della Guida Monaci. Cancellato. È il 1942, il «dottor Manlio Gelsomini » non è più un fascista. «Non sono nato per una vita facile, io. Amo l'imprevisto e nell'assurdo trovo spesso la ragione filosofica del mio pensiero... Vado verso l'ignoto con la sete di voler sapere. Rischio il tutto per tutto», scrive nel suo diario custodito al Museo storico della Liberazione di Roma.Dopo l'8 settembre, il giorno dell'armistizio, è già nata la «banda Gelsomini». La prima volta si riunisce a Castel Sant'Elia, in provincia di Viterbo. Fra ipartigiani c'è anche don Domenico Antonazzi, uno dei preti della Resistenza, c'è un romagnolo - Pasini - di Cervia, c'è Maria Teresa Anselmi, la figlia di un vecchio socialista.Sabotaggi, attacchi contro colonne militari naziste, la raccolta d'informazioni da passare agli Alleati, il comandante Fiamma che spadroneggia sul monte Soratte e il professor Mario Buratti che ha il suo quartiere generale alle pendici del Cimino. Sono giorni, mesi travolgenti. E Gelsomini che corre dalle montagne a Roma e da Roma alle montagne, corre più veloce di tutti come quando scendeva in pista.Poi una cena fra l'11 e il 12 dicembre del 1943, tanti partigiani insieme, c'è Gelsomini, c'è Buratti, c'è anche Mario Pistolini, romano ma residente a Rio DeJaneiro, sedicente produttore cinematografico a Londra, ricercato a Parigi per una truffa ai danni di una ricca dama milanese, in contatto con i partigiani ma al soldo delle Ss. Di lui si fidano e lui fa cadere in trappola prima il professore poi il medico amico degli ebrei. Valerio Piccioni scava nel passato di Pistolini e svela la sua attività di doppiogiochista collegandolo ad altri personaggi - uno per esempio è Mauro De Mauro, il giornalista de L'Orafatto scomparire dalla mafia nelsettembre del 1970 a Palermo, fascista convinto nella Decima Mas del principe Junio Valerio Borghese e assolto «per insufficienza di prove» dall'accusa di collaborazionismo con i nazisti - fino a raccontare la cattura di Manlio Gelsomini il 13 gennaio 1944. È sempre quel delatore, Pistolini, che lo vende ai tedeschi.Viene rinchiuso nel carcere di via Tasso. È stremato, continua a scrivere sul suo diario: «Anche il mio fisico soffre molto. Il cibo è insufficiente e sono denutrito estanco. Ho fame, sempre fame. Non ho quasi più la facoltà di pensare». Riempie pagine dove gli stati d'animo mutano rapidamente, come i pensieri. Lì dentro affiora la sua tempra e affiorano le sue fragilità, le sue incertezze ideologiche, anche la sua paura.Da via Tasso Manlio Gelsomini uscirà soltanto settantasei giorni dopo, qualche ora prima c'era stata l'azione partigiana di via Rasella contro il Polizei-Regiment Bozen. Il 24 marzo, la furia di Berlino e la rappresaglia delle Fosse Ardeatine, 
335 civili e militari italiani massacrati. Fra loro anche il più veloce di Roma. Solo alla fine della guerra una sua foto comparirà ancora una volta su un giornale per rendergli onore. Lui sui blocchi, in posizione di partenza allo stadio dei Marmi.

Articolo di Attilio Bolzoni su Repubblica | 31 gennaio 2014


30.1.14

sensi di colpa , rimorsi , rimpianti , , utili o inutili ? eliminarli o conviverci ? II puntata

 canzoni   in sottofondo  
Zucchero - Alleluja.
 "              -Senza Rimorso

http://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2014/01/sensi-di-colpa-rimorso-rimpianto-utili.html

Dopo  aver riordinato le  idee    riecco  che  riprendo  quel discorso intrerrotto  (  trovate  nell'url  sopra    la prima parte  )  sui sensi  di colpa  , rimorsi  , rimpianti
 Prima  d'iniziare  la  discussione  bisogna chiedersi Non è per  fare il sapiente o  il so  tutto io , ma  è  il fatto    che molti  o  fanno  finta  di sapere    cdi cosa  si parla  o non (  ma  sono pochissimi )    il significato dei termini in questione ma  cosa  significano  i termini rimorso   e  rimpianto  .

rimorso [ri-mòr-so] s.m.
• Sentimento di dolore e di tormento che nasce dalla consapevolezza dei mali commessi SIN pentimento: essere assillato dai r.; non ho alcun r. per quello che ho fatto
rimpianto [rim-piàn-to] s.m.
• Ricordo nostalgico e doloroso di qlco. o di qlcu.: me ne vado senza alcun r.
Source:
da     http://dizionari.corriere.it/

 A mio avviso, poi ciascuno di voi  valuterà    quello che meglio crede , in base  alla  mia esperienza  fin qui  svolta  , posso dire  che  sono  entrambi  effetti , nel bene   o nel male   di tutto  quello che facciamo   , di ogni nostra  azione    e  fanno si  che  andiamo avanti  . Posso dire che se dovesse  scegliere ,  ma  esercito il diritto di non scegliere 



 forse e meglio avere rimorsi che rimpianti. Entrambe le cose sono spiacevoli certo, ma chi ha rimorsi li prova per aver fatto qualcosa sbagliando, quindi ha comunque agito. Chi ha rimpianti ha sognato soltanto di fare qualcosa ma non l'ha mai realizzata alla fine. Il rimorso è in parole povere suscitato dai sensi di colpa, il rimpianto dalla frustrazione. Infatti  c'è  molta differenza tra rimorsi e rimpianti..I rimorsi è qnd si hanno i senzi di colpa x qualcosa che è stato fatto male o qualche offesa fatta ecc ecc i rimpianti e quando stai male per non aver fatto una determinata cosa o perche hai la consapevolezza di poterla fare meglio . Se  volete  altre  definizioni eccovene alcune  trovate  su  http://it.answers.yahoo.com/
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  • Fla84 con risposta 5 anni fa
    rimorso è qualcosa che hai fatto e poi ti sei pentito alla grande, rimpianto è qualcosa che NON hai fatto e poi ti sei pentito di non averlo fatto!

    cmq è meglio vivere di rimorsi che di rimpianti, fidati.
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  • Allora hanno stesso significato cioè ti fanno stare male comunque...ma cmq è meglio vivere di rimorsi che di rimpianti.
    Il rimpianto è quando una cosa vorresti farla ma non la fai per paura di quello che potrebbe succedere.
    Il rimorso pensa come se dovessi mordere te stesso nel senso hai fatto una cosa che purtroppo è andata male...ma cmq che hai fatto...hai scoperto il fatto tragico almeno!!
    spero di averti aiutata!
    Baci
    Aby!!
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  • CammeloSpareddaGOD con risposta 5 anni fa
    Il RIMORSO e un sentimento di dolore che si prova per le colpe commesse.. Il RIMPIANTO e il ricordare con desiderio e rammarico cose o persone che non si hanno più,, Il RIMORSO e un sostantivo maschile mentre il RIMPIANTO e un verbo (rimpiangere).. RIMORSI e di 7 lettere.. RIMPIANTI di 9 lettere..
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  • pupettina con risposta 5 anni fa
    Pratikamente...evere un rimorso significa pentirsi di NON AVER fatto qualkosa...mentre avere un rimpianto significa pentirsi di AVER fatto qualkosa...fine ;)
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  • stellina con risposta 5 anni fa
    Il rimorso è un'emozione sperimentata da chi ritiene di aver tenuto azioni o comportamenti contrari al proprio codice morale. Il rimorso produce il senso di colpa.

    Il Rimpianto, invece, è il sentimento che nasce da qualcosa che in passato avresti voluto fare – senza però mai farlo. Il non aver colto occasioni, opportunità.

    A parer mio sia il rimorso che il rimpianto sono comunque legati al ricordo. E non c’è peggio che ricordare qualcosa che nn è successo.. rimpiangere di non aver fatto, di non essersi fidati del cuore, di aver affidato tutto alla mente razionale.
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Io  posso solo  dire   che   cerco   di scacciarli  entrambi  perchè dopo  che  ha  capito   come gli  hai  originati   non ti servono più  ed  finiscono per  appesantire  e  ti obbligano a


 ricercarla di  nuovo 

  



28.1.14

la guerra vista dagli indiani . gli indiani raccontano la famosa battaglia di little bing

da  la   domenica   di repubblica del 26.1.2014

N,b 
Raccolti in A Lakota War Book
from The Little Bighorn 
(Peabody Museum Press) 
i disegni qui pubblicati
sono stati ritrovati nella tomba 
di un capo indiano sepolto
a Little Bighorn . 
E qui  gli ho   riportati tramite  il cattura immagine  \ Png      se  ai puristi non dovesse piacere come gli ho riportasti    può andare  all'articolo  originale dell'inserto 



Battaglie, libere cavalcate e battute di caccia. Riemergono dopo quasi un secolo di oblio  
le imprese dei nativi americani negli anni di Little Bighorn 
Stavolta non raccontate dalla propaganda dei film americani 
ma disegnate su taccuini rubati ai “visi pallidi” da guerrieri Sioux e Cheyenne

SIEGMUND GINZBERG

Il giornalista ci ricamò  una storia. Mischiò notizie  vere ad altre di sua invenzione. Scrisse che  l’album era stato rinvenuto  in una sepoltura indiana
a Little Bighorn, il sito della battaglia  in cui i Sioux avevano annientato Custer  e il suo Settimo Cavalleggeri. Ed era  vero. Che i disegni erano stati eseguiti sulle pagine di un libro mastro sottratto a un viaggiatore bianco ucciso su uno dei più famosi sentieri per il West, il Bozeman trail. Ed era vero. Che la serie di settantasette disegni rappresentava le
gesta, era l’autobiografia, di un capo di nome Mezza Luna. Era solo verosimile.
Ledger books vengono chiamati gli  album disegnati dagli “indiani” di metà Ottocento sulle pagine già  usate di quaderni e registri contabili (ledger appunto), o addirittura sui
fogli dei ruolini dell’esercito  Usa, spesso sovrapponendoli a quanto vi potesse  già essere scritto. Il “supporto” artistico era preda di guerra,  e ciò ne aumentava enormemente  il valore agli occhi dei possessori. 
Esattamente come per gli indiani delle  praterie i cavalli sottratti ai bianchi, o meglio ancora acquisiti in combattimento, valevano molto più di quelli domati da un branco selvaggio. Era una  questione di status, anzi di logo, di marca, verrebbe da dire. Al punto che, in  mancanza di prede con marchi autentici,i giovani guerrieri solevano dipingere il marchio “US Army” sui propri cavalli.
È il western per una volta raccontato dagli invasi (i nativi) e non dagli invasori (i coloni europei difesi dall’esercito),la guerra raccontata dagli sconfitti e non dai vincitori. Dipingere o farsi dipingere le proprie imprese di guerra e i propri fatti di coraggio, su quaderni e registri sottratti ai bianchi, non era  solo un must, lo status symbol per eccellenza. Era anche possesso  di un oggetto magico,propiziatorio.


Anche se a un certo punto  divenne scomodo, perché gli album  cominciarono a essere usati nei processi come prova di partecipazione a banda armata.
Tra i molti album del genere che si sono conservati,questo le cui immagini qui pubblichiamo è ancora più speciale.
Perché non è opera di un unico autore. È uno scambio di cortesie cerimoniali a più mani. Gli 
artisti, Sioux e Cheyenne, che raccontano le proprie imprese o quelle dei propri amici, in questa raccolta sono almeno sei. E uno di loro potrebbe essere niente meno che il leggendario capo guerriero Nuvola Rossa. Così almeno sostiene l’antropologo Castle McLaughlin  nel suo dotto commento alla riproduzione a stampa dell’album, col titolo A Lakota War Book from The Little Bighorn pubblicato dalla Peabody Museum Press e dalla Houghton Library dell’Università di Harvard che ne detiene l’originale. Il sottotitolo: The Pictographic“Autobiography of Half Moon”,si riferisce al titolo che alla raccolta era stato dato da un reporter del Chicago Tribune, inviato (oggi si direbbe embedded)
al seguito delle truppe dell’esercito impegnate contro le tribù di indiani, che l’aveva fatta rilegare elegantemente,aggiungendovi una sua introduzione in bella calligrafia. Phocion
Howard - questo lo pseudonimo con cui il giornalista firmava dal fronte - sosteneva di aver avuto i disegni da un sergente del Secondo Cavalleria, uno dei reparti arrivati sul campo della battaglia di Little Bighorn in soccorso di Custer quando ormai il generale e il suo reparto erano stati annientati, il 28 giugno 1876. Il quaderno da contabile a righine
con le pagine dipinte faceva parte del corredo funerario di un capo indiano,rimasto ucciso probabilmente in un altro scontro, di appena qualche giorno prima.
Era frequente che i soldati blu recuperassero come souvenir dai cadaveri e dai monumenti funerari degli indiani uccisi album di disegni tipo questo.
Talvolta venivano venduti ai turisti, altre volte considerati carta straccia con scarabocchi. Questo si salvò, anzi fu curato con un eccesso di attenzioni.
Howard lo fece smembrare e ricomporre in modo che sembrasse un’unica narrazione autobiografica.
E si inventò un personaggio  
inesistente. Per sbaglio, perché aveva equivocato come nome proprio un simbolo di mezza luna su uno dei dipinti. 
Oppure perché riteneva che potesse interessare maggiormente se rispondeva ai gusti di una narrazione all’europea.
Oppure forse perché sperava
che potesse riscuotere un successo di pubblico simile a quello di un’altra “biografia per immagini” che fece furore sulla stampa americana proprio nei giorni successivi allo shock per la fine di Custer e dei suoi soldati: quella di Toro Seduto. Era stato il New York Herald a
pubblicare il 9 luglio 1876, giusto pochi giorni dopo Little Bighorn, alcuni dei disegni di «fatti di sangue, crudeltà, ruberie, disumanità,barbarie» tratti dall'autobiografia disegnata di suo pugno del gran capo Sioux. Era un modo per incitare all’odio nei confronti dei “pellerossa” e a farla finita una volta per tutte con quei “selvaggi”, responsabili di tali atrocità. E in effetti l’essersi poi arreso,anzi integrato fino al punto di esibirsi nel circo
di Buffalo Bill, non aveva evitato al vecchio e moderato Toro Seduto di fare la fine di Osama bin Laden. Esattamente come finì ammazzato,quando si era già consegnato,l’irriducibile “testa calda” Cavalo Pazzo.Non a caso era stato lo stesso giornale a condurre una campagna contro la “politica di pace” di Washington nei confronti dei “ribelli”, denunciando —con l’aiuto di Custer, che quasi ci rimise la carriera per l’indiscrezione — lo scandalo di un traffico di licenze sulle riserve indiane in cui era implicato lo stesso fratello del presidente Grant.
L’album, il ledger book di Howard,aveva invece il difetto di evocare al pubblicopiù l’eroismo romantico dell’Ultimo mohicano di Fenimore Cooper che l’orrore per la barbarie del selvaggio.

Illustra le imprese compiute negli  anni delle “guerre di Nuvola Rossa”, nel  corso del decennio precedente i fatti di  Little Bighorn. Fatti militari, certo, ma  anche imprese di caccia, dove l’elemento  principale non è affatto la crudeltà  o la truculenza ma il coraggio. Scorre sangue, vengono uccisi soldati e ufficiali in divisa, anche civili e donne, e soprattutto altri indiani: le odiate guide  Shoshone che accompagnavano la cavalleria  Usa, o membri di tribù avversarie  dei Sioux. Ma l’accento è immancabilmente  sul coraggio, sul cavalcare in  mezzo a nugoli di frecce e proiettili, sul
rubare sotto il fuoco i cavalli e i muli dell’esercito, sull'aiutare i compagni che hanno perso la cavalcatura, sulla pratica del “contare i colpi” sul nemico, semplicemente toccandolo, mentre è ancora vivo o impugna un’arma, con la punta della lancia o dell’arco. Per questi cavalieri della prateria la guerra è un gioco, un rito, una questione di faccia e di onore, un po’ come i romanzi europei ci avevano fatto immaginare dovesse  esserlo per i cavalieri erranti del medioevo.  C’è anche una storia d’amore,
di rapimento della donzella da parte  dell’innamorato, ma solo in un disegno  su settantasette. Ma non è neppure solo un romanzo,  una graphic novel. Il curatore insiste
con dovizia di argomenti, attenzione meticolosa ai particolari (dalle armi al  vestiario, alle finiture dei cavalli e ai colori di guerra) a trattarlo come un eccezionale documento storico, legato a  fatti e protagonisti storici. Eppure nel  suo secolo ebbe notorietà brevissima. Passò di mano in mano prima di arrivare nel 1930 alla biblioteca dell’Università di Harvard. E lì fu dimenticato per  quasi un secolo. Malgrado l’America
avesse nel frattempo riscoperto una nostalgia struggente per la civiltà sottoposta a sterminio etnico dei suoi cavalieri della prateria.


                                L’alfabeto delle grandi pianure                                                               VITTORIO ZUCCONI                                              

In principio era l’immagine. Non erano la parola, il verbo, ma le immagini che accendevano l’universo materiale e spirituale dei popoli delle grandi pianure, che segnavano la loro identità di Piccole Lune, Grandi Alci, Cavalli Pazzi, Volpe Macchiata, che marcavano il tempo e il gelo degli inverni, che ricordavano ai bambini gli eventi straordinari, come “la notte in cui cadde il cielo”, quando centinaia di meteoriti illuminarono il buio della prateria nel 1870. E, naturalmente,le guerre.
Per la nazione che noi chiamiamo, da una storpiatura francofona, Sioux, per i Lakota, come loro si chiamano, per i loro alleati Cheyenne e Arapaho, il 25 giugno del 1876 fu una sequenza di immagini, da narrare per generazioni sulle pelli di bisonte e di daino e da leggere come ai nostri scolari si leggono le imprese di Giulio Cesare o le Guerre d’Indipendenza. Quando i primi distaccamenti del Settimo Cavalleria attaccarono il grande campo estivo nel territorio del Montana, scatenando due giorni di massacri per proteggere dallo sterminio i cinquemila fra bambini,vecchi e donne raccolti là, non c’erano storici con papiri e tavolette di cera per registrare l’ultima vittoria del popolo della prateria e lo sterminio della colonna del colonnello George Armstrong Custer. C’erano uomini, stranamente sempre e soltanto uomini, incaricati d’imprimersi nella memoria quello che avrebbero poi trascritto nei pittogrammi sulle pelli e sulla carta.L’alfabeto dei nativi del Nord America, che non avevano lingua scritta, era quello. In attesa di traslitterare nei caratteri latini degli invasori le loro parole, l’immagine era la storia, il video,la sequenza, a volte lineare, altre volte chiusa nei cerchi concentrici dei calendari, per dare il senso del tempo come nei tronchi d’albero. Segnalavano le rotte, i percorsi, le transumanze dei bisonti, graffiati in permanenza sulle rocce. Avvertivano dei pericoli, di possibili agguati dei “dragoni” in blu, dipinti su pelli fermate da sassi, che gli altri Lakota — ma non i bianchi — sapevano leggere e interpretare, misurando l’imminenza del rischio dalla freschezza delle pelli e dei segni. Non c’è neppure bisogno di essere un Lakota, un Oglala, un Cheyenne per capire la potenza immemore delle immagini. Sulle rive del contorto Little Bighorn, oltre le fila di lapidi bianche che segnalano le tombe dei 263 soldati condotti alla morte da Custer (ma non la sua, che è all'Accademia di West Point), c’è una fossa di terra, come una trincea improvvisata. Fu in quella buca, scavata nella terra soffice dell’estate, che il distaccamento di rinforzo del colonnello Reno, prudentemente rimasto indietro, resistette per due giorni alla furia degli indiani. Sui bordi della buca, nel lato rivolto verso il fiume del sangue, ancora oggi, un secolo e mezzo più tardi, si vedono bene le fossette scavate dai soldati per usarle come cavalletti naturali, per poggiare le loro carabine e mirare meglio, risparmiando le scarse munizioni. Neppure l’erba, che nel gelo del grande nord cresce avara, le ha nascoste. Guardandole, si sentono gli spari, le grida dei feriti,gli ordini, le urla terrorizzanti — e terrorizzate — dei guerrieri lanciati sulla collina. Perché avevano ragione loro, i figli delle grandi pianure. Sono le immagini che ci sanno parlare più forte delle parole.

un altro musicista se ne va Pete Seeger ( 1920-2014)

 e'  morto all'età di 94   il cantore  dei diritti  civili  e  dell'ambiente   Pete  Seeger (   se  non vi dovesse bastare  l'articolo sotto    eccovi  maggiori dettagli  http://it.wikipedia.org/wiki/Pete_Seeger  )  e  sotto  una sua  recente  foto   tratta   da  quest'articolo  da  repubblica  d'oggi


NEW YORK - Pete Seeger, l'autore di "Turn, turn, turn" e "If i had a hammer" è morto all'età di 94 anni. Il cantautore americano, assieme a Woody Guthrie uno dei maggiori esponenti del folk americano, è deceduto in un ospedale di New York dopo una breve malattia. 
Attivista politico, sostenitore dell'area più radicale della sinistra americana, era uno dei massimi autori della canzone di protesta degli anni Cinquanta e Sessanta. Dopo aver conquistato la fama assieme al gruppo The Weavers, fondato nel 1948, continuò come solista nel corso di una carriera lunga sei decenni. Ecologista, fu anche un paladino inarrestabile di tante battaglie in difesa dell'ambiente.
Pete (vero nome Peter) Seeger era nato a New York il 3 maggio del 1919, figlio del musicologo Charles Seeger, uno dei primi ricercatori nel campo della musica orientale. Cresciuto in una famiglia di artisti (anche i suoi fratelli Mike e Peggy erano musicisti e cantanti), nella seconda metà degli anni Trenta lascia l'università (aveva iniziato a studiare a Harvard) e inizia a suonare in maniera professionale abbracciando la strada del folk singer, influenzato sopratutto dal pioniere della riscoperta del blues e della musica popolare americana, Alan Lomax. Ma soprattutto, alla fine degli anni Trenta, incontra Woody Guthrie, con il quale intraprende un lungo viaggio attraverso l'America e durante il quale si confronta con l'anima più popolare della musica americana. 
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, Seeger partecipa alla nascita di un'organizzazione chiamata People's Song Inc. (PSI), nata con lo scopo di diffondere le canzoni dei propri associati. Per trovare fondi, il PSI organizza spettacoli folk chiamati "hootenanny", che diventano poi molto celebri nei primi anni 60, in coincidenza con il grande revival del folk. La costante attività politica e la sua dichiarata fede comunista causano a Seeger numerosi problemi nell'epoca del maccartismo (viene anche condannato a un anno di prigione, ma trascorre solo pochi giorni in galera) senza peraltro frenarne l'attività. 
Il successo arriva con il debutto dei Weavers, nel 1949, che diventano un elemento decisivo per il fenomeno del folk revival. Le sue canzoni si trasfromano in autentici inni pacifisti, spesso ripresi da altri artisti: a parte "We shall overcome", la vera colonna sonora delle marce per la pace per tutti gli anni 60, vanno ricordate "Where have all the flowers gone?", portata al successo nel 1962 dal Kingston Trio, e "Turn turn turn", che alla fine del 1965 trascina i Byrds ai primi posti delle classifiche. Rimane celebre il suo attacco al presidente Lyndon Johnson e alla sua politica militare durante il programma tv "Smothers Brothers Show" dove Seeger canta anche quella che è una delle prime canzoni contro la guerra nel Vietnam, “Waist deep in the big muddy“ ("Giù fino al collo nel grande pantano"). 
Le canzoni e l'impegno di Seeger hanno esercitato una grande influenza su molti artisti, da Bob Dylan e Joan Baez fina Bruce Springsteen. Proprio il Boss, nel 2006, ha inciso l'album "We shall overcome. The Seeger sessions", interamente dedicato alle canzoni del grande folksinger. Nel 1996, Seeger era stato inserito nella Rock and Roll Hall of Fame, mentre nel 1997 si era aggiudicato un Grammy. Nel 2009, in occasione del suo novantesimo compleanno, il Madison Square Garden ospitò un grande concerto in suo onore cui presero parte, tra gli altri, Eddie Vedder, Dave Matthews, Ani DiFranco e Bruce Springsteen. Sempre nel 2009, Seeger partecipò al Lincoln Memorial Obama Inaugural Celebration Concert, ancora una volta insieme a Bruce Springsteen





scometto  che sui  giornali  embed   gli faranno due  righe  , scommetto che   se  muore   qualche  cantante   neo melodico    e polpettone  \  melenso  italiano ( ogni riferimento  a  persone realmente  esistenti  :_-)  è puramente  casuale  ed  involontario  )   gli faranno pagine su  pagine e speciali su speciali  
 io  voglio ricordarlo con  l due pezzi celebri  





al prossimo necrologio


Diagnosi preimpianto La contestata legge 40 torna alla Consulta Il tribunale di Roma solleva la questione di costituzionalità Il caso di una donna portatrice sana di distrofia muscolare

  ci sarà da  ridere  se  dovesse risultare incostituzionale  e magari  casi simili  non ripetono 



Gia'  se  ne parlava  ieri su repubblica  




Procreazione assistita, legge 40 alla Consulta
anche per il divieto per le coppie fertili
Il tribunale di Roma ha sollevato la questione di costituzionalità sul ricorso di una coppia in cui la donna, pur portatrice sana di distrofia muscolare di Becker, si era vista negare l'accesso sia alla Pma che alla diagnosi preimpianto. I giudici: "Il diritto ad avere un figlio sano è inviolabile e costituzionalmente tutelato"




ROMA - Torna davanti alla Consulta la legge 40 sulla procreazione assistita. Il tribunale di Roma ha sollevato la questione di costituzionalità sul divieto per le coppie fertili di accedere alla procreazione assistita e alla diagnosi preimpianto, anche se portatrici di malattie trasmissibili geneticamente.



E' la prima volta che questa specifica questione arriva alla Consulta. In passato se ne era occupata invece la Corte europea di Strasburgo che nel 2012 aveva condannato l'Italia per violazione di due norme della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. E aveva sottolineato l'"incoerenza" del nostro sistema che da un lato vieta alla coppia fertile ma portatrice di una malattia geneticamente trasmissibile di ricorrere alla diagnosi preimpianto, e dall'altro, con la legge 194 sull'aborto, le permette l'aborto terapeutico nel caso il feto sia affetto dalla stessa patologia.
Alla prima sezione civile del tribunale di Roma, che ha sollevato la questione, si era rivolta una donna, portatrice sana di distrofia muscolare Becker (malattia genetica ereditata dal padre) e il marito, che si erano visti negare dal Centro per la tutela della Salute della donna e del bambino "Sant'Anna" sia l'accesso alla procreazione assistita, sia la diagnosi preimpianto, sulla base del presupposto che il divieto non è stato cancellato dalla legge.
L'ordinanza del tribunale riconosce il diritto della coppia ad "avere un figlio sano" e afferma che il diritto di autodeterminazione nelle scelte procreative è "inviolabile" e "costituzionalmente tutelato". "Il diritto alla procreazione - si legge nell'ordinanza - sarebbe irrimediabilmente leso dalla limitazione del ricorso alle tecniche di procreazione assistita da parte di coppie che, pur non sterili o infertili, rischiano però concretamente di procreare figli affetti da gravi malattie, a causa di patologie geneticamente trasmissibili, di cui sono portatori. Il limite rappresenta un'ingerenza indebita nella vita di coppia".
L'accesso per le coppie fertili alla procreazione assistita e alla diagnosi preimpianto, anche se portatrici di malattie trasmissibili geneticamente, sottolinea Filomena Gallo, legale, insieme ad Angelo Calandrini, della coppia che ha promosso il ricorso, è "l'ultimo divieto, che arriva ora all'esame della Consulta, ancora contenuto nella legge 40 sulla procreazione assistita". "Se la sentenza della Consulta sarà favorevole - rileva Gallo, segretario dell'associazione Luca Coscioni - la legge 40 sarà stata definitivamente cancellata. Confidiamo nei giudici della Corte, visto che il Parlamento è incapace di legiferare nel rispetto dei diritti di tutti i cittadini".
 

  se   ne ha  ulteriore  conferma oggi su la  nuova sardegna  


ROMA Nuovo dubbio di costituzionalità sulla legge 40. Torna, infatti, davanti alla Consulta la normativa sulla procreazione medicalmente assistita dopo che il tribunale di Roma ha sollevato la questione di costituzionalità sul divieto per le coppie fertili di accedere alla procreazione assistita e alla diagnosi preimpianto, anche se portatrici di malattie trasmissibili geneticamente. È la prima volta che questa specifica questione arriva alla Consulta. In passato se ne era occupata invece la Corte europea di Strasburgo che nel 2012 aveva condannato l’Italia per violazione di due norme della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Alla prima sezione civile del tribunale di Roma, che ha sollevato la questione, si è rivolta una donna, portatrice sana di distrofia muscolare Becker e il marito, che si erano visti negare dal Centro per la tutela della Salute della donna e del bambino «Sant’Anna» sia l’accesso alla procreazione assistita, sia la diagnosi preimpianto, sulla base del presupposto che il divieto non è stato cancellato dalla legge. Chiare le motivazioni del tribunale di Roma: il diritto della coppia ad «avere un figlio sano» e il diritto di autodeterminazione nelle scelte procreative sono «inviolabili» e «costituzionalmente tutelati», si legge in uno dei passaggi dell’ordinanza con la quale la prima sezione civile ha sollevato la questione di costituzionalità. Proprio l’accesso per le coppie fertili alla procreazione assistita e alla diagnosi preimpianto è «l’ultimo divieto, che arriva ora all’esame della Consulta, ancora contenuto nella legge 40», spiega Filomena Gallo, legale, insieme ad Angelo Calandrini, della coppia che ha promosso il ricorso. All’indomani della decisione della Consulta, «se favorevole - rileva Gallo, segretario dell’Associazione Coscioni - la legge 40 sarà stata definitivamente cancellata». Ora, commenta, «confidiamo nei giudici della Corte, visto che il Parlamento è incapace di legiferare nel rispetto dei diritti di tutti i cittadini». Quanto ai tempi, «speriamo che i termini tecnici ci facciano rientrare nell’udienza dell’8 aprile». Questa decisione del tribunale di Roma, chiarisce Gallo, «non solo va a confermare le summenzionate decisioni evidenziando anche il contrasto della legge 40 con la Carta costituzionale» ma, «se l’8 aprile la Consulta dovrà pronunciarsi sui dubbi di legittimità costituzionale sul divieto di eterologa e sul divieto delle donazioni degli embrioni alla ricerca, ora dovrà calendarizzare anche una udienza per questo ulteriore dubbio di legittimità costituzionale che, rispetto alle decisioni del tribunale di Salerno e della Cedu, avrebbe portata generale, ovvero estendibile a tutte le coppie». Per Gallo sarebbe «come chiudere un cerchio: l’intera legge 40 è costituzionalmente dubbia»

Wilhelm Brasse, fotografo di Auschwitz, cheper lo shock non riuscì più a fare il suo lavoro

 concludo i miei post     sulla  giornata del 27    con questa  storia   , che     vale   per tutti\e  quelle persone  che  hanno  vissuto  orrori simili  di  ideologia malate   ed astruse  
da  http://en.wikipedia.org/wiki/Wilhelm_Brasse
La  storia   che riporto  è quella  del fotografo polacco, deportato ad Auschwitz, a documentare l'orrore nazista,Il suo nome era Wilhelm Brasse foto a sinistra  )  ed era nato nel 1917 a Zywiec. Lo avevano internato perché aveva rifiutato di arruolarsi nell'esercito tedesco. Era destinato alle camere a gas, ma la sua abilità di fotografo lo salvò. I nazisti gli affidarono l'ufficio identificativo e ritrasse migliaia di prigionieri. Fotografò anche esecuzioni, cataste di morti, e soprattutto i risultati degli esperimenti medici di Josef Mengele e Paul Kremer. Rischiò la vita ogni giorno per nascondere parte di quel terribile materiale e portarlo all'esterno, perché il mondo «doveva sapere».
Ebbene l'eccezionale   storia di un uomo temerario, scomparso ultranovantenne nel 2012, ora è un libro. Luca Crippa e Maurizio Onnis, scrittori e consulenti editoriali, hanno ricostruito l'esistenza de“Il fotografo di Auschwitz” (Piemme, 278 pp.14,90 euro).

da  l'unione sarda del  27.1.2014  


Chi era Brasse quando fu deportato?
«Un giovane pieno di vita avviato a una professione rara: era un artista della fotografia. Finì ad Auschwitz e divenne uno dei massimi testimoni dei misfatti del nazismo».
Come avete ricostruito la sua vita?
«Abbiamo incontrato i figli, un medico e una casalinga. Ci hanno confermato molte notizie e fornito documenti inediti. Abbiamo poi lavorato su due importanti interviste nelle quali racconta episodi che non ha mai dimenticato, e sono la trama del nostro libro».
I più interessanti?
«Gli incontri con molti prigionieri, ma anche con kapò e ufficiali delle SS. Svolgeva il suo lavoro con occhio sensibile anche quando documentava gli esperimenti medici».
Materiale scioccante?
«Brasse raccontava in lacrime: quei ricordi lo hanno lacerato. Gran parte delle foto sull'Olocausto, custodite ad Auschwitz e Gerusalemme, le ha scattate lui. Lavorò per la resistenza polacca. Ma la sua azione più importante è stata salvare le fotografie».
Una volta libero?
«Cambiò mestiere e fece il salumiere. Non riuscì più a fotografare»
Francesco Mannoni

27.1.14

Verba volant / Memoria di Luca Billi 27 gennaio 2014


Memoria, sost. f.

Secondo la mitologia greca Mnemosine era la dea della memoria. Si tratta di una divinità molto antica, nata prima di Zeus e degli dei olimpii. Esiodo infatti racconta che era figlia di Urano, il Cielo, e di Gea, la Terra, e quindi sorella diCrono, il padre di Zeus, e dei Titani. Sempre l’autore della Teogonia racconta che Mnemosine – che nella lotta tra gli dei e i Titani si era schierata con i primi – venne amata da Zeus, che le apparve sotto forma di pastore. Da quelle nove notti d’amore sui monti della Pieria nacquero le nove Muse.
Diodoro Siculo, nel libro V della Bibliotheca historica, spiega che Mnemosine aveva scoperto il potere della memoria e che lei stessa aveva assegnato i nomia molti oggetti e alle cose astratte che servono agli uomini per capirisi durante le conversazioni. Per questo, in qualche modo, Mnemosine è anche la dea di questo dizionario.
Mnemosine esercita un potere arbitrario quando assegna i nomi alle cose e infatti la memoria è qualcosa di fondamentalmente arbitrario.
Parlate con uno dei vostri vecchi di casa e vi accorgerete che spesso non sono in grado di ricordare cosa hanno fatto pochi giorni fa, ma vi sanno descrivere – con un’incredibile dovizia di particolari – un episodio capitato cinquant’anni fa; naturalmente non avete nessuna possibilità di verificare quei particolari e non potete far altro che confidare della memoria di chi ve li ha raccontati.
Fondamentalmente è per questa stessa ragione che le memorie sono il genere storiografico più infido e carico di menzogne. Chi scrive a volte mente intenzionalmente, anche se per lo più lo fa inconsciamente: è davvero convinto che le cose siano andate proprio come le lui le ricorda, anche se non è vero.
Io sono uno che cerca di esercitare il più possibile la memoria, ovunque ne ho l’occasione e specialmente attraverso il mio blog e i miei post sui social network, ma anche la mia memoria è deliberatamente e dichiaratamente arbitraria. Ricordo a me stesso e a chi mi legge quello che penso sia importante ricordare e che ritengo ingiustamente dimenticato. Per questo motivo non manco di ricordare le stragi di piazza Fontana e della stazione di Bologna, non perdo gli anniversari della morte di Antonio Gramsci e di Giacomo Matteotti, ricordo lacaduta del muro di Berlino e la fine dell’apartheid in Sudafrica. E molto altro – come avete spesso la pazienza di vedere.
L’importante è essere consapevoli che si tratta di scelte, in questo caso le mie scelte, perché questa è appunto la mia memoria.
Ad esempio, l’11 settembre la memoria mainstrem ricorda l’attentato alle Twin towers; io sono uno di quelli che ricorda invece il golpe americano in Cile e l’uccisione di Salvador Allende. Ci sono memorie più o meno importanti ? Per me sì e mi assumo il rischio di fare queste scelte. Ciascuno di noi lo fa, nella sua vita privata come in quella pubblica. Ciascuno di noi ricorda gli episodi della sua vita che vuole ricordare, magari migliorandoli e trasformandoli un po’, e ne dimentica altri.
Anche per questo io diffido come la peste da chi parla di memoria condivisa. La memoria condivisa è una menzogna: è solo il modo per chi è al potere di imporre agli altri la propria memoria. E per annebbiare – o annullare del tutto – le altre memorie. Infatti è importante dire che la memoria è sempre plurale.
Oggi è il Giorno della Memoria: è un giorno importante, di quelli cheapparentemente ricordiamo quasi tutti, vincitori e vinti, qualunque sia la nostra convinzione etica e politica. Non è assolutamente mia intenzione “rovinare” la festa, penso siano importanti tutte le manifestazioni, anche quelle fatte soltanto per obbligo istituzionale, credo sia importanti tutte le parole dette oggi, anche quelle dette senza convinzione e solo per puro esercizio retorico.


La memoria infatti è sempre più forte di noi, dei nostri tentativi di manipolarla e di usarla. La memoria è una dea, molto antica, più antica degli altri dei, di quelli che tengono il potere e di quelli che presiedono alle altre arti. E quindi si può far beffe di questi piccoli maneggi dei mortali.

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...