IL film racconta la storia gli ultimi sei giorni di Stefano Cucchi. E' un film in cui la sceneggiatura così come è stata scritta che è il frutto di un' analisi dieci mila pagine di verbali ,delle testimonianze delle centoquaranta persone che hanno incontrato Stefano in quei sei giorni non preende naturalmente come è giusto nessuna posizione raccontano i fatti così come sono .un ragazzo che muove mentre custodia dello Stato non è una vicenda privataè qualcosa che riguarda tutti noi perché poi lo Stato dovrebbe rappresentarci tutti. Infatti esso è un film che fa rabbia, tanta rabbia. E che : << non scade nella banale retorica di cui spesso sono vittime pellicole di questo tipo. Assolutamente da vedere >> ( dall'unione sarda quotidiano sardo di centro destra ). Questo articolo di Marco cocco sull'unione sarda del 16 settembre
spiega il perchè , nonostante un fortissimo mal di denti , l'ho visto su netflix .un film talmente fatto bene che : non letto fin ora , se non i siti del famoso sidacato di polizia . nessuna stroncatura o minimazzione da parte di social , sitti , ecc filo forze dell'ordine . Un film che nonostante il boicotaggio : gli rimuovono gli annunci negli eventi di facebook con la scusa che violerebnbe il copyright , Mandano come è sucesso nei giorni scorsi a Rimini la polizia a presediare la sala di dove venicva proiettato
Scusate se concludo , ma ho ancora mal di denti forte , e non riescxo a scrivere molto a lungo con questo ottimo articolo dell'unione sarda del 15\9\2018
Alessandro Borghi nei panni di Stefano Cucchi
Un pugno nello stomaco di inaudita violenza. Di quelli che ti lasciano piegato in due, senza fiato.Anche per questo non è facile scrivere di un film come "Sulla mia pelle", dedicato alla terribile vicenda di cronaca di Stefano Cucchi, il 31enne romano morto nell'area detenuti dell'ospedale Pertini di Roma dopo una settimana di custodia cautelare, mentre era nelle mani dello Stato.Duro, violento - ma senza bisogno di mostrarla, quella violenza - e mai banale.Alessio Cremonini, il regista, non ha bisogno di usare la retorica che spesso trasuda da pellicole che raccontano storie di questo tipo. Non ha bisogno di ricorrere a colonne sonore strappalacrime, di prendere le parti dell'uno o dell'altro o di aizzare gli spettatori contro l'Arma.Così come non ha bisogno di mostrare il brutale pestaggio a cui viene sottoposto Stefano. Quando la porta della caserma si chiude, subito dopo l'ingresso del giovane con i tre carabinieri, la telecamera resta fuori. Discreta. E neanche si sente alcun tonfo, alcun rumore, o qualsiasi altra cosa che possa lasciar immaginare cosa stia accadendo lì dentro.
Da sinistra, il regista Alessio Cremonini e gli attori: Max Tortora, Jasmine Trinca, Alessandro Borghi e Milvia Marigliano (foto Ansa)
Perché quanto successo in quelle quattro mura emerge nei restanti 80 minuti di film. In quel progressivo deterioramento fisico e psicologico che porterà Stefano Cucchi a morire nel giro di neanche sette giorni, e che la regia di Cremonini mostra con una durezza quasi spietata.
Il tutto grazie ad una strepitosa interpretazione di Alessandro Borghi, che raggiunge con Stefano una somiglianza fisica spaventosa. Anche la voce - si evince da un documento audio autentico che si può ascoltare al termine del film - è praticamente identica. Un Borghi straordinario, prima nell'interpretare quel ragazzo di borgata discreto ma anche un po' sfrontato (almeno quando lo fermano i Carabinieri), poi nel mostrarne il rapido declino e la lunga agonia nei giorni successivi al pestaggio.
Alessandro Borghi e Stefano Cucchi (foto Ansa)
Il personaggio di Stefano non viene mitizzato o messo su un piedistallo, ed è un altro grande merito del film. Che non scade, come spesso avviene, nella retorica del ragazzo senza macchia vittima degli uomini in divisa.Stefano Cucchi di macchie ne ha, e il film le mostra tutte: è un ex eroinomane, con tutta probabilità uno spacciatore (prima di uscire di casa si vede Stefano tagliare alcune dosi di hashish da un grosso pezzo, dopo la sua morte i genitori ritrovano in un appartemento di loro proprietà in uso al ragazzo, e consegnano alle forze dell'ordine, 925 grammi di hashish e 133 di cocaina). Un ragazzo della periferia romana, con la voce e l'accento tipici del ragazzo di borgata, con tutti i suoi difetti e le sue fragilità. Un ragazzo che non doveva morire. Non così. Non quel giorno. Non mentre era nelle mani di quello Stato che ci dovrebbe proteggere.
Un film che fa rabbia, "Sulla mia pelle".
In cui tutto fa rabbia. Fa rabbia quel brutale pestaggio, che non vediamo e di cui non sentiamo neanche il rumore, che possiamo solo immaginare. Quel pestaggio ingiustificato, nei confronti di un ragazzo già fragile (162 centimetri d'altezza per 43 chili di peso), per nulla pericoloso e in stato di fermo.Fa rabbia anche Stefano, che non fa nulla per salvarsi o per farsi salvare. Copre - per paura o per sfiducia nelle istituzioni - davanti al giudice e a tanti altri le colpe dei suoi aguzzini. Solo in alcuni scatti d'ira arriva a urlare di essere stato "menato dai carabinieri", ma quando si tratta di confermare le sue dichiarazioni in maniera ufficiale, o perlomeno di riferirle a un'assistente sociale, si rifiuta sempre. E poi rifiuta le cure, non collabora con i medici. Si lascia andare, quasi si lascia morire. Come se quelle botte subite il 15 ottobre 2009 lo avessero non solo colpito fisicamente, ma annullato come persona. Un rapido e inesorabile degrado fisico e psicologico, quello a cui assistiamo per oltre tre quarti del film. Un degrado a cui Stefano non vuole o non riesce ad opporsi.
Stefano rannicchiato e dolorante nella sua cella
Fanno rabbia anche i suoi familiari. Il papà (Max Tortora), unico a vederlo - nel corso dell'udienza in cui viene convalidato l'arresto - dopo il pestaggio, che al momento non fa nulla per pretendere di capire cosa siano quei lividi, cosa sia successo al figlio in quella notte passata in caserma. E tutti gli altri, compresa la mamma (Milvia Marigliano) e la sorella Ilaria (Jasmine Trinca), quando si fanno allontanare ogni giorno con una scusa diversa dal Pertini, che nega loro la possibilità di vedere Stefano e persino di capire il motivo per cui il ragazzo dal carcere sia stato trasferito lì.
La mamma, il papà e la sorella Ilaria
E fa rabbia tutto l'apparato burocratico che lentamente ucciderà Stefano Cucchi. I secondini, che vanno chiamati "assistenti" e non "guardie", altrimenti puoi anche strisciare per terra morente ma non ti rispondono. Il giudice, che neanche ci prova ad approfondire il motivo degli spaventosi lividi sul volto del 31enne. I tanti altri uomini delle forze dell'ordine venuti a contatto con lui. Qualcuno gli mostra anche umanità ed empatia, ma per tutti l'unica preoccupazione sembra essere quella di salvaguardare sé stessi. Emblematico il militare che lo porta a Regina Coeli e dice al collega: "In caso di complicazioni questo è il numero del maresciallo. Questo arresto non l'ho fatto io", come a volersene lavare le mani. Tutte le persone dell'apparato in questa vicenda sembrano intente a lavarsi le mani, senza posarle neanche un attimo sulla coscienza. E l'infermiera a cui Stefano rivela di essere stato pestato dai carabinieri, gli chiede subito di riferire tutto all'assistente sociale. Al "no" di Cucchi, anche lei fa come tutti gli altri. Resetta tutto e ricomincia come se nulla le fosse stato detto.Ed è così che ti ritrovi dopo cento minuti di dolore autentico. Piegato in due. Senza neanche la forza di cercare risposte a tutti i tuoi perché. Perché, Stefano, non dici al giudice che "le guardie" ti hanno pestato? Perché non accetti le cure? Perché tutti voi che lo avete visto in quelle condizioni non avete alzato un dito prima che fosse troppo tardi? Perché, voialtri, lo avete picchiato senza motivo? Perché Stefano Cucchi è morto mentre era nelle mani dello Stato italiano? Chi è Stato?
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