30.6.23

Sono sempre bei tempi la storia di Luigi Luini

C’è un uomo che da 78 anni ogni notte si alza, accende il forno e fa felici tutti quelli che passano dal suo panificio. È Luigi Luini che domani compie 92 anni e che nella sua lunga vita ha visto Milano cambiare ma non ha mai perso la convinzione che “sono sempre bei tempi”

ecco  la storia  di  questa  settimana    della  newsletters     altre storie     rubrica   di  Mario Calabresi


«Una volta mi alzavo alle tre di notte per fare il pane. Adesso alle due sono già sveglio: passano gli anni e dormo sempre meno. Mi giro e rigiro nel letto ma non vedo l’ora di alzarmi. Alle cinque scendo, sono sempre il primo ad arrivare. Controllo che sia tutto a posto, che non manchi nessun ingrediente. E poi accendo il forno».


Luigi Luini


Domani, sabato primo luglio, Luigi Luini, professione panettiere, compie 92 anni. È un pezzo della storia di Milano, il suo negozio dietro il Duomo resiste dal 1949 e i suoi panzerotti sono famosi in tutto il mondo. Non esiste giorno in cui non ci sia la fila davanti alla sua vetrina. Il signor Luini ha cominciato a lavorare quando aveva 14 anni e non è mai veramente andato in pensione: «Al mio sessantacinquesimo compleanno tutti mi chiedevano quando mi sarei ritirato e io rispondevo: “Ho il contratto fino a ottanta” e poi lo prorogo ogni anno».
Il suo negozio per me è un luogo del cuore. Quando ero studente di liceo, saltavo spesso la scuola per andare all’emeroteca della Biblioteca Sormani a leggere i giornali degli anni Settanta. Volevo capire la nascita degli anni di piombo. Era un’immersione nel passato, faticosa e certi giorni anche dolorosa. Quando uscivo avevo bisogno di qualcosa che mi facesse stare bene, e allora avevo il mio piccolo rito: andavo a prendere due panzerotti mozzarella e pomodoro da Luini. Erano sempre bollenti, e d’inverno, quando gli davi il primo morso, fumavano. Mi facevano felice, e ancora oggi è così. Negli anni ho conosciuto il signor Luini, siamo diventati amici e sono stato il primo cliente a entrare nel suo negozio il giorno che ha riaperto dopo il primo lockdown. Questa settimana mi sono presentato alle sette e mezza, mi sono infilato sotto la saracinesca, che era ancora mezza abbassata, per fargli gli auguri e per farmi raccontare la sua storia.


L’ingresso del panificio Luini in una foto degli anni ‘70


Con lui c’è sempre la signora Anna, con cui ha festeggiato 53 anni di matrimonio: «Mi sono sposato tardi, avevo già 39 anni, ma lavoravo e basta e non avevo occasione per fare conoscenze. Poi, un giorno, ero a casa di mia mamma Giuseppina e sulle scale incontriamo la figlia della sua vicina, che aveva 25 anni. “Guarda che bella ragazza - dice mia madre - te la devo presentare”. E così abbiamo cominciato a uscire insieme». Nel 1970 si sposano, il viaggio di nozze nelle Dolomiti è la prima vacanza della vita di Luigi, l’anno dopo arriva Cristina, la prima figlia, e poi nel ‘74 Emanuela. La signora Anna lo convince che ad agosto bisogna chiudere e andare in vacanza, che esiste il mare, e chiede che smettano di abitare sopra il negozio, ma almeno a una distanza di quindici minuti a piedi.
La sua è una storia di fatica, ma con un'accezione positiva del termine. «Mia madre lavorava fin da giovanissima nella trattoria dei suoi genitori a Codogno, lì una domenica ha conosciuto mio padre, che faceva il panettiere. Era la metà degli anni Venti. Alla fine della guerra c’era una grande energia e la sensazione che tutte le occasioni fossero a Milano. Io e le mie sorelle convincemmo mamma e papà a trasferirci e trovammo un negozio in Piazzale Bacone. Io avevo quattordici anni ma nessuna voglia di studiare. Mio padre, quando lo capì, disse una frase soltanto: “Se non studi, ti alzi la notte”. Dal giorno dopo cominciai a lavorare con lui».


Una foto storica del laboratorio del panificio durante la preparazione dei taralli pugliesi


Nel 1949 si spostano in via Santa Radegonda, a poche decine di metri dalla Galleria Vittorio Emanuele, nel centro più centro di Milano: «Erano case popolari, qui abitava la gente comune, non c’era mica la moda. Le famiglie affittavano una camera e la persona più illustre del palazzo era il maestro di canto dell’ultimo piano. Accanto a noi c’era la latteria, poi un fruttivendolo, un barbiere e un elettricista. Questo era il centro di Milano. Tutto è cambiato negli anni Ottanta, sono cominciate le grandi ristrutturazioni che hanno espulso il popolo».
Il signor Luigi ricorda ogni decennio, l’eco della strage di Piazza Fontana, la folla dei funerali in Duomo, la bomba fuori dalla Questura in via Fatebenefratelli - «Sono passato di lì con la Vespa pochi istanti dopo, stavo portando il pane a un ristorante» -, l’arrivo delle boutique di lusso, i turisti giapponesi che hanno cominciato a fotografare il suo negozio. Gli chiedo se abbia rimpianti, quale sia stato il decennio più bello: «Sono sempre bei tempi. Sono stati tutti belli, mica solo quelli in cui si è giovani. Quando guardo le mie figlie che mandano avanti il negozio e fanno migliorie e innovazioni sono contento».

Il panificio Luini il giorno della riapertura dopo il lockdown


Nel 1949 però i panzerotti non c’erano: «Ricordo i primi cortei, chiedevano “pane e lavoro”, dopo qualche anno però “pane” non lo dicevano più e allora ho pensato che dovevamo fare qualcosa di diverso. Siamo stati i primi a fare i panini imbottiti quando i panettieri non li facevano, poi le pizze, ma i vigili vennero a farci un verbale perché anche questo non era previsto. Alla fine ho tirato fuori la ricetta dei panzerotti. Era in un quaderno di ricette di mia madre, figlia di un immigrato pugliese. All’inizio li faceva lei, poi dovette lasciare il negozio e allontanarsi perché era diventata allergica alla farina. La verità è che i polmoni se li era rovinati in trattoria. Fumavano tutti, c’era una nebbia di sigarette e lei aveva sempre la tosse».
I grandi cambiamenti nell’organizzazione del negozio sono avvenuti al passaggio di secolo, quando è mancata Franca, la sorella più grande, e Carla è andata in pensione. «Loro due erano inflessibili: alle 13 buttavano fuori i clienti perché si doveva chiudere per la pausa. Riaprivamo solo alle 16, ma così perdevamo tutto il pranzo degli impiegati e degli studenti. Sono arrivate le mie figlie e hanno rivoluzionato gli orari: non si apre più alle 7 ma alle 10 e poi si fa orario continuato fino alle otto di sera». Le figlie hanno rifatto il negozio, hanno messo un silos per la farina nel sotterraneo - così non si devono più sollevare e trasportare i sacchi da 25 chili - e semplificato l’elenco dei prodotti. Ma non sono riuscite ad evitare che il padre arrivi alle 5 per accendere il forno.


Luigi Luini con la gerla sulle spalle mentre consegna il pane


Il signor Luigi parla ormai da un’ora, mi racconta di quando ha iniziato a fare le forniture in giro per la città: «Portavo il pane agli alberghi alle 5 per la prima colazione, poi a mezzogiorno facevo le consegne nei ristoranti. Nel tardo pomeriggio un nuovo giro. Andavo io con la Vespa e la gerla sulla schiena. Non mi sono mai riposato, ma che vita ragazzi! Un giorno, mentre portavo il pane all’Hilton, sono stato investito da una Cinquecento. Mi ha fatto fare un volo che ancora me lo ricordo. Sono stato ingessato per quaranta giorni. Ero a casa e allora mia moglie mi mette in braccio la piccola: “Tieni la Cristina, che vado a fare la spesa”. Ma lei scoppia a piangere, non mi aveva mai visto e mi aveva preso per un estraneo». Dopo una settimana comincia a lavorare con il gesso la notte.


Luigi Luini con la moglie Anna e le figlie, Cristina a sinistra ed Emanuela


Nella fila fuori ci sono sempre gli impiegati che lavorano in centro e tantissimi turisti, al momento scarseggiano ancora i cinesi ma ci sono tanti arabi, americani e spagnoli. Gli faccio la domanda a cui non risponde mai: quanti panzerotti vendete ogni giorno? «Tutti me lo chiedono, dipende dalle stagioni, d’inverno le file sono più lunghe, mentre con il caldo se ne vendono meno. Non esiste un numero fisso».
Insisto. Abbassa la voce e finalmente mi risponde: «Più di 5mila».
Il prezzo è lo stesso da anni: 2 euro e 80 centesimi. «Io non voglio fare le cose gourmet, voglio che sia per tutti. Sono un panettiere».


29.6.23

femminicidi sempre più emergenza si bbassa l'età dei mostri e delle vittime . Riflessioni a caldo sul caso di Roma

Jakub SchikanederOmicidio in casa (1890)


 Infatti    come dicevo   dal  titolo  il fatto   di roma   lo dimostra   . visto  che  


 Il  FQ  del   29\6\2023  


 mi  fermo  qui  non  perchè  abbia perso le  arole    ma   perchè   come  ho  già  scritto precedemente  per  il  femminicidio di giulia  tramontano     due  parole  sono  troppe  ed  una  è  oco cioè   si rischia    :  l'ovvietà  ed la retorica  con il  rischiuo  di  creare   assueffazione ,  qualunquismo  giudiziario  , o peggio  che   a  fuori  di parlarne troppo   venga  di più parti     chiesto  il silenzio   mediatico   come  era  per  il fascismo  che    tali fatti  di cronaca  venivano  nascosti    e  taciuti per  legge  . 







Maturità 2023, padre si diploma con la figlia: “Ho ripreso gli studi per farle vedere che le cose si possono fare a qualsiasi età”



dal web


Una storia toccante quella che arriva da Pontedera, nel pisano, dove un padre, 52enne magazziniere, ha svolto l’orale di maturità lo stesso giorno della figlia, 19enne, lo scorso 26 giugno. A riportarlo La Repubblica. Ecco cosa ha detto e quali sono le motivazioni che lo hanno spinto a riprendere gli studi.
“Ho riscoperto il piacere dello studio
“Non potevo rimanere il ciuchino di famiglia. Domani torno a lavorare, con un peso in meno e una soddisfazione in più”, ha detto. Per quasi dieci mesi ha staccato da lavoro alle 18.30 e poco dopo si è messo tra i banchi dei corsi serali di meccatronica a scuola, dal lunedì al venerdì. “Ho lasciato i banchi a 3 mesi dalla fine della quinta, poi ho iniziato a lavorare. Però mi sentivo qualcosa, tipo un debito coi miei genitori che avevano fatto di tutto per farmi studiare. Perciò ho ripreso, anche per far vedere a mia figlia che le cose si possono fare a qualsiasi età”, ha spiegato. I due hanno anche svolto, si dà il caso, la stessa traccia alla prima prova scritta dell’esame: “Non lo abbiamo fatto apposta, ma abbiamo scelto pure la medesima traccia alla prima prova, ovvero l’elogio dell’attesa nell’era di Whatsapp”. “Ero più emozionato per quello di mia figlia che per il mio – afferma il genitore -, ma devo dire che lei se l’è cavata alla grandissima, d’altronde è brava. Io diciamo che me la sono cavicchiata, qualcosa ho detto, dai! Battute a parte mi hanno tenuto dentro un’ora e un quarto, nessuno c’è stato quanto me, ma io sono un chiacchierone”.“Non capita tutti i giorni che padre e figlia facciano l’esame insieme, no? Il nostro caso ha impressionato tutti. Avevo paura di prendere di più di lei, ma è impossibile, è molto brava. Ho riscoperto il piacere dello studio. Ho voluto dimostrare che per certe cose non è mai troppo tardi, è la forza di volontà a muoverci”, ha concluso.
Non è mai troppo tardi
La storia rimarca, per certi versi, quella della donna di 90 anni che ha svolto la maturità quest’anno, con il sogno di diventare una maestra. “Lo studio, il sapere e il desiderio di conoscere non hanno età ed io ne sono la dimostrazione. Avanti ragazzi ora non si scherza più. Dopo il diploma anche la laurea? Chissà perché no?”, ha detto l’anziana.“Senza sacrificio non si ottiene nulla nella vita ed a questa età ho deciso di rimettermi in gioco ed affrontare questo esame, un obiettivo che ho rincorso da sempre ma che per varie ragioni, familiari e di lavoro mi è sfuggito. Ora sono qui e grazie all’aiuto della mia famiglia inizio il percorso di prove, che spero, mi condurranno ad ottenere il diploma. Li abbraccio tutti questi bellissimi giovani che oggi qui con me ed in tutta Italia sono pronti a superare gli ostacoli degli esami”, ha aggiunto, prima di sostenere la prova.
 
Proprio mentre sto finendo di fare cute paste (copia e incolla ) leggo su Google news più  precisamente   su  https://www.tecnicadellascuola.it/ 29/06/2023 questa bellissima storia d'amicizia e solidarietà collegata agli esami di maturità.


Studente del Cpia muore prima del diploma, i suoi compagni fanno la maturità per lui: “glielo abbiamo promesso”

Una storia toccante arriva dal corso serale dell’Istituto Agrario di Asti. Qui uno studente lavoratore di 56 anni, Pasquale De Filippo, si è spento a causa di un tumore prima di completare gli studi. E così, per onorare il suo percorso e il suo desiderio, i compagni di scuola

hanno preso il suo posto e hanno svolto l’esame orale a turno davanti alla commissione e un banco vuoto con sopra il diploma di Pasquale.
“Glielo abbiamo promesso alla veglia funebre – parla la sua compagna Giulia Bianco – e ora siamo qua per mantenere la parola data”.
Uno dei compagni ha commentato commosso: “ha dimostrato fino alla fine che lo voleva, che ci teneva e quindi era giusto che anche lui avesse il suo diploma”.
E il dirigente dell’istituto Penna, Renato Parisio, aggiunge: “Non so se è un momento triste o bellissimo di certo sarà impossibile dimenticarlo”.

28.6.23

Asterischi e schwa, l’Accademia della Crusca smonta il politically correct: «No all’introduzione artificiosa di segni grafici frutto di un’ideologia» ma alla matrurità lo usano lo stesso

   A  voi  che  leggerete  questo  post   potete  pure  darmi    del retrogrado  ,    dell'antico  ,  ecc . Ma  qui  non  si tratta  di chiusura   mentale     \  culturale  ,   e  non volermi adeguare  ai tempi che  cambiano  . ma  di  buon senso  .  Infatti  va bene che la lingua si evolve e cambia  ,  cosi  come   debba essere usata per includere non per dominare  e quindi   << Benissimo l’intento di far sentire rappresentati nella lingua tutti i generi e gli orientamenti>> . Ma c'è modo e mondo e modo di farlo perchè  un modo  è farlo  senza   capire    cosa  si sta  cambiando    un  alro   è  distruggere  semplicente    Ecco   che   reputo   
 
come credo anche   l'accademia dela  Crusca    (  vedere  articolo sotto risalente  al  20\3\2023   ma  ancora  valido ed  attuale  visto  l'andazzo  conformistico    dimostrato  anche     alla  maturità     )   il  gesto di       che  alla  maturità , ne  ho parlato precedentemente    qui ,  nello  scritto   d'italiano  ha usato lo  schiwa   come  una provocazione  conformista   di  un necessità   comprensibile  ed  giusta   ttrasformatasi in moda   ed  in obbligo  sociale  .

di https://www.open.online/z20 MARZO 2023 - 07:47IO

Asterischi e schwa, l’Accademia della Crusca smonta il politically correct: «No all’introduzione artificiosa di segni grafici frutto di un’ideologia»





IL parere dei linguisti alla Corte di Cassazione prende di mira anche la duplicazione dei generi. Incoraggiato invece l’uso al femminile del nome delle professioni



Basta con schwa ed asterischi. E pure, se possibile, alla duplicazione dei generi, care italiane e cari italiani. L’Accademia della Crusca esce allo scoperto e dice la sua sul dibattito politico-linguistico che divide il Paese: da un lato chi vorrebbe innovare la lingua e la sua scrittura per depurarlo dal recondito retaggio maschilista, con proposte fonetiche e grammaticali più o meno azzardate; dall’altra chi, più o meno riconoscendo la critica d’insieme, rifiuta di rimettere mano a dizionario e manuali di scrittura distorcendo la lingua di Dante. Rispondendo a un quesito posto dal comitato pari opportunità della corte di Cassazione sulla scrittura negli atti giudiziari, gli esperti “custodi della lingua” entrano nel vivo della questione, e sembrano propendere decisamente per la linea “conservativa”. Con motivazioni puntigliose. A riportare stralci del parere dell’Accademia è oggi, lunedì 20 marzo, il Corriere della Sera. «I principi ispiratori dell’ideologia legata al linguaggio di genere e alle correzioni delle presunte storture della lingua tradizionale non vanno sopravvalutati, perché sono in parte frutto di una radicalizzazione legata a mode culturali», punge la Crusca, che pure riconosce come «queste mode hanno d’altra parte un’innegabile valenza internazionale, legata a ciò che potremmo definire lo “spirito del nostro tempo”, e questa spinta europea e transoceanica non va sottovalutata». Il riferimento, neppure troppo implicito, è all’offensiva culturale progressista sugli usi della lingua che dall’America si è diffusa ormai da diversi anni in Europa, compresa l’Italia. Che fare dunque, all’atto pratico? Senza dubbio, dice l’Accademia, scordarsi di introdurre nuovi segni fonetici “fuori luogo” come schwa o asterischi. «È da escludere nella lingua giuridica l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi, per quanto ben intenzionati. Va dunque escluso tassativamente l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico (“Car* amic*, tutt* quell* che riceveranno questo messaggio…”). Lo stesso vale per lo scevà o schwa». Obiettivi colpiti e affondati.


In genere non ci esponiamo

Ma c’è un’altra usanza linguistica che trova sempre più fortune in chiave politically correct che fa inorridire i linguisti. Benissimo l’intento di far sentire rappresentati nella lingua tutti i generi e gli orientamenti, osserva nel parere l’Accademia, ma lo strumento migliore per conseguire quest’obiettivo non può essere «la reduplicazione retorica, che implica il riferimento raddoppiato ai due generi» – “care italiane e cari italiani”, per l’appunto, o “amiche e amici”. La strada maestra da seguire è invece quella dell’utilizzo di «forme neutre o generiche (per esempio sostituendo “persona” a “uomo”, “il personale” a “i dipendenti”), oppure (se ciò non è possibile) il maschile plurale non marcato». L’altra modalità che l’Accademia raccomanda per garantire la rappresentatività di genere della lingua è quella di «far ricorso in modo sempre più esteso ai nomi di professione declinati al femminile»: architetta, sindaca, magistrata etc. Una parola infine l’Accademia della Crusca la spende anche sull’uso di articoli davanti al nome di persone note o meno (“la Meloni” e “la Schlein”, ma anche “la Giulia” o “l’Alvise” di molte parlate regionali). «Oggi è considerato discriminatorio e offensivo – osservano gli esperti – Non entriamo nelle ragioni di questa opinione, che riteniamo scarsamente fondata. Tuttavia, per quanto estemporanea e priva di motivazioni fondate, l’opinione si è diffusa nel sentimento comune, per cui il linguaggio pubblico ne deve tener conto».


27.6.23

la maturità non è solo scritti ed orali . ma una tappa della vita o un gesto di ribellione come il gabriel lodetti che usa lo schiwa nello scritto ., o per accontare le proprie emozioni come la studentessa torinese ., ed altre storie



    alcune   (  per  le altre    trovate     all'inixio  post    dei  link  )     sulla  maturità    lontano     o  releganìte  in piccoli  trafiletti  da parte  dei media  e     credo  ache dai social  .

 

 da  repubblica 

  riguarda  il gesto iniutilemente provocatorio e scemo      dell'usare  lo  ɓ  ehm schwa  perchè  tale  risultato lo si  può  ottenere  con  usando la  dictura    tutti\e . 



Gabriele Lodetti  [foto  sotto a  destra  ]   ha inserito nello scritto il simbolo della comunità non binaria e ha preso 17/20:«Volevo dimostrare che utilizzare una forma di linguaggio che rappresenti tutti e tutte è possibile, anche durante una prova importante come l’esame di Stato»
Né maschile, né femminile. Nella prova di italiano di maturità, scritta rigorosamente a penna, è arrivata anche la schwa. Il simbolo grafico adottato dalla comunità non-binary, le persone che non si riconoscono né nel genere maschile né in quello femminile, e sostenuto in Italia soprattutto dalla sociolinguista Vera Gheno. L’obiettivo? Rendere più inclusivo il linguaggio, rischiando anche che la prova venisse invalidata. Ma alla fine, Gabriele Lodetti, maturando del liceo Plinio Seniore, ha portato a casa anche un ottimo voto: un 17 su 20, che equivale, più o meno, ad un 8.«Volevo dimostrare che utilizzare una forma di linguaggio che rappresenti tutti e tutte è possibile, anche durante una prova importante come l’esame di Stato», racconta il giovane. Che precisa: «Sì, è stato anche un gesto di sfida, ma non verso la commissione, bensì verso il sistema scolastico e la società». E così ha deciso di correre il rischio che la prova venisse invalidata.La sua scelta, considerando anche i contenuti e lo svolgimento della traccia, alla fine però l’ha premiato. Ha optato per il tema di attualità, quello che partiva dalla lettera aperta del 2021 all’allora ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, attraverso la quale il mondo accademico e culturale chiedeva di reintrodurre le prove scritte alla maturità, sospese per la pandemia.Non ha scritto, quindi, di inclusione in senso stretto, ma ha analizzato la storia dell’esame di Stato, poi è passato ad alcune riflessioni sui suoi cambiamenti nel tempo, ha infine inserito dei pareri sul sistema scolastico. Utilizzando, però, lo stesso linguaggio che «da tempo è presente nelle chat con amici e familiari».Ormai, prosegue Lodetti, «è entrato nel mio modo di pensare e sarebbe complicato non utilizzarlo per esprimermi». Chiuso il capitolo delle prove scritte, lo studente del Plinio racconta così il motivo della sua scelta.Una scelta che, però, non ovunque avrebbe trovato la stessa approvazione: secondo Giuseppe Benedetti, docente di Lettere al liceo Tasso, «bisognerebbe leggere tutta la prova» prima di valutare. «Tuttavia, si può fare riferimento a qualche criterio generale. Il primo è quello dell’uso. La schwa non è di uso comune. Qual è il senso del suo impiego nel testo in questione? In un tema sui diritti sarebbe evidente, in un tema su altri argomenti sarebbe meno chiaro o potrebbe risultare persino una forzatura».E ancora: «Il secondo criterio è il rapporto tra forma e contenuto: quanto possa essere persuasivo l’uso della schwa per sostenere la propria tesi. Un terzo criterio è la coerenza dell’uso: nel testo la schwa è usata costantemente o in un limitato e ingiustificato numero di occasioni?», si chiede il docente.Giulia Addazi, linguista e insegnante al liceo Rocci di Passo Corese (frazione di Fara in Sabina, in provincia di Rieti) se si fosse trovata di fronte alla prova di Gabriele Lodetti, avrebbe invece «apprezzato il ragionamento che lo studente ha portato avanti nei confronti della lingua italiana».A Tiziana Sallusti, preside del liceo Mamiani e attualmente presidente di commissione al liceo Montale, «non sarebbe cambiato nulla: se il tema fosse stato pertinente, ben scritto, ricco di approfondimenti, non credo che come presidente avrei fatto problemi».La scelta della schwa, infine, trova anche l’approvazione delle associazioni studentesche come la rete degli studenti medi, che da sempre si batte per l’inclusione nelle scuole.


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Maturità 2023, tema su WhatsApp. Alunna scrive sulla morte del suo ragazzo in un incidente: “Non sappiamo più aspettare”





Ieri, tra gli studenti che hanno svolto la prima prova di italiano della maturità 2023, c’era anche una ragazza che di recente è stata colpita da un terribile lutto. La studentessa ha espresso il suo dolore per la tragedia che l’ha vista protagonista proprio nel tema che ha svolto, la traccia sull’attesa nell’era di WhatsApp a partire da uno scritto di Marco Belpoliti, traccia che è stata, secondo i dati ufficiali, la più gettonata tra i maturandi 2023. Lo riporta La Stampa.
La ragazza, 18 anni, che vive nel torinese, ha parlato della recente morte del suo fidanzato, 22 anni, a causa di un incidente stradale. “Eravamo mano nella mano, quando una Bmw a folle velocità, guidata da un ubriaco, me l’ha strappato via. I nostri sogni sono stati cancellati e io adesso sono qui senza di
lui”, ha detto. Il funerale del ragazzo si svolgerà oggi, 22 giugno.
Secondo la giovane il concetto di fretta è stato alla base di quanto è successo la sera dello schianto fatale. Ecco di cosa parla il tema prodotto dalla ragazza: “Parla di me, di noi, di quella sera. Non sappiamo più aspettare, tutto è diventato istantaneo, abbiamo sempre fretta, mandiamo un messaggio con il cellulare e pretendiamo subito una risposta. Ecco, la fretta. Quella sera avevo fretta. Fretta di stare con lui, fretta di dirgli quanto gli volevo bene. Eravamo a casa di mio nonno per festeggiare il primo compleanno di un nipotino. Ma abbiamo salutato tutti e siamo usciti. Avevo fretta di abbracciarlo. Di dargli un bacio”.
“Con Mattia correvamo solo con i pensieri, quelli sì che viaggiano veloci, erano tutti proiettati a un futuro insieme. Chi guidava quella macchina invece non aveva fretta; tornava a casa dopo una serata passata a bere con gli amici. Correva e basta. Ci ha travolto, avrà visto quello che ha causato nello specchietto retrovisore ma ha continuato la sua folle corsa”, ha raccontato, ricostruendo quei brutti momenti.
“L’avevo convinto a prendere le distanze da alcuni amici e fra questi c’era anche lui, quello che ci ha investiti”, ha detto ancora. “Eravamo ormai dall’altra parte della strada quando ho visto quell’auto sterzare. Ho sentito un colpo alla spalla, ho cercato Mattia ma non Lo vedevo più. Chissà, un angelo in quel momento mi ha messo una mano sugli occhi per non farmi vedere quello che hanno visto i soccorritori. La casa di mio nonno era a pochi metri, mi sono alzata e tenendomi la spalla sono corsa lì. Ma il dolore che non passa è un altro”, ha concluso.Ieri, tra gli studenti che hanno svolto la prima prova di italiano della maturità 2023, c’era anche una ragazza che di recente è stata colpita da un terribile lutto. La studentessa ha espresso il suo dolore per la tragedia che l’ha vista protagonista proprio nel tema che ha svolto, la traccia sull’attesa nell’era di WhatsApp a partire da uno scritto di Marco Belpoliti, traccia che è stata, secondo i dati ufficiali, la più gettonata tra i maturandi 2023. Lo riporta La Stampa.
La ragazza, 18 anni, che vive nel torinese, ha parlato della recente morte del suo fidanzato, 22 anni, a causa di un incidente stradale. “Eravamo mano nella mano, quando una Bmw a folle velocità, guidata da un ubriaco, me l’ha strappato via. I nostri sogni sono stati cancellati e io adesso sono qui senza di lui”, ha detto. Il funerale del ragazzo si svolgerà oggi, 22 giugno.
Secondo la giovane il concetto di fretta è stato alla base di quanto è successo la sera dello schianto fatale. Ecco di cosa parla il tema prodotto dalla ragazza: “Parla di me, di noi, di quella sera. Non sappiamo più aspettare, tutto è diventato istantaneo, abbiamo sempre fretta, mandiamo un messaggio con il cellulare e pretendiamo subito una risposta. Ecco, la fretta. Quella sera avevo fretta. Fretta di stare con lui, fretta di dirgli quanto gli volevo bene. Eravamo a casa di mio nonno per festeggiare il primo compleanno di un nipotino. Ma abbiamo salutato tutti e siamo usciti. Avevo fretta di abbracciarlo. Di dargli un bacio”.
“Con Mattia correvamo solo con i pensieri, quelli sì che viaggiano veloci, erano tutti proiettati a un futuro insieme. Chi guidava quella macchina invece non aveva fretta; tornava a casa dopo una serata passata a bere con gli amici. Correva e basta. Ci ha travolto, avrà visto quello che ha causato nello specchietto retrovisore ma ha continuato la sua folle corsa”, ha raccontato, ricostruendo quei brutti momenti.
“L’avevo convinto a prendere le distanze da alcuni amici e fra questi c’era anche lui, quello che ci ha investiti”, ha detto ancora. “Eravamo ormai dall’altra parte della strada quando ho visto quell’auto sterzare. Ho sentito un colpo alla spalla, ho cercato Mattia ma non Lo vedevo più. Chissà, un angelo in quel momento mi ha messo una mano sugli occhi per non farmi vedere quello che hanno visto i soccorritori. La casa di mio nonno era a pochi metri, mi sono alzata e tenendomi la spalla sono corsa lì. Ma il dolore che non passa è un altro”, ha concluso.


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La notte prima degli esami che mi ha cambiato la vitaSe Vincenzo Latronico ora fa lo scrittore e vive a Berlino è per una Porsche nera che, il giorno prima del suo orale di maturità, lo ha travolto a un semaforo. Un colpo di sfortuna dalle conseguenze imprevedibili.


di Mario Calabresi





«La sera prima dell’orale di Maturità ho chiuso i libri e sono andato a giocare a Risiko a casa di un’amica che abitava a Brera. Prima delle undici ho deciso che era ora di tornare a casa, sono salito sulla mia Vespa 50 bianca e, arrivato al primo incrocio, sono stato investito da una Porsche nera». Le conseguenze di quell’incidente avrebbero cambiato per sempre la direzione della vita di Vincenzo Latronico.

Vincenzo Latronico durante un evento letterario


Era l’estate del 2003 e Vincenzo aveva un solo pensiero per la testa: passare l’esame, uscire dal liceo classico Manzoni di Milano e poi partire con gli amici per l’interrail. Amsterdam, Berlino, Praga e Budapest le mete che sognava. Ma, mentre era fermo al semaforo davanti al Piccolo Teatro, la Porsche prima lo ha superato a sinistra e poi ha sterzato a destra passando con il rosso: «Avevo la gamba a terra e, nella manovra, me l’ha schiacciata contro la Vespa. Sono caduto e mi sono fratturato tibia e perone in almeno otto punti». Per pura coincidenza il fidanzato della sua migliore amica stava passando in quel momento ed è lui ad avergli raccontato che era sdraiato a terra e che prima dell’ambulanza sono arrivate sia la Polizia che i Carabinieri. Una cosa, però, la ricorda benissimo: chi lo aveva investito si era fermato ma non era mai sceso dalla macchina per vedere in che condizioni fosse. Era un uomo sui cinquant’anni e la Porsche era dell’azienda, una fabbrica di materiali plastici di cui era il dirigente. Non mettiamo il nome perché, ai fini della storia, non è importante.
Quella sera portarono Vincenzo all’ospedale Fatebenefratelli, rimase ricoverato per settimane con la gamba in trazione, i professori lo aspettarono e fu l’ultimo a fare l’orale: si presentò in sedia a rotelle e imbottito di antidolorifici. «Deve essere stato un pessimo esame, non ho nessun ricordo. So soltanto che portavo una tesina che teneva insieme il Lenin di Majakovsij per Letteratura, la rivoluzione russa per Storia, il costruttivismo per Arte e Marx per Filosofia. Poi gli altri partirono per il giro dell’Europa in treno e io passai l’estate sulla sedia a rotelle nella casa di campagna della mia fidanzata dell’epoca».
Quando si rimise in piedi, con quella Vespa Pk 50 che aveva comprato grazie a un premio dei Rotary per un tema di storia contemporanea fatto al quarto anno di liceo, non voleva più averci nulla a che fare e la vendette a un’amica per una cifra simbolica. Alla fine dell’estate scoprì anche che il guidatore della Porsche lo aveva denunciato, sostenendo che era stato Vincenzo ad andare a sbattere contro la macchina, e chiedeva che pagasse i danni allo sportello. Ci fu un processo lunghissimo, con perizie e controperizie, che durò ben sei anni. Nel frattempo Vincenzo si era laureato in filosofia, aveva scritto il suo primo libro e lavorava all’Università.
La copertina dell’edizione italiana di “Twelve” (Bompiani 2003),
il primo romanzo dello scrittore americano Nick McDonell
 tradotto in italiano proprio da Vincenzo Latronico


Ma il suo destino si era abbozzato prima dell’incidente: per una serie di coincidenze, di incontri fortunati e grazie a una spavalderia intellettuale non comune per un ragazzo di 16 anni, già al liceo aveva cominciato a collaborare con Bompiani: «Ero innamorato di una ragazza di nome Alessandra, che stava con un ragazzo più grande che faceva il lettore di manoscritti per una casa editrice. Così pensavo che quello fosse il lavoro più cool del mondo e quando, a un evento organizzato dalla scuola, incontrammo Elisabetta Sgarbi, presi il coraggio e le dissi: “Voglio fare il lettore di manoscritti”. Lei mi guardò sbigottita, ma mi rispose: “D’accordo, ti manderemo dei testi da leggere”. Due anni dopo, quando decise di pubblicare in Italia “Twelve”, il primo romanzo dello scrittore newyorkese Nick McDonell, che aveva la mia età e raccontava di un gruppo di liceali, mi chiese di tradurlo». Quando il libro uscì, Vincenzo scoprì che anche McDonell aveva avuto un incidente e, immobilizzato, aveva passato l’estate a scrivere. «Io, invece, avevo passato l’estate a giocare a Risiko».
La copertina de “La cospirazione delle colombe” (Bompiani 2011), il secondo romanzo di Vincenzo Latronico, con il quale si aggiudica nel 2012 il Premio Napoli, il Premio Bergamo e arriva finalista al Premio Comisso


Quando nel 2009 il processo per l’incidente si è concluso ed è arrivato, ormai inatteso, un risarcimento, Vincenzo lavorava all’Università Statale, faceva un dottorato e l’assistente in Storia della filosofia contemporanea. «Mi appassionava moltissimo, però avevo pubblicato il mio primo romanzo e scalpitavo per scrivere il secondo, ma non avevo mai il tempo. Quando arrivarono i soldi non ci potevo credere: erano 12mila euro, un anno del mio stipendio da assistente. Con quel denaro ho realizzato il sogno della mia vita: ho mollato il dottorato e mi sono trasferito a vivere a Berlino per scrivere». Era giugno, il marzo seguente aveva finito il romanzo “La cospirazione delle colombe”, il libro della svolta. Da quel momento era davvero uno scrittore che viveva a Berlino. (All’amore per la città che lo ha accolto è dedicato il nuovo libro “La chiave di Berlino” che uscirà a fine agosto con Einaudi ) 
Ho chiesto a Vincenzo Latronico di raccontarmi questa storia dopo aver letto un suo tweet che rispondeva alla domanda: il ricordo più bello della vostra maturità? «Il tizio in Porsche che mi investe in via Broletto la sera prima dell’orale, causandomi sedici fratture e poi facendomi causa per i graffi allo sportello. Ha perso male e, anni dopo, con il risarcimento ho mollato il lavoro e scritto il mio secondo romanzo». Poi aveva corretto: via Pontaccio, non via Broletto, e - su suggerimento del padre che ha la cartella clinica - le fratture erano otto. L’ho cercato perché mi piace un sacco quest’idea che una grande sfortuna, quella che ti ruba l’estate della maturità, si possa trasformare in un momento di svolta.
Vincenzo Latronico sorridente a Berlino con la sua Vespa sprint veloce del 1975, regalo di suo padre © Clara Miranda Scherffig


Vincenzo però è stato meno netto di me su questa teoria secondo cui le cose negative poi possono rivelarsi di segno opposto: «Oggi ti posso dire che le conseguenze dell’incidente sono state positive perché il mio ultimo romanzo è andato molto bene, ma forse se me l'avessi chiesto tre anni fa, quando ero paralizzato e non riuscivo a scrivere, ti avrei risposto: se fossi rimasto in Università forse adesso sarei professore…». Certo è sempre una questione di prospettive, ma per me la teoria di Cohen che cito spesso, della crepa e la luce, è sempre vera. Oggi Vincenzo va in giro per Berlino con una Vespa sprint veloce del 1975, color verde smeraldo, era di suo padre che gliel’ha regalata quando ha compiuto trent’anni.

 

Maturità 2023, Rusconi (Anp Roma): "la scuola non si salva con esami duri"

26.6.23

IL matrimonio tra Banari e Siligo: la sposa cammina sul ponte crollato I disagi dopo l’inondazione: ma le sbarre non fermano il sogno di una coppia

   dalla  nuova  sardegna del  25\6\2023


 di Luigi Soriga



Siligo
Un ponticello crollato non spezza le radici. «Sarà il nostro matrimonio, questa mattina, a fare da ponte tra Siligo e Banari». Così Sarah Della Casa, alle 10 in punto si tira su la gonna, la testimone le solleva il velo, e come se il vestito bianco fosse la fiancata lucida di una fuoriserie, passa rasente al guard-rail. Il velo fa il pelo alla barriera metallica, ma scivola immacolato dall’altra parte. Alle 11 in punto la sposa ha appuntamento nella chiesa di Banari, nel versante opposto del ponte interrotto, ma lei (assieme al futuro marito) ha deciso che quei trecento metri li deve percorrere a piedi. Non è una banale sfilata:


quella passeggiata è un simbolo. Significa ricucire idealmente due paesi, che da sempre vivono in simbiosi. «Mio padre – racconta lo sposo Antonello Sassu – è di Siligo, mentre mia madre è di Banari». Le anime di questi piccoli centri sono intrecciate a doppio nodo, e anche quando il fiume ha inondato tutto, il cordone ombelicale non si è mai reciso. La quotidianità, i rapporti, gli affetti, hanno sempre continuato a transitare. E anche Sarah, in questa singolare marcia nuziale, mentre avanza a passo lento, sta celebrando l’amore che lega i due paesi. «Ci siamo conosciuti a Modena – racconta Antonello Sassu – io ho 37 anni, lei 36, e viviamo lì da moltissimi anni. Siamo fidanzati da 14 anni e abbiamo due bambini: Beatrice che ha due anni, e Leonardo sette. Anche se abito lontano dalla Sardegna ormai da una vita, sono rimasto sempre legatissimo alle mie origini. Appena posso, anche con Sarah, ritorno a Siligo a trovare la mia famiglia, e naturalmente vado a trovare tutti i parenti che ho a Banari». Ma l’ultima volta, per Antonello è stata diversa. Il ponte interrotto è come una cicatrice ancora aperta tra i due paesi. Dal momento del nubifragio è come se fossero stati catapultati a chilometri di distanza l’uno dall’altro. Senza più il ponticello, bisogna fare il giro largo, e da appena 3 minuti il viaggio si dilata sino a mezz’ora di percorrenza. Ma nonostante i disagi, sia gli abitanti in questo mese si sono armati di inventiva e hanno tirato fuori dal cilindro un efficace manuale di sopravvivenza fai da te. Per avere il pane fresco la mattina, il fornaio e le rivendite hanno allestito la staffetta delle baguette. Il fornaio porta la cesta da un lato del ponte, e dall’altra parte, ad attenderlo, c’è il suo acquirente. Stessa soluzione per le medicine: la scorta per una settimana viene scambiata sul ponte interrotto. E anche quando c’è da portare il pacco, il corriere attende l’acquirente al di qua di questa sorta di “muro di Berlino”. O ancora, per le commissioni da fare in banca o in altri negozi, chi ha a disposizione due vetture ne parcheggia una su un lato e la seconda sull’altro lato del ponte. Così può fare a piedi 300 metri, e poi riprendere a guidare. Ma uno stratagemma simile non è praticabile quando hai un matrimonio e 200 invitati. «Il corteo di auto, è dovuto passare per Florinas, parliamo di una quarantina di minuti per arrivare a Banari». Invece Sarah, a costo di spiegazzare il vestito bianco, ha preferito la scorciatoia. E ora, alle 10,05, è lì che attraversa gli ultimi metri del ponte, in questa passerella non esattamente romantica dove al posto dei bouquet di fiori ci sono i tondini in ferro che germogliano sull’asfalto, e le reti arancioni che sanno tanto di allestimento da cantiere. Lei è sorridente: ultime foto di rito con la testimone davanti al cartello “Strada Interrotta”, e poi finalmente si lascia il ponticello alle spalle. Ad attenderla, su questa sponda, c’è l’auto che l’accompagnerà sino alla chiesa di Banari

Parla la prof assente 20 anni su 24 e destituita per “totale inettitudine”: “Il mio? Un caso surreale” ., “In 10 anni non ho fatto un solo giorno d’assenza. Maturità? Diamo 90 punti alla carriera e 10 all’esame”, INTERVISTA a Roberto Moroni


  
Parla la prof assente 20 anni su 24 e destituita per “totale inettitudine”: “Il mio? Un caso surreale”
La Cassazione destituisce l’insegnante di Chioggia: dava voti a caso. Lei: «Gli atti proveranno la verità»   
da https://www.lastampa.it/cronaca/   del 26\6\2023
                               LAURA BERLINGHIERI



CHIOGGIA (Venezia). Assente da scuola 20 anni sui 24 di insegnamento. E «impreparata, approssimativa e imparziale» – come denunciavano i suoi ex studenti – pure nella sola parentesi di quattro mesi trascorsa dietro la cattedra, al liceo Veronese di Chioggia (Venezia). Per questo era scattata l’ispezione ministeriale di tre giorni, chiesta dalla dirigente, conclusasi con la rimozione decisa dal Miur.
[...] 

    visto  che  la  sentenza  è passata  in   giudicato  cioè è definitiva    si  può   affermare     che   di  surreale  c'è  il fatto   che lei   sia potuta rimanere in servizio ( fin qua niente d'eccezionale ci sono prof capre che hanno insegnato o ancora insegnano da una vita ) avendo fatto solo 4 anni di servizio effettivo su 20 d'assenza .

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“In 10 anni non ho fatto un solo giorno d’assenza. Maturità? Diamo 90 punti alla carriera e 10 all’esame”, INTERVISTA a Roberto Moroni



Neppure un’assenza dal lavoro negli ultimi 10 anni. Una sola assenza più di 11 anni orsono. E bisogna risalire al decennio precedente per poterne contare una seconda. La prima avvenne nel 2012. Fu un giorno di permesso chiesto alla scuola per anticipare un volo verso l’America poco prima di Natale, per incontrare alcuni parenti La seconda assenza delle due fu nel 2006. Quella volta si trattò di una febbre, che lo costrinse a chiedere un giorno di malattia. Certo, ha una salute di ferro, Roberto Moroni, docente romagnolo di Economia aziendale, una salute legata al suo stile di vita: è uno sportivo, è reduce dalla vittoria di squadra al campionato nazionale di tennis da tavolo e non usa la macchina per andare al lavoro a scuola, preferendo affidare i propri kilometri quotidiani ai pedali di una bicicletta o alle scarpe da runner. Neppure gli anni del Covid sono riusciti a metterlo al tappeto. O meglio, il Covid lo ha preso, ma la scuola è stata preservata dalla sua assenza anche in quell’occasione: “Ho preso il Covid nel 2022 – ammette il prof – Ma ero appena andato in ferie…”. Sorride.
Sorride e torna serio, il professore romagnolo. C’è chi si assenta per 20 anni su 24 anni di servizio – è cronaca di questi giorni – e chi non si assenta (quasi) mai. Lui sa, in cuor proprio, che l’invidiabile stato di salute – “ma poi chissà? La salute può venir meno in qualsiasi momento, speriamo bene…” – è associata a una grande considerazione che lui ha per l’etica e per il rispetto delle regole e della funzione del lavoratore pubblico, visto che le assenze dal lavoro, certo non quelle da malattia o da altri impegni nobili e inderogabili cui chiunque nel corso dell’anno non riesce a sottrarsi, “rappresentano – sottolinea lui – una spesa per lo Stato, una perdita di risorse economiche oltre che un cattivo esempio verso i nostri studenti e anche un danno indotto dall’alternarsi di supplenti”. Lui stesso, in qualità di collaboratore del dirigente, ogni mattina provvede assieme a una collega, vicaria come lui, Silvia Paolizzi, alle sostituzioni di chi per un motivo o per l’altro non arriva in classe e a quel punto tocca cercare un supplente tra i colleghi presenti e a disposizione.
Roberto Moroni ha sessant’anni, ha una famiglia, due figli grandi. Insegna Economia aziendale presso l’Istituto Einaudi-Molari di Rimini. L’istituto, presieduto dalla Ds Daniela Massimiliani, è unico, ma ha due indirizzi: uno professionale, l’Einaudi, che ha sede a Viserba – dove è nato un grande polo scolastico nel quale convergono molti istituti riminesi. L’altro è un tecnico, il Molari, indirizzi amministrativo e grafico, con sede a Santarcangelo di Romagna, sulle colline, per un totale di 1300 alunni, compresi i 100 alunni del corso serale distribuito nei due plessi.

Professor Roberto Moroni, la sua storia stride decisamente con quella che campeggia da ieri sulle prime pagine dei giornali e che raccontano della sentenza con cui la Corte di Cassazione ha destituito dall’insegnamento un docente che in 24 anni era stato assente per un totale di 20 anni.

“Trovo corretta la sentenza della Corte di Cassazione, anche come forma di rispetto nei confronti degli insegnanti che lavorano con serietà e che, a mio parere, sono quasi la generalità della categoria”

L’ultima volta che lei si era assentato da scuola fu 11 anni orsono a ridosso delle vacanze di Natale. E’ così?

“Sì, è così. Mi ero assentato un solo giorno”

Come mai?

“Dovetti anticipare la partenza per l’America, dove poi andai in visita ad alcuni parenti”.

E bisogna risalire a quando per l’assenza precedente?

“Era stata un’assenza di un giorno, dovuta alla febbre. Risale al 2006”.

Quale materia insegna?

“Economia aziendale, una classe di concorso, la A045, che per diversi anni è stata il mio cruccio”.

Per quale motivo?

“Sono stato DOP per molti anni. Son passato di ruolo trent’anni orsono, con il concorso del 1990 e senza aver mai fatto un giorno di precariato, ma solo nel 2012 ho poi ottenuto l’assegnazione stabile nella mia scuola attuale. Ho cambiato diverse scuole. Alla fine sono arrivato nel mio Istituto professionale, l’Einaudi, qui a Rimini. Ho capito che in un professionale c’è bisogno di dare una mano come docente non solo sul piano didattico ma soprattutto come sostegno e supporto ai nostri tanti alunni. Molti ragazzini vivono grandi difficoltà. Le famiglie dei nostri studenti in genere non sono famiglie benestanti, inoltre ci sono tante problematiche sul piano sociale, sono ragazzi deboli, fragili, abbiamo molti con Dsa, e altri sono diversamente abili. Quindi, tu li vedi, li guardi e sembra siano lì lì per chiederti: mi dài una mano? Ecco, oltre che fare il mio mestiere di docente cerco di dare una mano a tutti. In questa scuola ho da tempo trovato la mia dimensione professionale”

Le famiglie sono riconoscenti?

“Sia io che l’altra collaboratrice del dirigente scolastico, Silvia Paolizzi, insegna matematica, un altro caposaldo della scuola, siamo molto informali, la nostra vicepresidenza è sempre aperta e disponibile con tutti, dagli alunni ai colleghi. Da noi c’è un clima molto collaborativo. Certo, ci sono dei casi complicati, tra gli alunni, ma sappiamo in che mondo viviamo. Sono tanti i ragazzini difficili soprattutto nei primi anni ma facciamo il nostro meglio”.

Siete stati colpiti anche voi dall’alluvione recente?

“No, fortunatamente siamo stati risparmiati”.

Torniamo alle assenze, anzi alle sue presenze. Una sola assenza per malattia e risale al 2006. Lei gode di ottima salute, non sarà perché usa solo la bicicletta per gli spostamenti lavorativi?

“Chi lo sa? Certo, faccio sei chilometri ogni giorno tra casa e scuola. Sono sportivo, ho praticato diversi sport e sono reduce dal campionato nazionale di tennis da tavolo. Con la mia squadra siamo stati promossi dalla serie D2 alla D1. Per la salute devo ringraziare qualcuno che finora mi ha fatto stare bene e mi ha consentito di fare una sola assenza. Si vede che a livello fisico non ho problemi, almeno per ora. Speriamo per il futuro”.


Nemmeno il Covid è riuscito a metterla al tappeto?

“Ci è riuscito, ci è riuscito. Ho preso pure io il Covid ma era luglio 2022, ed ero appena andato in ferie…”

Quale messaggio pensa che passerà o vorrebbe che passasse da questa intervista?

“All’interno della scuola e della pubblica Amministrazione c’è gente che lavora seriamente. All’interno della scuola la maggioranza dei lavoratori è dotata di professionalità elevatissima. E’ questo il messaggio che vorrei che passasse tra i tanti che non conoscono il mondo della scuola. E’ un mondo dove ci sono tanti professionisti coscienziosi e appassionati al proprio lavoro e che operano con grande entusiasmo. E’ un settore strategico fondamentale per lo Stato. Stiamo parlando di formazione, la scuola fa la differenza e non solo nel formare dei cervelloni ma soprattutto nel formare dei cittadini. E quando tu sei un cittadino che vuole bene al proprio Stato sei disposto a relazionarti e a discutere con gli altri e a portare avanti nuove proposte”.

Lei lo sa che ci saranno probabilmente dei colleghi insegnanti che sui social non apprezzeranno il suo non assentarsi mai da scuola? Qualcuno dirà che in questo modo lei mortifica coloro i quali si devono assentare magari per malattia. Spesso si commenta senza prima aver letto quel che ci si accinge a commentare…

“Chi si ammala ha tutti i diritti. Io, insisto, sono stato fortunato in questi vent’anni. Chi si ammala non c’entra nulla. C’è qualche mela marcia anche nelle scuole ma è un mondo compatto dove ci sono tanti insegnanti di ottimo livello”.

Ha conosciuto direttamente insegnanti assenteisti cronici?

“Purtroppo sì. Dovendo gestire ogni giorno le sostituzioni, questi casi li conosciamo, ma sono una minoranza”.

In questi giorni lei è impegnato negli esami di Stato. Su questo lei avanza una proposta. La vuole spiegare?

“Sono interno nella mia classe quinta. E’ un bene essere tornati agli esami di Stato con le prove e con i commissari esterni. Ma ho una mia idea un po’ diversa sul tema. I 100 punti ora sono distribuiti così: 40 punti sul triennio e 60 sull’esame. Io sarei per dare 90 punti alla carriera e solo 10 all’esame, un po’ come succede all’università. Novanta punti a partire però dal primo anno di scuola secondaria di secondo grado, oppure a partire dalla fine del biennio: questo responsabilizzerebbe gli alunni e le loro famiglie fin dal primo giorno di scuola e verrebbe così valorizzato l’intero percorso formativo”.

I ragazzi capirebbero?

“Secondo me i ragazzi quel che vogliono capire lo capiscono molto bene”.

Dal suo osservatorio “turistico” di Rimini può confermare le difficoltà denunciate da albergatori e imprese del settore nel trovare personale tra i giovani diplomati?

“Sì, confermo. E non succede solo nel settore turistico ma anche nel settore metalmeccanico e industriale in generale. A scuola ci arrivano messaggi di aziende che cercano personale e noi difficilmente riusciamo a soddisfare le richieste. Una volta il lavoro dovevi andarlo a cercare, ora ti arriva in casa e non ti trova. Naturalmente le imprese cercano ragazzi con un certo livello di preparazione e dunque si tratta di coloro che o hanno già trovato una collocazione lavorativa oppure hanno scelto di proseguire gli studi all’università. Comunque sta diventando un problema trovare i ragazzi”.

Magari non si trovano lavoratori perché le retribuzioni non sono ritenute adeguate e dignitose. Almeno questo si denuncia sempre più spesso da più parti.

“La verità sta come sempre nel mezzo. Spesso se offrono un lavoro ben retribuito le imprese i lavoratori li trovano, ma non è sempre così. Quelli bravi sono tutti impegnati. Poi, certo, ci sono aziende che offrono stipendi minimi e lì diventa tutto più complicato”.

Torniamo a scuola e al rapporto alunni e insegnanti. Che cosa pensa del 9 in condotta dato da un consiglio di classe agli alunni che avevano ferito con una pistola a pallini di gomma la loro professoressa?

“Sicuramente vista da fuori è una decisione discutibile, ma occorre vedere come sono andate davvero le cose durate l’anno scolastico, io non mi permetto di dare giudizi. Bisogna affidarsi solo a ciò che ha fatto la scuola, che in genere si ispira a correttezza. A livello generale il messaggio che deve passare è che la scuola deve lavorare e collaborare con il sistema nel suo complesso, cioè assieme alle famiglie, al tessuto economico, allo Stato. Non posso permettermi di esprimermi basandomi su dei pregiudizi. Siamo degli educatori, non siamo un carcere minorile. Dobbiamo prevedere delle sanzioni ma anche e soprattutto dei percorsi di recupero. Non siamo l’istituto che cura i sani, dobbiamo anzi avere una particolare attenzione ai malati”

E’ una frase di Don Milani

“Ed è un detto che abbiamo cercato di adottare anche all’interno del nostro istituto”.

Biglietto da Londra per l’Isola troppo caro: Lallo torna in bici (e traghetto) la storia di Carlo Pisanu, emigrato di Siliqua

 

Quando  ho  condiviso  sul mio  sociale  questa  storia  discontinuità territoriale  tra la  sardegna    e   la penisola  e  il  continete  europeo  ,  alcui       hanno  risposto  con  una  faccina  sorridente  . Io  non ci vedo nient e da  ridere     forse  perchè sarà stato  educato ed  ho  ricevuto i valori  d'arrangiarsi    e d'usare mezzi alternativi .
 Essa   ha  per protagonista un giovane, Carlo Pisanu, 32 anni di Siliqua, emigrato a Londra per lavoro. Ha deciso di tornare in Sardegna dai suoi affetti, ma non in aereo: ad impedirglielo è stato il prezzo dei voli, aumentato vertiginosamente in tutta Europa. 

Lallo Pisanu a Parigi con la sua inseparabile bici

  da  l'unione  sarda    del 24\6\2023

Eppure Carlo Pisanu (Lallo per gli amici) non si scoraggia e – come segnala sui social Roby Collu –  il 7 giugno 2023 pubblica un post su Facebook: «Visto l'aumento dei prezzi dei voli aerei ed il bisogno di migliorare la mia abbronzatura, quest’anno ho deciso di tornare a casa (da Londra a Siliqua) in bicicletta». Poi aggiungeva: «Partirò da Londra venerdì 9 giugno al mattino e arriverò a Siliqua il 28 giugno. Pubblicherò foto e video del viaggio così vi terrò aggiornati».Detto, fatto. Il 9 giugno alle 11 inizia il suo lungo viaggio dall’Inghilterra verso la Sardegna. Obiettivo e previsioni: 20 giorni di tempo, 105 ore in bici. Ha così raggiunto il porto inglese di Newhaven, per imbarcarsi sul traghetto che collega la Gran Bretagna con la Francia, destinazione il porto di Dieppe. Tra il 17 e 18 giugno lo porta molto vicino a Lione, dopo esser passato per lo Chateau de la Roche. E il 23 giugno Carlo è arrivato nel porto marittimo di Tolone dove si è imbarcato per Porto Torres. Stamattina l’arrivo, accolto dalla banda musicale e dai fan raccolti tra una tappa e l’altra sui social.

22.6.23

malattie social . medici e prescrizioni a sbafo . Ozempic challenge la gara a dimagrire che crea problema ai diabetici

   sfide  sempre   più idiote   per  avere  visibilità  sui  social  ma  anche   no Ozempic challenge: la gara a dimagrire che beffa i diabetici Dopo il polverone sulla tragica challenge degli youtuber di Casal Palocco,  di cui  si  è  occupato  anche il nostro blog   in diversi  post,   se interessati  li trovati in archivio ,  si è iniziato a parlare di challenge scommessa \ sfida  chiamiamo  le  cose  con il loro   nome evitiamo  inutili  anglicismi quando  si  può trovare   il  corrispettivo  italiano  non imbastardiamo  ed  impoveriamo ulteriormente inultimente  la  nostra  lingua   e spesso a sproposito, come  fa notare   la  famosa  blogger   <<  se le sfide virali lanciate sui social fossero la causa di ogni male. dA FQ  del  20\6\2023vedere il Jepg   al  lato  dell'articolo in questione       >> Ovviamente non è così – ce ne sono di divertenti e innocue  che    fanno  ridere   o  creano   sconforto  per  dire  che  matti  che  sono      a  cosa su  arriva  pur  d'avere  un like  , ecc  . Qui si tratta  diu  una  sfida  e  di  una  moda   lanciata   da  vip  e  pseudo  vip  ( i  cosi detti  influenzer ) .  che    crea   problemi   chi  uysa  quel  farmaco   per  necessità 


  con questo è tutto  


«Io, maestra nera nella scuola italiana. Oggi c'è chi non si vergogna più di essere razzista» la storia di Rahma Nur

  corriere  della sera   tramite  msn.it  \  bing    Rahma Nur insegna italiano, storia e inglese alla scuola elementare Fabrizio De André d...