31.7.21

Chirurgia estetica: è il momento della “faccia da ricca” CRESCE IL NUMERO DELLE GIOVANISSIME CHE DECIDONO DI CAMBIARE L’IMMAGINE DI SÉ. HANNO IN MENTE MODELLI PRECISI. IL FENOMENO SI CHIAMA “RICH GIRL FACE”. nuove bambole sex

    questra  storia     che trovate   sotto    conferma  quanto dicevo  bnel precedente  post   : <<   Bisturi, botulino e droga. I Narcos "investono" sulla chirurgia estetica I trafficanti pagano gli interventi delle amanti per trasformarle in bambole sex  >> sulla neccessità  sempre  più urgente  di  educare    la  gente  alla  bellezz       ed   a distinguerla    da  quella  sintentica  \  artificiale  .   Molti mi dirsnno  ,   ma    ciascuno  non è  libero di fare  dile  proprio  corpoquello che vuole  ?  certo che    si  ma  un conto  sono : 1) la precocità    con cui tale scelta   per   lo più indotta   (  vedi articolo sotto  )  ., 2)   la  libertà di  sceglierlo   da  se   ,   non  perchè  te  lo consiglia  il  sistema  dello spettacolo  .


Chirurgia estetica: è il momento della “faccia da ricca”

IL NUOVO LUSSO È IL RITOCCHINO Punturine o lifting, l’intervento estetico non si nasconde più, anzi si ostenta come l’ultimo e più desiderato status symbol. Come dire: sono ricca e me lo posso permettere. NADIA FRAONE Vicedirettore della Scuola di Medicina estetica del Fatebenefratelli di Roma. È una degli esperti interpellati. MARCO IERA Chirurgo plastico e medico estetico dell’Istituto clinico Brera di Milano. Parla con noi del fenomeno.

CRESCE IL NUMERO DELLE GIOVANISSIME CHE DECIDONO DI CAMBIARE L’IMMAGINE DI SÉ. HANNO IN MENTE MODELLI PRECISI. IL FENOMENO SI CHIAMA “RICH GIRL FACE”. MA QUALI SONO I VISI DI RIFERIMENTO ? 

C’è stato un tempo non remoto in cui a ogni lifting seguiva una vacanza lontana da occhi indiscreti che terminava senza cerotti ed ecchimosi del post operatorio e con un alibi per il repentino ringiovanimento: «Tutto merito del riposo». Un tempo in cui ai complimenti allusivi di fronte a sguardi più freschi e gote tutt’a un tratto rimpolpate si rispondeva dissimulando, quando non negando con sdegno. Poi però lo stigma del ritocchino ha cominciato a vacillare, complici le tante celebrities di Hollywood che hanno deciso d’ammettere che per la perfezione dei loro volti e dei loro corpi non devono ringraziare solo
Madre Natura ma anche i più famosi chirurghi plastici. Allora, come ha scritto Harpersbazaar. com, ecco Jamie Lee Curtis confessare di aver provato chirurgia plastica e liposuzione, Robin Wright dichiarare di avere un appuntamento con il botox due volte l’anno, Jane Fonda rivelare d’aver fatto “qualche lavoretto” su mento, collo e occhi. È così che punturine, rinoplastiche e seni rifatti hanno cominciato a essere sdoganati anche tra le persone normali, e finalmente: se chiediamo alla medicina estetica di intervenire su quelle caratteristiche fisiche che ci mettono a disagio perché mai dovremmo nasconderlo? Fin qui tutto bene, quindi, tranne che a un certo punto forse ci è un po’ scappata la mano perché - è venuto fuori dal Congresso della Società italiana di medicina estetica

- si è passati dal negare l’evidenza di fronti levigate dal botox e labbra ridisegnate dai filler, a esibirle. Ostentarle come i più desiderati status symbol.

«Rispetto al passato», ha spiegato Nadia Fraone, consigliere della Sime, «registriamo una vera e propria inversione di tendenza: mentre fino a pochi decenni fa si tendeva a nascondere i trattamenti di medicina estetica, adesso si pensa a quest’ultima come una medicina del benessere, intesa soprattutto come possibilità di curare la propria immagine. E anche la medicina estetica risente di queste nuove richieste, non trovandosi più ad accompagnare il paziente nel percorso normale di invecchiamento, ma piuttosto ad aiutare una vera e propria trasformazione della persona». Un atteggiamento diffuso soprattutto tra le giovanissime della “generazione Z”, che si rivolgono a studi di medicina estetica non per correggere difetti ma per modificare la propria immagine rendendola simile ai canoni di bellezza che arrivano dagli ambienti social, nei quali vivono buona parte della giornata. Rich girl face, faccia da ragazze ricche, è stato chiamato il fenomeno dal chirurgo plastico inglese Dirk Kremer, per intendere la tendenza a mettere in mostra labbra carnose, zigomi pronunciati, fronte liscia e naso sottile e all’insù. Perché sono ricca e me lo posso permettere, come mi permetto un lussuoso weekend a Ibiza o una borsa stragriffata.
«Si tratta di un fenomeno sociologico che rivela 
la fragilità e l’insicurezza dei giovani», spiega la dottoressa Fraone, «che non hanno un’identità precisa e trovano così il modo di crearsela ad imitazione di idoli dei social media».Ci vorrebbe equilibrio, anche se non tutte possono avere la personalità di Sophia Loren, che pur non avendo mai negato di essere ricorsa alla chirurgia estetica rifiutò di modificare il suo naso malgrado le insistenze di Hollywood. «All’epoca rifacevano il naso alla francese, con una piccola punta. Mi ci vedete con un naso del genere?», disse la diva. Il naso che Sophia rifiutò è lo stesso studiato a lungo dai ricercatori della New York University, arrivati alla conclusione che quello perfetto abbia la punta leggermente rialzata, con le linee che partono da punta e bordo del labbro superiore a generare un angolo di 106°. L’ideale? Quello di Scarlett Johansson, ma le ragazzine che oggi si sottopongono a una rinoplastica hanno altre muse, che di solito spopolano su Instagram. Kim Kardashian e Kylie Jenner su tutte, poi Ivanka Trump e, in Italia 
Diletta Leotta e Bianca Atzei. «In realtà questo fenomeno è molto più americano», precisa Marco Iera, chirurgo plastico a Milano, «e anche i personaggi cui i pazienti si ispirano sono quasi sempre americani, forse perché siamo un popolo di esterofili. Comunque non vengono con la foto del personaggio famoso, ma con la loro: cambiata con i filtri di Instagram».
 Certo, conferma il dottor Iera, a frequentare gli studi dei medici estetici sono ragazze sempre più giovani. «Credo che la medicina estetica sia uno strumento di prevenzione per rallentare l’invecchiamento e se si comincia da giovani è meglio: apportare nutrimento ialuronico, che con l’avanzare dell’età si perde, consente all’organismo di attingere a quello anziché consumare l’acido ialuronico proprio». 
Dunque sì, spiega Iera, alla medicina estetica ci si può avvicinare dai vent’anni in su, per preparare l’organismo alle fasi successive. «Parliamo di vitamine per la pelle o biotivitalizzazione», precisa il medico, che non nega che gli capitino pazienti giovani che chiedono interventi invasivi. «A quel punto bisogna cercare di far capire che la bellezza è armonia ed equilibrio






 e spiegare che le alterazioni volumetriche alla lunga possono invecchiare e peggiorare l’armonia di un volto». Insomma, lo scopo di qualunque trattamento è il raggiungimento del benessere psico-fisico. «Basta ricordare questo per non sbagliare». 

storie olimpiche tokyo 2020\21 parte 2

Leggi  la  prima parte  
storie olimpiche tokyo 2020\1 parte II


 
Tokyo 2020, l'australiana Jessica Fox ripara la canoa con un preservativo e poi vince l'oro L’australiana Jessica Fox (già bronzo a Londra 2012 e Rio 2016) si è aggiudicata la medaglia d’oro nello slalom K1.
Un’impresa che è stata preceduta da una singolare riparazione della sua canoa. Prima della gara, la canoista si è infatti accorta che la sua imbarcazione risultava danneggiata. Senza pensarci troppo, l'australiana ha deciso di risolvere l’inconveniente utilizzando un preservativo - preso da un kit offerto agli atleti dagli organizzatori dei giochi olimpici - e lo ha infilato sulla punta del suo kayak. La 27enne ha documentato la singolare riparazione della sua canoa condividendo un video sul suo profilo TikTok


L'olimpiade delle atlete azzurre. Josefa Idem: "Un traino per lo sport femminile"



Tokyo 2020 sarà ricordata come l’olimpiade delle atlete azzurre: 11 medaglie sulle 24 totali finora sono state conquistate da donne.

Alcune hanno confermato il podio di Rio 2016, come Odette Giuffrida, Elisa Longo Borghini e Diana Bacosi. Altre sono entrate nella storia per aver raggiunto la prima medaglia olimpica italiana al femminile nelle loro discipline. È il caso di Valentina Rodini e Federica Cesarini nel canottaggio femminile, di Giorgia Bordignon nel sollevamento pesi, di Lucilla Boari nel tiro con l’arco e di Irma Testa nel pugilato. Abbiamo intervistato Josefa Idem, leggenda dello sport italiano con 6 Olimpiadi disputate da azzurra, in cui ha vinto un oro, due argenti e un bronzo. Per lei anche un podio sfiorato a Londra 2012, a quasi 48 anni di età.
A cura di Francesco Cofano 


le storie olimpiche tokyo 2020\1 parte I

30.7.21

Uccisa 66 anni fa, finalmente il funerale per la piccola Lucia




repubblica  27\7\2021


Uccisa 66 anni fa, finalmente il funerale per la piccola Lucia

di Alan David Scifo
Assassinata misteriosamente a 13 anni di età, sì alla funzione religiosa negata nel 1955



Arriverà dopo 66 anni il funerale di Lucia Mantione, la ragazzina di 13 anni uccisa misteriosamente il 6 gennaio del 1955, nelle campagne di Montedoro, un piccolo paese in provincia di Caltanissetta. Nessuno volle fare il funerale a quella bambina: ai minatori così come a chi moriva di morte violenta, i funerali erano negati dalla chiesa. E la morte di Lucia era violenta: la tredicenne venne strangolata da un assassino la cui identità non è mai stata svelata. Le voci, in un paese in cui era presente anche una componente mafiosa, erano tante, tra tutte quelle su un rifiuto, la negazione di un atto sessuale, costato caro. Il corpo infatti era stato trovato semi svestito, dopo le ricerche, abbandonato in mezzo alle campagne. Un primo loculo era stato assicurato qualche anno fa, quando con una messa al cimitero, venne onorata la memoria della giovane, che ha due fratelli, Calogero e Federico, giovanissimi all'epoca, in cerca della verità. Per la morte della tredicenne infatti non ha mai pagato nessuno. Un anno fa però, anche grazie al materiale raccolto dai due fratelli, la Procura ha riaperto l'inchiesta esaminando di nuovo la salma della ragazza. Sull'inchiesta vige il massimo riserbo, ma dalle prime indiscrezioni non sarebbero emersi elementi rilevanti. Dopo la restituzione della salma sarà celebrato il funerale negato all'epoca, questo si terrà mercoledì, nella chiesa Madre del piccolo paese delle miniere di zolfo, in cui 66 anni fa una semplice figlia di contadina venne barbaramente uccisa.


Tgcom24 Cronaca 29 LUGLIO 2021 12:36


Caltanissetta: celebrati i funerali della piccola Lucia Mantione 66 anni dopo
di Fabio Nuccio

Quando venne uccisa aveva 13 anni. Ha dovuto aspettare 66 anni per avere finalmente un funerale. È la storia di Lucia Mantione, conosciuta come "Lucietta", strangolata il 6 gennaio 1955 durante un tentativo di violenza. La bambina si era ribellata all'aggressore, finì per morire soffocata. Dopo tre giorni di ricerche il suo corpo venne trovato in un casolare a un chilometro da Montedoro, un paese di circa 1500 abitanti in provincia di Caltanissetta.
A "Lucietta" vennero però negati i funerali: il parroco del tempo applicò rigidamente il principio che vieta il rito funebre nei casi di morte violenta. Il paese ha coltivato la memoria di quella tragedia e ha continuato a chiedere verità e rispetto per la bambina assassinata. Il caso è stato ora riaperto dalla Procura di Caltanissetta e i resti di "Lucietta" sono stati riesumati per un esame medico-legale e l'estrazione del Dna. In questa occasione sono stati organizzati i funerali a suo tempo negati che sono stati celebrati con la presenza della salma, nella parrocchia di Santa Maria del Rosario


La chiesa,  secondo quanto riuporta  ilmessaggero   del 26\7\2021   ha naturalmente cercato in questi anni di rimediare a un errore di cui non c'è traccia neanche nei registri parrocchiali. 




Per primo è stato il vescovo Mario Russotto a raccogliere la richiesta del paese per un rito funebre anche a distanza di tanto tempo e due anni fa ha disposto una prima benedizione dei resti.finalmente  la  sua  anima   ha  raggiunto la pace    e   adesso   può riposare  .  strano   che la  chiesa    non  abbia fatto   cme   per  maria  goretti  non l'abbia   santificata   . ma  l'abbia  dimenticata  


storie olimpiche tokyo 2020\21

 lo so che ancora le  olimpiai non sono    finite  .  ma  poi  vai  e  ritrovale    le  storie





repubblica 29- 30\7\2021






Tokyo 2020, coming out Boari: "Grazie alla mia ragazza"
Il video messaggio della compagna in collegamento da Casa Italia: "Ti amo, orgogliosa di te"Afp


Coming out di Lucilla Boari dopo la conquista della medaglia di bronzo ai Giochi di Tokyo 2020. Nel collegamento da Casa Italia è arrivato un messaggio video all'azzurra. "Ti amo tanto, sono molto orgogliosa di quello che hai fatto, non vedo l'ora che ritorni, ti sto aspettando per darti un grande abbraccio", ha detto Sanne de Laat, arciera compoundista olandese, a Lucilla Boari, che ha poi commentato: "Grazie alla mia ragazza".




Simone Biles, i demoni in testa hanno un nome: sono i "twisties"

(reuters)


La campionessa aveva ammesso di aver avuto un crollo mentale. E ha spiegato di cosa soffre

Un blocco mentale, una perdita di spazio ed equilibrio. Simone Biles ha i demoni, ma i demoni hanno un nome, un effetto e una causa, anche se non si sa quale sia. Quando Simone Biles ha parlato di salute mentale per spiegare i ritiri dalle gare a squadre e dalla gara generale ha detto: "Ho i twisties". Cosa sono i "twisties"? Per le persone normali non sono nulla, per i ginnasti sono un incubo: una sorta di blocco mentale. Improvviso.
Un blocco che fa perdere il senso dello spazio e della dimensione quando è in aria, che fa perdere il controllo del corpo e che, durante un volteggio o una capriola, può far perdere il controllo del corpo e rende incapaci di atterrare in sicurezza. Anche se l'atleta ha fatto la stessa manovra per anni senza problemi. Anche se sei una leggenda. Anche se sei la migliore. Disorienta. Come se corpo e cervello si scollegassero. Il corpo semplicemente non collabora, il cervello perde traccia di dove è il fisico nell'aria. L'atleta scopre dov'è il terreno quando atterra. E la paura diventa paralizzante.
Ci sono atlete e atleti che hanno capito cosa stesse passando Simone Biles quando ha perso il senso dello spazio durante il volteggio della gara a squadre, quando si è ritirata. La ginnasta britannica Claudia Fragapane alla BBC ha raccontato di essere caduta dalle parallele asimmetriche e sulla trave nei turni di qualificazione e poi nell'aprile di quest'anno è caduta di nuovo a seguito di un blocco mentale e non è riuscita a qualificarsi per i Giochi di Tokyo. La ginnasta svizzera Giulia Steingruber in un documentario di qualche anno fa ha raccontato che durante un volteggio "non avevo più la sensazione di dove mi trovavo. Ruotare e capovolgere il corpo è disorientante".
Il talento di Simone Biles è proprio nel suo eccezionale "senso dell'aria" come lo chiamano gli atleti. Il controllo del corpo mentre è in volo. Se l'atleta lo perde non ha scelte: deve fermarsi.



Il caso del tiratore iraniano: l'oro nella pistola 10 m accusato di essere un terrorista

                             dal nostro inviato Fabio Tonacci


Javad Foroughi fa parte del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica, inserito da Donald Trump nella lista dei gruppi terroristici




Infermiere di notte, terrorista di giorno, campione di tiro a segno nel weekend. L'iraniano Javad Foroughi avrebbe almeno tre vite, e una di queste non c'entra niente con le Olimpiadi. Chi è davvero il vincitore dell'oro nella disciplina pistola ad aria compressa 10 metri? E perché sempre più voci chiedono al Comitato olimpico internazionale di riprendersi la medaglia?
Un clamoroso caso internazionale scoppia a Tokyo 2020, quando il programma delle competizioni è arrivato alla seconda e ultima settimana. Protagonista è l'infermiere 41enne Foroughi. Lavora in Iran ma ha prestato servizio anche negli ospedali da campo in Siria, a Palmira, e in altre zone di guerra. È un operatore sanitario, e fin qui niente di male. È anche membro del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica, milizia paramilitare composta da 125 mila uomini e istituita dall'ayatollah Khomeini nel 1979 poco dopo essere ritornato dall'esilio durato 15 anni. Ha giurato di difendere la Guida suprema dell'Iran. Jayad Foroughi è un fiero pasdaran.






Dice di aver cominciato a praticare il tiro a segno sportivo nel 2017. Dopo aver vinto l'oro a Tokyo, la televisione pubblica iraniana ha trasmesso un servizio in cui medici e infermieri del Baqiyatallah Hospital a Teheran, gestito dai pasdaran, esultavano per il successo del collega. Il leader del Corpo, Hossein Salami, ha celebrato Foroughi definendolo "un esuberante Guardiano della rivoluzione islamica".
La questione si complica definitivamente di fronte al fatto che la milizia, nel 2019, è stata inserita dall'amministrazione Trump nella lista delle organizzazioni terroristiche. Non era mai successo che gli Stati Uniti prendessero tale provvedimento nei confronti di una forza militare di un'altra nazione. Una mossa - sostengono gli analisti - servita a Trump per giustificare l'imposizione di nuove sanzioni contro l'Iran.
"Come può un terrorista salire sul podio?", si chiede il tiratore coreano Jin Jong-oh, sei volte medaglia olimpica. "È la cosa più assurda e ridicola che abbia mai sentito": Jin Jong-oh se la prende con il Comitato Olimpico Internazionale: "Come può permettere una cosa del genere?". Il suo rimprovero arriva dopo che United for Navid, l'associazione iraniana che tutela i diritti umani degli atleti, ha sollevato la questione, chiedendo ufficialmente al Cio di ritirare la medaglia a Foroughi. "Quel riconoscimento è una catastrofe per lo sport iraniano, per la comunità internazionale e specialmente per la reputazione del Cio. Foroughi è un membro di vecchia data di un'organizzazione terroristica", si legge nel comunicato di United for Navid.
Il Cio prova a spegnere l'incendio che sta divampando in seno a Tokyo 2020. "Se hanno delle prove di ciò che dicono, ce le facciano avere: noi siamo qui", dice il portavoce Mark Adams. Ma nel frattempo sui social sono partite petizioni per togliere l'oro al tiratore iraniano.









Il re di Wall Street aiuta l'atletica Usa: "Un assegno da 30mila dollari a 65 campioni per arrivare al podio"dal nostro inviato Ettore LiviniStephan Schwarzman con gli atleti di Team Usa

 
Stephen Schwarzman, ex-sprinter e numero uno del private equity Blackstone, è il primo donatore privato della Us Track & Field Foundation con 17 milioni di dollari. Per molti membri della spedizione statunitense i suoi soldi sono l'unica entrata certa del 2021


TOKYO -La corsa all’oro olimpico di 65 ragazzi della squadra Usa di atletica ha alle spalle il supporto economico di un ex-atleta d’eccezione: Stephen Schwarzman, numero uno e fondatore di Blackstone, il grande fondo di private equity di Wall Street. Uno degli uomini più ricchi del mondo che compra e vende aziende come figurine Panini guadagnando una fortuna (610 milioni nel 2020) ma anche un ex-sprinter di mediocri fortune all’epoca del college a Penn State diventato oggi per nostalgia dello sport il primo donatore privato degli olimpionici a stelle e strisce. Ultimo atto: l’assegno di 30mila dollari a testa girato a 65 membri della spedizione Usa per sostenere i costi dell’ultimo difficilissimo anno di costi e trasferte.
Il Babbo Natale di Wall Street ha girato l’assegno tra gli altri al martellista Alex Young, al campione dei 5mila Paul Chelimo, al triplista Donald Scott alla lunghista Britney Reese. Un elenco di campioni in discipline meno “visibili” di 100 metri o maratona che negli ultimi 12 mesi - causa il taglio al budget di molti sponsor di abbigliamento sportivo in difficoltà per la pandemia - hanno faticato a trovare risorse per allenarsi. “Sono ragazzi che anno dedicato anni e sacrifici per arrivare ai Giochi – ha detto Schwarzman -. Sono orgoglioso di loro, rappresentano gli Stati Uniti e il mio è solo un piccolo contributo per aiutarli a mostrare al mondo il loro talento”. Quest’ultima donazione porta a 17 milioni di dollari tra borse di studio e gratifiche personali dirette i fondi stanziati dal fondatore di Blackstone (e grande sostenitore di Donald Trump) all’atletica Usa.
Il finanziere ha deciso di dare una mano allo sport olimpico nazionale nel 2012. Stava guardando alla tv i 1500 femminili alle Olimpiadi di Londra. Al penultimo giro l’americana Morgan Uceny è inciampata nella gamba di una rivale, è caduta ed è stata costretta al ritiro. L’ex atleta Schwarzman ha intuito subito il dramma sportivo ma anche – da uomo di numeri – quello economico. “Quella caduta mandava in fumo anche i soldi di potenziali sponsor”. Da allora ogni anno gira il suo assegno alla Us Track & Field Foundation e invita in una sorta di mega pranzo sociale tutti i beneficiari nella sede della Blackstone a New York, solo per sentir parlare almeno per un giorno all’anno di sport e sogni olimpici e non di dollari.
“E’ l’uomo più generoso che abbia mai incontrato”, ha detto la Reese in gara domenica nel lungo femminile. Gli atleti delle leghe professionistiche Usa come Nba e Nfl hanno uno stipendio minimo garantito figlio di una contrattazione collettiva. Per lei invece l’unica entrata certa di quest’anno sono i 30mila dollari di Schwarzman. Reese ha firmato anche un accordo di sponsorship con la Nike. Ma viene pagata a performance. Un primo step è scattato con la qualificazione ai trials (altrimenti non avrebbe preso un centesimo), il secondo sarà proporzionale al risultato della gara. Il suo munifico donatore – come ogni Olimpiade – la guarderà in tv. ”L’atletica è stata una parte fondamentale della mia vita dalle medie al college – ha spiegato -. E’ un mondo da cui ho imparato l’importanza del lavoro di gruppo, degli allenamenti e la gioia quando tu o la tua squadra vince”. E se la Reese salirà sul podio festeggerà felice, sapendo che in fondo e anche un po’ merito suo.


Judo, un tatami di pace: lo storico abbraccio tra l'atleta saudita e israeliana


Raz Hershko (che ha vinto) e Tahani Alqahtani non hanno rinunciato al combattimento, tre giorni dopo i rifiuti di un judoka algerino e di uno sudanese di combattere contro l'israeliano Tohar Butbul. "Un passo avanti - ha scritto la federazione internazionale judo - a dimostrazione di come lo sport possa andare oltre".
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Jessica Rossi e Mauro De Filippis: "Separati nella vita, tiriamo insieme senza litigare"dal nostro inviato Fabio Tonacci

Jessica Rossi (reuters)


Gareggeranno insieme nel trap misto. La portabandiera azzurra: "Vogliamo il riscatto. Su di noi solo gossip e falsità: il privato resta tale". L'ex marito: "So comunque di avere al fianco la migliore tiratrice possibile"


TOKYO. Separati alla meta. I due cuori e una fossa (olimpica) non ci sono più. È stato bello finché è durato, grazie della favola ma adesso in pedana scendono Miss Rossi e Mister De Filippis. Uno accanto all'altro, la portabandiera azzurra e l'ex marito numero uno nel ranking mondiale. A sparare per l'Italia. A sperare per l'Italia del tiro a volo, il cui bottino al momento è sottile quanto un piattello. Jessica Rossi e Mauro De Filippis sono stati selezionati dal ct Pera per gareggiare nel misto questa notte. È l'ultima chiamata per andare a medaglia."Tutti e due abbiamo qualcosa da riscattare, in questa Olimpiade", esordisce Jessica, che incrocia per un attimo lo sguardo di Mauro. Parlano gli occhi, il volto è coperto dalle mascherine. Sono qui sotto gli spalti vuoti dell'Asaka Shooting Arena. Il sole sta tramontando, si è alzata finalmente una leggera brezza. È la prima volta che accettano un'intervista insieme. Un plauso per la disponibilità, non è una giornata facile: hanno entrambi mancato la finale del trap individuale, che a Londra aveva visto Jessica Rossi prendersi l'oro e portarsi a casa il record del mondo di 99 piattelli sbriciolati su 100. Jessica e Mauro, 29 anni lei e 40 lui, sono notoriamente riservati. Dopo la loro separazione, comunicata lo scorso maggio alla Federazione, lo sono ancora di più. Se gossip deve essere, non verrà da loro. Per dire i caratteri: dopo Londra Jessica era stata tempestata di richieste di partecipazioni e comparsate, ma le uniche che ha accettato coincidevano con due sogni: scendere la scala del Festival di Sanremo e scendere la scala di Miss Italia. Poi si è chiusa nella sua Crevalcore, con le piante, la natura e il suo dobermann che, per non sbagliarsi, ha chiamato Olimpia. Nel 2015 si sono sposati. Non è durata.

La gara è domani. Sensazioni?
Jessica: "Siamo carichi, vogliamo quella medaglia".
Mauro: "Sarà durissima, il livello tecnico degli avversari è alto. In qualifica nell'individuale avevamo fatto prestazioni buone, ma non è bastato per arrivare in finale. Nel misto sicuramente ce la giochiamo".

Vi ha disturbato il chiacchiericcio sulla fine del vostro matrimonio? Si è parlato quasi più di questo che delle vostre prestazioni sportive.
J: "Fa parte del gioco, lo sapevo. Non posso dire che mi dà fastidio, va così...quello che mi amareggia è quando vengono dette e scritte falsità sul nostro conto. Ho letto di tutto, che io non volevo sparare con Mauro, che mi rifiutavo di fare il misto con lui... Scemenze. Siamo due professionisti, il ct ci ha scelto e io gareggerò".
M: "Nel bene o nel male, purché se ne parli... No dai scherzo. Devo essere sincero, mi sono estraniato da tutto. Non ho ascoltato chi straparlava, ho mantenuto discrezione. Non voglio mettere la nostra storia sotto i riflettori. Come sono andate le cose tra me e Jessica, i motivi per cui ci siamo lasciati, le parole che ci siamo detti, lo sappiamo io e lei. Il gossip non mi interessa".

Il tiro è uno sport di testa. Per i piattelli che decidono una medaglia, capita che il vissuto personale venga fuori e renda il braccio meno sicuro. C'è questo rischio anche per voi?
J: "Assolutamente no".
M: "Ci conosciamo tanto, abbiamo percorso un tratto di vita insieme. So che accanto a me avrò la tiratrice più forte e la compagna di squadra più talentuosa che si possa avere. Farò il mio, lei farà il suo. Il nostro rapporto può essere soltanto una forza positiva".

Jessica, sinora in competizione ha sentito la pressione di essere la portabandiera dell'Italia?
J: "Non direi, anzi: è qualcosa in più, che mi lascerà un ricordo bellissimo di Tokyo, comunque vada".

Come si fa a evitare che il personale influenzi la preparazione e la prestazione?
J: "Non è che se abbiamo litigato cinque minuti prima faccio zero apposta, abbiamo un obiettivo comune. Anche quando eravamo sposati non ci siamo mai dati fastidio".
Avete trovato un vostro modo per separare le cose?
J: "Quando vado in pedana riesco a isolarmi e a chiudermi in me stessa. Spero di riuscirci anche nei prossimi giorni. Comunque se andrà bene o andrà male non dipenderà dalla nostra situazione".
M: "Da sposati, hai un'estrema fiducia nella persona che hai a fianco perché la conosci, sai cosa pensa, come reagisce, cosa prova. Da separati, conosci comunque il valore indiscutibile dell'atleta".

Ma vi capita di litigare?
J: "Stiamo andando un po' oltre il tiro secondo me (ride, ndr)... Prima litigavamo come tutte le coppie normali. Abbiamo fatto un patto: il nostro privato non uscirà mai. Né dalla mia né, penso, dalla sua bocca".

29.7.21

Bisturi, botulino e droga. I Narcos "investono" sulla chirurgia estetica I trafficanti pagano gli interventi delle amanti per trasformarle in bambole sex

 da  rerpuublica  23 LUGLIO 2021 
I trafficanti pagano gli interventi delle amanti per trasformarle in bambole sexBisturi, botulino e droga. I Narcos "investono" sulla chirurgia estetica
                                                             di Daniele Mastrogiacomo
I protagonisti di Narcos, la serie che racconta la vita dei trafficanti di droga messicani




23 LUGLIO 2021 


La terra del Chapo Guzmán è diventata il centro della chirurgia estetica. Non per boss e sicari che vogliono cambiare fisionomia e sfuggire così a nemici e giustizia. Per le donne. Giovani e giovanissime. Sinaloa, Stato simbolo del più potente Cartello in Messico, da sempre montagnoso, povero e abitato soprattutto da contadini, oggi è famoso per la "narcoestetica": una moda che fa tendenza e si è trasformata in una mania contagiosa. Lo racconta un'inchiesta della Bbc. Ma lo dicono anche i dati e le testimonianze dei medici che si sono ritrovati le scrivanie piene di richieste.
A Culiacán, città di origine dell'ex re della droga nel mondo, la dottoressa Rafaela Martinez Terrazas ha spiegato alla Bbc che esiste un modello fisico ricercato in maniera costante. Corrisponde al prototipo delle donne che amano i narcos, quelle che in Messico chiamano, in modo un po' dispregiativo, buchonas. Hanno un loro stile, siti sul web: vita stretta e definita, fianchi e glutei grandi, seni prosperosi. [... ] il  resto dell'artiucolo   è a pagamento e  qui    mi viene  in aiuto quest'articolo di https://www.iene.mediaset.it/2021/news/messico-chirurgia-estetica-donne-narcos_1079391.shtml

Messico, il boom della chirurgia estetica per avere il fisico delle “donne dei narcos” | VIDEO

Un’inchiesta della BBC mostra come a Sinaloa, stato del Messico dove opera l’omonimo cartello che è stato guidato da “El Chapo” Guzman, giovani ragazze si rivolgano sempre più spesso alla chirurgia estetica per assomigliare al prototipo di “donna dei narcos”. Ma più che una libera scelta, è un sintomo dell'estrema povertà della regione. Noi de Le Iene siamo stati ad Acapulco, per documentare la vita dove regnano i cartelli

(In foto, la moglie di “El Chapo” Guzman)

Vita stretta, fianchi larghi e un seno prosperoso”. E’ questo l’identikit tracciato alla BBC da una chirurga estetica di Sinaloa, in Messico, la regione del paese diventata tristemente famosa per essere il teatro delle operazioni del cartello di “El Chapo” Guzman. Il fenomeno raccontato dall’emittente pubblica inglese è questo: molte donne, sempre più giovani, si rivolgerebbero alla chirurgia estetica per assomigliare il più possibile al prototipo di “donna dei narcos”,

Quindi per evitare o ridurre ( facendolo diventare solo fisilogico per paio estinguersi ) l'abuso abiuso del proprio corpo e della chirurgia estetica dobbiamo educare le nuove generazioni alla vera bellezza non quella artificiale ed a coltivarla la bellezza non solo quella del paesaggio ma anche quella fisica perché anche l'occhio (e non solo😉😎😜 ) vuole la sua parte .

Capisco   le  donne  o  gli  uomini che ricorrono alla  chirurgia  plastica  per  corregge  dei  difffetti fisci     o  perchè    si vergognano  del  proprio  corpo che invecchia e      preferiscono volersi  vedere  giovani  .  Ma  a qui si esagera perché non è una  bellezza   naturale ma artificiale , di plastica , creata in laboratorio .   Inoltre   in questo  caso  si obbligano le donne ad essere più schiave   ed  asservite   all'uomo padrone   sfruttandone con la chirurgia estetica i loro corpo


Infatti «Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È





per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore». ( peppino impastato 1940-1978 )




Ora non essendo nè un filosofo d'accademia nè un antrropologo , ne uno studioso di tali fenomeni etici e morali consiglio alcuni libri per chi come me volesse approfondire le propie conoscenze in merito

Claudia Atimonelli e Valentino Susca
Un oscuro riflettere ( http://mimesisedizioni.it/un-oscuro-riflettere.html )
pornocultura  (   vedere  archivio  del blog    con  mia  intervista  a  gli autori  ) 
  Loredana  Zanardo 
il  corpo  delle  donne    video (   https://youtu.be/nPpIn0b6-x4  )  e  libro 
Cristian Porcino
Altro e  Altrove  ( https://www.amazon.it/Altro-altrove-Cristian-Porcino-Ferrara/dp/0244660042  )   pagina  113  e seguenti




28.7.21

"Non siamo no vax, maledetta quella crociera", parla la madre della bimba morta di Covid "Eravamo perplessi per AstraZeneca, abbiamo perso tempo. Poi la scuola ha proposto a sua sorella quel viaggio e lei ha contratto il virus"

    di cosa stiasmo parlando

https://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2021/07/morta-di-covid-bambina-undicenne-era.html

leggo con ritardo  un  ulteriore  aggiornamento  del  caso ,  vedi  url sopra  ,  della  morte per  covid dell bambina   di  11  anni


repubblica  28\7\2021




"Non siamo no vax, maledetta quella crociera", parla la madre della bimba morta di Covid  "Eravamo perplessi per AstraZeneca, abbiamo perso tempo. Poi la scuola ha proposto a sua sorella quel viaggio e lei ha contratto il virus"


                                 di Giusi Spica

La piccola bara bianca è custodita dietro le porte dell'obitorio. Nessuno può entrare per le norme antivirus. Ariele, 11 anni non ancora compiuti e una rara malattia metabolica che la costringeva sulla sedia a rotelle, è morta di Covid. La mamma e il papà hanno fatto appena in tempo a darle l'ultimo saluto, un'ora prima che il suo cuore smettesse di battere. "Ha aspettato la fine della nostra quarantena per andarsene, ma non abbiamo nemmeno potuto accarezzarla", si disperano a bordo dell'auto parcheggiata nel piazzale dell'ospedale Civico. Nonostante il dolore, mamma Rosalinda tiene a respingere ogni accusa: "Basta strumentalizzazioni sulla morte di nostra figlia. Non siamo no vax".

Perché allora nessuno in famiglia si era vaccinato?

"Abbiamo perso tempo. Volevamo capire meglio, dopo le notizie contraddittorie su AstraZeneca. Poi Ariele era stata male, come accadeva ciclicamente, e avevamo posticipato per assisterla. Ma ci stavamo organizzando per vaccinarci tutti. Le altre mie figlie più grandi, del resto, hanno sempre fatto i vaccini pediatrici consigliati. Ariele non poteva a causa della sua patologia".

Il Covid però è arrivato prima. Cosa è accaduto?

"Per un anno e mezzo siamo stati barricati a casa, per salvaguardare Ariele. A giugno ci ha contattati la scuola di un'altra delle mie figlie, proponendo per lei una crociera d'istruzione nel Mediterraneo dal 30 giugno al 7 luglio. Eravamo perplessi, ma ci siamo lasciati convincere dal fatto che il governo aveva autorizzato i viaggi e riaperto tutte le attività. La compagnia di navigazione ci aveva assicurato che avrebbero fatto il tampone sia in partenza che all'arrivo. E invece allo sbarco nessuno screening è stato eseguito. Dopo due giorni dal rientro, mia figlia ha cominciato ad avere la febbre".

Cosa avete fatto?

"Abbiamo isolato Ariele in una stanza diversa e abbiamo sanificato gli ambienti, nonostante non sapessimo ancora che si trattava di Covid. Abbiamo ricevuto la chiamata dell'Usca che ci informava della presenza a bordo della nave di due contagiati. Sono venuti a fare il tampone: le mie figlie sono risultate tutte positive, io e mio marito siamo stati sempre negativi. L'11 luglio la saturazione di Ariele è crollata e abbiamo chiamato il 118. Ha resistito per sedici giorni, sedata e intubata. Ora ce l'hanno restituita dentro un sacco nero".

Cosa direbbe oggi a chi continua a rifiutare il vaccino?

"Dovete vaccinarvi per salvare i bambini e le persone fragili come Ariele che non possono farlo. Chi non si vaccina per ideologia, abbia almeno la decenza di chiudersi a casa e non mettere a rischio gli altri. Aspettare mi è costato caro. Ho già chiamato il medico di base per prenotare la prima dose. Non voglio rischiare che le mie figlie rimangano orfane. Il presidente Musumeci mi ha definita no vax, aggiungendo dolore a dolore. Sarebbe stato bello che si fosse esposto allo stesso modo quando con altre mamme lottavamo per avere un reparto di Malattie metaboliche o quando abbiamo chiesto la possibilità per Ariele e i bambini con diagnosi infausta di avere le cure compassionevoli con le cellule staminali".

Lei è finita sotto processo per la vicenda Stamina. Ci crede ancora?

"Nel 2015 Ariele è stata in Georgia per sottoporsi a cinque infusioni di cellule staminali, vietate in Italia. Poi abbiamo dovuto sospendere la terapia, perché sono stata indagata per truffa e altri reati. Mi accusano, assieme al compianto Stefano Vannoni, promotore del metodo, di avere reclutato pazienti per le cure all'estero. Ma non mi pento: l'unico beneficio che Ariele ha avuto è stata la cura con le staminali che ha ridotto le crisi epilettiche. Quando ci hanno costretti a interromperla, Ariele è peggiorata".

oltre a snellire i processi dei ricchi ci sarebbero da corregge alcuni distorsioni ed esempio quella che colpisce le madri togliendole i figli se denunciano le violenze del partner

 Un genitore che si macchia di violenza nei confronti della consorte, non e'un genitore attendibile e deve essere tenuto lontano dai figli. Non ha nulla da insegnare loro. 


Leggi anche:
 1. “Il mio ex compagno è stato condannato per violenze, ma ora vogliono togliermi mio figlio”, a TPI la denuncia di Sabrina                                        
2. “Vogliono strapparmi via mio figlio”: a TPI lo sfogo di Laura Massaro, una mamma accusata di ‘alienazione genitoriale’                                                         
3. “Ho picchiato la mia compagna per anni, ecco come ne sono uscito”

 

 da  https://www.tpi.it/cronaca/ 26 Lug. 2021 alle 17:03

                                             di Anna Ditta



“Ho denunciato il mio ex e rischio di perdere mio figlio”: la distorsione giudiziaria che colpisce le madri


In Italia ci sono casi di donne che denunciano le violenze e perdono l'affido dei figli o la potestà genitoriale: un magistrato e una psicologa spiegano come nasce questa distorsione del sistema giudiziario, tra ctu e tribunali (e quale può essere la soluzione)
“Come è possibile che nel procedimento per l’affido di mio figlio abbia maggior peso la relazione di un consulente tecnico d’ufficio, uno psicologo che ci ha incontrato al massimo per 4 o 5 volte, senza contraddittorio e senza che siano richiesti riferimenti concreti alla realtà, piuttosto che una sentenza di primo grado che condanna suo padre per le violenze che ho subito durante la gravidanza e proseguite dopo la nascita del bambino?”.
È questa la domanda che si pone Carla (il nome è di fantasia), una delle madri che rischiano di essere ritenute “alienanti” e di perdere l’affido del figlio minore o addirittura la potestà genitoriale dopo aver denunciato le violenze subite dal coniuge o dal compagno. Una distorsione del sistema giudiziario di cui si è parlato di recente, per il caso di Laura Massaro (qui la sua intervista a TPI nel 2019) colpita poche settimane fa da un provvedimento del tribunale dei Minori con cui il giudice ha disposto il prelievo forzato del figlio di 11 anni e la sua collocazione in casa famiglia per essere riavvicinato al padre, denunciato per molestie.
Sono molte le storie simili che abbiamo raccontato in questi anni, da quella di Ginevra Pantasilea Amerighi a quella di Sabrina e a quella di Giada Giunti. Ma perché il sistema che dovrebbe tutelare e aiutare le donne che denunciano finisce invece per penalizzarle? TPI lo ha chiesto al magistrato Fabio Roia, presidente della sezione autonoma delle misure di prevenzione del Tribunale di Milano, che si occupa da molti anni del tema della violenza contro le donne, e alla psicologa Elvira Reale, responsabile del Centro Daphne dell’ospedale Cardarelli di Napoli, dove si occupa di vittime di violenza in pronto soccorso.
“Innanzitutto c’è un problema di trasmissione degli atti tra i diversi uffici giudiziari”, spiega Roia. “La legge sul Codice Rosso ha imposto la trasmissione degli atti che riguardano la vicenda penale ai giudici civili che devono decidere in tema di affido dei minori. Il segnale normativo è molto chiaro: bisogna dare attuazione all’articolo 31 della Convenzione di Istanbul. Si tratta di una norma sovranazionale, ma che è immediatamente applicabile nel nostro ordinamento per un principio di natura costituzionale”.
“Questo articolo impone al giudice chiamato a decidere sull’affidamento dei minori di tenere in considerazione la situazione pregressa di violenza posta in essere dall’uomo nei confronti della donna. Lo scopo è che l’uomo e padre violento, prima di ristabilire il rapporto col figlio, risolva il suo problema attraverso un riconoscimento e una presa di coscienza di ciò che ha fatto”, prosegue Roia. “Ma questo non avviene quasi mai, perché il primo problema degli uomini violenti è che non si rendono conto di commettere un crimine, per un discorso culturale e per l’assenza di una decisa condanna sociale”.
“Nella pratica, tuttavia, ci sono delle distorsioni del sistema, per cui molte volte i giudici civili non tengono in considerazione la situazione di violenza: la rifiutano, non la istruiscono, non l’approfondiscono o non la valutano”, spiega il magistrato, sottolineando che “molte volte entrano in gioco stereotipi per cui si pensa che se uno è stato violento con la partner non vuol dire che non sia un buon padre. Invece non è così”, chiarisce. “La convenzione di Istanbul dice proprio l’opposto: se io agisco violenza in una situazione in cui il minore assorbe o percepisce la violenza medesima, evidentemente non sono un buon padre, perché propongo al minore un modello di gestione del rapporto di relazione con la madre che è deviato, sbagliato, illecito. Questo è un problema culturale”.
“Un’altra distorsione di prassi, secondo me”, prosegue Roia, “è il fatto che i giudici molto spesso delegano la decisione sull’affido, in questi casi, a consulenti tecnici di ufficio (Ctu), che magari aderiscono a determinate scuole di pensiero, come la Pas (Parental Alienation Syndrome o “sindrome da alienazione parentale”, ndr) che ormai è stata rifiutata dalla comunità scientifica. Se la decisione del giudice viene affidata a un ctu che aderisce a questa scuola di pensiero, si verificherà che una donna che ha subito violenza – e che magari vive uno scompenso emotivo, è in situazione di fragilità o di sofferenza, o presenta traumi – viene considerata non idonea per la protezione del minore, o comunque le si impone, in nome di un principio di bigenitorialità di attivarsi per far sì che il minore incontri il padre”.
“Questa situazione”, aggiunge il giudice, “determina una forma di violenza secondaria sulla donna. Lei sicuramente non si sente serena a favorire questi incontri, e questo anche perché spesso il minore non vuole vedere il padre violento. Allora c’è questo ribaltamento per cui si dice: il minore rifiuta gli incontri col padre perché la madre agisce su di lui una sorta di lavaggio del cervello. Diventa una ‘madre manipolatoria‘ che utilizza il minore per interrompere il rapporto con il padre violento. Se le norme fossero applicate correttamente, invece, non arriveremmo mai a queste conclusioni aberranti“.
Come dovrebbe operare invece il giudice, per non commettere questi errori? “Il giudice civile dovrebbe fare un’attività istruttoria per accertare – ad esempio a mezzo testimoni, o sentendo il minore – se c’è stata una situazione di violenza”, risponde Roia. “Se questa c’è stata e lui la accerta, deve decidere a quale genitore attribuirla – e generalmente è il padre – e avviare il genitore a un percorso di riconoscimento della violenza e programmare la ripresa dei rapporti tra genitore e figlio solo quando il padre ha riconosciuto il problema e magari l’ha superato. E questo a prescindere da un’eventuale condanna dell’uomo in sede penale”.
Ma se il Ctu dice che la madre ha la pseudo-sindrome di ‘alienazione genitoriale’, chiediamo a Roja, il giudice può comunque decidere diversamente? “Assolutamente, deve farlo“, è la risposta. “Il consulente è un ausiliario del giudice, come l’assistente sociale che fa delle indagini socio-familiari sulla famiglia, ma il giudice può discostarsi: si deve riappropriare del potere-dovere di decidere. È sempre il giudice che deve decidere o meno l’idoneità dei singoli consulenti, che vengono scelti da un albo. Se un ctu non fa bene il suo lavoro, non lo si deve nominare più”.
Per evitare che queste distorsioni del sistema continuino a ripetersi, secondo il magistrato, bisogna “puntare sulla formazione“. “Le leggi oggi ci sono, bisogna applicarle bene e fare uno sforzo culturale e di formazione”. Roia spiega che il Consiglio superiore della magistratura (Csm) “sta già facendo molto bene perché continua a mandare risoluzioni di indirizzo. Se i capi degli uffici, e in particolar modo i presidenti dei tribunali, fossero più sensibili a queste tematiche sul piano organizzativo e del controllo, credo che risolveremmo a breve tutti i problemi”.
IL RUOLO DEL CONSULENTE TECNICO
La psicologa Elvira Reale è responsabile del Centro Daphne dell’ospedale Cardarelli di Napoli, dove si occupa di vittime di violenza in pronto soccorso. Inoltre, è autrice con altre psicologhe del “Protocollo Napoli“, col quale cinque professioniste impegnate da anni nel lavoro di prevenzione/contrasto alla violenza sulle donne, hanno individuato una serie di criteri per la Consulenza psicologica nei procedimenti giudiziari di separazione/divorzio.
“Quello della Ctu è un problema complesso, perché oggi abbiamo una scuola di psicologia giuridica e forense che ha sposato in pieno il criterio dell’alienazione parentale come costrutto che penalizza soprattutto le donne”, sottolinea l’esperta. “Le donne, in quanto più frequentemente in una prima fase dei procedimenti di affido genitori collocatari dei minori, secondo questa teoria, impedirebbero l’accesso del bambino al padre. Questa sorta di ostruzionismo viene qualificato come alienazione, indipendentemente dai motivi per cui una donna è ‘resistente’ al principio definito appunto da questi psicologici come criterio dell’accesso”.
“Ciò non è altro se non la trasposizione del principio della bigenitorialità”, prosegue Reale, “che prevede che un bambino mantenga relazioni con ambedue i genitori dopo la separazione. Si tratta di un principio sancito dalla legge 54 del 2006 e successive, ma non è valido nel caso in cui la bigenitorialità comporti dei pregiudizi per il minore (ex art. 155bis del codice civile). Uno dei pregiudizi fondamentali è la violenza contro le donne, che per il minore si traduce sempre in maltrattamento assistito, il che comporta danni alla salute di un bambino equivalenti agli esiti di un maltrattamento diretto, secondo anche quanto affermato dalla letteratura e dagli organismi internazionali”.
“Per questo, tutte le volte che ci sono evidenze o allegazioni di violenza, bisognerebbe presumere che il principio della bigenitorialità non valga, perché sarebbe un danno per il bambino”, spiega la psicologa. “Invece su questo c’è da un lato una grande ignoranza dei consulenti e anche dei giudici; dall’altra parte, nella peggiore delle ipotesi, si utilizza dolosamente questa teoria. Ormai, infatti, data la grande diffusione dell’argomento, non c’è secondo me solo la scarsa conoscenza, ma anche una mancata volontà di riconoscere questi temi, mantenendo un’interpretazione che vuole tenere separati la violenza sulle donne e l’affido dei minori“.
“Penso che gli psicologi siano sicuramente formati e informati sul tema, ma che parteggino per una teoria che non riconosca/neghi la violenza sulle donne, considerando come più importante per lo sviluppo del minore la presenza di un padre anche se maltrattante la madre. In questi casi, il danno maggiore per lo sviluppo di un minore è considerato l’assenza del padre, ritenuto persino peggiore del maltrattamento assistito. Questo”, aggiunge Reale, “fa parte del pregiudizio secondo il quale la donna ha un minor valore nel sociale. Ha più valore un padre. Ma queste ipotesi teoriche sulla supremazia paterna nello sviluppo di un bambino non sono suffragate dalla scienza e vorrei dire inoltre, che se si dovesse giungere ad una teoria suprematista, la donna ha certamente oggi maggiori atout da giocarsi come perno dello sviluppo di un bambino, come curante ed anche come genitore protettivo, visto che il fenomeno della violenza in famiglia ha al 90 per cento circa gli uomini come autori”.
Elvira Reale ricorda che le donne che subiscono violenza “sono più del 30 per cento della popolazione femminile nelle relazioni di coppia (dato Oms): quindi è un’epidemia vera e propria”. Questo, sottolinea, “deve avere risvolti notevoli anche sul tema dell’affido, tenendo presente l’articolo 31 della convenzione di Istanbul, che indica che le donne vanno protette insieme ai loro figli minori. Al contrario, noi abbiamo separazioni giudiziali che sono residue rispetto a quelle consensuali, l’Istat alcuni anni fa parlava del 14 per cento. L’affido esclusivo alle donne avviene poi nell’8 per cento dei casi: è chiaro che il dato non corrisponde all’epidemia della violenza contro le donne ed i bambini (vittime di maltrattamento assistito). Gli psicologi forensi non guardano nella direzione della violenza domestica e del maltrattamento assistito e la conseguenza è la distorsione delle decisioni giudiziarie sull’affido quando i giudici si allineano alle loro valutazioni tecniche (Ctu) incompetenti sul tema o addirittura negatorie del tema violenza”.
Ma quale può essere la soluzione? “Attualmente ci sono delle liste di psicologi ferme alla specializzazione forense, si dovrebbe invece pensare a degli specialisti sul tema della violenza domestica, con un curriculum adeguato, comprovante soprattutto l’esperienza sul campo e l’adesione alla convenzione di Istanbul”, spiega Reale. “A Napoli, col Protocollo Napoli, abbiamo cercato di stabilire i criteri con cui si devono affrontare ctu e ctp: cosa fare e cosa non fare, quando vi sono allegazioni di violenza”.
Un altro suggerimento è quello che riguarda i “bollini rosa” ai Tribunali. Reale spiega di cosa si tratta: “Sulla violenza contro le donne ci sono una serie di percorsi dedicati, ad esempio quello negli ospedali (codice rosa), e lo stesso percorso teorico-pratico di protocollo Napoli, il codice rosso nelle procure ha questo stesso intendimento. L’idea allora sarebbe quella di attribuire un ‘bollino rosa’, una sorta di marchio di qualità/competenza anche ai tribunali che praticano e riconoscono la convenzione di Istanbul e stabiliscono, come sta avvenendo per esempio a Terni col giudice Velletti, dei percorsi dedicati nei casi in cui emergono allegazioni varie di violenza, con un percorso personalizzato, specializzato che focalizza il problema della violenza contro le donne, da cui far derivare a cascata i vari atti e provvedimenti”.
In questo momento, racconta Reale, “l’Ordine degli psicologi non si sta attivando in prima persona sul tema”, anche se talvolta accoglie le iniziative di gruppi di psicologi. “A Napoli, per esempio, l’Ordine ha recepito il protocollo Napoli, ma poi cerca di non contrastare la psicologia forense, che è molto diffusa ed è composta da personaggi che hanno delle scuole private fiorenti, e dunque molteplici interessi economici in questo ambito”.
“Sinceramente per una ipotesi di cambiamento culturale ho più fiducia nel cambio della magistratura, piuttosto che nel cambiamento degli psicologi”, dice Reale. “I magistrati, per loro formazione, dovrebbero avere l’idea di non operare discriminazioni e disparità e dovrebbero essere più sensibili al rispetto di leggi e convenzioni. Quindi forse, se adeguatamente formati o richiamati al rispetto delle convenzioni internazionali, potrebbero operare un cambio di passo e smarcarsi dall’abbraccio mortale di questa psicologia forense”.
“Per quanto riguarda gli psicologi, quando si sono formate scuole che propugnano determinati costrutti, è più difficile ottenere da loro un cambiamento spontaneo o attraverso una formazione alternativa”, aggiunge. “Questo cambiamento in psicologia riguarderebbe non solo il superamento della pseudo-diagnostica dell’alienazione, ma anche il trattamento dei bambini. Il prelievo forzoso del minora, l’allontanamento dalla madre, l’assegnazione in struttura, l’esclusione degli incontri con la madre: sono tutti trattamenti sanitari occulti proposti da psicologi e in qualche modo avallati dall’autorità giudiziaria. Viene anche operato a valle del prelievo coercitivo un trattamento sotterraneo di condizionamento e ricondizionamento“.
“Ciò non è altro chela riproposizione del trattamento propugnato di Gardner, autore della Pas”, spiega la psicologa. “Anche se non si parla di alienazione genitoriale, se un bambino rifiuta il padre, magari solo perché è autoritario o ne ha paura, a quel punto si agisce comunque in maniera coercitiva sui bambini, in maniera traumatica, e questo è contrario a qualsiasi deontologia. Lo psicologo è un operatore sanitario, e il primo requisito di un trattamento sanitario deve essere Primum non nocere, ‘innanzitutto non nuocere’. Imporre un trauma a un bambino per poi fargli avere un presunto futuro beneficio, che deriva dall’essere riconciliato al padre tramite l’allontanamento dalla madre, è sbagliato, ascientifico e illegittimo“.
Per Reale, agire in questo modo “significa operare una sostituzione di genitore, come se il padre potesse garantire meglio lo sviluppo di un minore, rispetto alla madre, e ignorare i desideri del minore, quanto lui chiede o chiederebbe se fosse ascoltato dal giudice, come sarebbe suo diritto, ma cosa che raramente accade”.
“Se venisse propriamente definito come trattamento sanitario (quale esso è nei fatti) ciò sarebbe illegale”, prosegue Reale, “perché questi trattamenti coercitivi sono possibili solo in alcuni casi, disciplinati dalla legge 833 del 78. Al difuori da tale legge, i bambini possono essere prelevati in questo modo solo nei casi di emergenza e urgenza, quando sono in pericolo (art. 403 codice civile). Non è questo il caso quando si parla impropriamente di violazione della bigenitorialità e di ostacolo della madre all’accesso al padre. Qui si tratta di bambini integrati, che vanno a scuola, ben curati ed amati, non certo in pericolo. Solo che non vogliono vedere i padri, e questo non è un reato. Infatti gli psicologi, arrampicandosi sugli specchi, parlano di rischio evolutivo futuro”.
“Quindi la pratica del prelievo in questi casi è illegale da tanti punti di vista, sanitario e giudiziario”, sottolinea l’esperta. “Poi se questo riguarda le donne che denunciano violenza questo equivale ad avvertirle che non devono denunciare. Le donne nei casi di violenza sicuramente non hanno un buon rapporto col padre dei loro figli, tant’è che lo denunciano, e allora perché sono colpevolizzate per questo?”, si chiede. “Viene attribuita loro la responsabilità del fatto che il bambino non vuole vedere il padre, quando quel bambino ha assistito a scene di violenza ed ha paura del padre. Sarebbe tutelante allontanarlo da quel padre, fin quando questi non riconoscesse il danno e si sfilasse dalla guerra intrapresa contro la ex-partner per sottrarre il figlio alla sua tutela”.
“Questo andamento che vuole che le donne che subiscono violenza siano penalizzate nell’ambito dei procedimenti civili per l’affido (la c.d. vittimizzazione secondaria) dissuade le donne dalla denuncia, cosa che invece dovremmo incoraggiare, per evitare i femminicidi e le violenze gravi”, sostiene Reale. “L’80 per cento circa delle donne vittime di violenza che assistiamo in pronto soccorso al Cardarelli sono madri con figli minori, quindi sono estremamente sensibili al tema dell’affido. Se a queste donne non si garantisce l’affido dei minori noi le perdiamo, diventano invisibili. Non solo la violenza resta invisibile, ma le donne si invisibilizzano, smettono di chiedere aiuto, se non garantiamo loro un processo civile giusto per l’affido”.
“Tutto quello che sta succedendo”, ribadisce, “allontana le donne dalla denuncia e le mette in clandestinità, ma anche in pericolo insieme ai loro figli. Così si fa veramente un danno alla società. Ricordiamoci sempre, sull’importanza del contrasto alla violenza contro le donne, quanto ha affermato la banca mondiale nel 2015: per sconfiggere la povertà nel mondo bisogna sconfiggere la violenza contro le donne. Non combatterla sarebbe un danno incalcolabile per l’umanità”.



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