5.7.17

Oggi i funerali dell'attore MOSTRUOSAMENTE VILLAGGIO di © Daniela Tuscano


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Simpatico no. Comico - anzi, tragicomico -, gogoliano, lunare, patetico, Paolo Villaggio lo si poteva definire in mille modi: ma non simpatico. E lui lo sapeva e lo voleva.

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(Disegno di Tiziano Riverso)

Villaggio voleva essere una carogna, forse lo era. Le sue battute, fuori del set, sibilavano taglienti, talora altezzose, non di rado strampalate, e ne tradivano le origini altoborghesi. Sentite questa: "Il Papa? Troppo intelligente per credere in Dio". E ditemi se un qualsiasi Fantozzi avrebbe potuto mai emettere un giudizio simile. "Io non so scrivere in italiano", rivelava nell'introduzione al primo dei libri dedicato al suo (nostro) antieroe. Sembrava vero. Frasi brevi, paratattiche. Lessico "impiegatizio" com'egli stesso lo definiva, coniando così un nuovo linguaggio, tributario del corregionale Calvino ma più sminuzzato e scialbo. Poi, inaspettata in quell'atmosfera da Arbre Magique, la citazione colta: "Avete presente il quadro 'I ciechi' di Brueghel?"; oppure: "Egli era per un metodo montessoriano a base di zollette di zucchero, non senza qualche appello alla coscienza professionale dei cavalli", subito seguito da un: "Forse schifati per il troppo zucchero (ma soprattutto, penso, esasperati da quei discorsi noiosissimi)"... Degna premessa al celeberrimo "boiata pazzesca" della "Corazzata Potemkin-Kotiomkin". Ma le buttava là, con plateale noncuranza, fra il rutto libero e gli enalisti di Monte Alto sul Serchio, e tu non ci badavi anche se magari, più tardi, una sbirciata all'enciclopedia la davi. Villaggio, via Fantozzi, irrideva il mondo da cui proveniva per immedesimarsi nel grigio indefinibile dell'impiegato, non operaio, non ricco, non rivoluzionario, drogato e vittima d'un consumismo di quart'ordine. Un'immedesimazione fredda, come l'anonimato dei condomini di qualche periferia settentrionale. 
Perché Fantozzi era di tutti, ma apparteneva al Nord. E non poteva essere altrimenti. Fantozzi incarnava un alienato di nuovo tipo, quello delle società industriali degli anni Sessanta-Settanta. Un dipendente privato, timoroso del padrone (ancor visibile in alcuni tratti ma già circonfuso da una sinistra, intoccabile sacertà), non il pubblico mezzemaniche della Capitale. Da quelle parti, trovavi Sordi. Diverso e complementare. Entrambi italiani. Entrambi perdenti. Entrambi, alla bisogna, servili, ruffiani, pazzi o poeti, teneri o maligni, avidi o scialacquatori, vessati da orride famiglie senza le quali, però, non riuscirebbero a vivere. "Nel mondo di Fantozzi il padrone è un'entità kafkiana", suggerisce ancora l'"illetterato" Villaggio. Il "padrone" come sostituto terreno d'un Dio delle diseguaglianze. Pur se non manca una spruzzata di Pirandello, soprattutto nelle epifanie nevrotiche (e inconcludenti) del sottoposto che all'improvviso esplode, e si prende le sue rivincite, e batte il pugno, peccato che il tavolo sia cosparso di puntine e il grido di battaglia si tramuti ben presto in guaito di dolore...
Non vince Fantozzi, perché è umano (...lei!), troppo umano, niccianamente umano nella sua suprema mediocrità. E tuttavia non perde: è anzi "indistruttibile" e lo confessa lui stesso, in uno dei tanti episodi cinematografici. I Fantozzi come noi subiscono tutte le guerre ma hanno la capacità di rimbalzare, e riemergono sempre, anche se precipitati in un tombino o smarriti nelle grotte di Postumia dopo un'agghiacciante gita aziendale. Solo per questo, solo per aver reso poeticamente la nostra mostruosa medietà, dobbiamo ringraziare il carognesco Villaggio.

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