Si sono estinti. Come i dinosauri, no, come i moa, o i dodo. Perché i primi avevano terminato il loro ciclo su questa terra. Gli altri, invece, sono periti per mano di qualcun altro. Dell'uomo, come sempre.
E però non sono animali, ma uomini anch'essi. E donne e bambini. Estirpati da una millenaria perennità di roccia.
Sono i cristiani iracheni. Le loro case, le stesse di duemila anni fa, le hanno sfregiate col marchio della vergogna i jihadisti dell'Isis, nuovi padroni del paese.
Non v'è sangue sugli stipiti, non ancora. Non il segno del pesce, consegnato ai libri di storia europei (nemmeno tutti, temiamo). Vi compare una "N", una enorme "N" blu, iniziale di "nassar" (nazareni). Così li chiamano, da quelle parti. Con disprezzo e odio. I "nazareni" sono gl’"infedeli" che non vogliono convertirsi all'Islam fondamentalista, alla legge della Sharia. Sono cristiani e intendono restar tali.
Per loro, nel nuovo Iraq, non c'è più posto. Da quelle case, adesso, soffia un silenzio di vuoto. Chi le abitava è protagonista d'un nuovo Esodo, d'una moderna deportazione. Gli sguardi, inghiottiti dal deserto, si rivolgono costantemente alle rade suppellettili, ai mobili, ai segni lasciati laggiù, in quei dintorni dai nomi remoti e per noi - smarrito il vocabolario del sacro - fiabeschi: Ninive, Assiria... e che non esistono più: gli hanno bruciato l'episcopio, il monastero. I segni sono la prima cosa da abbattere quando si vuol annientare un popolo, la sua cultura, la sua religione. Mosul e Ninive sono diventate città decristianizzate, esattamente come le spiagge "ripulite" dagli ebrei al tempo del nazismo. Antico e nuovo s'intrecciano in un'agghiacciante concretezza. Nessuna concessione all’esegesi, da quelle parti. Non si tratta d’interpretare, ma di vedere. È una persecuzione vera, biblica, letterale.
da "Sono irachena e sono cristiana", © Famiglia Cristiana 2014
In quel piccolo, smarrito gregge tra le dune, si perde il ramo d’oro della nostra storia. Ma nessun Gilgamesh vi spende una lacrima. I jihadisti non sono invincibili, ma a nessuno importa fermarli. Molti, al contrario, li armano. I paesi fondamentalisti del Golfo, naturalmente, ma pure – come denuncia il patriarca siro-cattolico Joseph III Younan – quei “politici occidentali che hanno bisogno del loro petrolio”.
Di qui l’afasia, anzi, la vera e propria mutria d’Europa e Stati Uniti di fronte a ciò che il patriarca definisce, correttamente, “disastro umanitario” e “tragedia storica”. Le analisi storiche, economiche e sociali non servono. Il dramma, direbbe David Maria Turoldo, è Dio. Smarrito, poi occultato, poi negato, alla fine semplicemente ignorato dalla vicenda umana, Dio è stato sostituito da una pletora di pallidi surrogati, tutti destinati al fallimento.
In Occidente, questo è chiaro: l’ateismo militante, che dalla Rivoluzione francese si era spinto fino alla creazione di regimi comunisti e alla diffusione dell’ideologia marxista, è stato scalzato dalla miscredenza post-capitalista. Mentre il comunismo pretendeva d’instaurare in terra un paradiso d’eguaglianza fondato sui principi della solidarietà umana, la seconda non è fondata su nulla; né lo vuole; e la “filosofia” che lo sottende – il consumismo – è pigra; strutturalmente, ontologicamente, mentalmente pigra. Ne deriva un esasperato individualismo, che trasforma ogni singola pretesa in diritto, col risultato che la democrazia, invece di progredire, arretra, poiché, malgrado i massicci tentativi d’omologazione, il cuore umano resta un percorso d’esperienze diverse e irripetibili, di piccole e molteplici lampade che nessun moggio potrà mai oscurare del tutto.
I politici occidentali che stringono affari col nazismo jihadista sono gli stessi che in pubblico tuonano contro l’”invasione islamica” e s’accorano pei crocifissi di legno, ma non esitano a lasciar crocifiggere dai “nemici” uomini, donne e bambini in carne ed ossa, dei quali pur asseriscono di condividerne il credo. Mentre il vero oggetto del desiderio è un’altra divinità sostitutiva, il Petrolio, e in nome di quell’idolo nero, che pascerà un immanente, materialissimo benessere, tutto può e dev’esser sacrificato. Là dov’è il loro tesoro, è anche il loro cuore.
Ma – si obietterà – l’Occidente è pur sempre la culla dei diritti umani, della libertà religiosa e di coscienza. Del rispetto delle donne. Ciò nondimeno, nemmeno da questi attori s’è ancor levata una voce sdegnata, forte, unanime e chiara contro il genocidio iracheno. Come mai?
Il motivo risiede, ancora una volta, nell’eclissi di Dio e, quindi, nello smarrimento della percezione del bene e del male. I perseguitati dell’Iraq sono cristiani. E i professionisti dei diritti umani hanno nella lotta alla religione, in particolare a quella cristiana, uno dei loro capisaldi. A difendere dei cristiani, oggi, ci sì vergogna. Si teme di passare per clericali, dopo aver ripetuto per decenni che la Chiesa va abbattuta come relitto del Medioevo e insieme di precetti moralistici e patriarcali. L’obiettivo di costoro è instaurare un mondo nuovo, liberale e libertario, dove tutti avranno ogni diritto e nessun dovere. I fatti d’Iraq li lasciano indifferenti perché ancora non ne intuiscono la portata. Non è infatti previsto, nel loro habitus mentale, che la fede in Dio - e, ripetiamo, nel Dio cristiano - non coincida con arretratezza, miseria e oppressione, ma sia anzi sinonimo di speranza, resistenza, valorizzazione piena della dignità umana. Dio non riduce l’uomo, ma al contrario lo potenzia. E potenzia anche la donna: la vicenda di Meriam ha rappresentato infatti un altro fattore destabilizzante per l’industria dei diritti umani. L’odissea (il calvario, cioè) della giovane sposa sudanese ha dimostrato l’infondatezza della tesi secondo cui la religione umilia la femminilità. Per Meriam è vero il contrario e, se qualcosa si è mosso per scongiurarne la macabra sorte, il merito va ascritto solo ad alcune testate cattoliche, non certo ai gruppi femministi, che della questione, fin quando non è assurta alla ribalta mondiale, si sono semplicemente disinteressati; allo stesso modo persiste l’assordante, vergognoso silenzio su Asia Bibi. Ma se Meriam, Asia e altre donne sconosciute avessero rinnegato la loro fede, magari “postando” su qualche social network una foto a seno nudo, la propaganda Femen-ista le avrebbe subito additate a fulgidi esempi da seguire e imitare.
Il balbettio occidentale nei confronti della strage dei cristiani iracheni ha un’altra motivazione ancora: il “politically correct”, figlio degenere del senso di colpa il quale, a sua volta, rappresenta una stortura del senso di peccato. Aver coscienza del peccato, cioè della mancanza, significa riconoscere il proprio limite e confessarlo davanti a Qualcuno in grado di rimetterlo e di dar la forza di proseguire, non malgrado, ma anche con esso. Il senso di colpa è invece un giudice implacabile perché prende come unico metro di giudizio l’Io derelitto e autoreferenziale che si addossa, illimitatamente, tutte le colpe del mondo; un’altra forma di narcisismo.
Il “politically correct”, che da esso deriva, ragiona dunque così: se protesto, rischio di offendere i musulmani e la loro cultura, mentre io, che sono buono, civile e aperto, devo accettare le culture diverse (il discorso però, se ci si fa caso, non vale mai per gli ebrei – tutti indistintamente, non i governanti israeliani – , verso i quali questi fautori del retto pensiero sono spesso astiosi, truci, talvolta, come nel caso di filosofi nostalgici dei Grand Tour, apertamente e volgarmente antisemiti). Quando, poi, quest’ipocrisia diventa oggettivamente insostenibile – non si può sperar di venire a patti con lo pseudo-califfo di Bagdad – il “politically correct” si tramuta non di rado nel suo contrario e i suoi (im)pavidi sostenitori in tante isteriche Fallaci.
Opposto al “politically correct” è il rispetto; il dialogo; religiosamente, l’ecumenismo. Tutti e tre si fondano sulla cultura e la conoscenza, di sé e dell’altro. L’ecumenismo, in particolare, non elimina le differenze, è cosciente delle sue pecche, ma la sua visione dell’uomo rimane fortemente realistica. L’altro non è “buono” solo perché diverso; è uno come me, con pregi e difetti. L’Occidente deve liberarsi dai cascami dell’orientalismo per impostare, finalmente, un dialogo maturo e paritario con una controparte che oggi gli sfugge. Consapevole delle comuni radici ma anche delle rispettive differenze, non temerà più di offendere, ma saprà distinguere tra fondamentalismo e autentica fede, e in virtù di questo sceglierà i giusti interlocutori e avanzerà legittime richieste, anche con fermezza se del caso.
Ma il problema è solo l’Occidente con tanto Io e senza più Dio? No, il problema è anche l'Oriente, il Sud. Perché il fondamentalismo, in religione, è l’altro volto dell’individualismo sfrenato. Anch’esso si fonda su una lettura deviata del testo sacro e si affida a esaltati e criminali che antepongono il loro Io al vero Dio. Già diversi anni fa lo studioso algerino Khaled Fouad Allam denunciava la sclerotizzazione dell’esegesi coranica, ferma praticamente al XIII secolo, e caldeggiava la ripresa degli studi in tal senso, la storicizzazione della Scrittura, ecc. Insomma auspicava un Vaticano II anche per la religione di Mohammed. Il problema, a nostro modesto avviso, è che l'Islam, a differenza del cristianesimo cattolico e ortodosso, non ha un'autorità centrale che pronunci una parola autorevole e definitiva, di approvazione o condanna, su determinate questioni. Tutto quanto, assieme ad altri complessi motivi impossibili da sviscerare nella presente trattazione, può costituire una delle cause della diffusione del fondamentalismo jihadista in talune regioni. Si può però ipotizzare un concilio di personalità illustri, p. es. l'Università di Al Azhar in Egitto, e ad altri tavoli con rappresentanti autorevoli - e rispettati - della religione islamica, da cui non dovrebbero mancare le donne. Ma, più di tutto, conta il sentire della popolazione comune, dei tanti musulmani pacifici e anche di quelli che non lo sono; cosa non ha funzionato? Dove il dialogo ha trovato un incaglio? Si vuole davvero confrontarsi e convivere pacificamente, oppure no? La responsabilità, oggi, è più che mai nelle nostre mani. Nemmeno il Papa può farcela da solo e del resto, come abbiamo visto, se si rende necessario il pronunciamento di musulmani autorevoli, non è possibile limitarsi a questo. Solo riprendendo la grammatica del sacro ci si potrà liberare dalle pastoie della violenza e dell’incomprensione.
© Daniela Tuscano
In quel piccolo, smarrito gregge tra le dune, si perde il ramo d’oro della nostra storia. Ma nessun Gilgamesh vi spende una lacrima. I jihadisti non sono invincibili, ma a nessuno importa fermarli. Molti, al contrario, li armano. I paesi fondamentalisti del Golfo, naturalmente, ma pure – come denuncia il patriarca siro-cattolico Joseph III Younan – quei “politici occidentali che hanno bisogno del loro petrolio”.
Di qui l’afasia, anzi, la vera e propria mutria d’Europa e Stati Uniti di fronte a ciò che il patriarca definisce, correttamente, “disastro umanitario” e “tragedia storica”. Le analisi storiche, economiche e sociali non servono. Il dramma, direbbe David Maria Turoldo, è Dio. Smarrito, poi occultato, poi negato, alla fine semplicemente ignorato dalla vicenda umana, Dio è stato sostituito da una pletora di pallidi surrogati, tutti destinati al fallimento.
In Occidente, questo è chiaro: l’ateismo militante, che dalla Rivoluzione francese si era spinto fino alla creazione di regimi comunisti e alla diffusione dell’ideologia marxista, è stato scalzato dalla miscredenza post-capitalista. Mentre il comunismo pretendeva d’instaurare in terra un paradiso d’eguaglianza fondato sui principi della solidarietà umana, la seconda non è fondata su nulla; né lo vuole; e la “filosofia” che lo sottende – il consumismo – è pigra; strutturalmente, ontologicamente, mentalmente pigra. Ne deriva un esasperato individualismo, che trasforma ogni singola pretesa in diritto, col risultato che la democrazia, invece di progredire, arretra, poiché, malgrado i massicci tentativi d’omologazione, il cuore umano resta un percorso d’esperienze diverse e irripetibili, di piccole e molteplici lampade che nessun moggio potrà mai oscurare del tutto.
I politici occidentali che stringono affari col nazismo jihadista sono gli stessi che in pubblico tuonano contro l’”invasione islamica” e s’accorano pei crocifissi di legno, ma non esitano a lasciar crocifiggere dai “nemici” uomini, donne e bambini in carne ed ossa, dei quali pur asseriscono di condividerne il credo. Mentre il vero oggetto del desiderio è un’altra divinità sostitutiva, il Petrolio, e in nome di quell’idolo nero, che pascerà un immanente, materialissimo benessere, tutto può e dev’esser sacrificato. Là dov’è il loro tesoro, è anche il loro cuore.
Ma – si obietterà – l’Occidente è pur sempre la culla dei diritti umani, della libertà religiosa e di coscienza. Del rispetto delle donne. Ciò nondimeno, nemmeno da questi attori s’è ancor levata una voce sdegnata, forte, unanime e chiara contro il genocidio iracheno. Come mai?
Il motivo risiede, ancora una volta, nell’eclissi di Dio e, quindi, nello smarrimento della percezione del bene e del male. I perseguitati dell’Iraq sono cristiani. E i professionisti dei diritti umani hanno nella lotta alla religione, in particolare a quella cristiana, uno dei loro capisaldi. A difendere dei cristiani, oggi, ci sì vergogna. Si teme di passare per clericali, dopo aver ripetuto per decenni che la Chiesa va abbattuta come relitto del Medioevo e insieme di precetti moralistici e patriarcali. L’obiettivo di costoro è instaurare un mondo nuovo, liberale e libertario, dove tutti avranno ogni diritto e nessun dovere. I fatti d’Iraq li lasciano indifferenti perché ancora non ne intuiscono la portata. Non è infatti previsto, nel loro habitus mentale, che la fede in Dio - e, ripetiamo, nel Dio cristiano - non coincida con arretratezza, miseria e oppressione, ma sia anzi sinonimo di speranza, resistenza, valorizzazione piena della dignità umana. Dio non riduce l’uomo, ma al contrario lo potenzia. E potenzia anche la donna: la vicenda di Meriam ha rappresentato infatti un altro fattore destabilizzante per l’industria dei diritti umani. L’odissea (il calvario, cioè) della giovane sposa sudanese ha dimostrato l’infondatezza della tesi secondo cui la religione umilia la femminilità. Per Meriam è vero il contrario e, se qualcosa si è mosso per scongiurarne la macabra sorte, il merito va ascritto solo ad alcune testate cattoliche, non certo ai gruppi femministi, che della questione, fin quando non è assurta alla ribalta mondiale, si sono semplicemente disinteressati; allo stesso modo persiste l’assordante, vergognoso silenzio su Asia Bibi. Ma se Meriam, Asia e altre donne sconosciute avessero rinnegato la loro fede, magari “postando” su qualche social network una foto a seno nudo, la propaganda Femen-ista le avrebbe subito additate a fulgidi esempi da seguire e imitare.
Il balbettio occidentale nei confronti della strage dei cristiani iracheni ha un’altra motivazione ancora: il “politically correct”, figlio degenere del senso di colpa il quale, a sua volta, rappresenta una stortura del senso di peccato. Aver coscienza del peccato, cioè della mancanza, significa riconoscere il proprio limite e confessarlo davanti a Qualcuno in grado di rimetterlo e di dar la forza di proseguire, non malgrado, ma anche con esso. Il senso di colpa è invece un giudice implacabile perché prende come unico metro di giudizio l’Io derelitto e autoreferenziale che si addossa, illimitatamente, tutte le colpe del mondo; un’altra forma di narcisismo.
Il “politically correct”, che da esso deriva, ragiona dunque così: se protesto, rischio di offendere i musulmani e la loro cultura, mentre io, che sono buono, civile e aperto, devo accettare le culture diverse (il discorso però, se ci si fa caso, non vale mai per gli ebrei – tutti indistintamente, non i governanti israeliani – , verso i quali questi fautori del retto pensiero sono spesso astiosi, truci, talvolta, come nel caso di filosofi nostalgici dei Grand Tour, apertamente e volgarmente antisemiti). Quando, poi, quest’ipocrisia diventa oggettivamente insostenibile – non si può sperar di venire a patti con lo pseudo-califfo di Bagdad – il “politically correct” si tramuta non di rado nel suo contrario e i suoi (im)pavidi sostenitori in tante isteriche Fallaci.
Opposto al “politically correct” è il rispetto; il dialogo; religiosamente, l’ecumenismo. Tutti e tre si fondano sulla cultura e la conoscenza, di sé e dell’altro. L’ecumenismo, in particolare, non elimina le differenze, è cosciente delle sue pecche, ma la sua visione dell’uomo rimane fortemente realistica. L’altro non è “buono” solo perché diverso; è uno come me, con pregi e difetti. L’Occidente deve liberarsi dai cascami dell’orientalismo per impostare, finalmente, un dialogo maturo e paritario con una controparte che oggi gli sfugge. Consapevole delle comuni radici ma anche delle rispettive differenze, non temerà più di offendere, ma saprà distinguere tra fondamentalismo e autentica fede, e in virtù di questo sceglierà i giusti interlocutori e avanzerà legittime richieste, anche con fermezza se del caso.
Ma il problema è solo l’Occidente con tanto Io e senza più Dio? No, il problema è anche l'Oriente, il Sud. Perché il fondamentalismo, in religione, è l’altro volto dell’individualismo sfrenato. Anch’esso si fonda su una lettura deviata del testo sacro e si affida a esaltati e criminali che antepongono il loro Io al vero Dio. Già diversi anni fa lo studioso algerino Khaled Fouad Allam denunciava la sclerotizzazione dell’esegesi coranica, ferma praticamente al XIII secolo, e caldeggiava la ripresa degli studi in tal senso, la storicizzazione della Scrittura, ecc. Insomma auspicava un Vaticano II anche per la religione di Mohammed. Il problema, a nostro modesto avviso, è che l'Islam, a differenza del cristianesimo cattolico e ortodosso, non ha un'autorità centrale che pronunci una parola autorevole e definitiva, di approvazione o condanna, su determinate questioni. Tutto quanto, assieme ad altri complessi motivi impossibili da sviscerare nella presente trattazione, può costituire una delle cause della diffusione del fondamentalismo jihadista in talune regioni. Si può però ipotizzare un concilio di personalità illustri, p. es. l'Università di Al Azhar in Egitto, e ad altri tavoli con rappresentanti autorevoli - e rispettati - della religione islamica, da cui non dovrebbero mancare le donne. Ma, più di tutto, conta il sentire della popolazione comune, dei tanti musulmani pacifici e anche di quelli che non lo sono; cosa non ha funzionato? Dove il dialogo ha trovato un incaglio? Si vuole davvero confrontarsi e convivere pacificamente, oppure no? La responsabilità, oggi, è più che mai nelle nostre mani. Nemmeno il Papa può farcela da solo e del resto, come abbiamo visto, se si rende necessario il pronunciamento di musulmani autorevoli, non è possibile limitarsi a questo. Solo riprendendo la grammatica del sacro ci si potrà liberare dalle pastoie della violenza e dell’incomprensione.
© Daniela Tuscano
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