27.6.24

Giovani sempre più boomer ? , stesse lamentele di mamma e papà: «Non voglio parlare con un robot quando chiamo il servizio clienti!»

premetto che no sono della milenianas  o della    generazione Z ma vicino ( se volete etichettarmi ) vista la mia età ai boomer . Chi ha scritto quest articolo è fazioso ed in malafede paragonare le due generazioni perchè le proteste \ lamentele dei giovani sono in parte giuste e comprensibili . Infatti con il voler semplificare troppo la vita si è perso ogni contatto umano e con il mondo reale ( e credo che se continuerà cosi l'unica attività umana che rimarrà sarà , sempre chje le macchine nonce la freghino , quella onanistica 😂😥) .




Giovani sempre più boomer, stesse lamentele di mamma e papà: «Non voglio parlare con un robot quando chiamo il servizio clienti

                                         di Hylia Rossi

Un ciclo continuo e inarrestabile. Un giorno sei parte dei "giovani", pronto a distruggere lo status quo, un cuore rivoluzionario che batte forte nel petto e il giorno dopo... ti svegli col pensiero di quel nuovo modello di lavastoviglie in cima alla lista desideri. La battaglia tra le generazioni è sempre diversa e sempre la stessa e non c'è nulla di cui sorprendersi, ma rendersi conto degli anni che passano e di somigliare sempre più ai propri genitori non è mai facile (anche se si guarda a mamma e papà come a degli eroi). Non è passato molto tempo dal trend che ha visto i social pieni di "ok boomer", due semplici parole usate da giovani e giovanissimi per sminuire le paternali e i commenti più conservatori dei baby boomer, vale a dire la generazione dei nati tra il 1946 e il 1964 (e che col tempo è stata usata nei confronti di un atteggiamento paternalistico, a prescindere dall'anno di nascita). E in questo poco tempo tanti di coloro che scrivevano "ok boomer" si sono resi conti di condividere e supportare tante lamentele proprio con i boomer che tanto criticavano. 

Gen Z e Millennial come i "boomer"

Più si va avanti con l'età e più frequentemente ci si rende conto di aver detto qualcosa che somiglia paurosamente a qualcosa che i più "grandi" dicono spesso. Le lamentele dei boomer, allora, diventano immediatamente più comprensibili. Lori ha chiesto su Twitter: «Qual è la lamentela più boomer che avete?» e sono arrivate migliaia di risposte, alcune delle quali hanno ottenuto tantissimi consensi. «Avere un hobby manuale, che non ha nulla a che fare con la tecnologia e il digitale, come lavorare il legno, cucire, disegnare e via dicendo, fa bene alla salute mentale. I social media stanno distruggendo questi hobby e spingono le persone a pensare che le uniche cose che vale la pena fare sono quelle che "vengono bene" in foto o in video e portano fama online», scrive qualcuno



Per quanto riguarda il fenomeno dei video tutorial, un utente commenta: «Il fatto che devi vedere un video per imparare a fare qualsiasi cosa anziché leggere il manuale di istruzioni mi fa bollire il sangue nelle vene. Voglio poter controllare il modo in cui entro in contatto con le informazioni e imparo, voglio poter saltare e andare alla parte che mi interessa».Ci sono poi lamentele molto più concise e che immaginiamo facilmente pronunciate da un anziano un po' burbero: «Le serie tv sono troppo scure, non si vede niente, il volume delle pubblicità è troppo alto, i fari delle macchine sono troppo luminosi», «Ci sono pubblicità ovunque. Ogni tre secondi. Pubblicità, spot, pubblicità... Basta!», «La musica di sottofondo nei ristoranti è troppo alta, non siamo mica in discoteca, vorrei riuscire ad avere una conversazione», «I bambini non imparano più a scrivere in corsivo!», «Odio i menu con il codice QR nei ristoranti, voglio quello cartaceo, fisico», «Smettetela di far uscire le serie tutte insieme! Voglio vederli piano piano, di settimana in settimana, insieme al resto del mondo, così che si possa discutere tutti insieme del nuovo episodio come si fa in una società come si deve!».


26.6.24

DIARIO DI BORDO N 58 ANNO II Speranza e nuova vita i casi di Bahara ragazza afgana giunta con un corridoio umanitario e quella di giulia Ghiretti, campionessa paralimpica di nuoto

"Ciò che conta è trovare il coraggio di rialzarsi e andare avanti, non importa quante volte la vita ci abbatterà. "
                  Charles Bukowski


Avendo sostenuto  non ricordo con precisione    quale   causa  umanitaria  del giornale   ho ricevuto  un abbonamento  gratuito  ad avvenire.it     da  cui  ho tratto queste  due  storie  piene  di speranze  e voglia  di rincominciare    come  quella  che  sto  afffrontando e  di cui  ho una  delle rara    volte, parlato nel  n  56     di questa rubrica    : <<   dopo  aver  attraversato la tempesta  e  ritornata  la  paura  ma   sono riuscito ad  affrontarla con consapevolezza >>    forse perche  come  la  protagonista  ( e  per  altri  motivi  personali ed familiari ) del primo    articolo  ho difficoltà  a   esternare le mie  emozioni   .
La prima  storia è quella di  Giulia Ghiretti,Campionessa paralimpica con un palmares di 27 medaglie internazionali, un record del mondo nei 50 farfalla in vasca corta e un titolo mondiale nei 100 metri rana, con il quale si presenterà a settembre a Parigi nei XVI Giochi paralimpici estivi sotto le insegne della Polizia di Stato, Giulia Ghiretti si racconta ad Avvenire: « Le persone disabili vanno trattate come tutte le altre. Uguale. Non mi va che mi mettano su un piedistallo, o che esaltino i miei risultati in quanto disabile».  27 medaglie e un record del mondo in vasca corta. Sarà a Parigi, ma anche in tante scuole a raccontare la paralisi dopo una caduta e la rinascita

la  

Non smette mai di sorridere, Giulia. Ogni risata scuote la massa di capelli ricci, nel verde del cortile della sua casa in una frazione di Parma che è già
campagna. « Non potrei mai vivere in città – dice -. Questo è il mio mondo». Un mondo apparentemente confinato nella villetta in cui vive con la famiglia, a fianco del casale agricolo in cui abita la nonna.
Solo apparentemente, però. Campionessa paralimpica con un palmares di 27 medaglie internazionali, un record del mondo nei 50 farfalla in vasca corta e un titolo mondiale nei 100 metri rana, con il quale si presenterà a settembre a Parigi nei XVI Giochi paralimpici estivi sotto le insegne della Polizia di Stato, Giulia Ghiretti vive tra aerei da prendere, gare da affrontare, allenamenti quotidiani da onorare. E poi gli incontri nelle scuole, che negli ultimi anni si sono moltiplicati.  Perché lei ha la sua storia da raccontare: quella di una ragazza di 16 anni, giovane atleta promettente, che in un giorno di gennaio del 2010, durante il primo allenamento dopo le feste di Natale e poco prima dei Mondiali a cui era attesa, prende letteralmente il volo sul tappeto elastico, la sua specialità, atterra di schiena e si frantuma una vertebra. Intervento, mesi di terapia. La certezza che non tornerà mai più a camminare. La carrozzina che diventa il suo “fine pena mai” (anche se lei questa espressione non la sottoscrive, perché la sedia con le ruote non l'ha mai vissuta come una prigione). E poi la scelta di tornare a fare agonismo. In piscina, però, dove si sente libera. Da allora è stato un crescendo: oltre 60 titoli italiani, un primato mondiale, titoli europei e iridati, due argenti e un bronzo tra i Giochi di Rio e Tokyo.

Giulia, la tua vicenda è diventata anche un libro Sono sempre io (Piemme, 208 pagine). Quando hai pensato di volerlo scrivere?

Non ho mai voluto! Mi ha convinto Andrea (Del Bue, giornalista e amico del cuore di Giulia, firma con lei il libro, ndr). Non mi piace parlare di me. La svolta è stata con il Covid: chiusi in casa, ne abbiamo avuto il tempo.

Lo scorso febbraio hai compiuto 30 anni. Che effetto ti ha fatto?

Traumatico. Mi sembra di non aver realizzato nulla. Di essere un po’ in ritardo.

In ritardo? Hai completato la laurea magistrale in ingegneria biomedica al Politecnico di Milano, hai vinto decine di medaglie tra Olimpiadi e competizioni mondiali...

Sì, è vero. Però dentro di me, la mia vita personale, intima, mi sento in ritardo.

Da anni giri per le scuole a testimoniare che la disabilità non limita la vita. Cosa ti piace di più dell’incontro con i bambini e i ragazzi?

Mi piace la loro spontaneità. Mi chiedono cose come: entri in acqua con la carrozzina? Perché ti metti i pantaloni se non senti le gambe? Non potresti tagliarti le gambe e metterti le protesi? I bambini non avvertono barriere. A loro cerco di trasmettere l’idea che i disabili possono fare le stesse cose dei normodotati, in modi diversi. L’importante è avere la curiosità di conoscere chi è diverso da te, così ti fa meno paura. La disabilità spaventa, sì, ma solo perché non la si conosce.

Il titolo del tuo libro è "Sono sempre io": Giulia, davvero sei rimasta la stessa che eri prima dell’incidente?

Sì, e sai perché? Perché non ho abbandonato i miei sogni. Anzi, ne ho fatti di nuovi. Per me è un sogno tutto ciò che è successo in questi anni: le Olimpiadi, i Mondiali, conoscere il presidente della Repubblica, presentare la candidatura di Parma come città italiana della Cultura… A volte penso: cos’ho fatto per meritarmi tutto questo?

Diciamo che hai trasformato la disabilità di forza. Non è poco. Pensi che grazie ai tuoi incontri nelle scuole chi ti ascolta cambi lo sguardo?

Sì, un po’. Vedo che si instaura un clima di confidenza e sono spesso i ragazzi a chiedermi come è giusto comportarsi con chi è nella mia condizione.

Per esempio, cosa non bisogna fare?

Be’, le carezze sulla testa, gli abbracci non richiesti. In generale, è semplice: le persone disabili vanno trattate come tutte le altre. Uguale. Non mi va che mi mettano su un piedistallo, o che esaltino i miei risultati in quanto disabile. Quelli che ti dicono: che brava, ma come fai... Per quanto mi riguarda, amo conservare una mia normalità.

Non ho mai abbandonato i miei sogni
Sento una responsabilità verso gli altri
Da questa carrozzina posso costruire qualcosa
Forse è questo il senso di quello che mi è successo









Dopo l’incidente hai scelto di dedicarti al nuoto paralimpico. Perché?

L’acqua è libertà. In piscina per la prima volta dopo l’incidente ho avuto piena consapevolezza del mio corpo. Fuori dall’acqua sto sempre appoggiata a qualcosa, le mie gambe pesano molto ma non ne ho la percezione. In acqua non conta più nulla, le gambe seguono docilmente i movimenti del corpo.

Senti mai di avere dei limiti?

I limiti sono fisici. Un gradino, una scala, per me sono oggettivamente altrettanti limiti, perché da sola non li posso oltrepassare. I limiti sono tutti fuori da me, o in certe mentalità che escludono i disabili. Per il resto, più che limiti io dico che esistono obiettivi.

Nel libro scrivi che quando sogni te stessa, ti vedi in piedi. Che sensazione provi?

È difficile da spiegare: sono in piedi, però magari in un punto dove c'è la ghiaia e faccio fatica a muovermi. È una situazione irreale eppure vera: oggi con la carrozzina sulla ghiaia non mi muovo.

Pensi mai che un giorno, grazie ai progressi della scienza, della medicina e della tecnologia, potrai tornare a camminare?

Quando mi sono fatta male mi dicevano che in un decennio ci sarebbero state strabilianti novità. Ne sono trascorsi 14. Uso l’esoscheletro per la fisioterapia, ma non c’è paragone con la mobilità che mi garantisce la mia carrozzina.

Nel tuo libro scrivi anche che non sai dire ti voglio bene, nemmeno a tua sorella a cui sei legatissima. Come mai?

Perché non riesco a esternare i miei sentimenti. Mi considero una persona molto riservata, a volte posso sembrare fredda e lontana. Ma a me gli abbracci piacciono tantissimo, ci sono dei momenti in cui ho bisogno del calore umano. Però ecco, i gesti sono una cosa, le parole un’altra.

Amore?

Storie sentimentali ne ho avute, ma non è facile, mi accorgo che la disabilità fa paura. Io voglio un amore come un film, ma è difficile... Poi più cresci più diventi esigente. Lo dicevo all’inizio no, che mi sento in ritardo?

Sei cresciuta in oratorio, ma poi ti sei allontanata. Cosa è successo?

Dopo l’incidente andavo a Messa e le persone venivano intorno a me, mi accerchiavano e mi sono sentita a disagio. Era il loro modo per farmi sentire la vicinanza, ma alla fine scappavo via prima che la funzione finisse. Adesso per me essere credente è voler bene e accogliere gli altri.

A fine estate parteciperai alle Paralimpiadi di Parigi, ci arriverai da campionessa in carica. Come la vedi?

Sarà molto difficile. Ho il terrore delle due atlete cinesi con le quali mi sfiderò, perché non sai cosa fanno durante l’anno, non le conosci, spuntano fuori solo alle Olimpiadi.

Insomma, nuoterai per difendere il tuo titolo?

Ora sulla carta ho il primo tempo, però so che alcune delle mie avversarie sono molto più veloci di me. Quindi, no, non mi sento una inseguita ma ancora una inseguitrice.

Che cosa ti ha regalato fare il tuo record personale nei 100 rana in finale a un Mondiale?

Una gioia indescrivibile. Ma non per il record in sé, quanto per l'idea di avere ogni volta la possibilità di superare i miei limiti. E poi, la scarica di adrenalina...

C’è una donna a cui ti ispiri?

Mia mamma. Su certe cose siamo molto simili. L’intuizione, ad esempio. Capire i bisogni degli altri senza nemmeno che li esprimano. La praticità: sa sempre cosa bisogna fare. Dopo l’incidente a un certo punto ha detto: be’ io adesso dormo due ore perché da domani ci saranno un sacco di cose da fare.

Com’è stata la tua adolescenza?

Io l’adolescenza è come se non la avessi vissuta. A 16 anni ho avuto l’incidente per cui ho dovuto reimparare tutto. Era tutto nuovo.

Hai trovato un senso in ciò che ti è successo?

In realtà non me lo chiedo nemmeno. È successo, pura sfiga. L’unica cosa che mi domando è se posso essere utile a qualcuno, se questa sfiga può dare un frutto. Se la risposta è sì, allora forse questo è il senso.

Tu sei un’atleta, sei una sorella, una figlia, una ingegnera. Tanti ruoli insieme, come ciascuno di noi. Ma Giulia davvero chi è? 

Sono una ragazza che ama sfidare i suoi limiti. E che però ha le sue paure, che talvolta vorrebbe chiudere il mondo fuori e fermarsi. Ma che sente di avere responsabilità nei confronti degli altri. Mi chiamano frequentemente a parlare della mia vita, delle mie esperienze e in alcuni casi saltano fuori curiosità su cosa c’è dietro, nella quotidianità, a una persona con disabilità. Vuol dire che trovano qualcosa di bello e di buono in me. Vuol dire che anche io, da questa carrozzina, posso costruire qualcosa.

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La  seconda   è  inve e lastoria   di  Bahara  una ragazza  Afgana  , una sintesi  nel video  sotto  ,  che  Ha lasciato famiglia e cuore nel suo Paese  (  nella foto sotto   a  sinistra   una png   da  avvenire  del 26\6\2024  sulla  situazione  in  Afganistan )   diciannove anni, afgana, avrebbe dovuto sposare un talebano sessantenne, grazie ai corridoi umanitari venerdì sera è arrivata in Italia...

Il suo nome significa "primavera", ha 19 anni e avrebbe dovuto sposare un talebano sessantenne. Ora è in Italia, vuole aiutare «le donne afghane a sentirsi libere come mi sento io adesso»
È dentro un frullato di emozioni e un altro lo ha dentro. Si chiama Bahara, che in afghano significa primavera, ha 19 anni, non è potuta più andare a scuola da mille giorni, avrebbe dovuto sposare un talebano 60enne. Scende dall’aereo, a Roma, felicemente stanca e spaesata, un misto di gioia, paura, stanchezza. È incredula, le ci vorrà un po’ per capire che non sogna e non lo nasconde: «Se qualcuno mi avesse detto un anno fa che adesso sarei stata qui in questa situazione, non ci avrei creduto, perché non avrei mai pensato di avere questa forza interiore che mi ha portata a superare tutto quel che ho dovuto superare». Allora adesso, in questo aeroporto, libera, si guarda indietro e «mi emoziono per essere riuscita a farcela nonostante tutto».


(Grazie ad Arianna Briganti, vicepresidente di "Nove Caring Humans", per la traduzione)


Va avanti. «Penso alle brave persone – dice -. Alle brave persone che sono venute in mio aiuto. Penso a loro, quando penso alla parola amore». Sistema il velo sui suoi capelli. Sorride. Le danno un pasto e dell’acqua. Le tiene la mano e la coccola Arianna Briganti, vicepresidente dell’associazione Nove Caring Humans, che seguirà Bahara nel suo futuro italiano e l’aspettava con un borsone: «Bahara non ha nulla, nemmeno vestiti», spiegava Arianna, prima che la ragazza s’affacciasse nel terminal tenendo fra le mani giusto uno zainetto, sola, in un Paese che per lei dev’essere qualcosa simile alla luna.
Non è arrivata in Italia da sola, sul volo da Islamabad atterrato venerdì sera al “Leonardo da Vinci”, con lei c’erano altri 190 profughi afghani (fra loro, 71 minorenni e 70 donne), che erano rifugiati in Pakistan dall’agosto 2021. Qui grazie ai corridoi umanitari promossi dalla Conferenza episcopale italiana (attraverso la Caritas), Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Tavola Valdese, Arci e d’intesa con i ministeri dell’Interno e degli Esteri.
Bahara ha lasciato in Afghanistan cuore e famiglia e non è stato facile. Ma non le sembra vero che ora «posso studiare, vestire come voglio, uscire quando voglio, essere libera». Il volo dal Pakistan è durato cinque ore e mezza, ha avuto tempo per riflettere e «mi sono messa a pensare a settembre, a quando sarò in classe, a come farò a diventare una studentessa modello e poi una donna che lavora, di quelle molto in gamba, molto capaci», quindi «mentre volavo pensavo a come farò a eccellere nello studio e nel lavoro».
Ne ha passate tante, troppe in 19 anni, però nemmeno ha mai pensato d’abbattersi, arrendersi, né ha mai vacillato ciò in cui crede o la sua speranza. E se adesso è felice, «continuo a sentirmi anche estremamente triste per quello che succede alle donne afghane nel mio Paese – racconta -. Non possono uscire di casa, sono costrette a umiliazioni di tutti i tipi, a matrimoni forzati». Perciò – ripete spesso Bahara - «quel che voglio fare è essere libera, ma anche aiutare le donne afghane a liberarsi come mi sento io adesso».

Con auesto è  tutto alla prossima

se gli influenzer prosperano è a causa nostra . i ferragnes tolgono i figli dai social ma i fans morbosi non ci stanno

  ecco la risposta a chi fra voi lettori e genitori mi prendeva in giro accusandomi

d'essere volgare senza e stupido senza analizzare meglio ciò che dicevo e scrivevo che tira più un pelo di figa che un bambino che muore . E' notizia e di questi giorni che I fan dei Ferragnez,non ci stanno allla decisone ipocrita avvenuta In seguito alla rottura  del loro  matrimonio ,con cui  Chiara Ferragni e Fedez hanno deciso di non condividere più sui social foto dei figli, mostrati sempre e solo di spalle o "blurrati" intenzionalmente. Una strategia curiosa (arrivata dopo interi anni di scatti insieme pubblicati su Instagram) che, stando alle indiscrezioni, sarebbe stata chiesta dal rapper al momento della separazione, per evitare che i piccoli Leone e Vittoria potessero essere strumentalizzati da una parte o dall’altra con il solo scopo di creare engagement di tutelare i bambini dall'esposizione mediatica e chiedono a gran voce il "ritorno" dei figli di Chiara Ferragni sui social.

Io avrei esposto i loro figli in rete in rete h 24 o quasi , e poi vediamo che succede se sono d'accordo e cambieranno idea .

25.6.24

assurdità della moda La Generazione Z sta pagando centinaia di euro per scarpe da ginnastica sporche per mostrare la loro ‘atteggiamento indifferente’

 Va  bene      anare  in controtendenza    ed  mostrare  l'atteggiamento  d'indifferenza  alle  convenzioni   e  ai  suoi  canoni  che  ci  vogliano  tutti perfetti ed  uguali .
 Ma  qui  si finisce    per  essere  più conformisti  del  conformismo  che si  vuole   abbattere   oltre  ad essere,  come  si diceva  un tempo   più  realisti del re  ,   inglobati  e  schiavi   dello  stesso sistema  .  Tra  le  news   d'odierne    sfogliando  il  web  Leggo   sul portale   msn.com più  precisamente  su  lifestyle/notizie  che  

La Generazione Z sta riportando in auge una tendenza millenaria ormai morta.

La Generazione Z sta gravitando intorno alle scarpe Golden Goose: scarpe progettate appositamente per sembrare logore e sporche.Il rivenditore di moda Coggles ha spiegato che lo “stile pre-graffiato esclusivo… è stato creato per dimostrare un atteggiamento indifferente piuttosto che un’estetica trasandata”.
Sebbene le scarpe dall’aspetto sporco abbiano avuto il loro momento con la generazione Y, hanno iniziato a guadagnare popolarità tra la Generazione Z l’inverno scorso e sono decollate nel 2024.Le popolari scarpe Golden Goose partono da 565 dollari sul sito del marchio e possono arrivare fino a 2.350 dollari. I designer italiani Francesca Rinaldo e Alessandro Gallo hanno fondato il marchio nel 2000, ma le loro scarpe sono state lanciate nel 2007, quando il classico modello Super-Star è arrivato nei negozi. I Zoomer hanno ricorso a TikTok per “mettere fine alla calunnia delle Golden Goose”. Un utente ha giustificato l’acquisto di scarpe che sembrano sporche perché, quando si comprano scarpe pulite, inevitabilmente diventeranno sporche.“La bellezza delle scarpe Golden Goose è che arrivano già un po’ disordinate”, ha detto. “Quindi sono fatte per essere vissute, fatte per essere indossate. Non cammini in giro e ti senti in colpa per averle ammaccate. Non cammini in giro e ti senti in colpa per averle un po’ graffiate”. Qualcuno nei commenti ha argomentato che, in questo caso, avrebbe più senso comprare scarpe usate.E i genitori non sono esattamente entusiasti nel scoprire che i loro figli stanno spendendo così tanto denaro per scarpe che sembrano sporche.Un padre ha detto alla figlia che era “pazzesca” dopo averle detto quanto ha speso per le scarpe Golden Goose. Ma la Generazione Z non si stanca di loro – non importa cosa pensino i loro genitori.Il CEO di Golden Goose, Silvio Campara, ha detto al Financial Times a dicembre che le vendite hanno mostrato che i loro clienti erano principalmente giovani – e l’80% poteva essere classificato come Generazione Z o millennials.






Ora mi  chiedo ma anziche sprecare soldi , risorse naturali ed inquinare .Perchè non ottenere lo stesso risultato indossandarne un paio vecchie e sporchè invece di gettarle via ? oppure comprarne un paio usate ?

intervista di Emiliano Morrone a Juri Camisasca «autore di vera musica sacra» Il coautore di Franco Battiato

Questa,riportata dall'amico compagno di strada Emiliano morrone per il  quotidiano 
https://www.corrieredellacalabria.it/ il 22\6\2024 ,  è stata    un'intervista difficile. Perché Juri Camisasca, che ha scritto brani meravigliosi,  per Franco Battiato ma  non solo    come dimostra      quest  elenco  preso  dalla pagina    su di lui  di wikipedia 


 è un eremita e tende a non parlare. Con lui abbiamo discusso delle trasformazioni della musica, che oggi, secondo Camisasca, è artificiale, commerciale, sempre identica, vuota. E abbiamo analizzato i segni del presente, allargando il dialogo alla necessità della pace e al senso della vita, che dura pochissimo in rapporto all'eternità. Dalle pendici dell'Etna, l'amico e coautore di Battiato ci ha dato argomenti profondi su cui riflettere. Infatti  in "Altro e altrove"(  foto  di copertina  a  sinistra  )   di  Cristian  Porcino  più precisamente   nel capitolo "La musica muore" che è un brano di Camisasca  si parla      del decadimento  totale (    salvo  poche mosche  bianche  )   della musica  italiana     negli ultimi  20\  25  anni  . 





 A   voi  l'articolo  i questione   .  buona  lettura 

LA LENTE DI EMILIANO
Juri Camisasca «autore di vera musica sacra» Il coautore di Franco Battiato: «Ho veramente la sensazione che il nostro pianeta sia una specie di esilio, un purgatorio»
Pubblicato il: 22/06/2024 – 10:52
                                         di Emiliano Morrone


Franco Battiato definiva Juri Camisasca «un autore di vera musica sacra». I due hanno condiviso fondamenti, orizzonti e dimensioni: il mistero insondabile della vita, la ricerca interiore, la musica, la pittura, il silenzio. Nel testo di “Nomadi”, fra i brani più belli e identitari di Camisasca, che spesso si ricorda nella versione di Battiato, figurano tracce dello sguardo e della direzione spirituale di entrambi gli artisti, sempre riservati nel loro privato; per esempio, il riferimento al «transito dell’apparente dualità». Per molti anni, Battiato è stato protagonista della musica italiana, che con rara voglia di sperimentare e apertura mentale ha saputo innovare nella lingua, nei ritmi, negli arrangiamenti e più in generale nei concetti. Sia per Battiato che per il suo amico e coautore Camisasca, non si può scindere l’uomo dall’artista né si riescono a disgiungere le idee e sensibilità personali dalla struttura e dai contenuti delle loro canzoni. La musica contemporanea è invece spesso regolata dalle leggi spietate del mercato, finanche prodotta da applicazioni basate su algoritmi costruiti sull’analisi di mode, gusti e tendenze dominanti. La musica dà una misura precisa delle sempre più rapide trasformazioni economiche, politiche, culturali, antropologiche e sociali in atto. Ne parliamo con Camisasca, cui diamo del Tu perché lo conosciamo.

In che epoca viviamo?

«È un caos. Io seguo in maniera trasversale quello che succede nel mondo, ma mi sembra che tutti i grandi propositi di pace e di fratellanza si stiano frantumando. Ci sono guerre che sembrano non finire più e siamo nelle mani di pazzi, praticamente. Il mondo è governato da gente che ha un ego smisurato. Sono soggetti malati, combattono per un pezzo di terra e uccidono le persone come se fossero birilli. È un mondo allucinante, se visto in questo senso. Tu apri il computer – io ne uso uno come mezzo di informazione – e ogni volta leggi notizie raccapriccianti».

Allora è un mondo condizionato dal capitalismo, orientato dall’egoismo, dall’accumulo di beni? Anche la musica si è adeguata e, paradossalmente, non è più impegnata né in grado di parlare all’anima?

«Regna il capitalismo spinto. C’è da dire che ogni musica tende a riflettere il proprio tempo. Negli anni ’70 esistevano gruppi come i Genesis, i Van der Graaf Generator, i Jethro Tull, cioè tutta gente che suonava. Per carità, adesso ci sono ancora, ad esempio, gruppi come gli U2, che sanno il fatto loro. Ma il punto vero è che la tecnologia è diventata dominante e funzionale al mercato. Ci sono app che fanno le canzoni. Se tu dai degli input, queste applicazioni ti scrivono il testo e ti scrivono anche la musica, ti mettono gli accordi e così via. In effetti, quando vado al supermercato o in qualche altra parte, sento brani musicali identici, tutti con lo stesso suono. Non esiste più ricerca musicale e la volgarità è imperante. Il rap è stata la vera rovina. Magari tanti ragazzi che si danno a questo genere non sanno cantare e vanno in crisi, se gli fai intonare una melodia. Se gli togli l’Auto-Tune, intendo dire, diventa un problema. Con questo tipo di sistema, tutti possono cantare. Però diventa un disastro se il software va in tilt, come successo tempo fa. Queste tecnologie stanno rovinando anche il gusto di creare e la creatività in sé».

Juri Camisasca e Franco Battiato

Quanto è importante il canto?

«Cantare è innato nell’uomo, è piacevole. Se canti, è perché stai bene oppure perché hai voglia di stare bene. Una persona che sta male non canta. Se sei triste, il canto ti aiuta anche a trovare un po’ di serenità. Cantare ti consente di esprimere una parte di te che sul piano razionale non puoi manifestare. Il canto è l’elemento di comunione e di comunicazione per eccellenza. Il pensiero e la razionalità dell’uomo hanno dei limiti. Con il canto, invece, generi e trasmetti emozioni all’esterno, quando è fatto in una certa maniera. Molti ragazzi, invece, esprimono soltanto rabbia, quando cantano. C’è molta rabbia nelle musiche dei rapper. È raro, oggigiorno, ascoltare un canto alla Leonard Cohen, che parli all’anima e sia poesia. Ecco, oggi non c’è più poesia e i testi delle canzoni sono spesso di una violenza e di una volgarità indefinibili».

La contemporaneità è segnata dal caos e del rumore. A un certo punto, però, tu hai deciso di sganciarti, di condurre una vita eremitica pur mantenendo la tua presenza artistica.

«La musica e il lavoro di iconografia cui mi dedico sono in realtà di contorno al vero impegno della mia vita, che è la ricerca interiore. Prima di tutto, io sono un uomo di silenzio, un uomo che cerca di dare un senso al proprio esistere, che è un baleno. La nostra vita è un attimo. Che cosa è questo flash che stiamo vivendo? Veniamo da non si sa dove, prima non c’eravamo e poi non ci saremo. Ora, che cosa è questo attimo che noi chiamiamo “esistenza”, che può durare 20, 50, 70, 90, 100 anni, cioè niente in rapporto all’eternità? È questo ciò che mi interessa. Io conduco una ricerca interiore, consapevole che finché si cerca non si trova. Allora si tratta di lasciar decantare tutto un sistema di intellettualismo che ci opprime, affinché sia il silenzio a darci la risposta su ciò che siamo. In effetti, quando si vive una vita di silenzio e di solitudine come la vivo io, ci sono momenti in cui si ha come una sorta di apertura, una specie di conoscenza che è trascendente. Lì ti rendi conto di chi sei realmente e sperimenti un’espressione della vita unica».

Che cosa ne ricavi?

«A me interessa questo. Poi, quale sia il beneficio non importa. Non so perché io abbia compiuto questa scelta; noi veniamo portati in certo modo a delle scelte. Personalmente, non so fino a che punto la mia vita possa essere utile agli altri. Tuttavia, le persone che incontro avvertono, credo, che io vivo in una dimensione diversa».

Quanto è difficile, Juri, seguire la strada del silenzio, in un mondo, in un tempo in cui il rumore sembra camminare insieme al vuoto?

«Per me non è difficile. C’è un motto secondo cui tu devi avere la capacità di mantenere il silenzio e la solitudine anche se vivi in una metropoli, anche se vai in una grande città. Io vivo in solitudine e silenzio alle pendici dell’Etna. È da 30 anni che sono qui da eremita, e prima sono stato per 11 anni in una comunità, in un monastero. Segui un cammino perché hai avuto delle indicazioni, è la vocazione. Io affronto con coraggio questa mia esperienza e sento che la provvidenza mi sta facendo percorrere un cammino. Allora non mi sento mai da solo, ma mi sento in comunione con la vita».

L’emancipazione dall’incubo delle passioni è il tuo punto in comune con Franco Battiato?

«Le passioni si staccano nel momento in cui hai un’esperienza spirituale. Franco ha avuto il suo percorso, io sto facendo il mio. Finché la passione resta un incubo, vuol dire che ancora ti condiziona. Emanciparsi dall’incubo delle passioni è un passo automatico che viene senza sforzo, quando ti dedichi seriamente alla meditazione, alla quiete mentale. Adesso bisognerebbe fare un discorso molto lungo, alla ricerca del sé, di quel sé che non è Dio ma è il sé di Meister Eckhart e di Ramana Maharshi,  
il sé che ti permette di esistere. Mi riferisco al silenzio, tu ci entri in contatto e basta una goccia di questo nettare e la vita diventa un’altra cosa. Quindi per me non è assolutamente difficile condurre una vita silenziosa. Anzi, a volte non capisco come possano gli altri vivere nel caos; certe volte mi chiedo come si faccia a vivere nella confusione, a non prendere le distanze dal rumore e dal disordine».

Quanto ti manca Franco Battiato? Per inciso, oggi si ascoltano indistintamente artisti come Battiato e De Andrè e cantanti di immagine come Achille Lauro e Rosa Chemical. Tutto e tutti sullo stesso piano, insomma, in nome dell’abbondanza delle merci, che poi viene ricompresa nel concetto di democrazia.

«Oggi non si ascolta più la musica, diventata un sottofondo per mangiare la pizza o per fare altro. Di Franco si sentono di solito i brani più commerciali, tipo “Bandiera bianca”. È difficile che si ascolti, per esempio, “L’oceano di silenzio”. Non riesco a quantificarti quanto mi manchi Franco. Eravamo molto in simbiosi e a volte mi sento solo, quando penso a lui. Se avverto il bisogno di parlare con qualcuno, allora Franco mi manca e come, anche se sono immerso in una solitudine mistica. Da un punto di vista artistico, poi, Franco ha lasciato un vuoto incolmabile».

Si ascolta soltanto se stessi, dunque?

«Non c’è più educazione all’ascolto, questo è il tema. L’educazione all’ascolto diventa, poi, anche educazione all’ascolto della musica. Nel presente la musica è perlopiù un sottofondo che si sente nei bar, nei supermercati e così via. Chi si mette ad ascoltare un corale di Bach? La gente non ha tempo; ormai c’è una frenesia totalizzante, perciò bisogna rallentare».

Fretta, rumore e confusione. Di contro, vita eremitica e ricerca del sé. Ma come si fa a tenere i rapporti con il mondo, a intervenire per cambiarlo, migliorarlo?

«Come potrei essere utile, con la mia vita, a questo mondo? Che segnali mando agli altri, io che vivo qui nella solitudine? Io vivo nella solitudine ma sento tutto il peso del mondo, e questo gli altri non lo sanno. Che cosa stanno facendo quelli che vivono insieme e conducono battaglie? Spesso, purtroppo, si fanno male tra di loro. Qual è la loro utilità? Dalle loro battaglie che cosa ricavano? C’è un detto di Evagrio Pontico secondo cui l’eremita è colui che vive separato da tutti ma è unito con tutti. Io sento il dramma del mondo e credo che questo sentire il dramma dell’umanità, in un certo qual modo, è come se mi portasse a neutralizzarlo in un’altra maniera, come se fossi una carta assorbente».

Cioè?

«Ci sono persone che si impegnano nella creazione del male e mettono disordine. Ci sono persone, invece, che, conducendo una vita tranquilla, cercano di equilibrare quel disordine. Noi a volte diamo forse un po’ tutto per scontato, a partire dai nostri gesti quotidiani. Ma c’è un universo che si esprime in molteplici facce. La vita è sempre un mistero, come lo è il problema delle guerre. C’è un passo biblico, di Isaia, in cui il Signore afferma di portare la pace e di scatenare anche la guerra. Secondo Gurdjieff, di cui conosci la filosofia, siamo come delle macchine. Allora il male nel mondo emerge perché, evidentemente, ci sono delle forze, delle entità che governano chi gestisce il potere. Perciò, siccome stiamo nel mistero, io vivo il mistero di questa esistenza sulle tracce che essa ha segnato per me. Ora, io non so in che maniera posso essere utile; penso che la mia vita possa essere anche inutile, ma sono anche a contatto con delle persone. Non ho la popolarità di Vasco Rossi ma, un po’ come santa Teresina del Bambino Gesù, sono una piccola fiammella che magari cerca di accenderne un’altra e così via».

Che cosa intendevi dire, nel tuo brano “Il sole nella pioggia”, cantato anche da Alice, con l’espressione «quelli che sanno le cose non parlano»?

«Il mistero della vita è talmente grande che tu, da un punto di vista razionale, non lo puoi esprimere mai. Non ci riesci perché non hai strumenti, non hai il vocabolario, ti manca la parola per dire ciò che effettivamente senti e vivi. La vita è un mistero insondabile. E la nostra Terra è un granellino di sabbia in una distesa sterminata di pianeti. Allora l’unica salvezza è meditare, ma senza arrivare a conclusioni filosofiche. Con la filosofia ci si può ingarbugliare; con la meditazione riusciamo a ottenere una mente tranquilla, serena, libera, capace di meravigliarsi della natura, dell’altro, dell’attimo. Ecco il senso della poesia, della vita, che dobbiamo recuperare. Lo scienziato vede una pesca e la analizza chimicamente. Il mistico, invece, la prende, la mangia e la gusta».

Qual è la tua speranza per il futuro comune?

«La mia speranza è legata a un pensiero, espresso in modi diversi da san Paolo, Sri Aurobindo e Pierre Teilhard de Chardin, che poi ho inserito nel brano “Il sole nella pioggia”. Mi riferisco alla frase «l’universo geme nelle doglie del parto». Ora, riguardo a questo universo, chiamiamolo Terra per semplificare, possiamo leggere un’evoluzione in atto, che include anche la guerra. Può darsi, cioè, che i fatti tragici stiano accadendo perché devono essere parte di una trasformazione profonda. La mia speranza è, dunque, che ci sia un mondo di pace. A volte, però, ho veramente la sensazione che il nostro pianeta sia una specie di esilio, un purgatorio. E non ho le risposte, ma mi sento come una formica che vive in questo mondo. Attenzione, per me si tratta di una condizione di crescita, ma mi cadono le braccia quando accendo il computer e vedo guerre, rumore, caos, rabbia e vuoto».

Guerre, rumore, caos, rabbia e vuoto che entrano nella musica?

«Certo. Tu prendi Sanremo, che io non guardo più da almeno 20 anni. Apri il computer e trovi subito le notizie del Festival, poi vai su YouTube e ascolti i brani, che con la musica non c’entrano più niente. Lì fai successo se crei scandalo con la tua immagine, se produci audience. La canzone è invece un orpello». (redazione@corrierecal.it)


24.6.24

DIARIO DI BORDO n 57 ANNO II La prepotenza normalizzata alla base dei femminicidi non solo patriarcato e Perché ci interessa l’opinione del carnefice?



per la rubrica diario settimanale proviamo ad analizzare con due articoli le radici culturali \ antropologiche dellla violenza di genere \ femmnicidio .
Il  primo    è   un articolo   Viviana Daloiso su il quotidiano www.avvenire.it   di quasi  un anno  fa  ma    sempre  valido ,   opposto  certamente   alla  miia  formazione  culturale  ,  ma    con molti  punti  in comune ecco  la risposta  a chi  ancora mi  chiede   del nome  dei  due  blog    compagnidiviaggio e    compagnidistrada   )  in quanto   le radici    \  origini  del  fenomeno femminicidio  non è  solo  (è  vero  , ma   è tropo riduttivo per definire  un  fenomeno cosi  radicato  e  variegato  )  patriarcato  .  Il secondo     della newsletters    Heavy Meta di Lorenzo Fantonik    ed  analizza  e  qui  mi ricollego agli  articoli  sull'orribile   morte   ennessima  vittima  del  caporalato ,    Satnam Singh  condivisi  sia   sul mio  fb   sia questo   : <<   Fragole  ( e non solo )  rosso sangue, l’Italia è fondata sull’ipocrisia da  https://www.thesocialpost.it/  >>   sul blog e  questi miei  ultimi due   post sul  femminicidio     : <<   a  che  punto  è la  morbosità  sui  femminicidi . basta  parlare  di filippo  turretta  e  giulia  cecchetin  .   lasciamo in pace la  famiglia   e  Cagliari ennesima donna morta di prepotenza maschile e domestica) 
>> per rimanere in tema femminicidio


                              La prepotenza normalizzata  

  Il bimbo – ha 8 anni appena compiuti, è di buona famiglia – torna dai tappeti elastici sulla spiaggia della Romagna felice di aver giocato coi grandi di 10 o 11. Ripete di aver imparato che bitch[*] vuol dire donna in inglese e si arrabbia quando la mamma scuote la testa, «sono stupidate. Non dirla mai più». Ma la parola resta, gira nelle canzoni, torna nei discorsi davanti al cellulare, nelle chat, nei nomignoli delle prime piccole compagnie, bro e bitch, “fratello” per i maschietti e “prostituta” per le femminucce. Dove comincia, e come si forma, l’idea che gli uomini hanno delle donne oggi ? 
Lo sappiamo? Ce lo siamo davvero mai chiesti, in anni di femminicidi, e di stupri, violenze, abusi? Dei danni gravissimi che la disparità di genere – diminuita certo, ma mai annullata – stava compiendo nel nostro Paese, esperti e associazioni e operatori impegnati sul campo a curarne le ferite (per lo più donne, ovviamente) parlano da anni. Inascoltati. Più spesso, trattati come pasdaran, talebani del femminismo, esagitati accecati dall’ideologia anti-patriarcale. Vengono in mente certe accuse di esagerazione e certi dibattiti surreali innescati dalle “palpate” andate in onda persino in diretta tv, per poi essere sminuite nei tribunali: « Non c’è niente di male, suvvia». Perché tra la palpata e lo stupro, s’è sentito dire, c’è differenza. La cruda verità invece è che quel che accaduto a Palermo quest’estate non è un fatto nuovo, non dovrebbe sconvolgerci. Così come non dovrebbe sconvolgerci che in queste ore, sui social, dove è scattata l’indegna caccia al video delle sevizie subite da una ragazzina di 19 anni da parte di un branco di coetanei, compaiano i messaggi insopportabili degli stessi autori di quella violenza: «Quando tutta Italia ti incolpa per un fatto privato, ma nessuno sa che sei stato trascinato dai tuoi amici» (faccina che ride di contorno).
Roba mia, lo stupro. Roba mia, una donna. E «non ho fatto nulla di male», «sono stati i miei amici a dirmi che lei ci stava». I miei fratelli, appunto, e là fuori le prostitute, o le donne, che è lo stesso. Oggetti inanimati da manipolare e usare, palpare, abusare, calpestare. Quando non vanno bene o si ribellano, da minacciare, picchiare, uccidere. Anche questo, è lo stesso.
Se il dato drammatico con cui dobbiamo fare i conti è la “normalizzazione” della violenza sulle donne – questa concezione maschile generalizzata e ancora diffusa tra le nuove generazioni che le riduce a cose e come cose le usa e getta – si deve tornare alla domanda iniziale: sappiamo quando Angelo, Gabriele, Cristian, Elio (sono i nomi di alcuni fra questi stupratori, valgono per tutti gli altri, da Primavalle in giù) hanno iniziato a pensare che una ragazza, una donna, se la fai bere, te la puoi portare nel pertugio d’un cantiere e seviziarla in ogni modo, per ore, senza pensare di far nulla di male? Sappiamo come è cresciuta in loro quest’idea? Cosa l’ha nutrita? La sensazione è che no, non lo sappiamo. Perché per troppo tempo non ce lo siamo domandati. Abbiamo lasciato correre, sull’educazione alla parità di genere, pensando che sia un fatto di statistiche se le donne non ricoprono incarichi di potere, se sono escluse da certi percorsi di studio o di lavoro, se si fanno carico quasi del tutto degli oneri familiari e di quelli di cura parentale, se sono pagate sistematicamente meno dei loro colleghi uomini. Abbiamo chiuso un occhio sulle pubblicità, e l’immagine del sesso femminile veicolata dai media e dalla tv, per non essere tacciati di moralismo negli anni della rivoluzione dei costumi. Ci siamo ripetuti che non c’è niente di male, se nei testi della musica trap che i nostri figli divorano si parla di droga, di stupri, di violenze, perché sono solo canzoni, e in fondo anche noi le ascoltavamo quando avevamo la loro età.
Da cosa è nata cosa. In seno alla disparità nel corso degli anni è cresciuto prima il senso di superiorità, poi il disprezzo, infine la violenza e l’odio, col senso di impunità. Le statistiche sono diventate carne, figlie e madri e sorelle stuprate, picchiate, uccise. Volti e vite spente per sempre, come quella di questa ragazza di Palermo, che con la vergogna di una violenza indicibile dovrà convivere per sempre. Ora – giustamente – invochiamo in ogni dove percorsi di formazione nelle scuole per invertire la tendenza e rimettere nei nostri figli la luce del rispetto delle donne, come se ad ogni angolo di strada ci fossero educatori e docenti pronti con la bacchetta magica a scambiare due ore di geografia con due di educazione alla parità dei diritti. E come se due ore, o quattro, bastassero.Nell’Italia in cui cresceranno, però, quella parità, pur con tanti progressi, non è ancora raggiunta. Il cambiamento culturale che faticosamente cerchiamo e che è pur cominciato deve essere costruito prima (prima che nelle scuole e prima degli stupri e dei femminicidi) e altrove. Non deve essere più, mai più – da adesso, a ogni livello, in ogni casa, ufficio, tribunale, circolo, palestra – normale che una donna valga di meno. Se provassimo, ciascuno per la sua parte e per il suo ruolo nella società, a ricominciare da qui?




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Perché ci interessa l’opinione del carnefice?



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Perché ci interessa l’opinione del carnefice?

Ogni atto violento o gesto aberrante porta con sé la voglia di far parlare chi lo ha commesso, a volte è informazione, a volte è solo intrattenimento.

In queste ore è stato pubblicato il Digital News Report di Reuters, uno strumento importante per capire come cambia il mondo dell’informazione in tutto il mondo, perché fornisce dati sulle tendenze globali e indicazioni su quelle nazionali. E se in tutto il mondo è evidente lo spostamento dell’informazione verso piattaforme sempre più disintermediate dove la possibilità di mostrare ciò che non viene visto in televisione o sui giornali convive con la paura delle fake news e delle IA che intorbidiscono le acque, in Italia si nota un crollo abbastanza netto dell’importanza del medium televisivo. La TV era la principale fonte d’informazione per l’85% del campione nel 2017 mentre oggi lo è per il 65%, con la maggior parte dei più giovani che oggi preferiscono informarsi su YouTube, TikTok e addirittura social chiusi come i gruppi di Whatsapp e Telegram.E interessante anche notare che la TV ha una raccolta pubblicitaria che è il 29% del totale, mentre il 58% spetta alla pubblicità online, e che di questa cifra l’85% finisce in tasca a Google e Meta e solo il resto va a gli editori. Quindi si spende tanto in pubblicità online, ma quei soldi poi non alimentano il sistema dell’informazione, ma solo chi col tempo ci ha costretto al ricatto della SEO e degli algoritmi.Che poi è il principale motivo per cui nel passaggio dal giornalismo tradizionale a quello online il settore è colato a picco e oggi è praticamente impossibile campare con la professione: il sistema economico che prima garantiva sussistenza è oggi completamente in mano alle piattaforme.Ed è anche lo stesso motivo per cui magari chi vuole fare informazione a qualsiasi livello, che si parli di attualità, giornalismo tech, notizie di cinema o analisi di moto, forse preferisce farlo cercando di diventare un content creator in quella nicchia (con tutti i pro e contro del caso nei rapporti con le aziende), scartando fin da subito l’idea di provare a entrare in una redazione.Se le percentuali di riuscita sono altrettanto basse, forse meglio provare a diventare Breaking Italy e non l’ennesimo tizio che può essere sostituito o fare la fine della redazione di Hollywood Reporter Roma, che è al terzo sciopero.Ah e se pensate che gli abbonamenti siano la soluzione… beh non è detto. Forse, se il progetto è piccolo e può contare su uno zoccolo duro di appassionati, forse.

Le passioni del caporale

La morte di Satnam Singh nell’Agro Pontino è il classico caso che scoperchia temporaneamente una situazione che la maggior parte delle persone che non vivono la realtà locale ignora, fa finta di ignorare o ritiene accettabile. Moltissime sono le analisi che in queste ore ci mostrano quella è che a tutti gli effetti una realtà di schiavismo, sfruttamento, totale mancanza di rispetto per la vita umana, razzismo e il risultato del capitalismo a ribasso di cui, ci piaccia o meno, siamo in qualche modo complici.A me interessa invece capire alcune scelte fatte nel raccontare questa storia, che sono scelte che hanno molto in comune con un altro momento in cui c’è spesso disparità di trattamento tra vittima e carnefice, una disparità che è culturale ma anche narrativa. Anche perché il problema delle vittime è che non parlano più, debbono farlo gli altri. E spesso a farlo è chi le ha uccise.La ricostruzione della morte di Singh mi ha ricordato il consueto teatrino dei femminicidi, in cui una delle prime cose che si fanno è cercare di ricostruire le ragioni dell’assassino, il contesto in cui si è mosso il gesto violento, che è quasi sempre trattato con eccezionalità e non come il frutto di una realtà sistemica, reiterata, protetta, nascosta e giustificata.Una “leggerezza” come l’ha definita il padre del padrone dell’azienda in una intervista ormai diventata parte del terribile quadro in cui si muove il processo mentale di prendere un tizio col braccio mozzato, togliere i telefoni a chiunque fosse presente, scaricarlo a casa, lasciare il braccio vicino a un cassonetto e scappare.E in tutto questo mi cade l’occhio su un articolo di Repubblica Roma che titola “Le due passioni di Antonello Lovato, il proprietario della ditta per cui lavorava il bracciante morto” Ma sul serio?Abbiamo nome e cognome del padrone della ditta e poi “il bracciante morto”?Mi secca ripetermi ma per l’ennesima volta questo è perfetto caso di framing, ovvero di come la notizia viene incorniciata, con nomi e cognomi da una parte e generici braccianti morti dall’altra. Morto, come se l’omissione di soccorso fosse un dettaglio.

Framing, come ti incornicio la notizia

L’articolo adesso non si trova più, o meglio, se ne trovano i resti, ma poi dev’essere stato modificato con una impostazione più generica per dare un profilo del personaggio. Quello su cui mi interessava riflettere era il perché si arrivi sempre a questo punto: lo storytelling dei carnefici o presunti tali, la profilazione che si fa narrazione, il dettaglio delle loro passioni, dei loro interessi, delle loro vite apparentemente comuni e poi magari del fatto che hanno pianto in tribunale, che si disperano, che mangiano.Da una parte potrebbe anche essere utile e necessario per mostrarci che l’abiezione spesso non ha il volto del cattivo del cinema, non c’è un tizio che ride sguaiatamente vestito come il joker, ma uomini normali, banali, semplici, ritenuti magari amici tranquilli e padri amorevoli, ma capaci di applicare logiche schiaviste o accoltellare l’ex moglie. Purtroppo, però questo scatto non arriva mai. C’è sempre il raptus di follia, il momento eccezionale, quandi invece è tutto molo banale.Sicuramente c’è l’antico gusto di sbattere il mostro in prima pagine, il nostro bisogno di vedere in faccia questa gente e sperare che non sia come noi, per assolverci, confortarci o per cercare i motivi eccezionali di una tragedia. Un po’ di gogna pubblica ci sta, ci piace e nel giornalismo contemporaneo abbiamo gli strumenti seo che ci indicano quanto il colpevole sia cercato su Google. Il che rendo un articolo su suo profilo un gesto economicamente sensato.In fondo è giornalismo no? Se qualcuno vuole saperlo io glielo devo dire (peccato che non sia vero e che in alcuni casi le identità delle persone indagate vadano protette, ma qua pare fantascienza).Ma perché il taglio dev’essere quello in cui mi racconti “le sue passioni”? Io non lo so, vi giuro, non lo capisco, non capisco mai se dietro queste scelte c’è un tentativo di normalizzare il tutto, se il nostro disprezzo per minoranze e diversi sia tale per cui ci interessa solo la persona coinvolta che più ci somiglia o cosa, se è leggerezza, calcolo, fretta.