29.12.21

perchè nei licei s'insegna la filosofia degli uomini e non delle donne ?

 leggo sul mensile   gratuito   io aqua   sapone  di  Ven 22 Ott 2021 | di Angela Iantosca | Interviste Esclusive questa  intervista  a Mariarosaria Taddeo (  FOTO  A  SINISTRA   PhD in Filosofia Teoretica e Pratica, Università degli Studi di Padova; Laurea Magistrale summa cum laude in Filosofia Università degli Studi di Bari) è Professore Associato e Senior Research Fellow presso l’Oxford Internet Institute dell’Università di Oxford. È anche Defense Science and Technology Fellow presso l’Alan Turing Institute di Londra. Il suo lavoro si concentra principalmente sull’analisi etica dell’intelligenza artificiale, dell’innovazione digitale, della sicurezza informatica e dei conflitti informatici. Ad ottobre ha partecipato all’undicesima edizione dell’Internet Festival  (  www.internetfestival.it  )  a Pisa per parlare di moral machine, festival che prosegue online fino a dicembre. 
Essa a otto anni si poneva domande su Dio e l’universo, su finito ed infinito e su chi genera cosa, provando a dare un senso ai suoi ‘perché’, grazie alle conversazioni con uno zio professore prima e a quelle con un professore di filosofia poi. Oggi Mariarosaria Taddeo è tra le prime 50 donne italiane che lavorano sui temi della tecnologia e della sua governance; è tra le 100 donne più influenti nella tecnologia del Regno Unito e tra le prime 100 donne che lavorano sull’etica dell’intelligenza artificiale nel mondo. Professoressa associata e ricercatrice senior 
presso l'Oxford Internet Institute, il suo lavoro si concentra principalmente sull’analisi etica dell’intelligenza artificiale, dell’innovazione digitale, della sicurezza informatica e dei conflitti informatici.
 Prima  dell'intervista  , chiedo perdono  ,   un ulteriore premessa  :   Poiché non sono nè un filosofo  accademico  nè  un laureato in filosofia la mia   risposta  è ovvia  e  scontata      perchè il sistema  scolastico  \  culturale è  un sistema   patriarcale  e maschilista    , lancio   con  il  titolo interrogativo   la domanda   a miei compagni  di viaggio \  di strada   laureati  ed  insegnanti  in filosofia  . 
Adesso godetevi  l'intervista  in questione  e  gli eventuali link  sotto riportati   per  chi  volesse   approfondire  tali  argomenti  



 
All’undicesima edizione dell’Internet Festival, organizzato a Pisa nel mese di ottobre, è intervenuta per parlare di moral machine: che cosa si intende?
«Questa espressione è un ossimoro, perché non esistono le macchine morali. Ma fa riferimento a qualcosa che sappiamo: tutte le tecnologie, dalla prima leva per sollevare il mondo all’intelligenza artificiale, hanno un impatto etico nella misura in cui aiutano a trasformare la nostra interazione con il mondo o il mondo stesso, quindi hanno delle ricadute sociali ed etiche. L’esempio che faccio spesso è quello della corrente elettrica: nel momento in cui si è creata l’infrastruttura elettrica si sono allungate le giornate lavorative delle persone, perché le ore al buio sono diventate produttive e questo ha trasformato l’interazione sociale, le opportunità e i problemi della società. La tecnologia, quindi, ha un impatto etico e sociale e noi vogliamo capirlo e indirizzarlo, cioè vogliamo fare in modo che la tecnologia sia utilizzata per rendere migliore la società. Questo nel senso più ampio. Nel senso più specifico, moral machine attiene all’ambito dell’intelligenza artificiale e a questo miraggio, che, se si fossero mai costruite queste macchine intelligenti così come noi umani siamo intelligenti - cosa che dico subito è fantascienza, non scienza -, allora questa macchine sarebbero dovute essere morali, comportandosi secondo i nostri valori e, se non lo fossero state, ci saremmo trovati in acque problematiche, perché, essendo macchine intelligenti e autosufficienti, avrebbero potuto sopraffare il genere umano». 
 
Ma non è questo il problema. 
«No. Quindi che cosa ci teniamo del moral machine? Il digitale è una tecnologia altamente trasformativa tanto delle nostre interazioni con l’ambiente, tanto dell’ambiente stesso, tanto della nostra comprensione dell’ambiente. Pensiamo al concetto di fisicità e realtà: fino a qualche tempo fa tangibile e reale coincidevano; ora possiamo dire che la conversazione che stiamo facendo su Skype è reale, ma non è fisica, come i file del prossimo articolo che scriverò non sono tangibili, ma sono molto reali. Si tratta, quindi, di una trasformazione concettuale che il digitale ha determinato. Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale abbiamo capito che è una tecnologia, che anche se non ha a che vedere con l’intelligenza umana porta con sé grandi potenzialità e grandi rischi: progettarla e usarla in modo etico è una delle sfide principali del nostro tempo». 
 
Lei è laureata in Filosofia e si occupa di intelligenze artificiali: che collegamento c’è tra filosofia e tecnologia?
«La filosofia della tecnologia esiste da sempre. La tecnologia pone molte domande concettuali a cui la filosofia è chiamata a rispondere. In contesti anglosassoni e nelle scuole di filosofia analitica, filosofia e tecnologia sono un connubio frequente. Forse è un connubio meno frequente nella filosofia continentale, anche se filosofi come Heidegger o Foucault si sono posti questioni che hanno a che fare con la tecnologia. Inoltre, i filosofi da sempre si occupano del tempo in cui vivono: Platone, Aristotele, Kant si preoccupavano dei problemi del loro tempo. E nel nostro tempo al centro c’è la tecnologia, quindi è normale che i filosofi se ne occupino». 
 
Come usarla e non abusarne della tecnologia?
«Non sempre è possibile prevedere e quindi controllare gli effetti e gli usi indesiderati della tecnologia. Nel contesto del digitale è valso per anni il motto della Silicon Valley del fallisci spesso e in fretta per poi ricominciare, senza preoccuparti delle conseguenze, perché l’innovazione deve andare avanti. Questo è uno spirito pionieristico che non tanto collima con le società di oggi. Nella scorsa decade è diventato sempre più chiaro che l’innovazione tecnologica ha bisogno di governance e di strategie che allineino l’innovazione con i valori delle nostre società. È per questo che mi piace molto la strategia europea della Twin Transitions – che lega l’innovazione digitale alla sostenibilità -. Definire governance e strategie non è semplice, la cosa richiede di considerare interessi diversi e equilibri precari e bisogna indirizzare l’innovazione senza rallentarla troppo, favorirne il potenziale buono e nello stesso tempo costruire delle condizioni, identificare e mitigare i rischi. A volte in tutto questo la chiarezza concettuale di analisi filosofiche può offrire un aiuto importante». 
 
Donne e tecnologia, un tema che spaventa più di qualcuno. Quanto siamo indietro nel nostro Paese e all’estero?
«Io sono sempre un po’ in dubbio: non so quanto sia una questione di Paese o personale. C’è sempre, anche nel Paese più evoluto, qualcuno che pensa che sia strano che una donna scriva poesia o costruisca ponti. In Italia - ma non solo - abbiamo un retaggio sia culturale sia formativo. Faccio parte di quella generazione in cui le studentesse di Fisica o Informatica si contavano su una mano, mentre a Lettere, Filosofia o Psicologia la proporzione era quasi inversa. Mi sono sempre chiesta quanto di queste proporzioni fosse il risultato di un retaggio culturale e sociale, un retaggio che abbiamo pagato e continuiamo a pagare in termini di skills. Forse la differenza con gli altri Paesi è che all’estero il problema è riconosciuto in maniera più evidente e vengono prese misure che tendono a limitarlo. Confesso una duplice ambizione: da un lato immagino e lavoro nel mio piccolo per una società in cui la diversità sia riconosciuta come un valore e un assett, dall’altro lato per quello che attiene alla vita professionale, vorrei smettere di pensare in termini di uomini e donne e pensare in termini di persone competenti o non competenti. E immagino una società in cui le opportunità per acquisire competenze siano alla portata di tutti. Ma so che queste ambizioni richiedono molto lavoro». 
 
Lei è nata e cresciuta in Italia, dove si è anche laureata e poi è emigrata, dunque è un cervello in fuga: quando ha deciso di cercare altrove nuove opportunità? 
«Sono andata via la prima volta a 22 anni, ho fatto un Erasmus a Berlino, che ha cambiato la mia prospettiva. A Berlino, per la prima volta, mi sono sentita Europea e non solo Italiana e mi sono ritrovata al centro di mondo che transitava verso il digitale. Quando sono partita per la Germania, vedevo l’Erasmus come una pausa non una fuga; quando sono rientrata ho capito che era stato uno spartiacque.  
Sono successe in un secondo momento delle cose che hanno definito la mia scelta di studiare all’estero. Io ho fatto un dottorato in Italia (a Padova), quindi non posso dire che non ci siano state date opportunità: certo, trovare quelle opportunità è stato tremendamente difficile. La scelta, poi, di cercare contatti ad Oxford è stata molto più consapevole ed ha avuto a che fare anzitutto con la determinazione di voler lavorare su temi di tecnologia, filosofia e etica. Quando ho iniziato ad occuparmi di questi argomenti, Oxford era uno dei pochi posti in Europa in cui si parlava di filosofia della tecnologia ed etica della tecnologia. C’era già un gruppo che se ne occupava, colleghi che avevano gruppi di ricerca. Inoltre, noi filosofi seguiamo delle scuole ed io seguivo più la scuola analitica che quella continentale, quindi è stato ulteriormente ovvio orientarmi su Oxford».
 
Lei lavora anche con la Nato: qual è il suo ruolo?
«Faccio parte di un gruppo di studiosi composto da esperti di tecnologie e militari creato per capire come le tecnologie del digitale possono essere usate a supporto della sicurezza e anche del benessere delle persone che sono impiegate in un campo di battaglia. Poi collaboro da tempo in diversi contesti per quanto riguarda l’analisi dell’impatto etico dell’uso del digitale per la difesa nazionale, come per esempio la definizione dei principi etici per l’uso di intelligenza artificiale nei conflitti cibernetici. La Nato ha un ruolo importantissimo nella spinta verso la definizione di come gli Stati si comportano in certi contesti, in questo caso quello cibernetico. Non definisce leggi, ma si determinano delle prassi, a volte anche non scritte, ma che sono poi rispettate dagli Stati Membri e dagli alleati. Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, soprattutto nell’ambito dei conflitti cibernetici, non abbiamo una regolamentazione delle State practices e quindi guardare un po’ a ciò che la Nato dice e fa o poter contribuire alle discussioni su cosa sia giusto fare è un grande opportunità per guidare l’uso dell’intelligenza artificiale, che nel contesto della difesa nazionale ha un enorme potenziale, ma pone anche seri rischi per la stabilità internazionale e i diritti dei cittadini».
 
Quando ha scoperto questa passione?
«Dico sempre che ci sono nata. è un’attitudine. Sin da piccola mi facevo domande un po' strane sulla natura delle cose … Eh sì, avevo di questi problemi (Ride – ndr) di cui riuscivo a discutere solo con uno zio che è stato un professore di filosofia in un liceo napoletano. Negli anni poi le risposte a quelle domande sono venute dai libri di filosofia. Quando poi ho scoperto la logica, che mi ha insegnato a mettere in ordine i pensieri, ho capito che non c’era altra strada».
 
A delle giovani ragazze che si affacciano a questo mondo che consigli darebbe? 
«C’è una cosa che è importantissima, che è forse la più importante che mi hanno insegnato: bisogna buttare il cuore oltre l’ostacolo. Finché si rimane nella confort zone, il salto non è mai abbastanza alto. E questo vale per tutto. Vale sempre. Per me è stato utile capire questa cosa, perché con il cuore oltre l’ostacolo è difficile distrarsi o lasciarsi intimorire. Per le ragazze che vorrebbero fare le filosofe il cuore oltre l’ostacolo vale doppio. In Italia siamo abituati a pensare alla filosofia come alla storia della filosofia e leggiamo questi libri bellissimi, ma difficilissimi, che sono un deterrente per i più. Ma la filosofia, prima di essere storia della filosofia, è ragionamento sul mondo. Quindi i filosofi osano, hanno l’ambizione (e quindi l’entusiasmo, l’impegno e la disciplina) di contribuire a capire e cambiare il mondo (anche solo un po’) con la forza delle proprie idee».  
 
Se potesse intervenire nei programmi delle scuole, quale strategia adotterebbe?
«La copierei al mio professore di filosofia del Liceo: smettete di leggere i manuali e leggete i testi. Il manuale è una sintesi, che rischia spesso di rendere le analisi filosofiche tediose. Il testo, invece, anche se scritto in modo un po’ complesso, rivela molto di più dell’autore, delle sue teorie, del momento in cui sono state definite. Poi, inserirei l’insegnamento di tanta logica. La logica sta alla filosofia come la matematica all’ingegneria: non si costruisce un’analisi, un argomento stringente senza la logica, non si costruisce un palazzo che regga senza fare calcoli precisi… A parte il suo ruolo per la filosofia, la logica è un’alleata dei ragionamenti che noi tutti facciamo nel quotidiano, quindi studiarla non può che essere un valore».   

SITOGRAFIA   

 

28.12.21

i danni economici che creano le mafie ed la criminalità economica e corrotta

da il fatto quotidiano del 27\12\2021


ma  oltre   all'interessantissima    intervista  sopra   riportata  c'è  quest'altro articolo  che    conferma  il danno    che  le mafie  hanno fatto  e  stanno facendo in  50  anni 

 

Lo Studio di Bankitalia: al Sud, azzerando Cosa Nostra & C., il valore aggiunto sale dello 0,5% all’anno, al Nord dello 0,2%. Crisi Covid: le mani dei clan sulle imprese

crescita”, scrivono i due ricercatori, “inquinando il capitale sociale e ambientale”. Da un lato, “deprime l’accumulazione di capitale, sia pubblico sia privato. Ingenti risorse vengono destinate alla prevenzione e al contrasto dell’attività criminale, sottraendole a investimenti produttivi e infrastrutturali”. Dall’altro, “l’ingerenza delle organizzazioni criminali nell’attività economica disincentiva l’investimento privato, riducendone i rendimenti attesi” e “incide sulla qualità della forza lavoro e sull’accumulazione di capitale umano. Un mercato del lavoro depresso dalla presenza delle mafie e la possibilità di perseguire

carriere criminali possono scoraggiare l’investimento in istruzione e incentivare i giovani più capaci a emigrare”. Senza dimenticare che la presenza mafiosa “genera distorsioni nella spesa e nell’azione pubblica. I legami corruttivi tra associazioni criminali e pubblica amministrazione condizionano la spesa pubblica che viene riorientata verso finalità particolaristiche, a discapito dell’interesse generale. Questo si associa a un più contenuto sviluppo economico”. L’ANALISI è stata realizzata tramite un nuovo indice sintetico che utilizza il database dei reati e vi aggiunge informazioni ulteriori, ottenute da indagini condotte tra le imprese. L’indice della presenza mafiosa raggruppa statistiche (“pesate” in rapporto al totale del campione) sugli omicidi di stampo mafioso e il numero di reati di associazione mafiosa, il numero di Comuni sciolti per mafia, quello delle imprese confiscate, aggiungendo reati “spia”, come quelli per il controllo del territorio e per le attività illecite. Il primo gruppo include attentati, omicidi, danneggiamenti, incendi ed estorsioni. Il secondo sfruttamento della prostituzione, produzione e distribuzione di stupefacenti, contrabbando e riciclaggio. Infine sono inseriti nel database provinciale anche indicatori soggettivi sull’intensità del fenomeno mafioso percepita o sperimentata dagli operatori economici (estorsioni, intimidazioni e minacce, concussione).

L’indice elaborato da Mocetti e Rizzica consente non solo di fotografare in profondità le province con una presenza mafiosa “di lungo periodo” - dalla Calabria (in particolare Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia) alla Campania (Caserta e Napoli), dalla Puglia (principalmente il Foggiano) alla Sicilia (in particolare quelle occidentali dell’isola) - ma di trovarne nuove tracce significative anche in alcune aree del Centro Nord, con valori più elevati a Roma, Genova e Imperia. Lo studio si collega alle stime sui volumi di affari legati alle attività illegali, attraverso le quali la criminalità organizzata si finanzia e arricchisce, calcolati da Istat e Transcrime in oltre il 2% del Pil. A queste attività vanno poi aggiunti i proventi che le mafie ottengono dall’infiltrazione nell’economia legale. Ma la ricerca analizza anche le variaUn freno al Paese Azzerando Cosa Nostra & C. il Sud vedrebbe crescere il valore aggiunto dello 0,5% l’anno, il Nord dello 0,2% 

la pandemia da covid ha fatto e sta facendo morire anche la pietà


   in sottofondo

da https://www.terzobinario.it/
«Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscere la differenza.» perchè le  file   dei  no  vax ( foto a   sinistra  )  per  farsi il tampone  Stanno mettendo in crisi la pietà degli italiani. Infatti  i tanti, troppi No Vax uccisi dalla malattia che negavano, e dunque con-dannati a quel contrappasso che impietosiva persino Dante. Generalmente l’Italia della misericordia, il popolo che nelle disgrazie dà il meglio di sé, non solo non perdona, ma neppure sembra commuoversi per questi morti senza  vaccino   o  per  i loro appelli  spesso  coerenti  ma  generalmente   a modo  di lacrime  di coccodrillo E forse perché la ferocia dei primi due anni di pandemia, con quelle bare che, nell’inverno del 2020, furono caricate sui camion militari verso una cremazione senza sepoltura, sono oggi “memoria collettiva”, sono il passato che, come dicono i filosofi della Storia, perduta l’urgenza, “pende sul presente come una mannaia” ma  di cui  viene  ignorate  ,  basti  vedere le  piazze reali e  virtuali  dei novax  co la  (  la maggior parte  )   arroganza  fisico e verbale  .

Forse perché 

i nomi di quelle vittime non sono ancora stati incisi sulle colonne di marmo dei Monumenti ai Caduti, l’Italia dunque sembra negare alla perduta gente dei No Vax, pentiti o irriducibili che siano, quella pietà che concede a tutte le povere vittime, fossero pure di se stessi: lasciate ogni speranza, o voi che entrate.

                                          Francesco  merlo repubblica  [  articolo integrale  a  pagamento\  per abbonati  ]  20\12\2021 ]

cosa  che   ho  provato    a farlo  anch'io  nei post :  1)  irrazionale ., 2) Un bel tacer non fu mai scritto.  le lacrime di coccodrillo  dei  no vax e .....   

<< Eppure --- sempre  secondo   Merlo   ----   noi italiani abbiamo sofferto per la mamma assassina di Cogne. E i battiti del cuore ci hanno impedito di accanirci su Olindo e Rosa, mostri assassini ma innamorati. E davanti alla vigliaccheria criminale di Schettino ci ha addolcito il riconoscerlo come nostro fratello. >> Invece adesso un’implacabile soddisfazione rischia di diffondersi nel Paese della Pietà di Michelangelo proprio mentre cresce l’elenco di quelli che muoiono perché non ci credono, perché non se la bevono, e nonostante siano dolorose e persino strazianti le loro pene e le loro “lacrime impure”.  Ecco alcuni  casi :  Anna Caruso, l’infermiera di 64 anni dell’ospedale di Alessandria che un mese prima di morire diceva: “Io questo virus, a questo punto, mi auguro di prenderlo; piuttosto che morire strisciando meglio morire in piedi”. Ci vuole molto più pudore ed è davvero necessario governare il cinismo quando l’ammalato No Vax sta ancora lottando contro il Covid. Del professor Festini al Carreggi, e di Mauro da Mantova che nei suoi sfoghi alla radio degli “sfogati” (la Zanzara di Cruciani e Parenzo) già malato si vantava di andare al supermercato con 38 di febbre “per fare l’untore”.  Per  il  l'ultimo   il caso  della preside   di  un  liceo   della mia  città  ù



 La verità è che questi poveracci, già da sani, farebbero a tutti gli italiani una gran pena se il covid non avesse aggredito la solidarietà e imbrattato anche la carità. 


https://www.repubblica.it/podcast/audio-rubrica/la-carezza/2021/12/19/news/nel_paese_della_pieta_non_c_e_spazio_per_i_caduti_no_vax-330864959/

27.12.21

Il camper: l’elogio della lentezza un modo per viaggiare con il covid

 in tempi di pandemia  è  meglio    che  viaggiare  in solitaria       che   in  gruppo  . ecco  come  

da  https://www.ioacquaesapone.it/

Il camper: l’elogio della lentezza

Dopo la pandemia, aumentano gli italiani colpiti dalla “Zanzara Camperite”: una dipendenza che piace tanto ai più piccoli

Ven 22 Ott 2021 | di Emanuele Tirelli | Attualità





Nell’ultimo anno e mezzo il numero ha avuto un’impennata incredibile. La pandemia ha fatto riaffiorare in molte persone il desiderio di spostarsi, viaggiare e immergersi
nella natura. E il camper è decisamente una delle scelte migliori. Tredici anni fa in Italia è nata Camperisti Italiani: i suoi 100mila iscritti sono diventati 121mila in meno di 24 mesi. «Questo successo è testimoniato anche dai 100mila visitatori al Salone del Camper di Parma dello scorso settembre», dicono Alberto Pillon e Marzia Moro, fondatori della comunità che fornisce informazioni e suggerimenti, stimola la condivisione e permette agli abbonati Premier anche di accedere a un’App, con soste, itinerari, convenzioni e sconti.

È una passione?
«È più una dipendenza, uno stile di vita. Lo si ama o lo si odia. E se nella coppia non c’è un pieno accordo condiviso, uno dei due finisce per capitolare o la coppia si divide. Altrimenti è talmente emozionante che è estremamente difficile tornare indietro».

Qual è il primo suggerimento per chi non è ancora convinto?
«L’acquisto di un camper non è una spesa da poco, anche se riguarda l’usato. Quindi consigliamo di iniziare con un noleggio, magari fuori stagione, con tariffe basse e formule weekend. In questo modo si può provare l’esperienza, ci si documenta, si sceglie una bella zona e si capisce se si è stati punti da quella che chiamiamo “zanzara camperite”. Magari si procede anche con le operazioni di carico e scarico dell’acqua per un primo approccio concreto con certe dinamiche, e al ritorno si decide. Si tratta inoltre di un investimento che dura 15-20 anni e non si svaluta come l’automobile, ma ha un’ottima tenuta di mercato». 

D’estate, ma anche nei weekend.
«In realtà non esiste una tipologia unica di camperista. C’è quello full time, quello che deve fare i conti con un tempo libero più limitato; l’amante del furgonato o del mezzo gigantesco. Però sono tutti mossi dallo stesso spirito di essere liberi, soprattutto di cambiare idea e di invertire la marcia per andare altrove. Di sicuro il camper riesce a dilatare il tempo, perché il fine settimana inizia quando metti in moto e finisce quando lo parcheggi al ritorno. Chi ha la possibilità di ripetere l’esperienza nel fine settimana successivo riesce ad affrontare i giorni intermedi di lavoro con maggiore serenità». 

Spostarsi sempre?
«È un desiderio. Comprare un camper e utilizzarlo solo nei mesi estivi, eventualmente sempre nello stesso posto, e poi riprenderlo durante la stagione successiva rappresenta un aspetto limitante. A quel punto è meglio una caravan per poter sganciare l’auto e spostarsi nei dintorni. Inoltre, il camper può essere parcheggiato ovunque le sue dimensioni gli permettano di rientrare negli stalli, ma se non è una zona attrezzata non si possono aprire le tendine e i piedini dello stazionamento; e naturalmente non si possono scaricare le acque reflue. La caravan, invece, può sostare solo nelle strutture ricettive».

Di solito si viene dal campeggio in tenda?
«Tendenzialmente sì. Di sicuro chi si avvicina al camper non è una persona che fino a pochi giorni prima alloggiava solo in hotel a 5 stelle. Ma non è una questione economica perché esistono mezzi davvero molto costosi. È proprio il concetto a mutare. Capita spesso che chi ha vissuto il campeggio in giovane età con i genitori o con gli amici poi desideri ripetere l’esperienza con la propria famiglia. E adesso, secondo i mezzi, si può usare anche d’inverno, con temperature fino a -15 gradi».
 
Sulla manutenzione bisogna essere particolarmente preparati?
«La meccanica è la stessa di un’automobile diesel e ha bisogno della stessa manutenzione ordinaria. Ma lo stile di guida cambia a causa delle dimensioni. Ci si deve adattare al peso e al fatto che si tratti di una casa viaggiante, con mobiletti e antine da controllare, vettovaglie, stoviglie. Si procede molto più morbidi e in autostrada è preferibile non superare i 90-100 chilometri orari, anche perché non c’è motivo per correre. Anzi, noi suggeriamo sempre di usare le strade statali per godersi dei paesaggi spesso dimenticati. Un controllo specifico è invece riservato alle autonomie energetiche e di approvvigionamento idrico: in qualche modo si impara anche a non sprecare».

E poi unisce la famiglia.
«I bambini ne sono letteralmente stregati. E la famiglia è sempre molto unita. Ma il camper favorisce la condivisione anche con gli altri. Crea complicità ed elimina la timidezza del saluto. Tra camperisti si arriva subito a scambiarsi informazioni e suggerimenti e spesso si diventa amici».            

 


PICCOLI ESPLORATORI
EUGENIO E IOLE: “DA QUANDO LO ABBIAMO COMPRATO FACCIAMO 70 GIORNI DI VACANZA L’ANNO”

La loro vita è cambiata completamente da quando hanno acquistato un camper. Eugenio e Iole sono in giro con i loro due figli ogni volta che possono, ma la decisione non è arrivata all’improvviso e loro vengono da lunghi anni in tenda. «La prima volta che ho visto un campeggio non avevo ancora compiuto un anno - dice Eugenio -. I miei genitori non erano amanti di tende e caravan, ma io ne ero affascinato perché mi sembrava molto avventuroso».

Poi cos’è successo?
«Nel 2002, io e Iole eravamo ancora fidanzati e abbiamo comprato una tenda per le vacanze. Abbiamo continuato anche con l’arrivo della nostra prima figlia. Nel 2016 siamo passati a un carrello tenda, più flessibile, e siamo stati soprattutto oltreconfine: Austria, Francia, Svizzera, Croazia».
 
Il passaggio successivo è arrivato con la nascita del secondo figlio?
«Volevamo qualcosa di ancora più comodo. Nel 2018 abbiamo comprato il camper dopo qualche mese di ricerche per individuare un mezzo adatto alle nostre esigenze, che fosse compatibile con il budget da destinare a questa nuova avventura».
 
Come è cambiata la vostra vita? 
«Nel 2019 siamo riusciti a trascorrere fuori casa 70 giorni di vacanza. Prima, non andavamo oltre la vacanza estiva e due fine settimana durante tutto il resto dell’anno. Adesso possiamo pianificare anche dei viaggi lunghi senza preoccuparci di prevedere a priori delle soste per riposare. Non abbiamo quasi mai bisogno di prenotare. Il camper è sempre ben manutenuto e rimessato. Ci sono sempre un po’ di abiti e una scorta minima di cibo non deperibile. In questo modo non abbiamo necessità di nessuna preparazione per un week end fuori porta o per un viaggio più lungo. E poi c’è il clima: non ci condiziona particolarmente come accadeva con la tenda, che invece ci impediva di viaggiare con maggiore frequenza».

Questa dinamica contribuisce alla crescita dei vostri figli?
«Ciò che li aiuta non è il camper in sé, ma il viaggiare e il muoversi. Li abitua a guardare davvero le cose, a porsi degli interrogativi, e soprattutto a non chiudersi in se stessi, senza valutare ogni cosa esclusivamente all’interno delle situazioni che vivono in famiglia e a scuola. Il mondo è molto più grande di quanto si immagini in tenera età. Noi, per quanto ci è possibile, cerchiamo di offrirgliene un campionario rappresentativo da toccare con mano. Sono sempre emozionati, fanno mille domande su dove andremo e su cosa potremmo vedere. Vivono ogni uscita come un’avventura. E non è necessario percorrere migliaia di chilometri. Bastano anche un lago o un bosco a cento chilometri da casa per sentirsi dei piccoli esploratori».                                              

 


Il Camper diem di Nathalie
Ha iniziato a registrare il suo quarto album in un camper. In realtà sarà il quinto se si considera anche l’ep «In punta di piedi». Nathalie (all’anagrafe Natalia Beatrice Giannitrapani) si è fatta conoscere al grande pubblico grazie alla vittoria di X Factor nel 2010 e alla partecipazione al Festival di Sanremo dell’anno successivo nella categoria “Artisti”: il suo brano “Vivo sospesa” si è classificato al settimo posto.

Il progetto è già definito?
«L’ho chiamato “Camper Diem” e avrà numerose articolazioni sulle quali sto finendo di lavorare. Intanto il camper è la mia fonte di ispirazione personale, dove vita privata e musica riescono a fondersi perfettamente».

Com’è nata questa idea?
«Sono nata e crescita in una zona di Roma tra i palazzi e la campagna. Anche adesso abito in una realtà simile, quindi forse è una dimensione che mi appartiene, perché non voglio rinunciare a nessuna delle due. Nel mio passato ci sono campeggi in tenda e vacanze in camper. Ho sempre avuto il sogno di averne uno tutto mio. Per cinque anni si è fatto sempre più consistente, così nel dicembre del 2019 finalmente l’ho comprato».

Poi è arrivata la pandemia.
«E durante il primo lockdown è stato impossibile muoversi, ma poi ho ripreso a usarlo per viaggiare, per le mie vacanze, per suonarci».

All’interno c’è anche uno studio di registrazione.
«La batteria del camper è alimentata dai pannelli solari e spero di renderlo sempre più “green”. Si tratta di un mezzo che ti insegna ad apprezzare di più le risorse che abbiamo in casa e a dosarle nel modo corretto per non sprecarle. Dallo scorso giugno ho iniziato a registrare seriamente una parte dell’album all’aria aperta perché faceva caldo e perché arrivavamo da un secondo e lungo lockdown intermittente, che ha bloccato concerti e contatti umani, tenendoci in un continuo isolamento. Per me rappresenta un ritorno alla natura, ai rapporti con l’esterno grazie a quella che in realtà è una casa mobile».

Come scegli i luoghi dove andare?
«Cerco di individuare dei posti che non abbiano rumori di fondo per le registrazioni, ma anche un po’ isolati per non disturbare chi ci abita. A volte, però, i suoni della natura finiscono nelle tracce e rappresentano un bel valore aggiunto. Non sempre uso il camper anche per dormire quando vado a suonare in giro, ma lo farò di più. Per adesso sono stata molto nel Lazio, che è la regione in cui abito, però pian piano cercherò di spostarmi in tutta Italia».                     

26.12.21

non t'arrendere vedrai alla fine qualcuno ti aiuta la storia di Carlos Martins, il pianista più sfortunato che riprende a suonare con i guanti bionici

Tale stotria viene riassunta nel video sotto è la storia di João Carlos Gandra da Silva Martins; nato il 25 giugno 1940
a San Paolo, in Brasile, è un acclamato pianista e direttore d'orchestra classico brasiliano, che si è esibito con importanti orchestre negli Stati Uniti, in Europa e in Brasile. L'amore per il pianoforte dell'81enne João Carlos Martins va oltre ogni limite. Nonostante la distonica focale, un incidente, un'aggressione e altre sfortune si siano accanite sulle sue mani, il musicista e direttore d'orchestra brasiliano non si è dato  fino  all'ultimo  per vinto  grazie  al  suo amore per il pianoforte  che   va oltre ogni limite.   Infatti  Nonostante la distonica focale, un incidente, un'aggressione e altre sfortune si siano accanite sulle sue mani, il musicista e direttore d'orchestra brasiliano non si è dato per vinto  ed   ha  finché le  sue  condizioni di  salute  lo  hanno permesso  .  continuato  a  suonare   prima d'arrendersi   ed accettare  che no poteva    più  farcela  .    Quando poi   all'improvviso  , da  qui  il titolo   del post  ,  designer Ubiratan Bizarro Costa


con    un paio di guanti bionici creati dal designer gli ha restituito ,  come dice  il video sopra     riportato ,   il suo tocco permettendogli di riprendere a  suonare  .

Il cane fedele e la padrona sull'ambulanza e il caso #Akanksha bambina abbandonata appena partorità e salvata da un cane

  non è  per  Clickbait (o clickbaiting) ....  ehm....   acchiappaclic,  o  da  giornali  da parrucchiere   o per  massaie  che  riporto queste  storie  ma  perchè  spesso    il mondo animale   ci   dà   delle  lezioni   non solo in negativo    Coime di  dimostrano le  storie    riportate  sotto 

la prima   è  dell'agenzia Reuters diffonde questo video registrato a Istanbul, in Turchia, a giugno scorso e lo definisce "una delle storie più toccanti del 2021" 



a Istanbul, in Turchia, a giugno scorso e lo definisce "una delle storie più toccanti del 2021", chiaramente in riferimento al rapporto tra uomini e animali. Una donna con problemi di salute viene trasportata in ambulanza all'ospedale. Il suo cane non la abbandona un secondo: segue il mezzo e poi attende la conclusione delle visite. Non ha abbandonato la struttura finché la donna non è uscita, ha scritto Reuters.


La  seconda    da  

Si chiamerà #Akanksha, che nella lingua #Hindi significa "ambizione" la bambina che è stata ritrovata nella provincia indiana di #Chattisgarh senza vestiti e con ancora il cordone ombelicale attaccato. È sopravvissuta al gelo della notte grazie a una cagnolona e ai suoi cuccioli che l'hanno tenuta in caldo. Ed è grazie a questi animali, il cui istinto supera a volte la disumanità di certe persone - quelle che invece hanno pensato di abbandonarla - se la bambina è ancora in vita.
La piccola Akanksha è stata portata in ospedale e visitata dai medici. Adesso è al Child Line Project, il servizio del Ministero delle Donne e dello Sviluppo dell'Infanzia.
Sono in corso le indagini per trovare i genitori naturali responsabili di un gesto così efferato. Mi auguro che vengano al più presto individuati e che paghino una pena severa e giusta.
A questo splendore di bambina, che rappresenta a pieno il senso del Natale, auguro una #famiglia vera, che possa offrirle tutto l'amore di cui ha bisogno. Buona #vita Akanksha! ❤️🎄- di Matteo Grimaldi

25.12.21

Il cibo e il Natale ci ricordano che la religione è una cosa vivae fa fa parte nel bene e nel male di ciascuno di noi

 generalmente  sui media  in questi  giorni   si  è parlato  solo  di  cibo    come  problemi  di salute  e    di  psiche   . Ma  il cibo  è anche  ; spiritualità  ,  religione  ,     convivialità  , scambio culturale  .
Infatti  rimettendo   in ordine le mie  email  ho trovato    questo interessante   articolo   di CLAUDIO FERLAN pubblicato    per     editorialedomani    del  21 dicembre 2021 • 20:48

A family prepares cookies during the first day of Eid al-Fitr holiday in Basra, Iraq, Thursday, May 13, 2021. Eid al-Fitr marks the end of the Muslims' holy fasting month of Ramadan. (AP Photo/Nabil al-Jurani)





  • Siamo prossimi al Natale, una festa che talvolta dimentichiamo essere religiosa, presi dallo shopping furibondo e dalle prospettive d’ingrasso più o meno comunitario.
  • Le scienze umane e sociali interessate alla questione religiosa dimostrano da tempo grande attenzione per il tema ricorrente dell’adattamento culturale nell’esperienza di fede.
  • Che si tratti di come mangiare o bere, di come vivere o di come pregare, la storia è piena di esempi di religioni fai da te.
Siamo prossimi al Natale, una festa che talvolta dimentichiamo essere religiosa, presi dallo shopping furibondo e dalle prospettive d’ingrasso più o meno comunitario. O forse non lo scordiamo affatto, semplicemente ci adattiamo a quella che già sulle pagine di questo giornale è stata segnalata essere una delle più diffuse forme di credenza del nostro tempo: la religione fai da te, raccontata in un bell’articolo firmato da Mark Alan Smith e dedicato agli Stati Uniti d’America. Smith ci racconta come nel bagaglio religioso spirituale individuale siano sempre più presenti «chiromanzia, chiaroveggenza, purificazione dell’aura, lettura della sfera di cristallo, analisi dei sogni, bilanciamento dei chakra, lettura dell’aura psichica, regressione della vita passata e lettura dei tarocchi». Insomma, date delle attitudini religiose, ciascuno sembra libero di amalgamarle come meglio crede. Si tratta di un segnale solo americano? Si tratta di un fenomeno proprio del terzo millennio, storicamente connotato? No e no. Facciamo però un passo indietro per definire meglio l’oggetto del ragionamento. Le scienze umane e sociali interessate alla questione religiosa dimostrano da tempo grande attenzione per il tema ricorrente dell’adattamento culturale nell’esperienza di fede, quella vissuta individualmente prima ancora di quella comunitaria. Antropologia, storia, sociologia, psicologia e teologia riflettono su quella che, con metafora culinaria, è definita religion à la carte o, con immagine differente, patchwork religion. Sono passati dieci anni, per esempio, da quando in un articolo di presentazione di un progetto sulla spiritualità contemporanea guidato dall’università di Bielefeld, la psicologa delle religioni Barbara Keller parlava di «un trend verso una religione patchwork» individuale riconoscibile nelle società europea e americana contemporanee. L’espressione «patchwork religion» valeva (e ancora vale) a descrivere quel fenomeno che induce un sempre più rilevante numero di persone a prendere in prestito elementi dalla tradizione cristiana, dalle religioni asiatiche, da movimenti esoterici e spiritualisti per creare la propria fede/spiritualità individuale.Le convinzioni personali sono sempre meno facilmente identificabili con un sistema di credenze. Tendiamo a costruire la nostra identità religiosa attingendo a insegnamenti provenienti dalle culture e dalle fedi più disparate: lo possiamo fare anche perché è sempre più agevole attingere alle fonti di questa conoscenza; non serve neppure una biblioteca, basta una buona connessione e possiamo consultare una moltitudine di testi considerati sacri.Quanto poi l’interpretazione individuale sia capace di rimanervi fedele, questo è un altro discorso. All’emergere di una spiritualità cucita su misura contribuisce anche la decisione di molti e molte credenti di staccarsi dalle strutture ecclesiastiche religiose organizzate, percepite come inutili perché bastiamo a noi stessi.
Tra le componenti dello stile religioso personale una certa rilevanza la possono acquisire, ed effettivamente lo fanno, le norme alimentari. La stragrande maggioranza delle religioni detta delle regole in relazione alle privazioni della tavola, proponendo ricette che non solo da oggi si mescolano a norme mediche, spirituali, comportamentali. Un buon esempio è la Fastenwoche (settimana del digiuno), ideata da Otto Buchinger (1878-1966) e piuttosto diffusa in Germania e in Austria: ai partecipanti è richiesto di nutrirsi di soli liquidi. L’elenco comprende succhi di frutta, tè e una Fastensuppe (zuppa del digiuno), poco golosamente costituita da acqua senza sale nella quale vengono fatte bollire varie verdure. Si aggiungono alla dieta una significativa attività fisica, una vita in stretto contatto con degli sconosciuti. Ci si affida, in definitiva, a un digiuno per il benessere privo di medicine. Non mancano i rituali di purificazione, come quelli previsti per il cosiddetto “digiuno olistico”, fatto sì del rifiuto temporaneo di qualsiasi cibo solido, ma anche dell’ingestione di importanti quantità di liquidi e dell’uso di pratiche più radicali di lavaggio dell’intestino, come il clistere. Chi ha sperimentato tali esperienze ha parlato di «purificazione rituale», alla quale non sono estranei il rifiuto della società dei consumi e l’impegno ecologico. Quest’ultimo prevede, una volta terminata la Fastenwoche, il rifiuto da ogni tipo di cibo non biologico o a chilometro zero.In Germania ha preso piede anche il cosiddetto digiuno interreligioso, spesso significativamente organizzato nei locali di antichi monasteri sconsacrati: l’aura del luogo probabilmente conta parecchio. Mi limito a richiamarne una in particolare, condotta da una guida spirituale ispiratasi a quattro diverse tradizioni: cristiana, indiana di Sai Baba, buddhista tibetana del Dalai Lama e giapponese del Reiki.
In casi simili non siamo certo di fronte a una riproposizione delle tradizioni monastiche, ma a qualcosa di nuovo, alla trasformazione di una pratica antica che anche grazie al luogo di culto o presunto tale mantiene la propria connotazione religiosa (non solo spirituale), reinterpretandola e riconoscendo a chi propone questo tipo di offerte una dimensione missionaria, intesa come opportunità d’incontro.I
Che si tratti di come mangiare o bere, di come vivere o di come pregare, la storia è piena di esempi di religioni à la carte. La spiritualità degli indigeni nord e sudamericani ne è ricchissima, per come ci è stata raccontata dai coloni e dai conquistatori del nuovo mondo.
L’impatto con la lontanissima cultura cristiana ha dato vita a innumerevoli reinterpretazioni, alcune destinate a sopravvivere (candomblé, vudù, religione del peyote), altre all’oblio (la storia delle Americhe ci narra di molti profeti finiti male come lo shawnee Tenskatawa, il paiute Wovoka, l’inca Túpac Amaru II).Ogni religione, come opportunamente sostenuto da molti studi, è composita, tanto che per gli storici spesso non è possibile definire cosa provenga da una tradizione, cosa da un’altra.Torniamo al Natale, e alla sua assodata origine pagana, legata al solstizio d’inverno e alla festività romana del “Sole invincibile”. Fu l’imperatore romano Aureliano a istituire la festa del Sol Invictus il 25 dicembre 274. E fu Costantino, pochi decenni dopo (330), a mutare la ricorrenza pagana in cristiana, scegliendo quella data per la nascita di Cristo. Fino a quel momento, non vi era uniformità nella comunità cristiane e la celebrazione del compleanno di Gesù si collocava di solito il 6 gennaio, ma la data poteva differire di luogo in luogo. La scelta di un sovrano, però, non è “fai da te” e coinvolge quantomeno tutti i suoi sudditi. Costantino riuscì persino a cambiare nome al giorno del sole (dies solis, come rimane valido per l’inglese sunday o per il tedesco Sonntag), che divenne giorno del Signore (dies dominidimanche, domenica).Il punto centrale che fa di una scelta personale un movimento e non una semplice religione patchwork è proprio questa: l’adesione collettiva. Per quanto possiamo apprendere dai documenti, sono sempre esistiti fenomeni minoritari per cui le e i credenti hanno preso in prestito elementi da più parti per creare la propria fede/spiritualità individuale. Il fatto è che non tutti, non tutte erano sovrane o sovrani, profeti o profetesse, leader carismatiche o carismatici. Per questo non ne sappiamo nulla, a meno che la nostra curiosità o la nostra professione non ci spinga a studiarli, questi fenomeni. Ricordiamoci però di una cosa almeno: nessuno assimila e rappresenta integralmente una tradizione religiosa, una quota di interpretazione personale ci sarà sempre, anche nei più rigorosi difensori di questa o quella fede.È per tale ragione che si moltiplicano i movimenti, che la religione è materia viva, in divenire, è per questo che risulta difficile pensare «Dio (o dio) è morto».

Meloni e company facessero leggi più serie anzichè Vietare le parole «handicappato» e «diversamente abile» nei documenti ufficiali. un linguaggio più inclusivo non si fa per via legislativa

  se invece  di  fare  una legge  per una   cosa di poco conto   visto che  la  sostanza  non cambia   facessero leggi  o  almeno modificase...