repubblica 30\1\2022 di di Marina de Ghantuz Cubbe
Ha trascorso 56 nella lavanderia di via Carducci. Venerdì 4 febbraio sarà l'ultimo giorno di lavoro e per salutarla il presidente dell'VIII
municipio Amedeo Ciaccheri ha deciso di premiarla a nome di tutta la comunità. "Quando sono arrivata a Roma avevo 18 anni e a Garbatella non c'era niente, neanche i marciapiedi"
Una lavoratrice d'altri tempi, Ines Salvador, che ha 94 anni e ne ha trascorsi 56 nella lavanderia a Garbatella, in via Carducci. Venerdì prossimo sarà l'ultimo giorno di lavoro e per salutarla il presidente dell'VIII municipio Amedeo Ciaccheri ha deciso di premiarla a nome di tutta la comunità. In tutti questi anni, racconta la signora Ines, le camice sono rimaste croce e delizia dei romani: non sanno mai come fare per stirarle per bene. Ma una cosa è cambiata: "Ora le persone chiedono consigli, vogliono imparare a prendersi cura delle loro cose".
Il quartiere dove ha lavorato per una vita invece come è cambiato?
"Quando sono arrivata a Roma avevo 18 anni e a Garbatella non c'era niente, neanche i marciapiedi. All'inizio lavoravo sotto padrone, ma insieme a mia sorella ci siamo aperte la nostra attività e poi io sono rimasta a via Carducci con la mia lavanderia, lei si è spostata. Ho visto crescere metà quartiere: mi vogliono tutti bene e infatti il premio che mi hanno dato è una cosa stupenda".
Da dove arriva?
"Da Treviso. C'era già la mia sorella più grande e poi ci ha raggiunte la più piccola che ora ha 90 anni. Noi eravamo 7 fratelli, ma il Piave mormorava quando c'è stata la guerra e nel '42 ho perso un fratello che stava a Corfù e che aveva solo 22 anni. La mia famiglia si è dispersa, abbiamo avuto tanti problemi e chi è sopravvissuto è andato un po' all'estero e un po' a Roma".
Dove lei è diventata una lavandaia storica. Le abitudini dei romani che vengono al suo negozio sono cambiate negli anni?
"Mi hanno sempre portato tante camice e io le lavo e le stiro senza esagerare mai coi prezzi. Una cosa è cambiata: le persone chiedono consigli su come conservare al meglio gli abiti. Io glieli do e anche per questo tantissime persone mi hanno scritto un messaggio perché sono dispiaciute che vada via. L'unica cosa che mi dispiace è che non ho trovato giovani lavoratrici disposte a fare la fatica che ho fatto io: sono troppo distratte dal telefono o dalle sigarette".
Lei è una forza della natura, ci sono stati anche dei momenti di difficoltà?
"Certo, ma li ho superati tutti. Ho avuto 3 incidenti, l'ultimo a ottobre quando una donna al telefono al volante mi ha investito in pieno sulle strisce pedonali vicino a dove abito, sulla Prenestina. Devo prendere 4 autobus e 2 metro per arrivare a Garbatella e mi sveglio alle 4.30 del mattino per aprire il negozio alle 6. Prima degli incidenti stavo fino alle 20, ora fino alle 15. Mi porto il pranzo da casa, me lo cucino io dopo il lavoro. Cibo sano. Infatti sono arrivata a 94 anni".
Cosa farà ora? Ha un sogno nel cassetto?
"Voglio andare dai miei nipoti, a Treviso, ad abbracciarli".
Lui si chiama Claudio Lucchese, Presidente della Florim, azienda modenese nel mondo della ceramica. E oggi annuncia che tutti i dirigenti dell’azienda hanno deciso di tagliarsi lo stipendio di ben tre mesi (aprile, maggio e giugno) per dividere l’importo tra i 600 lavoratori attualmente in cassa integrazione. Così da aiutarli, da garantire loro un bonus di circa 660 euro a testa che si sommerà alla cig.
E che per moltissimi di loro, con famiglie a carico, farà davvero la differenza. Il meccanismo che ha dato vita a questa raccolta è stato davvero virtuoso: prima trenta manager hanno autonomamente preso questa decisione, raccogliendo la prima somma. Poi l’amministrazione ha deciso di metterci anche del suo. Arrivando così a quasi mezzo milione di euro.
E, pensate, la Florim è davvero un’azienda modello per questo genere di cose. L’anno scorso ad esempio si fece carico dello screening per tutte le sue dipendenti donne, per poi allestire un piano di welfare per tutti i dipendenti. Per non parlare di tutto il piano di riconversione al green avviato anch’esso l’anno scorso.
E oggi quest’altro grande bel gesto.
Che ci dimostra allora una cosa: che l’imprenditoria sana, non avida e famelica, che tratta i lavoratori come parte di una famiglia può esistere. E di esempi, in casa, ne abbiamo tanti.
una bella notizia quella che i bulli possono essere recuperati
"Ora aiutiamo le vittime". E i bulli scrivono fumetti La Fondazione Carolina sensibilizza sui rischi di sexting e revenge porn coinvolgendo ragazzi che se ne sono resi protagonisti. E affidando loro il racconto per immagini
per esperienza diretta con amici\che no vax posso affermare che il 90 % è cosi
da repubblica 29\1\2022 di Raffaella Menichini
Il centro di ricerca britannico Centre for Countering Digital Hate ha fatto i conti in tasca sia ai disinformatori di professione: "Video e articoli generano un giro d’affari di circa 36 milioni di dollari l’anno diviso tra 22 aziende appartenenti a 12 individui"
Joseph Mercola ( foto sotto al centro ) è un osteopata 67enne della Florida che ha trovato il modo di diventare milionario: spargere bugie, sospetti e terrore sui vaccini
contro il Covid, negare la gravità della pandemia, incitare i suoi concittadini (ma anche diverse migliaia di persone in tutto il mondo) a non obbedire alle misure di protezione, a partire dall'uso delle mascherine. Mercola sparge le sue teorie online, viaggiando da una piattaforma all'altra con articoli, video, grafiche, sapientemente confezionati per la condivisione. Secondo il New York Times, Mercola è il disinformatore principe di internet, e anche uno dei più profittevoli. Il suo nome figura in cima alla lista di una "sporca dozzina" di disinformatori professionali individuati dal centro di ricerca britannico Centre for Countering Digital Hate che in un recente rapporto ha fatto i conti in tasca sia ai professionisti del profitto No Vax, che alle piattaforme che questa propoganda ospitano e amplificano: un giro d'affari totale di circa 36 milioni di dollari l'anno diviso tra 22 aziende appartenenti a 12 individui. Con i suoi oltre 4 milioni di follower tra Facebook, Instagram, Youtube e Twitter e una pagina a pagamento per abbonati sul sito di autopubblicazione Substack da decine di migliaia di sottoscrittori, Mercola ha costruito un impero che impiega 159 dipendenti dagli Usa alle Filippine e che, secondo il CCDH, da quando è iniziata la pandemia ha guadagnato oltre 7 milioni di dollari. Guadagna in pubblicità, abbonamenti, e dalla vendita di integratori alimentari "miracolosi" per la cura contro il Covid. Qualcosa di simile a quel che hanno tentato di fare in questi mesi in Italia anche emuli "naturisti", con discreto successo.
Chi invece fa affari sulla paura sono altri personaggi della lista dei "12 disinformatori d'oro". E 'il caso del pupillo complottista della dinastia Kennedy, Robert F. jr, con il suo gruppo antivaccinista Children's Health Defence, o di Del Bigtree, fondatore dell'ICAN, l'Informed Consent Action Network, entrambi focalizzati sul reclutamento e l'indottrinamento di genitori preoccupati per la sicurezza e l'efficacia dei vaccini. Da quando Facebook e Youtube li hanno "scaricati", cancellando in parte loro pagine dopo aver raccolto evidenze sulla falsità dei contenuti, sia Kennedy che Bigtree hanno fatto ricorso legale contro le piattaforme, sostenendo di aver avuto perdite economiche dalla mancata esposizione sulle piattaforme social. Viceversa, secondo l'analisi del CCDH, anche le piattaforme guadagnano molto dall'industria No Vax: un seguito stimato di oltre 60 milioni di persone nel mondo può voler dire - secondo le metriche delle stesse piattaforme - un ricavo di oltre un miliardo di dollari.
I piccoli imperi dell'antiscienza danno lavoro a migliaia di persone e producono guadagni certi ai loro dirigenti: si va dai 255mila dollari annui di ricompensa a Kennedy per il suo ruolo alla guida dell'associazione di difesa dei bambini, ai 232mila di Bigtree alla guida di Ican. Da dove arrivano i soldi? Donazioni, in primo luogo, e poi promozioni spesso incrociate all'interno della stessa galassia: un personaggio di spicco del mondo No Vax pubblicizzerà il mio video, o il mio integratore miracolo, in modo tracciabile per poter essere retribuito in base ai profitti derivati dalla promozione stessa. Paradossalmente, molti di questi gruppi hanno beneficiato anche degli aiuti di Stato concessi dalle amministrazioni Trump e Biden alle imprese in difficoltà a causa del Covid: con la motivazione che sarebbero stati a rischio centinaia di posti di lavoro, solo Mercola ha intascato dallo Stato oltre 600mila dollari. Ma quando si parla di disinformazione online, non è solo a Facebook o Youtube che bisogna guardare. Molti di questi principi del complottismo No Vax si stanno trasferendo in massa su altre piattaforme, dove i contenuti vengono consumati "on demand". Ha fatto discutere la polemica sollevata contro Spotify dal cantautore americano Neil Young, che ha chiesto la rimozione di tutte le sue canzoni dalla piattaforma perché non poteva condividere lo stesso "palcoscenico" con un podcast complottista e antiscientifico come il "Joe Rogan Experience" di Joe Rogan. Ed è anche il caso di Substack, il sito di autopubblicazione per abbonati su cui, sempre secondo i dati dei ricercatori britannici di CCDH, cinque newsletter di altrettanti leader No Vax da sole hanno generato 2,5 milioni di dollari in un anno. Una di queste è naturalmente quella di Mercola, che figura al tredicesimo posto tra le newsletter più pagate della piattaforma, secondo i dati dell'Institute for Strategic Dialogue di Londra. Oltre un milione di dollari l'anno per post come quello del 9 gennaio scorso, dal titolo: "Sono morti più bambini per i vaccini che per il Covid".
Buongiorno per tutto il giorno. Oggi è il Giorno della Memoria. Molti scriveranno pensieri al riguardo: contro la violenza, l'odio, l'ingiustizia, la disumanità.
Domani sarà, come ogni giorno, la Giornata dell'Amnesia e dell'Incoerenza: riprenderemo le nostre piccole guerre contro il vicino di casa, il compaesano, il confinante. Lo riempiremo di insulti, proveremo ad infangarlo, diremo ogni male possibile sul suo conto. Incapaci di costruire comunità, di valorizzare le diversità, di essere accoglienti, solidali, inclusivi. Il buonismo social(e) è interno al capitalismo, che ci induce ad essere mercanti della nostra immagine, megafoni del nostro ego in cerca di quotazioni. Ci vendiamo come prodotti della moda: identici, sgargianti, privi di qualità. In fondo, la storia dei Migliori al governo non è che una metafora, una conferma del desiderio individuale, diffuso, di apparire per ciò che non siamo.
Sarò poco coerente perchè prima ne parlo male e poi lo celebro . Ma l'unico modo per rendere nelle nostre coscienze ( ecco perchè oltre il termine giornata palla uso il termine pulicoscienza ) fatti come : le leggi razziali del 1938 con tutto quello che ne consegue , i vagoni piombati che partirono da Roma a partire dalla notte del 15-16\ottobre del 1943 la retata nazista del ghetto ( foto sotto a sinistra) , i campi di Fossoli e della Riviera di San Saba oltre a quelli Tedeschi , ecc. è di continuare a raccontarla visto che i testimoni diretti o semi diretti sono scomparsi o sono sempre meno . Lo so sembrerà una contraddizione con quanto ho condiviso con Emiliano ma sui ricordi di avvenimenti simili maggiormente su quelli più bui va gettata (
non solo a date fisse , infatti ne ho scritto prima di questa data ) la luce e del presente per tenerli vivi , per evitare che non si dimentichi ma soprattutto vengano emulati o diffuse quelle aberranti ideologie che ne sono alla base stessa . Ed i cui germi \ scorie troviamo ancora oggi in atti di nonnismo e di bullismo estremo , o in certi discorsi di politicanti come Pillon ed Adinolfi .
Scusate lo sfogo ma mi sono fatto prendere la mano . ecco l'articolo che volevo proporre oggi che un tema di cui non si parla quasi mai nelle rituali celebrazioni del 27 gennaio . Ovvero il perchè gli Alleati non fecero pur sapendolo niente
Da il FQ del 27\1\2022
IL SILENZIO "ALLEATO " SUI LAGER SHOAH DALLA RIUSSIA AGLI USA LA COMPLICITA' CON I NAZISTI .
STERMINIO TUTTI SAPEVANO
Seppero e tacquero per molto tempo. Fecero finta di non capire o voltarono la testa dall’altra parte. Decisero che l’obiettivo era vincere la guerra e che del resto non potevano occuparsene. Per decine e decine di militari, funzionari, diplomatici, spie, politici dei governi Alleati la Shoah fu un film dell’orrore che – fotogramma per fotogramma – si svolgeva sotto i loro occhi. Intercettazioni,
decrittazioni, rapporti, testimonianze, gli appelli delle organizzazioni ebraiche per fermare lo sterminio: da subito dopo l’invasione nazista dell’unione Sovietica (giugno 1941) per mesi e anni la massa di informazioni prese forma fino a comporre il quadro nero dell’olocausto. Certo, nel dicembre del 1942 Stati Uniti e Gran Bretagna (assieme ai governi in esilio dei Paesi occupati da tedeschi e italiani) denunciarono lo sterminio in una dichiarazione congiunta minacciando di farla pagare alla “barbara tirannia hitleriana”. Troppo tardi.
ERA GIÀ SCRITTO Pochi presero alla lettera il Mein Kampf di Hitler. Nella copia personale di Himmler compare questo passaggio sottolineato (riferito alla Prima guerra mondiale): “Se si fossero tenuti sotto i gas dodici o quindicimila di quegli ebraici corruttori del popolo... si sarebbe salvato un milione di tedeschi, preziosi per l’avvenire”.
I RADIOMESSAGGI decodificati dall’intelligence britannica:
Ucraina - 25 agosto 1941. 1342 ebrei uccisi durante “un’azione di Polizia”; 283 ebrei uccisi dalla Prima Brigata SS. Ucraina – 27 agosto 1941. 2200 ebrei liquidati vicino a Kamenec-podol’skij. Come scriverà il comando territoriale a Berlino, all’11 settembre gli ebrei sterminati ammonteranno a 23.600.
Prussia, Germania – 11 dicembre 1941. Il maggiore delle SS Franz Magill è inviato al campo di concentramento di Oranienburg per farsi spiegare dal personale della Tesch & Stabenow come utilizzare il gas Zyklon (acido prussico) per uccidere prigionieri. Bruno Tesch, il proprietario della società, sarà condannato a morte da un tribunale militare alleato e poi giustiziato.
IL TELEGRAMMA RIEGNER
È il messaggio che l’8 agosto del 1942 Gerhart Riegner, segretario della sezione svizzera del Congresso mondiale ebraico spedisce a Londra e a Washington. “Nel quartier generale di Hitler è stato discusso un piano che prevede che l’intera popolazione ebraica dell’europa sotto il controllo tedesco sia deportata a Est per essere sterminata. L’azione sarebbe programmata per l’autunno prossimo... con modalità che includono l’acido prussico”. La fonte di Riegner è un industriale tedesco.
IL RAPPORTO RACZYŃSKI Il titolo è: “Lo sterminio di massa degli ebrei nella Polonia occupata dai nazisti”, e non l’ha scritto un ricercatore anni dopo la fine della guerra, ma il ministro degli esteri del governo polacco in esilio Edward Raczynski il 10 dicembre 1942. Sedici pagine che riassumono testimonianze e documenti della resistenza: la storia in presa diretta dell’evacuazione dei ghetti, i nomi e i luoghi dei campi di sterminio come Treblinka e Belzec.
AUSCHWITZ Il 4 giugno 1942 i criptoanalisti britannici decodificano un messaggio nel quale il generale delle SS Hans Klammer – che sovraintende alla costruzione dei campi di sterminio – parla di un camino per il crematorio.
A ottobre il traffico radio delle ferrovie tedesche fa riferimento agli arrivi di ebrei polacchi, cechi e olandesi. Ormai i servizi alleati sanno che: 1) il numero di ebrei ammassati nelle baracche non è confrontabile con quello degli ebrei arrivati con i treni; 2) che gli ebrei non lasciano Auschwitz. Lo storico Richard Breitman si è chiesto ironicamente se Auschwitz non fosse diventata una delle più grandi metropoli d’europa.
Il 7 aprile 1944, l’anno nel quale la macchina infernale raggiunge il massimo livello di efficienza (600.000 vittime) due ragazzi slovacchi riescono a scappare dal campo e a tornare a casa. Il rapporto Vrba-wetzeler è la loro testimonianza scritta, c’è tutto: il numero dei treni, la descrizione accurata delle camere a gas e dei crematori, la stima dei morti. Il documento arriva anche in Vaticano mentre si compie il destino di centinaia di migliaia di ebrei ungheresi, il capolavoro logistico del criminale di guerra Adolf Eichmann. Pio XII chiede in una lettera aperta al dittatore ungherese Horthy alleato dei nazisti di “risparmiare a tanta gente sventurata ulteriori sofferenze”; il presidente americano Roosevelt avvisa Horthy di sapere tutto e per ritorsione ordina il 2 luglio di bombardare Budapest. Trenta organizzazioni ebraiche chiedono di colpire con l’aviazione le linee ferroviarie che portano ad Auschwitz e le camere a gas per interrompere lo sterminio. È tecnicamente possibile ma i militari si oppongono. Il 14 novembre il dipartimento della Guerra dice no, e lo scrive: “Siamo impegnati a distruggere le industrie tedesche, non possiamo permetterci diversioni”. Le SS hanno già cominciato a smantellare Auschwitz. I russi stanno arrivando.
In questi giorni ricorrono i 10 anni del naufragio della Costa concordia e contemporaneamente qualche giornale fuori dal coro riporta una tragedia simile avvenuta 50 anni fa al largo dela puglia
Oggi
di Gino Gullace Raugei
I rumori, gli odori, i colori di quel « giorno, non li ho più dimenticati», ci dice Elisabetta Marcucci, pittrice. «E dopo le fiamme, il terrore e le lacrime, neppure quell’attimo di arcano silenzio e pace che credetti essere la morte». Sabato, 28 agosto 1971, la signora Marcucci era tra i 1.174 passeggeri del traghetto greco Heleanna che al largo della Puglia prese fuoco come un fiammifero. In quel naufragio morirono 41 persone e 271 furono i feriti, gravi o gravissimi. Una tragedia del mare peggiore di quella
LA SUPERSTITE ELISABETTA MARCUCCI
della Costa Concordia con cui condivide un triste particolare: anche in quel caso, il capitano, Dimitrios Anthipas, fece calare l’unica scialuppa funzionante e fuggì coi suoi ufficiali, lasciando i passeggeri al loro destino. «Proprio così», conferma Elisabetta Marcucci. «lo vidi coi miei occhi quel signore, che aveva a bordo la moglie e il cagnolino, dileguarsi con la sua famigliola
VIAGGIO ALL’INFERNO
«Avevo 23 anni», ricorda la signora Marcucci, «e mi ero recata in vacanza ad Atene col fidanzato greco che sarebbe poi diventato mio marito. Venerdì 27 agosto, al momento di imbarcarci a Patrasso per tornare in Italia, vidi quella nave ed ebbi una brutta sensazione: non ci volevo salire. Mi faceva paura quello scafo altissimo che sembrava un muro con in cima una fila di piccoli oblò. Il mio fidanzato mi spinse su a forza. E litigammo. A quel tempo», spiega Elisabetta, «usava che i fidanzati dormissero separati, perciò presi posto in una cabina con alcune ragazze francesi, mentre il mio ragazzo si sistemò in un altro alloggio. La nave era strapiena: chi non aveva trovato posto nelle cabine dormiva in macchina o nei camion; c’erano bivacchi di persone ovunque, nei corridoi, sulle scale, nelle sale bar e ristorante. La mattina seguente, all’alba, si spalancò la porta della cabina ed entrò urlando un giovane francese: “Presto uscite, la nave sta andando a fuoco!”».
«Gli altoparlanti ordinarono ai passeggeri di restare in cabina o radunarsi nelle sale bar e ristorante, ma
io raggiunsi il più vicino boccaporto», continua Elisabetta. «Vidi che tentarono di calare le scialuppe, ma erano tutte bloccate dalla ruggine. Una di queste, carica di donne e bambini, si capovolse nella discesa, gettando quei poveretti a mare; poi si ruppe in due e crollò sulla testa di coloro che erano riemersi: una strage.
«In quei momenti ho visto il peggio della natura umana: persone che tiravano per i capelli quelli davanti per aprirsi una via di fuga; gente che si strappava di mano i pochi giubbotti di salvataggio. Gli altoparlanti muti. Siamo stati abbandonati a noi stessi. I marinai passavano semmai di cabina in cabina per razziare i soldi e le cose di valore. «Alla fine ci siamo buttati da un’altezza di circa 20 metri», racconta Elisabetta. «In mare, forza 7, c’erano onde enormi ribollenti di schiuma. Andai metri e metri sotto e quando riemersi, intorno a me, c’era solo silenzio. Pensai di essere morta. Mi risvegliò la voce del mio fidanzato che urlava il mio nome a più di cento metri di distanza.
«Abbiamo trascorso 7 o 8 ore aggrappati p a un grosso salvagente quadrato. Eravamo E 15 o 16 persone. C’era anche un u bambino di 9 mesi sistemato sopra il i galleggiante; attaccato ai miei jeans avevo a un signore di Genova che ogni tanto t si lasciava affondare e dovevo ritirarlo r su per i capelli o un braccio. «I soccorsi arrivarono quasi subito,
navi e molti pescherecci, ma era difficilissimo recuperare i gruppetti di naufraghi, per via della forte corrente, del vento e delle onde. Alla fine ci ripescò una grossa petroliera americana. Sul ponte c’era una catasta di giubbotti salvagente da cui vidi spuntare delle gambe: erano i morti. Un’altra scena che non dimenticherò mai: nella sala macchine, al caldo dei motori, c’era un gruppetto di ufficiali dell’Helianna che facevano asciugare mucchi di banconote razziate dai bagagli dei passeggeri. Mi colpì il fatto che le loro divise bianche e le scarpe erano pulitissime e asciutte: dovevano essere quelli fuggiti con l’unica scialuppa.
«Ci sbarcarono a Brindisi e trovai mio padre e mia sorella che mi riconobbero dalle mani, tanto era malridotta. Prendemmo delle camere in un albergo, pagate a nostre spese, e il giorno dopo volli andare in Procura della Repubblica a denunciare quei marinai greci ladroni.
«So che il capitano Anthipas fu arrestato il giorno stesso mentre tentava di imbarcarsi con moglie e cagnolino su una nave per la Grecia; so anche che non subì conseguenze per la sua vigliaccheria e menefreghismo perché fu estradato nel suo Paese e non fece nemmeno un giorno in carcere. Non sono mai stata chiamata da nessuno a testimoniare nei processi che ci furono e non abbiamo mai avuto una lira di risarcimento. In Grecia si sparse la voce che l’incendio era stato doloso perché l’armatore aveva da poco sottoscritto una polizza vantaggiosa coi Lloyd’s di Londra. Anche lì ci furono dei processi, ma tutto fu insabbiato: c’era il famigerato regime dei colonnelli, molti dei quali erano soci in affari con gli armatori».
È stato ribattezzato «il vaccino anti Covid-19 per il mondo». E impiega una tecnologia tradizionale a base di proteine ricombinanti che ne fa possibile la produzione su vasta scala, rendendola accessibile alla popolazione globale. Ad annunciarlo in un comunicato è stata la microbiologa italo-onduregna Maria Elena Bottazzi, [ foto a sinistra ] co-direttrice del Centro per lo Sviluppo di Vaccini del Texas Children's Hospital e Baylor College of Medicine, istituzioni private e senza scopo di lucro a Houston, negli Usa.
Libero da patenti, il Corbervax – com'è denominato – è già stato autorizzato in India come vaccino di emergenza. E Bottazzi prevede che sarà approvato a breve anche in Indonesia, Bangladesh e Botswana. «È il primo passo per affrontare la crisi umanitaria in corso, vale a dire la vulnerabilità dei paesi a basso e medio reddito nei confronti della variante Delta» ha assicurato la ricercatrice, nata 56 anni fa a Genova e cresciuta in Honduras. «I vaccini a base di proteine sono stati ampiamente utilizzati per prevenire molte altre malattie hanno un comprovato record di sicurezza e utilizzano economie di scala per ottenere una disponibilità a basso costo in tutto il mondo» ha aggiunto la docente e preside associato della National School of Tropical Medicine alla Baylor. Il Corbervax può essere la svolta lungamente attesa per sconfiggere la Covid-19 a livello mondiale, perché «colmerà il divario di accesso creato dalle più costose e nuove tecnologie di vaccini e che oggi non sono ancora in grado di essere rapidamente diffuse per la produzione globale».
L'iniezione ha un'efficacia superiore al 90% rispetto al coronavirus originario di Wuhan e superiore all'80% per la mutazione Delta, come segnala un comunicato del Texas Children's Hospital.«Ora stiamo confermando l'adeguatezza in relazione alla variante Omicron, ma crediamo che manterrà una buona protezione», ha assicurato Bottazzi al quotidiano El País. La sua produzione su larga scala, accessibile a«ogni fabbricante che può produrre un vaccino per l'epatite B», sarà possibilea un costo di circa un euro e mezzo per dose, a fronte dei 21 euro del siero di Moderna, dei 15 euro di quello di Pfizer e dei 3 euro di AstraZeneca. «È questo il concetto di vaccino per il mondo» ha rilevato la Bottazzi. «Ciò che abbiamo visto con gli altri sieri è che, sebbene l'intenzione è che tutti possano accedervi, ci sono limiti per la fabbricazione a grande scala, per l'immagazzinamento, per la proprietà intellettuale. Molti ostacoli, che stanno impedendo di ricevere o produrre le vaccinazioni per tutti».
Nel caso del Cobervax, sembrano superati. Il processo vaccinale sviluppato dal Centro guidato da Maria Elena Bottazzi e Peter Hotez, dopo aver completato due studi clinici di fase III su oltre 3.000 soggetti, «è risultato sicuro, ben tollerato e immunogenico». Hotez stima che siano necessari 9 miliardi di dosi per immunizzare il mondo. «Questo vaccino può ridurre questo gap», ha assicurato la scienziata. «Può alleviare economicamente i Paesi che non hanno fondi per continuare ad acquistare vaccini ad alto costo». E sarà «essenziale in America», per i richiami di vaccini che «non hanno una buona durata dell'immunità, soprattutto in un contesto di nuove varianti». Ma non solo. Cobervax è un vaccino halal, adatto all'uso da parte di persone di religione islamica. «Abbiamo cominciato a lavorare con il Medio Oriente e abbiamo visto che per loro è molto importante» ha spiegato Bottazzi. «Ci assicuriamo di non utilizzare nessun reagente derivato da animali. Tutto è con processi sintetici o vegetali».
Per verificare la news ho consultato un giornale ideologicamente opposto
MEDICINA
Corbevax: il vaccino anti Covid, senza brevetto, che non trova partner
L’incredibile vicenda raccontata dalla ricercatrice Maria Elena Bottazzi
come promesso nei post precedenti dedicati a tale giornata riporto qui un articolo interessantissimo do editorialedomani del 22\1\2022 di Laura Fontana Storica della Shoah ed esperta di didattica. È responsabile per l’Italia del Mémorial de la Shoah di Parigi, ha pubblicato numerosi saggi scientifici in diverse lingue. È autrice di Gli Italiani ad Auschwitz. 1943-1945. Deportazioni, “Soluzione finale”, lavoro forzato. Un mosaico di vittime, Oswiecim, Museo Statale di Auschwitz-Birkenau, 2021.
UN MOSAICO DIFFICILE DA COMPORRE
Le storie dimenticate degli italiani non ebrei deportati ad Auschwitz
Nella foto: Vittoria Gorizia Nenni (Wikipedia)
Nonostante la mole impressionante di studi oggi disponibili, Auschwitz resta per molti, sostanzialmente, un’idea e un’immagine (del male, della crudeltà, della disumanizzazione).
Quando a prevalere è la dimensione simbolica o il discorso morale attorno al tema, il rischio è quello di sconnettere i diversi elementi della storia e di tramandare un racconto sempre più generico e impreciso, confondendo i percorsi delle vittime e i contesti della loro deportazione.
L’intuizione di approfondire queste vicende mi ha portato a scoprire le storie di 1.200 non ebrei internati in quel campo. Sono emerse le biografie di tante storie dimenticate di “triangoli rossi” (simbolo nel lager dei prigionieri politici).
Dalla fine della guerra, la storia di Auschwitz è stata abbondantemente documentata. Eppure, la conoscenza comune resta limitata a pochi fatti essenziali (date, numeri, nomi) e la narrazione appare improntata a una visione parziale, non inclusiva di tutte le politiche criminali che i nazisti realizzarono in questo sito. In sintesi, per tutti Auschwitz è la Shoah e ogni prigioniero dietro il filo spinato era ebreo, destinato alla camera a gas.
Dal 1943 al 1944 lo sterminio costituì la funzione principale del sito (almeno il 90 per cento delle vittime furono ebrei). Ma la Shoah – il cui svolgimento non coincise, per la maggior parte, con la cronologia di Auschwitz – non rappresentò mai l’unico obiettivo dei nazisti. L’istituzione stessa del campo, nel 1940, non fu motivata dalla logica di eliminare gli ebrei, ma dal contesto di brutale repressione della Polonia.
Anche quando Auschwitz iniziò ad assumere un ruolo centrale nella Soluzione finale, il sito mantenne la sua funzione di campo di concentramento e di lavoro forzato, internando prigionieri che non erano solo ebrei.
Nonostante la mole impressionante di studi oggi disponibili, Auschwitz resta per molti, sostanzialmente, un’idea e un’immagine (del male, della crudeltà, della disumanizzazione). Quando a prevalere è la dimensione simbolica o il discorso morale attorno al tema, il rischio è quello di sconnettere i diversi elementi della storia e di tramandare un racconto sempre più generico e impreciso, confondendo i percorsi delle vittime e i contesti della loro deportazione.
Tra storia e microstoria
Capodistria (Koper) 1945. Su questo riflettevo qualche anno fa, quando ho intrapreso il progetto di un libro sugli italiani
Jolanda Marchesich mostra il suo numero di matricola di Auschwitz tatuato sul braccio.
deportati ad Auschwitz. L’intenzione era di narrare le vicende umane della Shoah italiana a un ampio pubblico di lettori, dando spazio alle memorie dei superstiti e adottando un approccio integrato tra storia e microstoria, per far emergere le relazioni tra i diversi ambiti di azione che avevano reso possibile quella tragedia.
All’epoca non conoscevo la storia di italiani non ebrei finiti ad Auschwitz, salvo quella di tre donne, arrestate in luoghi e circostanze diverse: Vittoria (Vivà) Nenni, figlia del leader socialista Pietro Nenni e deportata come resistente dalla Francia, la triestina Ondina Peteani, catturata come giovane staffetta partigiana, e Ines Figini, operaia della Tintoria Comense, arrestata perché aveva scioperato.
L’intuizione di approfondire queste vicende per collocarle nel racconto della deportazione italiana ad Auschwitz mi ha portato a scoprire le storie di 1.200 non ebrei internati in quel campo, grazie a una lunga ricerca negli archivi europei. Il libro ha, quindi, imboccato un’altra strada, più complessa e ambiziosa, volta a riscrivere una storia che fino ad allora era stata raccontata solo attraverso la lettura della Shoah. Dalle carte degli archivi sono emerse le biografie di tante storie dimenticate di “triangoli rossi” (simbolo nel lager dei prigionieri politici).
Le biografie di Ondina e di Ines sono state la chiave per conoscere altre storie di giovani italiane, almeno un migliaio, quasi tutte arrestate nel 1944 nelle province di Udine, Gorizia, Trieste, Fiume, Pola e Lubiana, incorporate nel Reich dopo l’8 settembre.
Territorio sottoposto a una durissima repressione nazista, il litorale adriatico fu oggetto di vaste azioni di arresto e di rastrellamento di civili, volte a stroncare la Resistenza e raccogliere manodopera per le industrie belliche tedesche.
Maria Rudolf, 18 anni di Gorizia, o Adriana Bruschi, 16 anni di Fiume, sono due esempi tra centinaia di giovanissime italiane coinvolte nell’azione partigiana. Altre, invece, vennero arrestate perché sospettate di fiancheggiare le bande partigiane.
Alla cattura, spesso su delazione dei fascisti locali, seguì talvolta la tortura fisica, persino lo stupro. Aurelia Gregori, slovena di 23 anni, partorirà ad Auschwitz la sua bimba, frutto di violenza, pochi giorni prima dell’arrivo dell’Armata rossa.
Molte delle politiche italiane deportate da Gorizia e Trieste erano slovene e croate, nate in località annesse all’Italia dove il fascismo aveva pesantemente discriminato queste minoranze, imponendo un’italianizzazione forzata. Negli anni tra le due guerre, si era diffuso nelle popolazioni locali un sentimento sempre più forte di opposizione, esacerbato poi dall’occupazione nazista. Da Bergamo furono deportate circa quaranta operaie scioperanti delle fabbriche lombarde: una misura punitiva, unita a ragioni di sfruttamento economico. Resta da chiedersi, perché solo loro finirono ad Auschwitz, tra molte altre scioperanti.
Dimensione polivalente
È complicato interpretare per tutte queste italiane la motivazione che ne determinò la deportazione ad Auschwitz. Nel 1944, oltre che centro di sterminio per gli ebrei, Auschwitz era un gigantesco complesso di campi adibiti al lavoro forzato, non solo industriale. Eppure, le testimonianze delle italiane superstiti convergono su un punto: quasi nessuna dovette svolgere un lavoro a scopo produttivo o in fabbrica. Peraltro, tante vi rimasero internate solo per il periodo di quarantena, a ricordare che Auschwitz funzionava anche come campo di smistamento di prigionieri. Fu solo dopo il trasferimento in altri lager che le italiane iniziarono a essere impiegate per la produzione bellica.
Quanto ai più di duecento uomini internati come triangoli rossi, nessuno risulta arrivato direttamente dall’Italia, ma trasferito con specifici trasporti di prigionieri, scelti per categoria (malati e inabili al lavoro per Majdanek) o per professione (lavoratori specializzati e medici da Mauthausen e Dachau).
Gli uomini giunsero ad Auschwitz in condizioni ben peggiori delle connazionali. Già sfiniti dal duro lavoro in diversi campi, spesso sei o sette lager diversi, come per il piemontese Pio Bigo, in molti non fecero ritorno a casa. Generalmente i medici, uomini e donne, che ad Auschwitz furono scelti per la loro professione, come Luciana Nissim, amica di Primo Levi, o il maggiore dell’esercito Giuseppe Filippini, poterono contare su migliori condizioni di sopravvivenza. Per ognuno il trauma rimase indelebile, anche per l’impossibilità di curare i prigionieri ammalati.
Solo ricollocando al centro del quadro la dimensione polivalente di Auschwitz nel 1944, quando vi arrivò la quasi totalità degli italiani, è possibile attribuire un senso alle tante e diverse storie, in particolare quelle delle donne non ebree.
Il lavoro forzato, inteso però in senso ampio, come sfruttamento del corpo degli internati a servizio delle mansioni più disparate (tra le quali svuotare le latrine, trasportare i cadaveri, livellare continuamente un terreno paludoso e ghiacciato), rimase una funzione importante nella storia del complesso di Auschwitz, mai però prevalente, anche durante gli anni dello sterminio e al termine delle operazioni di uccisione col gas, nell’autunno 1944.
È il 2 dicembre 1944 quando, a pochi giorni dalla grande evacuazione, arriva da Mauthausen un trasporto numeroso di lavoratori specializzati, come fabbri, falegnami, elettricisti, ma anche cuochi: tra loro, 165 prigionieri registrati come italiani. Non è un trasferimento casuale, ma giustificato dall’indicazione delle diverse professioni che hanno motivato la scelta di quei prigionieri da inviare proprio ad Auschwitz, dove la pluralità dei campi e sotto-campi della sua amministrazione, richiedevano con urgenza molta manodopera. Allo stesso modo, le continue epidemie di tifo e malattie contagiose, richiedevano la presenza di medici anche per curare le SS e le loro famiglie. Gli ultimi cinque medici prigionieri italiani, internati come triangoli rossi a Dachau e a Mauthausen, giungono ad Auschwitz il 22 novembre 1944 e il 3 gennaio 1945.
La storia degli italiani ad Auschwitz è un mosaico difficile da comporre, perché mancano alcuni tasselli. Le fonti sono frammentarie e le testimonianze dei superstiti non ebrei poco numerose, rilasciate in età molto anziana, oppure raccolte in sloveno e croato e non tradotte.
Raccontare i diversi aspetti di una tragedia, ricordando tutte le vittime, non serve solo a raccogliere le memorie e a riscrivere il racconto storico. È anche un atto di giustizia per tutti coloro che per tanto tempo sono stati ingiustamente dimenticati.