18.3.13

ABBIAMO UN PATRIMONO MA NON LO SAPPIAMO SFRUTTARE Monte Prama, i giganti sprecati «Siamo sul tesoro e litighiamo»

La sardegna posssiede    quelli che possono essere chiamati \ paragonati a tutti gli effetti  I Bronzi di Riace Sardi ma  fra  campanilismi  del  tipo  , no  gli voglio io , no spettano a me  non riusicamo ad  esporli al pubblico (  se  non  per  una sola  volta  al centro di restauro presso sassari )  e li tieni chiusio dentro  qualche magazzino  ion attesa  che si decida  se  esporli in futuro museo   nel luogo in cui sonomstati   trovati o in qualche altro  museo  o a Sassari  o  cagliari .
Concordo con quanto dice  questo appello  del  rettore Melis appello per valorizzare i monumenti  riportato dall'unione sarda  del 17\3\2013


Convegno all'Università di Cagliari per la pubblicazione dei saggi sugli scavi
Monte Prama, i giganti sprecati «Siamo sul tesoro e litighiamo»

Dal rettore Melis appello per valorizzare i monumenti Sarà che sono dei giganti, e in quanto tali inevitabilmente ingombranti, ma dei monumenti di Monte Prama si è parlato a lungo, nel convegno cagliaritano di ieri in Rettorato, e non soltanto in termini scientifici.
Certo, le relazioni e la tavola rotonda che hanno accompagnato la presentazione di “Giganti di pietra” - l'accurato volume che l'editore Fabula ha dedicato al sito archeologico del Sinis - hanno approfondito il contesto storico in cui le sculture vennero realizzate. Ma nel suo saluto il rettore cagliaritano Giovanni Melis ha tratteggiato in modo piuttosto ruvido e diretto la penombra in cui i giganti oggi rimangono.
Ricordando di aver visto le statue pochi anni fa nel centro di Li Punti accompagnato dal rettore sassarese Attilio Mastino, Melis si è domandato: «In quale altra parte del mondo ci si permetterebbe il lusso di non valorizzare questi monumenti, né di garantirne la fruibilità a visitatori e studiosi? Io mi auguro che questo convegno ci aiuti a superare certi ostacoli tipicamente regionali e provinciali», dove se il primo aggettivo è di carattere territoriale, il secondo suona più come un apprezzamento negativo sulle dinamiche che si sviluppano a volte fra centri di potere e di sapere. La conclusione del saluto di Melis ai convegnisti invece non ha alcuna sfumatura da interpretare: «Abbiamo un patrimonio sommerso che preferiamo disputarci piuttosto che valorizzare».
Non è chiaro, in tempi di crisi diffusa e di sforbiciate crudeli alla cultura e alla ricerca, quali possano essere le prospettive per la valorizzazione - perché no - turistica oltre che scientifica di queste statue così imponenti e suggestive e del sito dal quale emergono.
Di sicuro sono passati 39 anni da quel giorno di marzo quando l'aratro di un contadino andò a sbattere su un gigante che quasi affiorava dal terreno. Considerarli una ingombrante novità che ancora non si sa come gestire sarebbe, come dire, una forzatura.
Che il problema non sia l'indecisione ma casomai la scarsità delle risorse lo ha chiarito poco dopo - in assenza del soprintendente per i beni archeologici Marco Minoia - la dottoressa Miriam Usai, che nel suo intervento ha accuratamente ripercorso le tappe degli scavi che dagli anni Settanta riportarono alla luce il patrimonio di Monte Prama e la successiva fase di restauro. Il registro dei visitatori - ha sottolineato - testimonia come i giganti non siano rimasti inaccessibili.
E le difficoltà nel sostenere la ricerca vanno di pari passo con quelle che in questa fase attraversa l'editoria - come ha spiegato il professor Guido Clemente, intervenuto a nome dell'editore, suo fratello Enrico. Ma i problemi che l'indebolimento del tessuto sociale crea non hanno inciso sulla qualità della pubblicazione, realizzata coinvolgendo i protagonisti degli scavi e secondo criteri di profondo rigore.
E mentre il mondo di oggi si interroga su come valorizzare il passato, quello di ieri dalle relazioni che si sono susseguite nell'aula magna del rettorato emerge in tutto il suo fascino complesso. La relazione del docente dell'ateneo sassarese Raimondo Zucca ha disegnato un Sinis capace di assorbire influssi e suggestioni culturali di altre zone, remote solo geograficamente. Dal gusto cipriota dei tripodi sui quali si lavora per poterli presto esporre al pubblico fino all'orientalismo del leoncino accucciato che costituisce il manico di pugnale - o di specchio - all'attenzione degli studiosi, tutto nella messe di reperti illustrata ieri racconta non un lembo di terra marginale, ma la penisola di un'isola al centro di un Mare intensamente frequentato.
E l'influsso estetico del Vicino Oriente riemerge anche nella relazione del professor Carlo Tronchetti, che legge i giganti come emblemi oltre che custodi delle virtù - la pietas religiosa e il valore guerriero - attribuite alle famiglie sul cui riposo vegliavano. È in questo quadro di valori che si sviluppa il processo di rifunzionalizzazione dei nuraghi, in molti casi destinati inequivocabilmente ad accogliere pratiche e momenti spirituali di un popolo molto meno isolato e culturalmente autarchico di come si è portati a immaginarlo.
Il Sinis, insomma, come tessera particolarissima del complesso e multicolore mosaico nuragico, come ha suggestivamente riassunto il dottor Alessandro Usai della soprintendenza cagliaritana. Un intervento, il suo, incentrato non solo e non tanto sulle risultanze degli scavi effettuati finora, ma sulle opportunità scientifiche e storiografiche che un'esplorazione più completa del territorio garantirebbe.
Una caccia alla storia da condurre «pietra per pietra» e passo dopo passo, calandosi innanzitutto come escursionisti attenti fra quelle colline e quei rilievi per individuare quale possa ancora nascondere un nuraghe o magari una di quelle tombe dei giganti che, a dispetto del nome, proprio nella penisola dei Giganti di pietra finora sono emerse con frequenza minore rispetto a molte altre zone dell'Isola.
Ma non di sole tombe vive la ricerca archeologica, né di soli monumenti. L'intensa presenza nel Sinis, il suo svilupparsi in una rete di microcomunità - con insediamenti anche minimi, a volte di una sola capanna - ricorda a chi conduce i sopralluoghi sul campo quanto fosse intensa l'attività di trasformazione del suolo da parte degli antichi sardi.
Una propensione a modificare, plasmare in profondità il territorio tale che «viene quasi da immaginare che i nuraghi, tutto sommato, li costruissero per riposarsi».

Celestino Tabasso

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