Gian Marco Carboni, ex Dimonios, strappò alla morte un carabiniere Premiato con la medaglia d’argento, ora fa il passacarte. Il motivo: è bipolare



SASSARI. Ogni tanto la sindrome bipolare trasforma il soffitto della sua camera in un widescreen. La notte, in quel buio non buio rischiarato dai pensieri, Gian Marco Carboni spalanca gli occhi, e la mente va in rewind. Rivede le immagini che scorrono. Sono perlopiù anime ancora sporche di morte, che forse non lo abbandoneranno mai.
Ora sta bene. Dice: «Vedi cosa ha scritto il mio psichiatra tre giorni fa? Compensato. Quindi tranquillo: non stai parlando con un matto».

L’autoironia è un’ottima medicina, che lui assume in dosi massicce. Poi ci sono gli altri farmaci, quelli chimici, che si trasformano in un navigatore interiore, capace di mantenere l’umore sulla retta via. Ma talvolta la sindrome bipolare riprende il volante, sterza bruscamente e preme sull’acceleratore della vita. Se Gian Marco Carboni ora si ritrova nel presidio sanitario di San Camillo, a Sassari, con una scrivania davanti, una penna tra le mani, l’umore sotto i piedi e una risma di fogli da fotocopiare, invece di stringere un bisturi chino su un letto operatorio, lo deve agli smottamenti emotivi della sua malattia. Lui, medico di trincea, promettente chirurgo, Dimonios, eroe di guerra, medaglia d’argento al valore che ha salvato vite a rischio della propria, ora si sente in stand-by esistenziale, a mollo nella burocrazia.




Parla con precisione, ha neuroni vivaci, il suo racconto è secco, verrebbe da dire chirurgico, la memoria è svelta. Ma quando va a pescare in profondità, nei fondali più bui, allora tutto rallenta: perché i ricordi sono ancora pieni di spine, e per non pungersi e sanguinare bisogna andarci piano. Riesumarli con cautela, soppesarli, lasciarli andare con un sospiro.
Dodici novembre del 2003. ore 10,30. «Svolgevo le visite mattinali negli ambulatori dell’infermeria della Brigata Sassari. Avevo 28 anni, ero sottotenente medico del 151° reggimento fanteria: ero un Dimonios. All’improvviso udii un forte botto, e pensai a un petardo. La nostra base, White Horse, distava 7 chilometri da Nassiriya. Uscii e guardai la piana sterminata: vidi una coltre di fumo densissima, e capii che doveva essere successo qualcosa di grave. La chiamata radio, qualche secondo dopo, confermò i miei timori». Carboni organizza rapidamente la squadra sanitaria e si dirige verso l’esplosione. «A un centinaio di metri dal luogo dell’attentato c’era un ponticello. Lì vidi un carretto pieno di frutta, e attaccato un mulo. All’animale mancava il ventre, perché l’onda d’urto era stata talmente devastante, da avergliela asportata». Quell’animale sbudellato sarà una delle sequenze di morte trasmesso in loop dal soffitto insonne.
Un’autocisterna carica di nafta aveva puntato a tutta velocità sulla santa barbara della caserma dei carabinieri e si era fatta saltare in aria. Il cratere scavato dalla deflagrazione, la palazzina dilaniata, la devastazione fisica del paesaggio è un’altra istantanea che contaminerà per sempre i pensieri.



«Io mi ritrovai in mezzo a uno scenario di guerra, con i caricatori e le munizioni custoditi nella riservetta che, avvolti dalle fiamme, continuavano a sparare proiettili intorno. Colpi di ak 47, beretta calibro 9, ar 70-90, uno dietro l’altro. Era come stare sotto tiro. Vidi un Vm blindato ribaltato su un lato, con il portellone aperto. Mi levai il casco per entrare, violando qualunque norma sulla sicurezza. Tirai fuori con tutta la forza che avevo un ragazzo. Mi accorsi subito che c’era poco da fare. Ma non volevo lasciarlo lì. Aveva 24 anni, volevo dargli una chance. Quando provai a rianimarlo era già morto».
Non c’è paura in questi scenari estremi. Il cervello va in autoprotezione, ti immerge in un liquido amniotico di imperturbabile onnipotenza: «Io non so se ci fosse già lo zampino della mia patologia, che cominciava già a lavorare sulla testa, fino a quel momento non mi aveva dato segnali. Però io, in quel frangente, mi sentivo immortale. Ricordo bene questa sensazione, e so di non essere l’unico soldato ad averla provata. Io dopo Nassiriya non ho più paura. Temo solo che i miei figli si possano ammalare. Posso avere incubi, rivedere fantasmi. Ma la morte non mi spaventa più».
L’ha vista posarsi da un corpo all’altro, mentre l’ospedale degli americani in pochi minuti si trasformava in una catena di montaggio. I soccorritori arrivavano come tante formichine che depositavano uomini fatti a pezzi. Un ufficiale a un certo punto grida: «We need a surgeon, ci serve un chirurgo». Gian Marco Carboni si fa avanti. «Avevano bisogno di me per un carabiniere colpito da una scheggia, con una emorragia toracica. Si chiamava Vittorio De Rasis, un abruzzese, che riconobbe la mia divisa e mi disse: tenente la prego mi salvi, ho dei bambini a casa che mi aspettano. Guardai la ferita e applicai un trucco che avevo “rubato” al mio primario Mario Trignano. Spruzzai dell’acqua ossigenata, che fa schiuma, per individuare l’origine del fiotto di sangue. E alla cieca tamponai il danno: era impensabile isolare l’arteria e suturarla. Feci la cosa più immediata per non farlo morire: chiusi il rubinetto con una pinza. E grazie a questo accorgimento un po’ rudimentale, De Rasis rivide i propri figli».
Il direttore sanitario del presidio Usa il giorno dopo si complimenta. «Mi fece chiamare e mi disse: “You are very qualified”. Io, specializzando al terzo anno, risposi: I’m very lucky. Sono solo fortunato».



Ma quel piccolo miracolo, assieme al coraggio e all’energia dimostrata durante i soccorsi, nel maggio del 2006 gli sono valsi la medaglia d’argento al valore militare. Che non equivale esattamente a un “bravo” accompagnato da una pacca sulla spalla. «Alla cerimonia di consegna ricordo un colonnello che, davanti alla mia onorificenza, è scattato sull’attenti». Poi però la medaglia e soprattutto i ricordi hanno un loro peso, e finiscono per trascinare a fondo Gian Marco Carboni. La sindrome bipolare a distanza di un anno presenta il conto. «Ha fatto un bel po’ di casino nella mia testa, e ci sono voluti cinque specialisti per rimettere ordine». Per risalire a galla bisogna spogliarsi dei fardelli, e dopo il congedo dalla Brigata l’ex medico del fronte comincia a denudarsi degli orpelli in maniera molto francescana. Il 12 luglio del 2013 regala la sua medaglia d’Argento al Museo della Brigata Sassari. «L’ho fatto per tre motivi: per prima cosa volevo lasciare un ricordo di quel che è accaduto a Nassiriya. Ritengo sia stato il più terribile attentato subito dall’Italia, ancor più di Piazza Fontana. Voglio che tutti sappiano cosa sia capace di fare l’uomo a un altro uomo. Poi l’ho fatto per me: per alleggerirmi di un peso, perché quell’esperienza è una ferita aperta. E infine perché ai miei figli un giorno possa capitare quel che è già successo a mio nipote. In gita scolastica al museo, ha guardato la mia foto e ha esclamato: ehi, ma quello è mio zio! E i compagni: non dire cazzate! Ma sì, c’è il nome: Gian Marco Carboni».
Un mese fa è andato all’ospedale di Ozieri alterato. «Avevo pasticciato con i farmaci, non mi rendevo conto, ero in fase ipomaniacale». Significa irascibilità a dieci tacche, niente freni inibitori, un traliccio ad alta tensione. «Ho avuto un diverbio con una collega, c’era il mio primario e una paziente: ho perso il controllo e sono andato in escandescenze. Tre mesi dopo, a causa del mio disturbo, sono stato sollevato dagli incarichi assistenziali e chirurgici e trasferito a San Camillo a sbrigare compiti burocratici. In pratica mi stanno ammazzando una seconda volta».
Prende ancora un respiro, lascia andare piano le parole: «Io ho sempre tenuto un profilo basso, ho preferito privarmi di ogni luccichio. Ma ora la mia medaglia la tiro fuori. Perché se non sono morto a Nassiriya non voglio morire pian piano nella depressione. Ho dato tanto e pretendo una possibilità. La sindrome bipolare è una patologia che si può controllare, come il diabete. E io resto un bravo chirurgo. Non ho mai avuto una denuncia, mai un danno a un paziente. La mia capacità diagnostica mi viene riconosciuta, so gestire un reparto, posso dare il mio contributo. Non pretendo di operare, ma in un momento di difficoltà non merito di essere gettato via così».
Perché il soffitto della sua stanza, da qualche tempo non è più solo uno schermo che trasmette i ricordi: rischia di diventare un buco nero che assorbe la luce della vita.


  sta  combattendo  contro  il suo  ( e  di tutti quelli che tornano da   guerre  ) 



mi  ha  dato la  forza   di riprendere   a  leggere     il  suo nome   era  guerra  ( ultimo n  di dylan dog  )
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un numero : Fiero ed indigesto l'ultimo Dylan dog visto gli elementi di rottura che ci sono contenuti per coloro abituato al vecchio stile ,i nostalgici insomma, o abituati che una cosa non cambi o si trasformi . Ottimo uno, forse il più bello ,di questo ciclo . Speriamo che lo sceneggiatore vi rimanga in pianta stabile . Un po' Troppo splatter da non leggere di notte e prendersi dopo averlo letto una bella camomilla antiemetico come fa Block


  con questo  è  tutto    alla prossima 

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