9.2.21

e' allora le foibe ?

leggi anche  

N.b
«E allora le foibe?» è diventato il refrain tipico di chi sostiene il risorgente nazionalismo italico e vuole zittire l’avversario.

 Mi di cosa parliamo quando parliamo di foibe? Cosa è successo realmente ?

«Decine di migliaia», poi «centinaia di migliaia», fino a «oltre un milione»: a leggere gli articoli dei giornali e a sentire le dichiarazioni dei politici sul numero delle vittime delle foibe, è difficile comprendere le reali dimensioni del fenomeno. Anzi, negli anni, tutta la vicenda dell’esodo italiano dall’Istria e dalla Dalmazia è diventata oggetto di polemiche sempre più forti e violente. Questo libro è rivolto a chi non sa niente della storia delle foibe e dell’esodo o a chi pensa di sapere già tutto, pur non avendo mai avuto l’opportunità di studiare realmente questo tema. Questo “Fact Checking” non propone un’altra verità storica precostituita, non vuole negare o sminuire una tragedia. Vuole riportare la vicenda storica al suo dato di realtà, prova a fissare la dinamica degli eventi e le sue conseguenze. Con l’intento di evidenziare errori, mistificazioni e imbrogli retorici che rischiano di costituire una ‘versione ufficiale’ molto lontana dalla realtà dei fatti. È un invito al dubbio, al confronto con le fonti, nella speranza che questo serva a comprendere quanto è accaduto in anni terribili.

                                              introduzione   a E allora le foibe?  di  Eric Gobetti
Il dramma delle foibe e dell'esodo al di la' degli slogan e delle strumentalizzazioni politiche si tratta di fenomeni ed eventi complessi  , mi scuso   se   ne    ho trascurato   qualcuno ,       che per essere compresi devono essere studiati  e raccontati  a fondo a 360 gradi affidandosi alle fonti ( non solo alle memorie dirette ed indirette) ed ai dati riconosciuti dalla comunità degli storici . Il problema è che spesso quelle fonti finiscono per contraddire quegli slogan quei luoghi comuni utilizzati nel dibattito politico mediatico . Partiamo innanzitutto dal territorio . Un territorio che comprende le città di : Trieste, Gorizia , Fiume e tutta l'Istria territori che spesso vengono definiti italiani da sempre . In realtà si tratta di territori di confine dove hanno convissuto per secoli popolazioni Venete  e  Friuliane  (   diventate  poi  Italiane    tra   la  III  guerra  d'indipendenza    e  la prima  guerra   mondiale  )    e  Slave ( Slovene  e croate soprattutto quest'ultime    )      con identità culturali , linguistiche e nazionali differenti  E che sono entrate a far parte dello stato italiano     solo dopo la prima guerra mondiale .  Una  storia   talmente   complessa   in una zona  come  quella  dell'istria e e  friuli venezia  giulia  che   ha  visto in pochi anni   alternarsi  due  dittature    (  fascismo    e  comunismo  )  ,  deportazioni  ,  snazionalizzazioni ,  campi    di concentramento   e  di deportazione  (    Riviera      di  san Saba  ) ,  esodo ,  campi profughi ,  violenze  , ecc        Infatti  al  termine della  1 guerra mondiale  , il Regio Esercito occupò militarmente tutta la Venezia Giulia e la Dalmazia, secondo i termini dell'armistizio, inclusi i territori assegnatigli dal trattato di Londra. Ciò provocò le reazioni opposte delle diverse etnie, con gli italiani che acclamarono alla "redenzione" delle loro terre e gli slavi che guardavano con ostilità e preoccupazione i nuovi arrivati. La contrapposizione nazionale subì un nuovo e forte inasprimento.
Successivamente, la definizione dei confini fra l'Italia e il nuovo stato jugoslavo fu oggetto di una lunga e aspra contesa diplomatica, che trasformò il contrasto nazionale in una contrapposizione fra Stati sovrani, che coinvolse vasti strati dell'opinione pubblica esasperandone ulteriormente i sentimenti.
Forti tensioni suscitò in particolare la questione di Fiume, che fu rivendicata dall'Italia sulla base dello stesso principio di autodeterminazione che aveva fatto assegnare al regno jugoslavo le terre dalmate, già promesse all'Italia. La questione dei confini fu infine risolta con i trattati di Saint Germain e di Rapallo. L'Italia ottenne solo parte di ciò che le era stato promesso dal patto segreto di Londra. In base al principio di  nazionalità, sostenuto dalla dottrina Wilson, le fu negata la Dalmazia (dove ottenne solo la città di Zara e alcune isole). Per via del mancato rispetto del Patto di Londra, l'epilogo della prima guerra mondiale venne definito "vittoria mutilata".Col trattato di Rapallo Fiume venne eretta a stato libero, per poi essere annessa all'Italia in seguito al trattato di Roma (1924). In base al trattato di Rapallo 356 000 sudditi dell'Impero austro-ungarico di lingua italiana ottennero la cittadinanza italiana, mentre circa 15 mila  di essi rimasero in territori assegnati al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Uno stato   che    presto diventerà  uno stato fascista  e  che  ha  imposto  con la  forza  l'adesione  ad  un  unica  identità nazionale  cioè quella  italiana  .  Infatti  Nel 1918 alla  fine della   prima guerra mondiale  l’Italia annette territori abitati in numero quasi paritetico da Italiani e Slavi (circa mezzo milione tra Sloveni e Croati) che hanno convissuto dal XIII secolo all’interno dell’Impero Asburgico. Gli Sloveni abitano il Carso e il territorio fino all’Isonzo (Es: Gorizia è un toponimo di origine slovena). Sloveni e Croati hanno ripopolato l’Istria dopo le devastanti epidemie di peste che hanno decimato la popolazione che prima di essere suddita dell’Impero Asburgico è stata sotto il dominio di Venezia. A Trieste poco meno della metà degli abitanti sono Sloveni o di origine slovena e croata: rappresentano la classe operaia, sono i proletari al servizio della borghesia cosmopolita di lingua italiana. Gli Italiani li chiamano “s’ciavi”, cioè schiavi. 
  Questa situazione   , dovuta  anche alla mancata  politica   di dialogo  e  scambi  cultiurali  (  quelli  che chiamiamo oggi politiche    \  progetti  d'integrazione   )  andò   ad aggravare    la  situazione   già  complicata  .  Infatti    
sempre da    wikipedia  


Nei primi dieci anni del Novecento, a causa dell'immigrazione da ogni parte dell'impero, la comunità slava (sloveni, croati, cechi) di Trieste era più che raddoppiata, passando da 25.000 a 57.000 abitanti nel comune (dal 15% al 25%) e da 6.500 a 22.000 nella città (dal 5% al 13%).[3] Le numerose società e organizzazioni slovene e di altri ceppi slavi videro quindi la necessità di costruire un edificio che potesse ospitare le loro attività: fu seguito l'esempio di altre città con presenza di forti minoranze slovene (come KlagenfurtMariborCelje e Gorizia) dove tra fine Ottocento e inizio Novecento furono costruite le cosiddette "Case del popolo" o "Case nazionali" per ospitare attività culturali (e talvolta, come a Gorizia, anche commerciali) slovene. Questi edifici, chiamati in sloveno Narodni dom, avevano assunto anche un forte valore simbolico, in quanto dovevano rappresentare un simbolo visivo della crescente potenza numerica, economica e culturale delle comunità urbane slovene. Per questa ragione furono costruiti anche in alcune città a maggioranza slovena e con amministrazioni slovene (come Novo Mesto e la stessa Lubiana). Nel comune di Trieste erano già presenti due Case nazionali slovene, una a Barcola e l'altra nel quartiere di San Giacomo.La sede unica del Narodni dom di Trieste fu collocata nel 1907 all'interno dell'Hotel Balkan, un imponente edificio realizzato tra il 1901 e il 1904 secondo il progetto dell'architetto Max Fabiani. Si trattava, per l'epoca, di un edificio d'avanguardia, plurifunzionale e che, oltre ad un hotel, ospitava una sala teatrale, gli uffici per varie organizzazioni, banche e assicurazioni.[4][5]

L'incendio[modifica | modifica wikitesto]

I funerali di Gulli e Rossi a Sebenico
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Incidenti di Spalato.

Nella primavera e nell'estate del 1920, a più di un anno dalla fine della guerra, e dopo l'abbandono da parte italiana delle trattative di pace, le relazioni tra Regno d'Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni erano estremamente tese. La Venezia Giulia si trovava sotto amministrazione civile italiana provvisoria, mentre la parte della Dalmazia promessa all'Italia dal patto di Londra si trovava sotto amministrazione militare italiana. La questione di Fiume era ancora aperta e le trattative tra i due Stati procedevano in un clima di veti e minacce reciproche.[6] A Trieste era da poco diventato segretario cittadino del Partito Fascista il toscano Francesco Giunta, che nel giro di pochi mesi avrebbe cambiato le sorti del movimento fascista giuliano, portandolo a conquistare l'egemonia nella vita politica cittadina. A seguito dell'uccisione di due marinai italiani[7][8] a Spalato nel corso di uno scontro fra militari italiani e nazionalisti jugoslavi mai perfettamente chiarito durante il quale era stato ucciso anche un civile croato,[9] Francesco Giunta convocò un comizio nel tardo pomeriggio del 13 luglio 1920 in piazza dell'Unità. Nel memorandum presentato il 1º settembre dalla società politica slovena Edinost al Presidente del Consiglio dei Ministri Giovanni Giolitti, si legge: «Il giorno 13 luglio 1920 i giornali nazionalisti triestini Il PiccoloL'Era Nuova e La Nazione riportavano un proclama del Fascio Triestino di Combattimento dove si invitava la popolazione per le ore 18 ad un comizio in Piazza dell'Unità esortandola ad una energica reazione ai fatti di Spalato col motto che "è finito il tempo del buon Italiano"»[10]. La questura prevedeva che nel pomeriggio probabilmente ci sarebbero stati dei disordini, e predispose ingenti misure di protezione delle associazioni politiche, culturali ed economiche slave di Trieste.[11]

Durante il comizio la tensione era molto alta.[7] Giunta pronunciò un discorso dal tono e dai contenuti estremamente violenti e minacciosi:

«L'anima grande del comandante Gulli, barbaramente ucciso, vuole vendetta. Fratelli, che avete fatto voi del provocatore pagato? (Giunta si riferiva a un passante che era appena stato salvato dai carabinieri dopo essere stato aggredito perché sorpreso a leggere un giornale in sloveno, n.d.r.) È stato poco, dovevate uccidere! Bisogna stabilire la legge del taglione. Bisogna ricordare ed odiare (...). Gulli era l'uomo di Millo, il più grande ammiraglio che abbia avuto l'Italia. Gulli va vendicato (...) L'Italia ha portato qui il pane e la libertà. Ora si deve agire; abbiamo nelle nostre case i pugnali ben affilati e lucidi, che deponemmo pacificamente al finir della guerra, e quei pugnali riprenderemo - per la salvezza dell'Italia. I mestatori jugoslavi, i vigliacchi, tutti quelli che non sono con noi ci conosceranno (...)»

(Dal discorso di Francesco Giunta in Piazza dell'Unità il 13 luglio 1920.[12][13])

Verso la fine del comizio, scoppiarono dei tafferugli, nel corso dei quali diverse persone caddero a terra riportando ferite da arma da fuoco o da taglio. Tra queste, il fuochista Antonio Raikovich, che se la cavò con 15 giorni d'ospedale,[13] e il cuoco della trattoria Bonavia, il diciassettenne di Novara Giovanni Nini, che morì sul colpo.[13][14] La responsabilità di questa uccisione non fu mai accertata. Nel 1924 il Prefetto Mosconi parlerà de «[…]l'uccisione di un cittadino in un comizio di protesta, ritenuta (sic) opera di uno slavo…»[15] Secondo lo storico Attilio Tamaro, irredentista, volontario di guerra, e successivamente diplomatico durante il ventennio fascista, «mentre si svolgeva l'imponente comizio e Francesco Giunta, segretario del fascio, parlava, uno slavo uccise un fascista, che s'era intromesso per salvare un ufficiale da quello aggredito.»[16] Secondo lo storico antifascista C. Schiffrer, «in realtà il disgraziato giovane (il cuoco pugnalato) si trovava lì per caso e quando fu colpito ..., secondo le cronache giornalistiche, esclamò:"io non c'entro!". La verità è che a Giunta occorreva la "scintilla", occorreva un morto, ed i suoi provvidero».[17] Appena si sparse la notizia della morte del Nini, il Prof. Randi salì sul palco e annunciò che un italiano "ex-combattente" era stato ucciso da uno slavo.[18] Muovendosi secondo un piano precostituito,[19] gruppi di manifestanti lasciarono la piazza e attaccarono diversi obiettivi. Le azioni compresero il danneggiamento di negozi gestiti da sloveni, l'assalto di alcune sedi di organizzazioni slave e socialiste, la sassaiola contro la sede del consolato jugoslavo di via Mazzini e la devastazione degli studi di diversi professionisti, tra cui quello dell'avvocato Josip Vilfan,[20] uno dei leader politici delle comunità slovena e croata di Trieste. Le squadre d'azione fasciste si divisero in tre colonne, di cui una percorse la via Roma, un'altra la via San Spiridione, e la terza la via Dante; riunitesi presso il Narodni dom, seguite da una folla ingente, iniziarono ad assediare l'edificio da ogni lato, sotto la guida di Giunta.[21] L'hotel Balkan in quel momento era protetto da oltre 400 fra soldati, carabinieri e guardie regie inviate a presidio dell'edificio dal vice commissario generale, Francesco Crispo Moncada.[22]

Il Narodni dom in fiamme.

All'appressarsi della folla, dal terzo piano dell'edificio fu lanciata almeno una bomba a mano, cui secondo testimonianze dell'epoca seguì anche una scarica di colpi di fucile contro la folla.[23] Fu ferito dalle schegge della granata il ventitreenne Luigi Casciana,[24] tenente di fanteria che si trovava in licenza a Trieste, che morì la settimana successiva in circostanze poco chiare dopo essere stato trasferito all'ospedale militare.[25] Altre otto persone furono ferite dalle bombe. I militari che circondavano l'edificio risposero al fuoco. La ricostruzione esatta della dinamica dei fatti, tuttavia, è controversa.[26] Secondo un'altra versione, dal palazzo delle Ferrovie qualcuno sparò in aria un razzo, dopodiché l'edificio del Narodni Dom fu bersaglio della sparatoria e i militari presero l'iniziativa di assaltarlo.[21] I fascisti forzarono le porte dell'edificio, vi gettarono all'interno alcune taniche di benzina e appiccarono il fuoco, dopodiché impedirono ai pompieri (subito intervenuti) di spegnere l'incendio.[21][27] Secondo la stampa dell'epoca, il rapido propagarsi dell'incendio con numerosi scoppi sarebbe stato favorito dal fatto che membri della comunità slava avrebbero celato all'interno del Narodni un arsenale di esplosivi ed armi. Tuttavia, riporta Apollonio,[28] dalle successive indagini di polizia non emerse alcun riscontro dell'esistenza di tale arsenale. Altri sottolineano le responsabilità dei militari che avevano il compito di proteggere l'edificio, i quali non fermarono gli aggressori, ma di fatto si unirono a loro.[27] Apollonio riporta le testimonianze di tre cittadini statunitensi, ospiti dell'albergo, secondo cui gli assalitori, una volta entrati nell'edificio, ammassarono delle masserizie e vi versarono sopra del liquido infiammabile. Le fiamme si propagarono rapidamente all'intero edificio.[29]

Tutti gli ospiti del Narodni dom riuscirono a salvarsi, ad esclusione del farmacista di Bled di origini lubianesi Hugo Roblek.[30] In alcune fonti Roblek è erroneamente indicato come custode o addirittura proprietario dei locali; Roblek si gettò da una finestra e morì sul colpo, mentre la moglie[31], che si lanciò con lui, pur ferendosi gravemente, riuscì a salvarsi. L'incendio distrusse completamente l'edificio: per alcuni testimoni l'intervento dei vigili del fuoco fu impedito dagli squadristi; per altri invece l'intervento dei vigili del fuoco ci fu e riuscì ad impedire al fuoco di attaccare gli edifici circostanti. L'incendio fu domato completamente solo il giorno successivo.[32] La sera del 14 luglio venne devastato e incendiato anche il Narodni dom di Pola, nel corso di un'azione simile.[33][34]

Dopo l'incendio[modifica | modifica wikitesto]

Francesco Giunta e Benito Mussolini nel 1928

Secondo Gaetano Salvemini l'obiettivo immediato che i fascisti e i nazionalisti si proposero di realizzare attraverso l'incendio del Narodni dom sarebbe stato quello di sabotare le trattative italo-jugoslave per la questione di Fiume e dei confini tra i due paesi.[35][36] Se da quel punto di vista si può dire che l'obiettivo fu mancato, le conseguenze del rogo tuttavia furono gravi e di lunghissima durata. L'incendio del Narodni dom rappresentò un momento di svolta nell'affermazione del "fascismo di confine": «Il rogo annuncia, con le fiamme che ben si possono scorgere da diversi punti della città, un drastico cambiamento. Sembra quasi una celebrazione sacra, di morte e di purificazione: nella reinvenzione della storia, che il fascismo opera per gli eventi locali e nazionali, lo scenario maestoso di quel rogo diventa uno dei più importanti miti d'origine della nuova Italia di confine».[37] Non a caso, l'anno successivo, durante il comizio inaugurale della sua campagna elettorale per le elezioni politiche, Giunta si espresse in questi termini:

«Per me il programma (elettorale) comincia con l'incendio del Balkan»

(Dal discorso di Francesco Giunta al Politeama Rossetti, nell'aprile del 1921.[38])

La distruzione del Narodni dom, insomma, «rappresentò la prima grande frattura tra gli Italiani della Venezia Giulia e le popolazioni "allogene", sloveni e croati, con conseguenze funeste per tutti gli abitanti della regione».[35] 


Dal 1920 in poi il fascismo annienta questa convivenza già complessa e programma di snazionalizzare e assimilare i barbari Slavi che abitano nel territorio divenuto ora Italiano. Dopo l’incendio dei Narodni Dom \ hotel balkan (Case di cultura slovene) di Trieste e Pola. E’ vietato parlare sloveno e croato (a scuola si sputa in bocca ai bambini che si lasciano sfuggire parole nella loro lingua madre; vengono bastonati e costretti a bere olio di ricino i cittadini colti a parlare sloveno o croato; a Gorizia il musicista Lojze Bratuž, che ha fatto cantare in sloveno i bambini sloveni del coro, viene costretto a ingerire olio di macchina e muore in ospedale fra atroci sofferenze). Chiuse tutte le organizzazioni culturali slovene e croate. Eliminati libri e giornali. Italianizzati i cognomi sloveni e croati e i toponimi delle località (Es: la località Sredipolje diventa Redipuglia, sì il cimitero monumentale dei soldati italiani caduti sul Carso), cancellati i cognomi slavi persino sulle tombe, proibite le messe in antico slavo, caratteristica culturale del territorio. Funziona a pieno ritmo il Tribunale Speciale che deporta e fucila dissidenti e organizzazioni slave che tentano di opporsi alla snazionalizzazione.
E non basta: nel 1941 l’esercito italiano occupa la Slovenia fino a Lubiana che diventa provincia italiana. Ma la città è cinta da reticolati e la popolazione è praticamente prigioniera. Si fronteggia l’inevitabile reazione partigiana bruciando villaggi con dentro vecchi, donne e bambini. I civili sospettati di connivenza con i partigiani vengono fucilati. I partigiani catturati sono immediatamente passati per le armi (esistono foto di soldati italiani che espongono teste mozzate di partigiani, non diversamente da quel che facevano durante la lotta al brigantaggio nel Sud d’Italia). Vengono istituiti campi di concentramento per Sloveni e Croati, circa una quindicina in tutta Italia, dove si muore per fame e malattie (uomini, donne, vecchi e bambini), il più famigerato dei quali è nell’isola di Arbe (Dalmazia). In Istria imperversano le Brigate Nere (comandate dai figli di Nazario Sauro, propugnatori dell’eliminazione fisica delle popolazioni slave), alleate delle truppe naziste nella lotta contro i partigiani. Alla fine del conflitto circa un milione e mezzo di Slavi dei territori da noi occupati hanno perso la vita.


L'invasione della Jugoslavia[modifica | modifica wikitesto]

Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Operazione 25Fronte jugoslavo (1941-1945)Partigiani jugoslaviProvincia di LubianaGovernatorato di Dalmazia e Crimini di guerra italiani.
Mappa del Governatorato della Dalmazia, con segnate la provincia di Zara (in verde), la provincia di Spalato (in arancio) e la provincia di Cattaro (in rosso scarlatto)

Nell'aprile del 1941 l'Italia partecipò all'attacco dell'Asse contro la Jugoslavia, la quale, dopo la resa dell'esercito, avvenuta il giorno 17[50], e l'inizio della politica di occupazione, fu smembrata e parte dei suoi territori furono annessi agli stati invasori.

A seguito del trattato di Roma l'Italia annesse parte della Slovenia, parte della Banovina di Croazia nord-occidentale (che venne accorpata alla Provincia di Fiume), parte della Dalmazia e le Bocche di Cattaro (che andarono a costituire il Governatorato di Dalmazia), divenendo militarmente responsabile della zona che comprendeva la fascia costiera, e il relativo entroterra, della ex-Jugoslavia.

Divisione della Jugoslavia dopo la sua invasione da parte delle Potenze dell'Asse.

     Aree assegnate all'Italia: l'area costituente la provincia di Lubiana, l'area accorpata alla provincia di Fiume e le aree costituenti il Governatorato di Dalmazia

     Stato Indipendente di Croazia

     Area occupate dalla Germania nazista

     Aree occupate dal Regno d'Ungheria

In Slovenia fu costituita la Provincia di Lubiana, dove, a fini politici e in contrapposizione con i tedeschi, si progettò, senza successo, di instaurare un'amministrazione rispettosa delle peculiarità locali[51]. Nella Provincia di Fiume e nel Governatorato di Dalmazia fu invece instaurata fin dall'inizio una politica di italianizzazione forzata, che incontrò una decisa resistenza da parte della popolazione a maggioranza croata.

La Croazia fu dichiarata indipendente con il nome di Stato Indipendente di Croazia, il cui governo fu affidato al partito ultranazionalista degli ustascia, con a capo Ante Pavelić.

La resa dell'esercito jugoslavo non fermò i combattimenti e in tutto il paese crebbe un'intensa attività di resistenza che proseguì fino al termine della guerra e che vide da un lato la contrapposizione tra eserciti invasori e collaborazionisti e dall'altro la lotta fra le diverse fazioni etniche e politiche.

Durante tutta la durata del conflitto vennero perpetrati, da tutte le parti in causa, numerosi crimini di guerra[52]. Nel corso della guerra in particolare si ebbero circa mezzo milione di serbi vittime di violenze da parte degli estremisti croati e 100.000 croati vittime delle violenze serbe[53]

Nella Provincia di Lubiana, fallito il tentativo di instaurare un regime di occupazione morbido, emerse presto un movimento resistenziale: la conseguente repressione italiana fu dura e in molti casi furono commessi crimini di guerra con devastazioni di villaggi e ritorsioni contro la popolazione civile. Le sanguinose rappresaglie attuate dal Regio Esercito italiano, per reprimere le azioni di guerriglia partigiana, aumentarono il risentimento della popolazione slava nei confronti degli italiani.

«Si procede ad arresti, ad incendi [. . .] fucilazioni in massa fatte a casaccio e incendi dei paesi fatti per il solo gusto di distruggere [. . .] La frase «gli italiani sono diventati peggiori dei tedeschi», che si sente mormorare dappertutto, compendia i sentimenti degli sloveni verso di noi»

(Riportato da due riservatissime personali del 30 luglio e del 31 agosto 1942, indirizzate all'Alto Commissario per la Provincia di Lubiana Emilio Grazioli, dal Commissario Civile del Distretto di Longanatico (in sloveno: Logatec) Umberto Rosin[54])

A scopo repressivo, numerosi civili sloveni furono deportati nei campi di concentramento di Arbe e di Gonars[55].

Vista del campo di concentramento di Arbe usato per l'internamento della popolazione civile slovena

Nei territori annessi, accorpati alla Provincia di Fiume e al Governatorato della Dalmazia, fu avviata una politica di italianizzazione forzata del territorio e della popolazione. In tutto il Quarnero e la Dalmazia, sia italiana che croata, si innescò dalla fine del 1941 una crudele guerriglia, contrastata da una repressione che raggiunse livelli di massacro dopo l'estate del 1942.

«. . . Si informano le popolazioni dei territori annessi che con provvedimento odierno sono stati internati i componenti delle suddette famiglie, sono state rase al suolo le loro case, confiscati i beni e fucilati 20 componenti di dette famiglie estratti a sorte, per rappresaglia contro gli atti criminali da parte dei ribelli che turbano le laboriose popolazioni di questi territori . . .»

(Dalla copia del proclama prot. 2796, emesso in data 30 maggio 1942 dal Prefetto della Provincia di Fiume Temistocle Testa, riportata a pagina 327 del libro di Boris Gombač, Atlante storico dell'Adriatico orientale (op. cit.))

Il 12 luglio 1942, nel villaggio di Podhum, per rappresaglia furono fucilati da reparti militari italiani, su ordine del Prefetto della Provincia di Fiume Temistocle Testa, tutti gli uomini del villaggio di età compresa tra i 16 e i 64 anni. Sul monumento che oggi sorge nei pressi del villaggio sono indicati i nomi delle 91 vittime dell'eccidio. Il resto della popolazione fu deportata nei campi di internamento italiani e le abitazioni furono incendiate[56].

Nello Stato Indipendente di Croazia, il regime ustascia scatenò una feroce pulizia etnica nei confronti dei serbi, nonché di zingari ed ebrei, simboleggiata dall'istituzione del campo di concentramento di Jasenovac, e contro il regime e gli occupanti presero le armi i partigiani di Tito, plurietnici e comunisti, e i cetnici, nazionalisti monarchici a prevalenza serba[57], i quali perpetrarono a loro volta crimini contro la popolazione civile croata che appoggiava il regime ustascia e si combatterono reciprocamente. A causa dell'annessione della Dalmazia costiera al Regno d'Italia, cominciarono inoltre a crescere le tensioni tra il regime ustascia e le forze d'occupazione italiane; venne perciò a formarsi, a partire dal 1942, un'alleanza tattica tra le forze italiane e i vari gruppi cetnici: gli italiani incorporarono i cetnici nella Milizia volontaria anticomunista (MVAC) per combattere la resistenza titoista.

Dopo la guerra la Jugoslavia chiese di giudicare i presunti responsabili di questi massacri (come il generale Mario Roatta), ma l'Italia negò la loro estradizione grazie ad alcune amnistie[58].

Gli eccidi contro la popolazione italiana[modifica | modifica wikitesto]

1943: armistizio e prime esecuzioni[modifica | modifica wikitesto]

Zone controllate dai partigiani di Tito subito dopo la capitolazione italiana (8 settembre 1943)
Recupero di resti umani dalla foiba di Vines, località Faraguni, presso Albona d'Istria negli ultimi mesi del 1943
Norma Cossetto
Autunno 1943: recupero di una salma, gli uomini indossano maschere antigas per i miasmi dell'aria attorno alla foiba

L'8 settembre 1943, con l'armistizio tra Italia e Alleati, si verificò il collasso del Regio Esercito.

Fin dal 9 settembre le truppe tedesche assunsero il controllo di Trieste e

 successivamente di Pola e di Fiume, lasciando momentaneamente sguarnito il resto della Venezia Giulia. I partigiani occuparono quindi buona parte della regione, mantenendo le proprie posizioni per circa un mese. Il 13 settembre 1943, a Pisino venne proclamata unilateralmente l'annessione dell'Istria alla Croazia, da parte del Consiglio di liberazione popolare per l'Istria[59]. Il 29 settembre 1943 venne istituito il Comitato esecutivo provvisorio di liberazione dell'Istria.

Improvvisati tribunali, che rispondevano ai partigiani dei Comitati popolari di liberazione, emisero centinaia di condanne a morte. Le vittime furono non solo rappresentanti del regime fascista e dello Stato italiano, oppositori politici, ma anche semplici personaggi in vista della comunità italiana e potenziali nemici del futuro Stato comunista jugoslavo che s'intendeva creare[60]. A Rovigno il Comitato rivoluzionario compilò una lista contenente i nomi dei fascisti, nella quale tuttavia apparivano anche persone estranee al partito e che non ricoprivano cariche nello Stato italiano. Vennero tutti arrestati e condotti a Pisino. In tale località furono condannati e giustiziati assieme ad altre persone di etnia italiana e croata.

La maggioranza dei condannati fu gettata nelle foibe o nelle miniere di bauxite, alcuni mentre erano ancora in vita[61]. Secondo le stime più attendibili, le vittime del 1943 nella Venezia Giulia si aggirano sulle 600-700 persone[62].

Alcune delle uccisioni sono rimaste impresse nella memoria comune dei cittadini per la loro efferatezza: tra queste vi sono quelle di Norma Cossetto (cui è stata riconosciuta la medaglia d'oro al valor civile[63]), di don Angelo Tarticchio e delle tre sorelle Radecchi.

I ritrovamenti dell'autunno 1943[modifica | modifica wikitesto]

Le prime ispezioni delle foibe istriane, che furono disposte immediatamente dopo il ripiegamento dei partigiani conseguente alla successiva invasione nazista, consentirono il rinvenimento di centinaia di corpi.

Il compito di ispezionare le foibe fu affidato al maresciallo dei Vigili del Fuoco Arnaldo Harzarich di Pola, che condusse le indagini da ottobre a dicembre del 1943 in Istria, in particolare nella Foiba di Vines.

La propaganda fascista diede ampio risalto a questi ritrovamenti, che suscitarono una forte impressione. Fu allora che il termine "foibe" cominciò ad essere associato agli eccidi, fino a diventarne sinonimo (anche quando compiuti in maniera diversa). Paradossalmente, l'enfasi data ai ritrovamenti da parte della Repubblica di Salò alimentò da un lato il clima di terrore che favorì il successivo esodo, dall'altro la reazione negazionista con cui le sinistre respinsero per molto tempo la fondatezza di un crimine denunciato per la prima volta dal nemico fascista.

L'armistizio in Dalmazia[modifica | modifica wikitesto]

Il 10 settembre, mentre Zara veniva presidiata dai tedeschi, a Spalato e in altri centri dalmati entravano i partigiani jugoslavi. Vi rimasero sino al 26 settembre, sostenendo una battaglia difensiva per impedire la presa della città da parte dei tedeschi. Mentre si svolgevano quei 16 giorni di lotta, fra Spalato e Traù i partigiani soppressero 134 italiani, compresi agenti di pubblica sicurezza, carabinieri, guardie carcerarie e alcuni civili.

La Dalmazia fu occupata militarmente dalla 7. SS-Gebirgsdivision "Prinz Eugen" tedesca. Gli italiani, con la 15ª Divisione fanteria "Bergamo" di stanza a Spalato e precedentemente impegnata per anni proprio nella lotta antipartigiana, in quel frangente appoggiarono in massima parte i partigiani e combatterono in condizioni psicologiche e materiali molto difficili contro le truppe germaniche, fra le quali la sopra citata Divisione "Prinz Eugen", nonostante l'atteggiamento aggressivo e poco collaborativo dei partigiani titini. Dopo la capitolazione ordinata dal comandante, generale Emilio Becuzzi, molti ufficiali italiani furono passati per le armi da parte di elementi delle truppe germaniche, in quello che è noto come il massacro di Treglia. La Dalmazia fu annessa allo Stato Indipendente di Croazia. Tuttavia Zara, restò - seppur sotto il controllo tedesco - sotto la sovranità della RSI, fino alla occupazione jugoslava dell'ottobre 1944.

L'occupazione tedesca della Venezia Giulia e l'Ozak[modifica | modifica wikitesto]

Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Operazione Nubifragio e Zona d'operazioni del Litorale adriatico.
Le aree segnate in verde facevano ufficialmente parte della Repubblica Sociale Italiana ma erano considerate dalla Germania zone di operazione militare e sottoposte a diretto controllo tedesco

A seguito dell'armistizio di Cassibile i tedeschi lanciarono l'Operazione Nubifragio, con l'obiettivo di assumere il controllo della Venezia Giulia, della provincia di Lubiana e dell'Istria.

L'offensiva ebbe inizio nella notte del 2 ottobre 1943 e portò all'annientamento della resistenza opposta da parte di nuclei partigiani, che furono decimati, catturati, costretti alla fuga o dispersi. I partigiani cercarono di ostacolare i tedeschi con imboscate, colpi di mano e agguati: questi reagirono colpendo la popolazione civile, anche di etnia italiana, con fucilazioni indiscriminate, violenze, incendi di villaggi e saccheggi.

Uno dei momenti più significativi sul territorio italiano fu la battaglia di Gorizia combattuta fra i giorni 11 e 26 settembre 1943 tra l'esercito tedesco e la Brigata Proletaria, un raggruppamento partigiano forte di circa 1500 uomini, costituito in massima parte da operai dei Cantieri Riuniti dell'Adriatico di Monfalcone e rafforzato da un consistente gruppo di partigiani sloveni.

L'Operazione Nubifragio si concluse il 9 ottobre con la conquista di Rovigno.

Le truppe germaniche costituirono nell'area occupata la Zona d'operazioni del Litorale adriatico o OZAK (acronimo di Operationszone Adriatisches Küstenland). Questa, pur essendo ufficialmente parte della Repubblica Sociale Italiana era sottoposta all'amministrazione militare tedesca e di fatto, annessa al Terzo Reich.

Dal settembre 1943 all'aprile 1945 si susseguirono le repressioni nazifasciste che portarono la provincia di Gorizia a essere la prima in Italia per numero di morti nei campi di sterminio nazisti[64].

Autunno 1944: ritiro dei tedeschi dalla Dalmazia[modifica | modifica wikitesto]

Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: ZaraBombardamenti di Zara e Spalato.
Veduta di Zara distrutta dai bombardamenti (Molo di Riva Nuova)

Ulteriori eccidi si ebbero nel corso dell'occupazione delle città dalmate in cui risiedevano comunità italiane.

Terribile fu la sorte di Zara, ridotta in rovine dai bombardamenti aerei anglo-americani, che causarono la morte di alcune migliaia di civili (da 2 000 a 4 000) e contribuirono alla fuga di quasi il 75% dei suoi abitanti. Alla fine dell'ottobre 1944 anche l'esercito tedesco e la maggior parte dell'amministrazione civile italiana abbandonarono la città.

Zara fu occupata dagli Jugoslavi il 1º novembre 1944: si stima che il totale delle persone soppresse dai partigiani in pochi mesi sia di circa 180[65]. Fra gli altri furono uccisi i fratelli Nicolò e Pietro Luxardo (industriali, produttori del celebre liquore maraschino): secondo alcune testimonianze Nicolò fu annegato in mare[66]. Quella dell'annegamento in mare legati a macigni è una pratica di cui sono state date varie testimonianze[67], tanto da divenire nell'immaginario popolare la "tipica" modalità di esecuzione delle vittime zaratine, similmente alle foibe in Venezia Giulia.

Primavera 1945: l'occupazione della Venezia Giulia[modifica | modifica wikitesto]

Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Massacro di Bačka e Corsa per Trieste.
Territori controllati dagli Alleati (color salmone e rosso) e dalle forze dell'Asse (bianco) al 1º maggio 1945.

Nella primavera del 1945 gli jugoslavi crearono una nuova Armata – la IV, al comando del giovane generale Petar Drapšin – con il compito di puntare verso Fiume, l'Istria e Trieste. L'ordine era di occupare la Venezia Giulia nel più breve tempo possibile, anticipando quindi gli alleati anglosassoni in quella che venne in seguito chiamata corsa per Trieste. Tale obiettivo divenne primario per l'Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia: il 20 aprile 1945 la IV Armata jugoslava entrò nella Venezia Giulia e, assieme alle unità del IX Korpus sloveno, ivi già operanti dal dicembre 1943, tra il 30 aprile e il 1º maggio dilagò nel Carso e nell'Istria, occupando Trieste e Gorizia (1º maggio), Fiume (3 maggio) e Pola (5 maggio)[68], all'incirca una settimana prima della stessa liberazione di Lubiana e Zagabria. Ciò corrispondeva alla volontà di Tito di creare il "fatto compiuto" sul terreno, determinante ai fini delle future trattative sulla delimitazione dei confini fra Italia e Jugoslavia, invadendo l'Italia nord-orientale fino al fiume Tagliamento, mentre la sovranità sulle capitali di Slovenia e Croazia non era in discussione. Allo stesso modo, gli jugoslavi entrarono in forze nella Carinzia austriaca, già oggetto di rivendicazioni al termine della Prima guerra mondiale.

Il nuovo regime si mosse nella Venezia Giulia in due direzioni. Le autorità militari avevano il mandato di ristabilire la legittimità della nuova situazione creatasi con operazioni militari di occupazione. L'OZNA, la polizia segreta jugoslava, invece, operava nella più totale autonomia.

Dopo la liberazione dall'occupazione tedesca, a partire dal maggio del 1945, nelle province di GoriziaTriestePola e Fiume il potere venne assunto dalle forze partigiane jugoslave; tale periodo fu funestato da arresti, sparizioni e uccisioni di centinaia di persone, alcune delle quali gettate nelle foibe ancora vive. A Gorizia, Trieste e Pola le violenze cessarono solamente dopo la sostituzione della amministrazione jugoslava con quella degli alleati, che avvenne il 12 giugno 1945 a Gorizia e Trieste, e il 20 giugno a Pola; a Fiume, invece, gli alleati non giunsero mai e le persecuzioni continuarono.

Eccidi a Trieste e in Istria[modifica | modifica wikitesto]

Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Trieste § L'occupazione jugoslava.
Don Francesco Bonifacio (beato in odium fidei) fu ucciso a Grisignana l'11 settembre 1946, parecchio tempo dopo il periodo delle "foibe" vero e proprio

I baratri venivano usati per l'occultamento di cadaveri con tre scopi: eliminare gli oppositori politici e i cittadini italiani che si opponevano (o avrebbero potuto opporsi) alle politiche del Partito Comunista di Jugoslavia di Tito.

Di nuovo si verificarono uccisioni efferate, come quella dei democristiani Carlo Dell'Antonio e Romano Meneghello e di don Francesco Bonifacio, torturato e quindi assassinato (il suo corpo non è mai stato ritrovato); ritenuto martire in odium fidei dalla Chiesa, è stato beatificato nel 2008.

Tra gli altri politici di riferimento del CLN, si segnalano i casi di Augusto Bergera e Luigi Podestà - che restano due anni in campo di concentramento jugoslavo - e quelli del socialista Carlo Schiffrer e dell'azionista Michele Miani, che riescono ad aver salva la vita[69].

Gli scritti dell'allora sindaco di Trieste, Gianni Bartoli, nonché alcuni documenti inglesi riportano che "molte migliaia di persone sono state gettate nelle foibe locali" riferendosi alla sola città di Trieste e alle zone limitrofe, non includendo dunque il resto della Venezia Giulia, dell'Istria (dove si è registrata la maggioranza dei casi), del Quarnaro e della Dalmazia. In possesso di queste informazioni il Governo De Gasperi, nel maggio 1945, chiese ragione a Tito di 2.500 morti e 7.500 scomparsi nella Venezia Giulia. Tito confermò l'esistenza delle foibe come occultamento di cadaveri e i governi jugoslavi successivi mai smentirono tali affermazioni.

Un controverso studio svolto dalla giornalista Claudia Cernigoi[70] stima nel numero di 517 le vittime triestine, delle quali 412 sarebbero appartenute a formazioni militari, paramilitari o di polizia, poste al servizio delle autorità germaniche dell'OZAK (tra cui la Milizia Difesa Territoriale, l'Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza, formazioni della X^ MASBrigate Nere, formazioni squadriste), e sostiene che una consistente parte di esse (almeno 79) non sarebbero state infoibate[71] ma sarebbero decedute a Borovnica o in altri campi di prigionia militari jugoslavi.

Eccidi a Gorizia e provincia[modifica | modifica wikitesto]

Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Deportazioni di Gorizia.

Con l'arrivo dell'Armata Popolare Jugoslava, anche a Gorizia iniziarono le repressioni che toccarono l'apice fra il 2 e il 20 maggio. Migliaia furono gli arresti e gli scomparsi non solo tra gli italiani, ma anche tra gli sloveni che si opponevano al regime comunista di Tito.

Fra le vittime si ricordano alcuni esponenti politici locali di riferimento del CLNLicurgo Olivi del Partito Socialista Italiano e Augusto Sverzutti del Partito d'Azione, riguardo al quale non si sa ancora la data dell'uccisione e se il suo cadavere sia stato infoibato[72].

Le autorità slovene, a marzo del 2006, hanno consegnato al sindaco di Gorizia un elenco di 1.048 deportati dalla provincia di Gorizia, dei quali circa 900 non hanno fatto più ritorno; di questi, circa 470 appartenevano a forze di ordine pubblico e formazioni militari italiane postesi al servizio degli occupatori tedeschi, circa 250 erano civili giuliani, 70 erano civili originari di altre province italiane e circa 110 erano sloveni collaborazionisti o presunti tali. Secondo il presidente dell'Unione degli Istriani, Massimiliano Lacota, questa lista sarebbe ancora grandemente incompleta[73].

Eccidi a Fiume[modifica | modifica wikitesto]

Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Provincia di Fiume.
Bombardamento di Fiume da parte degli aerei della RAF (1944)

Fiume fu occupata[74] il 3 maggio dagli jugoslavi, che avviarono in breve tempo un'intensa campagna di epurazione. Gli agenti dell'OZNA deportarono 65 guardie di pubblica sicurezza e agenti della questura, 34 guardie di finanza e una decina di carabinieri; alcuni esponenti compromessi con il regime fascista furono invece uccisi sul posto[75].

Tra gli esponenti più in vista del PNF furono uccisi i senatori fiumani Icilio Bacci e Riccardo Gigante (podestà di Fiume dal 1930 al 1934), che non si erano macchiati di alcun crimine. Nell'ambito della caccia agli esponenti politici italiani vennero uccisi, fra gli altri, gli ex podestà Carlo Colussi (in carica dal 1934 al 1938, venne eliminato con la moglie Nerina Copetti) e Gino Sirola (podestà dal 1943 al 1945). In anni recenti, vicino alla località di Castua, è stata individuata la fossa dove riposano i resti di Gigante, ma il loro recupero risulta complesso.

Lapide votiva nel cimitero di Cosala, a Fiume.

Particolarmente violenta fu anche la caccia ai superstiti del Partito Autonomista Fiumano, concepito come un potenziale ostacolo all'annessione della città alla Jugoslavia. Il quotidiano comunista La Voce del Popolo scatenò una campagna di denuncia contro gli autonomisti, che vennero equiparati ai fascisti. I partigiani, nelle prime ore di occupazione della città, uccisero i vecchi capi del partito, fra i quali Mario Blasich, Giuseppe Sincich, Nevio Skull, Giovanni Baucer, Mario De Hajnal e Giovanni Rubinich, che fu fondatore del Movimento Autonomista Liburnico.

La persecuzione colpì anche gli esponenti dei CLN, secondo una linea ampiamente usata anche a Trieste e Gorizia. Numerosi furono nelle tre città gli arresti e le deportazioni di antifascisti, dei quali solo alcuni faranno ritorno dai campi di concentramento dopo lunghi periodi di detenzione. Ancora nel 1946, assai dopo le esplosioni di "jacquerie", risulteranno comminate condanne capitali contro reclusi accusati di aver fatto parte dei CLN[76].

Il numero di italiani sicuramente uccisi dall'entrata nella città di Fiume delle truppe jugoslave (3 maggio 1945) fino al 31 dicembre 1947 è di 652, a cui va aggiunto un ulteriore numero di vittime non esattamente identificabile per mancanza di riscontri certi[77].

L'esodo degli italiani di Istria, Fiume e Dalmazia[modifica | modifica wikitesto]

Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Esodo giuliano dalmata.
Una giovane esule italiana in fuga trasporta, insieme ai propri effetti personali, una bandiera tricolore

Al massacro delle foibe seguì l'esodo giuliano dalmata, ovvero l'emigrazione forzata della maggioranza dei cittadini di etnia e di lingua italiana in Istria e nel Quarnaro, dove si svuotarono dai propri abitanti interi villaggi e cittadine. Nell'esilio furono coinvolti tutti i territori ceduti dall'Italia alla Jugoslavia con il trattato di Parigi e anche la Dalmazia, dove vivevano i dalmati italiani.

Con la firma del trattato l'esodo s'intensificò ulteriormente. Da Pola, così come da alcuni centri urbani istriani (CapodistriaParenzoOrsera, ecc.) partì oltre il 90% della popolazione etnicamente italiana, da altri (BuieUmago e Rovigno) si desumono percentuali inferiori ma sempre molto elevate. Si stima che l'esodo giuliano-dalmata abbia interessato un numero compreso tra i 250 000 e i 350 000 italiani. I massacri delle foibe e l'esodo giuliano-dalmata sono ricordati dal Giorno del ricordo, solennità civile nazionale italiana celebrata il 10 febbraio di ogni anno.

L'ultima fase migratoria ebbe luogo dopo il 1954 allorché il Memorandum di Londra assegnò definitivamente la zona A del Territorio Libero di Trieste all'Italia, e la zona B alla Jugoslavia. L'esodo si concluse solamente intorno al 1960. Dal censimento jugoslavo del 1971 in Istria e nel Quarnaro erano rimasti 17.516 italiani su un totale di 432.136 abitanti.

La questione triestina[modifica | modifica wikitesto]

Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Questione triestinaCorsa per Trieste e Trattato di Osimo.
La folla festante dopo il ritorno di Trieste all'Italia, 4 novembre 1954

Nella parte finale della seconda guerra mondiale e durante il successivo dopoguerra ci fu la contesa sui territori della Venezia Giulia tra Italia e Jugoslavia, che è chiamata "questione giuliana" o "questione triestina". Trieste era stata occupata dalle truppe del Regno d'Italia il 3 novembre del 1918, al termine della prima guerra mondiale, e poi ufficialmente annessa all'Italia con la ratifica del Trattato di Rapallo del 1920: al termine della seconda, con l'Italia sconfitta, ci furono infatti le occupazioni militari tedesca e poi jugoslava.

L'occupazione jugoslava fu ottenuta grazie alla cosiddetta "corsa per Trieste", ovvero all'avanzata verso la città giuliana compiuta in maniera concorrenziale nella primavera del 1945 da parte della quarta armata jugoslava e dell'ottava armata britannica.

Il 10 febbraio del 1947 fu firmato il trattato di pace dell'Italia, che istituì il Territorio Libero di Trieste, costituito dal litorale triestino e dalla parte nordoccidentale dell'Istria, provvisoriamente diviso da un confine passante a sud della cittadina di Muggia ed amministrato dal Governo Militare Alleato (zona A) e dall'esercito jugoslavo (zona B), in attesa della creazione degli organi costituzionali del nuovo stato.

Nella regione la situazione si fece incandescente e numerosi furono i disordini e le proteste italiane: in occasione della firma del trattato di pace, la maestra Maria Pasquinelli uccise a Pola il generale inglese Robin De Winton, comandante delle truppe britanniche. All'entrata in vigore del trattato (15 settembre 1947) corse addirittura voce che le truppe jugoslave della zona B avrebbero occupato Trieste.[78] Negli anni successivi la diplomazia italiana cercò di ridiscutere gli accordi di Parigi per chiarire le sorti di Trieste, senza successo.

La situazione si chiarì solo il 5 ottobre 1954 quando col Memorandum di Londra la Zona "A" del TLT passò all'amministrazione civile del governo italiano, mentre l'amministrazione del governo militare jugoslavo sulla Zona "B" passò al governo della Repubblica socialista. Gli accordi prevedevano inoltre alcune rettifiche territoriali a favore della Jugoslavia fra cui il centro abitato di Albaro Vescovà / Škofije con alcune aree appartenenti al Comune di Muggia (pari a una decina di km²). Il trattato fu un passo molto gradito alla NATO, che valutava particolarmente importante la stabilità internazionale della Jugoslavia.


P.s
viste le notevoli divergenze storiche sulla vicenda del Narodni dom \hotel balkan  e  non solo  riporto oltre i libri trovati ( purtroppo per problemi tecnici ho perso ed non riesco a rintracciare il sito ed l'articolo da  dove  li  ho  presi   )  riporto anche altri siti dell'altra parte   da me  visitati  per    vedere  le  differenze  interpretative  della  vicenda    che  ha inasprito la situazione  del confine   orientale  
Bibliografia  e sitografia :  

8.2.21

e poi dicono che gli immigrati se ne approfittano e chiedono l'elemosina .

   ci  sono   anche   chi ha dignità e non lo  fa  e  vuole  lavorare  

  da  https://torino.repubblica.it/cronaca/2021/02/08/

Torino, perde il lavoro, poi l'auto e finisce in strada: clochard trovato morto nel dehors di un bar


Dormiva nel dehors di un bar in corso Re Umberto. È stato trovato morto questa mattina intorno alle 7.30 dal gestore della caffetteria del Re. che ha visto il corpo riverso nel dehors esterno. L'uomo è un marocchino di 59 anni, Mostafa Hait Bella, che viveva per strada cercando riparo dove poteva. Sull'accaduto sono in corso le indagini della polizia. Un mese fa era l'uomo, seguito dal Servizio adulti in difficoltà del Comune, stato ricoverato all'ospedale torinese Mauriziano per crisi epilettiche e poi dimesso. Ieri sera, raccontano i conoscenti, stava male ma non aveva voluto andare in ospedale. 
L'uomo, secondo i primi accertamenti, è morto per cause naturali. Secondo quanto racconta chi vive in zona, Hit Bella usava spesso il piccolo dehors come un riparo. L'uomo faceva il fioraio al mercato di San Secondo. Per un po' ha vissuto in auto, poi quando ha perso anche quella è finito in strada. Una persona come tante, un lavoratore che i rovesci della vita hanno spinto sulla strada. Così lo descrivono gli ambulanti del mercato di via San Secondo: Hai Bella lavorava in un vivaio a Pecetto, vicino a Torino, poi ha perso il suo impiego e ha cominciato a vendere fiori al mercato.

Mostafa, le testimonianze al mercato: "Non voleva il dormitorio, non chiedeva l'elemosina. Eravamo noi la sua famiglia"

 
Il quartiere lo aveva un po’ “adottato”, “anche se lui – precisa chi lo conosceva - non ha mai chiesto l’elemosina. Eravamo noi la sua famiglia”. Allergico alle imposizioni, non voleva andare in dormitorio: la svolta in negativo della sua vita è stato un incidente, “quando la sua Uno è stata urtata da un tram: non ha più potuto andare a comprare i fiori da vendere, poi gli hanno tolto la licenza e si è lasciato andare”. E non ha più avuto un tetto, l’auto appunto, sotto cui ripararsi per la notte. “Si vedeva che arrivava da una famiglia di un certo livello – raccontano i conoscenti -  quando tornava dal Marocco era distinto, sembrava un’altra persona”. 

"Lo conoscevamo da tempo - spiegano al Servizio Adulti in Difficoltà della Città di Torino - Era sempre molto gentile, cordiale ed educato. Aveva problemi di tipo sanitario, conosceva le opportunità di accoglienza e frequentava saltuariamente alcuni servizi diurni. Nonostante i ripetuti inviti, però, non accettava aiuti, né di trascorrere la notte in una casa di accoglienza". L'ultimo incontro con il personale del servizio itinerante notturno, che si occupa di monitorare le condizioni degli homeless che vivono in strada e dar loro assistenza, era avvenuto sabato scorso, quando era stato trovato dagli operatori sdraiato su una panchina. "Diceva di sentirsi male - riferiscono i Servizi sociali - ma rifiutava di essere accompagnato in ospedale. Gli operatori del servizio gli hanno quindi proposto un inserimento in una struttura di pronta accoglienza, ma lui ha rifiutato, e non hanno potuto far altro che offrirgli tè caldo, una brioche, delle mascherine, una coperta e proseguire l'attività di monitoraggio". A Torino il tema dei senzatetto sempre più numnerosi per le strade è all'ordine del giorno: domani pomeriggio è in programma un vertice in prefettura con la sindaca e il vescovo di Torino per affrontare il tema dell'emergenza clochard dopo le polemiche sollevate dai controlli fatti da vigili urbani e polizia la scorsa settimana in centro: sette senzatetto sono stati allontanati dai giacigli improvvisati sotto i portici e gran parte delle loro masserizie è stata portata via dall'Amiat: un'azione che ha provocato un mare di proteste da parte di Pd, Radicali, Fiom, Gruppo Abele, Rainbow4Africa e tante associazioni di volontariato."Non sapevo di questa morte, mi dispiace molto. E' un segno che ci deve stimolare per impegnarci ancora di più e fare in fretta per trovare delle soluzioni". Così l'arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia, interviene sulla morte del clochard nel dehors del bar a Torino. "Nelle prossime ore ci incontreremo con le istituzioni per capire come affrontare la questione. E poi giovedì ci sarà un incontro con diciotto associazioni che sono quelli che si occupano direttamente di sostenere il problema di questi nostri fratelli - sottolinea l'arcivescovo - il rapporto diretto verso i nostri fratelli e sorelle che vivono per strada è fondamentale. Perché c'è chi parla e non ha mai visto in faccia uno di loro, si fanno ragionamenti, senza averli incontrati e conosciuti. Da parte della Chiesa c'è la massima disponibilità per mettere a servizio tutte quelle strutture anche per mini-gruppi, due o tre persone. Non pensare solo a dormitori di massa, che non funzionano, ma strutture più personalizzati e più distribuiti, per dare una risposta".

6.2.21

laura morelli 60 anni rider

  
Non sapevo che LAURA MORELLI   

dal  suo sito https://www.lauramorellieu.com/

 fosse   oltre 
 
 Docente universitaria. Rider. ciclista. Un decennio come restauratrice di dipinti murali.
Dal 2000 inizia una ricerca sull’estetica della relazione. Crea le innermost machines. Decostruisce giocattoli elettronici e li riassembla in opere d’arte cinetiche fino alla tecnologia robotica.
Dal 2003 coinvolge gruppi di persone nel processo creativo.
Nel 2006 fonda ed è presidente dell’associazione Di + onlus per la realizzazione di progetti d’arte relazionale.
Nel decennio 2000 fa progetti d’arte relazionale all’estero e in Italia. La sua ricerca non si ferma mai.
Nel 2016 realizza una performance sul desiderio connesso a dolore represso e corpo. Ne declina una prassi educativa e in tre anni coinvolge nell’esperimento 180 studenti di 5 università/scuole internazionali. Produce installazioni, video, audio, sculture, fotografie, testi.
 
a quanto dice  nella  sua   la  biografia    del suo  sito  \  pagina   internet  e nel suo ( ottime le sue foto e i suoi video ) account instangram   fosse     come  raccontano      gli articoli sotto  riportati    anche rider  


Morelli è forse la rider più anziana d'Italia. Artista, ha iniziato per documentare un suo progetto, ha proseguito per necessità. La sua bici ha percorso 30mila km: come da casa sua a Singapore, andata e ritorno

"Ah, sei tu la rider?". Quando Laura arriva di corsa, con la bici nera e il giubbino rosa fluo, sorprende sempre. Perché è esile, è donna, parla forbito. E perché sotto il casco da ciclista i capelli sono bianchi come la neve. Laura Morelli - nata a Bergamo terza di quattro fratelli, istinto ribelle, laurea con lode al DAMS di Bologna - a novembre ha compiuto 60 anni. Ciò la rende probabilmente la rider più "vecchia" d'Italia, sicuramente di Milano. Negli ultimi 24 mesi - estate e inverno, giorno e (preferibilmente) notte, domeniche comprese - ha percorso quasi 30mila chilometri con uno zaino in spalla, che è un po' come pedalare da Milano a Singapore e ritorno. Lo ha fatto prima per Glovo, poi per Mama Burger, Jobby, Foorban e infine Winelivery. "Ebbene sì, sono una rider: il livello sociale appena sopra i senzatetto", esordisce sarcastica mentre nella camera di casa sua - Laura divide un appartamento con due amici in viale Abruzzi - si sta preparando per uscire.
Alle pareti ha foglietti e appunti, i libri sul ciclismo sono sparsi ovunque e a fianco del letto, sulla scrivania, il computer è acceso. "Ci osservano quasi tutti con sguardo giudicante e misericordioso - continua - e quando poi vedono che sono donna, bianca, che parlo correttamente italiano, pensano "poveretta, deve essere una signora che ha perso il lavoro". Poche donne fanno le rider, non vogliono abbassarsi a questo livello. Ne conosco una che non usa mai il termine "rider" ma "fattorina", per marcare la differenza. Psicologicamente funziona".Di solito Laura si presenta ai citofoni per nome ("Salve sono Laura, devo consegnare una bottiglia di vino"), e a molti fa piacere. Ma i tempi della gig economy (letteralmente: l'economia dei lavori saltuari, per lo più gestiti da app digitali) non lasciano spazio alle chiacchiere futili: bisogna correre, schiavi di un algoritmo che detta il ritmo e discrimina i meno efficienti.



Non esistono dati ufficiali sul numero di rider in Italia, ma in tempo di Covid il servizio è cresciuto tantissimo: per farsi un'idea, sono oltre 16mila (fonte Assodelivery) i ristoranti che nel nostro Paese usufruiscono del food delivery, per un giro d'affari nazionale che supera i 750 milioni di euro. "Un'economia enorme, che fa leva su un vuoto legislativo presente in molti paesi", dice Laura mentre scende le scale di casa, pronta per iniziare una lunga serata lavorativa: "Se ci pensi è una genialata, che toglie completamente responsabilità al datore di lavoro e ci spinge verso il modello americano. Sarà il futuro. Ma se hai cinquant'anni e per te questa è l'unica fonte di reddito, be', sei fregato".
Accese le luci, Laura inizia a pedalare e starle dietro è un'impresa. Corre in sede, ritira gli alcolici che deve consegnare, uno sguardo al cellulare per l'ordine e via "sul maledetto pavè": le strade diventano una palestra en plein air ed esplorarle su due ruote significa, per lei, riuscire a "cogliere la vera pancia della città, gli umori della comunità umana". Fino ad ammettere di essersi "innamorata di Milano grazie alla bicicletta, nelle settimane di lockdown, girandola con il sole e l'aria pulita, scoprendo androni inaspettati e portoni silenziosi del centro, abitati da quella borghesia che ha scritto i Promessi Sposi".
Laura ha fatto un po' di tutto, nei suoi primi 60 anni di vita. Si è occupata di iconografia teatrale, ha fotografato concerti, ha scritto articoli per giornali di provincia, ha restaurato per un decennio dipinti murali in cantieri sparsi per l'Emilia Romagna. Poi vent'anni fa si è presa una pausa, è andata tre mesi in analisi e un bel giorno si è sentita pronta per ricominciare tutto da capo. "Sentivo che si era chiuso un ciclo. Volevo vivere di arte ma il restauro mi andava stretto, e così sul finire del secolo ho realizzato che volevo e potevo essere io l'artista". Laura inizia a lavorare sul concetto di dialogo tra spazio e individuo, sull'idea di combinare insieme tecnologia e relazione. Una serie di riflessioni che segnano il suo percorso artistico, fra gallerie, esposizioni pubbliche (al Miart, alla Fondazione Stelline) e collaborazioni con atenei come la Cattolica di Milano, l'Università di Brescia, il TEC di Monterrey e l'Unisob di Napoli, dove oggi è professore a contratto nel corso di Progettazione artefatti cognitivi e strumenti per la prototipazione.
Non le basta. Fonda una onlus (chiamata D+) per promuovere l'arte contemporanea, e continua a farsi domande. Una in particolare segna gli ultimi due anni della sua vita: "Dov'è la bellezza, nel fenomeno sociale dei rider?".
Inizia coì, iscrivendosi a Glovo. Il progetto artistico ha un nome - gLOVERs - e una curatrice, la storica della fotografia Giovanna Bertelli: per un anno intero, a partire dal febbraio 2019, Laura lavora come rider e re-lizza piccoli video "come appunti poetici del mio quotidiano rubato ai ritmi del software". L'obiettivo è comunicare: mostre, conferenze pubbliche, performance. Ma a febbraio 2020 accade l'imprevedibile: la pandemia di Covid-19 si abbatte sul mondo intero, tutto si ferma e il progetto viene con- gelato. "Inizia il primo lockdown - racconta - e capisco che per i rider ci sarà sempre più lavoro. Quei 500, 600 al mese guadagnati pedalando per Milano mi fanno comodo e decido di continuare, anzi alzo il tiro: pur di non restare in casa arrivo a lavorare anche 8, 10 ore al giorno".
Piano piano per Laura la bicicletta diventa magia, benessere, piacere puro. Alla media di 40 chilometri al giorno la fatica scompare, il cervello produce endorfine, neppure la pioggia le dà più fastidio. I sensi sono vigili, devi prevedere tutto - quel pedone sta attraversando, quell'auto si fermerà allo stop, quella portiera si sta aprendo? - e hai pure il tempo per piccoli momenti di libertà ("fare le gare con gli altri rider alle 2 di notte, e ridere dentro di te perché l'hai superato").
A mezzanotte piazza Duomo è deserta. La donna appoggia il cubetto isotermico e si siede sui gradini del lampione: dal termos esce caffè caldo, è il tempo del relax. "In questi mesi ho consegnato di tutto: sigarette e vestiti, mazzi di fiori e superalcolici. Mi è capitato di finire in mezzo al litigio di una coppia gay e di consegnare un pacchetto di pop-corn a un adolescente dall'altra parte della città. Ho sfiorato ambulanze e ho litigato con le forze dell'ordine: volevano darmi la multa perché pedalavo senza mascherina. State voi per 6 ore in bici - ho risposto -
con 5 chili sulle spalle, sotto il sole d'agosto, con occhiali da vista e mascherina. Hanno avuto pietà".
Chi vive sulla strada sviluppa solidarietà nei confronti di chi fa lo stesso. I tassisti, gli operai del tram, gli stradini che asfaltano: "Ci si aiuta tutti, ci si comprende; la sera i controllori della metropolitana aprono i tornelli ai rider stanchi che vogliono solo una bottiglia d'acqua al distributore automatico". Laura l'ha capito, la bicicletta è entrata prepotentemente nella sua vita e non se ne andrà più. Abituata com'è ad alzare sempre la posta, ha deciso di puntare in alto. Da mesi su un foglio Excel si segna i chilometri che fa, i tempi che impiega, i recuperi e le ripetute. Il suo obiettivo è semplice: fare il giro del mondo. "Ora è diventato il mio sogno, la mia ossessione: smetterò di fare la rider solo per questo".


Hanno deciso di inforcare la bicicletta per occuparsi di consegne a domicilio e integrare così il loro reddito. La storia di due donne, Laura e Barbara.

«Poverina, una signora così anziana che gira in bici. Chissà che vita difficile». È il pensiero che molti avranno fatto incrociando per le strade di Milano Laura Morelli. A raccontarcelo è lei stessa: 59 anni, rider.Ha sperimentato in prima persona cosa significhi Gig economy, ossia guadagnarsi da vivere o integrare il proprio reddito facendo lavori saltuari, senza alcun contratto a garanzia e solo quando si viene chiamati o, più in generale, quando si può. «È un’esperienza molto spinta perché hai tempi stretti da rispettare, un percorso da seguire e del cibo – quindi materiale fragile – da trasportare». Nel suo caso bevande, visto che ora consegna bottiglie di vino e, più in generale, alcolici.«Ho iniziato il 14 gennaio del 2019 e penso di aver fatto almeno 10mila chilometri perché ho lavorato tanto. Ho cambiato diverse aziende della Gig economy. Il fine settimana si guadagna di più ma, se in media lavori quattro giorni a settimana, per 4/5 ore al giorno, ti porti a casa 600 euro».

Pochino, no?
Sette euro l’ora. Decisamente poco.

E lavorare durante la pandemia da Covid come è stato?
Come essere improvvisamente Alice nel paese delle meraviglie. Una città vuota. I suoni, gli uccellini.

Laura Morelli, rider

Milano. Laura Morelli in Piazza Duomo.

Una risposta che può sorprendere se non fosse che Laura ha scelto di fare questo lavoro e lo ha fatto per un tempo determinato. A parlarci bene, infatti, si scopre che è un’artista e si occupa di indagine estetica. Ha affrontato quello che poi si è trasformato in un anno di lavoro in un’occasione per intraprendere un suo percorso di sperimentazione artistica. «Cercavo bellezza, apparentemente difficile da trovare in un ambiente di produzione. Eppure l’ho trovata, per la strada, mentre attendevo di ricevere l’ordine da consegnare o mentre attraversavo la città». Così ha fotografato, registrato, filmato qualsiasi cosa la attraesse: dal logo con immagine femminile di un ristorante cinese alle conversazioni in attesa al semaforo. Il tutto confluito in un progetto chiamato “Glovers”, dal nome dei rider che lavorano per uno dei più importanti vettori, ma che porta in sé anche il termine “Love”. E dunque, amore.

Un bel vantaggio, sicuramente, rispetto ai tanti che invece il rider devono farlo per forza: perché è l’unica fonte di reddito.
Non sono mai stata ricca e se ho potuto vivere questa esperienza è perché ci ho guadagnato qualcosina. In più, per dieci anni sono stata capocantiere in imprese di restauro e lì ho guadagnato il necessario per acquistare due immobili dai quali oggi ho una piccola rendita. Nella mia vita, mi sono sempre trovata a fare cose diverse. Prima ci soffrivo, non perché non mi piacesse ma perché l’ambiente sociale circostante richiedeva, come modello, il lavoro unico. Solo che a me questa cosa dell’identità unica è sempre stata stretta. Oggi vivo a Milano in cohousing: 100 mq che condivido con una coppia e un singolo.

Barbara Vidor

Milano. Barbara Vidor durante il suo turno di rider.

Diversa, ma accomunata dall’età e dall’amore per la bicicletta, l’esperienza di Barbara Vidor, 56 anni. Vive a Landriano, in provincia di Pavia, e fa la rider da cinque anni. «A Landriano carico la bici in auto e lavoro a Milano. Quindici chilometri. Trovo parcheggio e da lì parte tutto il gioco». Eppure, di mestiere principale, Barbara fa altro: «Io sono una barista da undici anni. Ho una passione grandissima che è quella del cavallo. Perciò ho chiesto un part time – lavoravo troppo per potermi prendere cura del cavallo e gareggiare con esso – e, quando le spese hanno iniziato a salire, ho integrato il reddito lavorando come rider. Scotch, il mio cavallo, è un Sella francese: mi costa 350 euro al mese. Ed è esattamente quanto riesco a guadagnare consegnando cibo a domicilio».

Ma non è  faticoso a 56 anni?
Ho fatto tanti sport – prima del cavallo, ho gareggiato nello sci slalom gigante, windsurf, kitesurf e skateboard – e perciò sono molto allenata. In più, il lavoro di rider mi lascia tempo libero perché do disponibilità a seconda di quando ho possibilità di lavorare. Sono una “jobby”, ossia iscritta alla piattaforma Jobby, con la quale trovi il lavoro quando ti serve. Si trovano anche lavoretti per la casa, offerte come domestica o se serve di tinteggiare. Io avrei anche il brevetto per montare i televisori, ma poi non l’ho mai usato.

In bici, lei dice: «È come se fossi in palestra. Non la pago e mi mantengo in forma».

Pensi che continuerai a fare questo lavoro anche in futuro?
Sì, ho interrotto solo durante il Covid. Mi sono fermata perché avendo già un lavoro ho preferito lasciare le consegne a chi ne aveva veramente bisogno e vive solo di quello.

Quindici giorni ferma. Poi, non ce l’ha fatta più. È tornata in sella alla sua bicicletta. E a Scotch.

 

Senza Diritti. Una categoria da tutelare

Per mesi la politica si è interrogata su come debba essere normato il mondo dei rider, i lavoratori senza diritti né tutele che consegnano cibo a domicilio rischiando la propria incolumità nel traffico cittadino. In tanti raccontano la pesantezza di stare fuori casa dieci ore al giorno, percorrendo anche 80/100 chilometri in bicicletta, di turni di lavoro massacranti, con compensi che variano a seconda delle ore di lavoro e delle consegne. Sempre al di sotto del necessario per andare avanti. Una condizione così complessa che è finita nel mirino della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano con l’accusa di caporalato a un noto vettore, in particolare per lo sfruttamento dei rider. Tra le testimonianze raccolte, quella di un fattorino che ha dichiarato: «La mia paga era sempre di 3 euro a consegna indipendentemente dal giorno e dall’ora». A essere sfruttati, migranti provenienti da contesti di guerra, richiedenti asilo e persone che dimoravano in centri di accoglienza temporanei.

 

sui media si confonde un omicidio da criminalità con un femminicidio .

 Care Michela  Murgia  e    Repubblica  
 Innanzitutto complimenti per  la  definizione di femminicidio ( Michela  )  e   per  la creazione    delle pagine  https://www.alfemminile.com/ e di https://www.repubblica.it/dossier/cronaca/osservatorio-femminicidi/  (  repubblica  )  . Questa  lodevolissima   ed utilissima iniziativa       soprattutto  in un periodo in cui    sono  in aumento le  violenze  e  sugli omicidi    che hanno  come vittime le  donne  . Ma  spesso   ,  ecco un fatto recente     riportato nella   rubrica osservatoriofemminicidi 






Femminicidio a Faenza, donna uccisa nella sua casa

Il corpo scoperto da un'ospite della vittima: sulla gola un profondo taglio. Diverse persone sentite in commissariato

FAENZA - Ha tutti gli elementi dell'omicidio, quello che si è consumato a Faenza, nel Ravennate. La vittima è una donna di 46 anni, italiana, trovata morta nella sua casa di via Corbara - all'interno di un complesso residenziale - con un profondo taglio alla gola, riporta la stampa locale. Il corpo è stato trovato poco dopo le 6 di questa mattina da un'amica della figlia della donna, che era ospite nell'appartamento.
 Gli inquirenti sul luogo del delitto (foto Corriere Romagna)

La vittima, a quanto si apprende, era separata. Secondo quanto trapelato al momento del delitto l'ex marito si trovava in viaggio assieme alla loro figlia: i due erano partiti dopo le 5 quando la donna era ancora viva. E l'allarme alla polizia è stato dato proprio dalla figlia avvisata telefonicamente dalla sua amica rimasta nell'abitazione. Al lavoro la polizia e il pm di turno. La Scientifica sta cercando di accertare l’orario esatto della morte. Eseguiti anche rilievi dattiloscopici su uno smartphone. Al termine del sopralluogo nell'abitazione di via Corbara il procuratore Daniele Barberini ha spiegato che "le indagini sono a 360 gradi" su un fatto "drammatico che purtroppo coinvolge ancora una volta una donna". Gli inquirenti stanno ora ascoltando varie persone in commissariato anche alla presenza del dirigente della Mobile ravennate Claudio Cagnini.


cosi non c'è il rischio che quando avviene un femminicidio vero non venga riconosciuto o scambiato per un atto di normale criminalità ?  Non basta  che    e  qui  mi  rivolgo a  Michela  


Femminicidio è una parola che solo dieci anni fa in Italia non pronunciava nessuno al di fuori degli ambiti di attivismo contro la violenza alle donne. “Non serve, l’omicidio comprende tutto” era la risposta che andava per la maggiore quando si cercava di far capire che le donne uccise dentro a dinamiche tossiche di relazione erano un fenomeno che non aveva niente a che fare con quelle morte per criminalità comune, anche perché, mentre queste ultime diminuivano di anno in anno, le donne uccise per possessività rimanevano numericamente stabili.
La ragione della resistenza di forze politiche e mezzi di informazione a usare una parola apposita era comprensibile: accettare di nominare diversamente il fenomeno significava doversene occupare con leggi e linguaggi specifici che andassero alla radice culturale del problema. C’è voluto un decennio di donne morte per mano di mariti ed ex mariti, compagni ed ex compagni, fratelli, padri, fidanzati lasciati o mai voluti per rendersi conto che la questione richiedeva un approccio mirato. Su quale debba essere però questo approccio, ancora si discute.[... segue qui in questo articolo della   rubrica   osservatoriofemminicidi ]
  vogliamo    che   non si riesca  più  a  distinguere fra un " semplice omicidio " ( uso il termine fra virgolette non per sminuire la violenza ed il crimine ma per spiegarmi meglio ) indipendentemente dal sesso della vittima e il violenza di genere o femminicidio  ?   Con il rischio   che  succeda   come   dice   un mio contatto  fb in una discussione avuta  sul  femminicidio 
 

[...]
IL "femminicidio" è insito nella cultura odierna ed andrebbe combattuto sin dall'infanzia di ognuno di noi, ma contesto il modo: nella società odierna, si interviene solo a cose fatte, solo per dare esempi o per punire atti estremi e si arriva a discutere di quante aggravanti bisogna dare in piu a chi commette l'atto in questione, senza pero' pensare che cio' provoca delle storture estreme dove qualsiasi cosa diventa passabile per femminicidio poiche un uomo che uccide una donna e' peggio del contrario o dello stesso uomo-uomo. in buona sostanza, la discriminazione di genere nelle questioni giuridiche, ex-post, con vari distinguo del caso, secondo me è illegale e iniquo.

Quindi    e  qui  i  rivolgo  a  voi    e non solo   occhio  a  titoli  e   a  vedere   il femminicidio quando  non c'è     alimentando  il classico  al lupo  al  lupo    e creando confusionme  tra  criminalità  e   femminicidio con un rischio del ritorno al passato   ovvero a  prima   che  venisse   coniata la efinizione di   femminicidio 

togliamo il 10 febbraio al negazionismo e alla verità a senso unico imposta dallo stato e dalla destra e dalla sinistra negazionista.

Ci sono macchie nere nella storia di ogni civiltà. Nascoste, ignorate o mascherate grazie a narrazioni di comodo, sono il conto con il passato che non abbiamo mai voluto fare. Quel conto è arrivato.


 
Dopo la settimana della memoria  adesso si avvicina   la settimana  del    giorno del ricordo  , la differenza tra patriottismo e nazionalismo  (  da me  riportato   qui   ) ben spiegata   dal politologo Maurizio Viroli nel libro  NAZIONALISTI E PATRIOTI che  ricostruisce le ragioni della tentazione illiberale che sta attraversano il nostro Paese in un malsano e disgustoso sentimento nazionalista mai o falsamente patriottico  ) , mostra il suo solco profondo tra l'affetto verso il proprio territorio e l'amore malato per esso con l'odio per tutto ciò che è straniero
A noi uomini liberi   spetta ricordare il passato  , in questo caso  il 10 febbraio ,  a  360   gradi     ricordare   tutti i morti a causa da parte dei carnefici nazionalisti, prima  fascisti e poi  comunisti  , Opporci a  :
- lo stravolgimento da parte della destra illiberale e neofascista con la  complicità  ed  il silenzio  (   salvo rari casi  della sinistra parlamentare   revisionista ed  frange  di quella  extra  parlamentare)   della verità insistendo  solo  sul   genocidio nazionale asseritamente subito dagli italiani in Istria
- la monopolizzazione da parte della destra illiberale e di quella postfascista dell'argomento delle foibe quale 'fobia di massa '  decontestualizzandole  da quello che  è avvenuto  prima  .
- la strumentalità di tale argomento da parte dei neofascisti, perchè usato :
A )  per distrarre l'attenzione dal ruolo svolto dai fascisti fin dal 1919\20   il  cosiddetto fascismo di confine   con  incendi alle  associazioni  e    gruppi culturali  ,   linciaggi ,  discriminazioni  , delle minoranze  slave  , e poi  dal  1922\23  fino  al 1943   con l'aggiunta  di   italianizzazione  forzata  ,  con deportazioni e massacri e  successivamente dopo l'8 settembre del 1943  con le stragi e i massacri vestendo i panni di membri della RSI  ovvero  dei traditori della Patria nelle formazioni nere che in Istria e nella "Zona di Operazione del Litorale Adriatico" combatterono agli ordini dei comandi nazisti contro i patrioti resistenti italiani, seminando stupri, distruzione e morte
B )  per far dimenticare violenze e stragi perpetrate dai fascisti italiani in Istria e nelle zone occupate della Dalmazia, del Montenegro, della Slovenia (Lubiana) dall'inizio del 1941 fino al settembre1943 .

Infatti   come  dice  https://left.it/2020/02/19/attacchi-alla-ricerca-storica-su-foibe-e-confine-orientale


È in corso una indegna gazzarra da parte di elementi di destra e di estrema destra che prende a spunto le celebrazioni del giorno del ricordo . Queste persone attaccano qualsiasi interpretazione che non accetti una vulgata che si rifiuta di prendere in considerazione la politica di snazionalizzazione portata avanti durante il ventennio nelle zone del confine orientale non per giustificare, ma per spiegare quanto successo dopo la caduta del fascismo e durante la costruzione dello stato comunista jugoslavo. Si vuole imporre una versione ufficiale della tragedia delle foibe e di quella successiva dell’esodo dei giuliano fiumano dalmati sotto forma di genocidio degli italiani e con impropri e assurdi confronti con la Shoah. Chiunque operi la necessaria contestualizzazione di quanto successo sa che gli italiani furono perseguitati o in quanto ex fascisti, o perché identificati con le classi egemoni, o in quanto si opponevano alla costruzione dello Stato comunista, e non in quanto italiani. L’anno scorso l’attacco era stato portato al vademecum elaborato dall’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea del Friuli-Venezia Giulia, di Trieste, un equilibrato documento di sintesi storiografica sulle acquisizioni di decenni di ricerca sul confine orientale, che metteva in discussione la tesi che la persecuzione degli italiani fosse motivata da una pulizia etnica. [....] 

Inoltre due  anni  fa  e  l'anno scorso , e credo  che  sarà    cosi  ( mi auguro e  spero di no  ) anche  quest'anno  sono stati attaccati singoli ricercatori accusati di negazionismo solo perché si rifiutano di cedere alla nuova vulgata nazionalista e filo fascista, e poi  la Regione Toscana per aver affidato all'istituto della Resistenza e dell’età contemporanea di Grosseto la politica della memoria, e quindi anche i viaggi sul confine orientale, sulla base di una pluriennale esperienza di ricerca e didattica di quell'istituto sul tema. Gli attacchi mirano a mettere   sullo stesso piano  (  è  da  stolti  negarlo   e  non vederlo  ) storici  riduzionisti cioè che attribuiscono le  foibe  e  l'esodo   solo al  fascismo e  sminuiscono   i crimini     comunisti   con  chi  fa   invece  ricerca seria    inquadrandole  in uno  contesto storico    ed  servono  a  negare la legittimità degli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea a svolgere azione di ricerca storica e diffusione didattica sul confine orientale, sostenendo che essi sarebbero ideologicamente orientati.
Ecco  che  quindi  è  necessario oltre  che   : « [...] È allora essenziale ribadire che la ricerca storiografica non può essere condizionata da verità ufficiali diffuse o imposte dallo Stato e dalle istituzioni; che la libertà di ricerca va fondata sull’onestà intellettuale, sulla contestualizzazione ampia degli eventi, sull’utilizzo critico di fonti verificabili; che da parte degli istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea non è mai stata negato che le foibe rappresentino un crimine, che si inquadra non soltanto in una reazione alle politiche di snazionalizzazione [ quello   che  a  destra  ed  in certa  sinistra   s'ostinano a definire  pulizia  etnica   ]  e oppressione messe in atto dal fascismo nei confronti delle minoranze slovene e croate, ma anche nei meccanismi violenti di costruzione dello Stato jugoslavo da parte di un regime comunista che perseguitava tutti coloro che si opponevano ai suoi progetti (e quindi non solo italiani, e quindi non solo fascisti).[...] »  sempre   left    eccetto le parentesi  quadre  che sono  miei pensieri  . 
In realtà dietro a questi attacchi si nasconde non solo la totale ignoranza o  conoscenza  parziale  degli eventi storici, ,ma l’utilizzazione di parole d’ordine scioviniste e nazionaliste, ma anche e soprattutto la rivalutazione del ventennio fascista e della figura di Mussolini . 
Infatti  L’Istituto nazionale Ferruccio Parri, che è il capofila di 64 Istituti storici della Resistenza dell’età contemporanea diffusi su tutto il territorio nazionale, si oppone con forza a questa deriva filofascista e antidemocratica e, nel manifestare la propria vicinanza alle famiglie di tutti coloro che hanno dovuto soffrire per le tragedie consumatisi sul confine orientale, ribadisce il suo impegno per la libertà di ricerca storica al di fuori di vincoli e polemiche di carattere ideologico. Esprime solidarietà agli istituti e ai ricercatori che in questi giorni hanno ricevuto attacchi scomposti per il loro impegno per la verità e la correttezza storica.
IL cattivo ricordo è peggio del silenzio che le foibe e l'esodo hanno subito in 60 anni . Infatti Si dice che, a forza di ripeterle, anche le menzogne diventano verità. Più volte questo è accaduto riguardo ai fatti del passato. Capire come sia stato possibile e correggere le distorsioni è il compito che ci siamo dati. Quindi  cerchiamo di  porre  fine a  chi   sfrutta questo giorno cercando di accreditare presso i giovani e non solo, una visione semplicistica e parziale di una vicenda invece molto complessa, presentandola come una specie di “equivalenza” verso i crimini nazisti e fascisti della seconda guerra mondiale, calcando la mano con numeri fuori di ogni documentazione storicamente valida, su un aspetto drammatico, come le foibe, ma parziale e non inserito nella più complessa vicenda del fascismo del confine orientale

    mentre  mi  accingo  a  completare  i tag   per  questo post      dalla radio s'odono le prime     note  di 
Torneremo Ancora - Franco Battiato

4.2.21

Aosta, Annamaria Franzoni torna in tribunale 18 anni dopo il delitto di Cogne: "Turismo macabro nella nostra villa"

Capisco che tale vicenda possa rimanere impressa nella memoria collettiva . Ma certi limiti non dovrebbe essere superati . Anch'io come tutti\e sono appassionato di fatti di cronaca nera , ed abitando in un piccolo pase sono curioso ma non sono mai arrivato a tale forma di morbosità e di cinismo . un minimo di rispetto e di silenzio ( se proprio se non se ne può fare a meno di parlare di tale evento e vitare simili sciacallaggi e morbosità ) sarebbe la cosa migliore  . 



Aosta, Annamaria Franzoni torna in tribunale 18 anni dopo il delitto di Cogne: "Turismo macabro nella nostra villa"Annamaria Franzoni all'uscita dal tribunale con il suo avvocato (ansa)



Condannata in via definitiva per l'omicidio del figlio Samuele, ha fatto causa a una troupe tv: "Sono seccata che si parli ancora della mia storia"


Annamaria Franzoni è comparsa stamane in tribunale ad Aosta come parte civile un un processo per violazione di domicilio in cui sono imputati una giornalista e un tele cineoperatore. A 18 anni dal delitto di Cogne la donna è quindi tornata nello stesso palazzo di giustizia dove era stata sentita nell'ambito delle indagini sull'omicidio del figlio Samuele, per il quale è stata condannata in via definitiva. Accompagnata dal suo legale, è uscita dal tribunale coprendosi il volto col cappuccio della giacca, senza dichiarare nulla. "Non abbiamo nulla da dichiarare", ha detto il suo avvocato.Franzoni ha denunciato in aula la presenza di un "turismo macabro" nella villa di Cogne, teatro dell'omicidio del piccolo Samuele, con atti vandalici, nel corso del tempo, da parte di persone entrate nelle pertinenze per sottrarre oggetti da conservare per ricordo, tra cui persino un termometro. In tribunale la donna ha detto di temere che l'ingresso della troupe televisiva possa incentivare atti emulativi da parte di altre persone.

Annamaria Franzoni



Per questo, ha spiegato, la sua denuncia è volta a scoraggiare iniziative simili. Pur essendo la villa sottoposta a pignoramento, ha sottolineato la donna, lei ne è custode, quindi ha il dovere di vigilanza su quel bene e deve risponderne in caso di danneggiamenti. Franzoni, parte civile insieme al marito, si è detta inoltre "seccata" che a distanza di anni si parli ancora della sua storia.La vicenda per cui oggi Franzoni è tornata in tribunale nasce da un servizio televisivo del dicembre 2019. All'epoca la villa di Cogne era tornata alla ribalta perché l'avvocato Carlo Taormina, ex legale di Annamaria Franzoni, ne aveva chiesto il pignoramento. Il processo davanti al giudice monocratico del tribunale di Aosta Maurizio D'Abrusco e al vice procuratore onorario Cinzia Virota si è svolto a porte chiuse.

(ansa)



Costituitasi parte civile insieme al marito, Stefano Lorenzi, oggi non presente, Franzoni ha detto in aula di essere stata avvisata da parenti e amici di quel servizio. Cercando la puntata della trasmissione sul web, ha notato che la troupe era entrata nelle pertinenze dello chalet, in particolare nel cortile e sul balcone. Aveva quindi deciso di sporgere denuncia. L'udienza è stata rinviata per l'esame dei due imputati: nel frattempo non è da escludere un eventuale accordo tra le parti che potrebbe portare alla remissione della querela.

i comunisti non furono solo infoibatori la destra ignora o fa finta di non sapere che ci fu Il patriottismo di sinistra nella Venezia Giulia


Neppure  io    sapevo  , anche  se  lo ipotizzavo, ed  ho approfondito      che   ci furono dei comunisti  patriotici     come  dice  la   discalia  di copertina   di   questo  libro,  di cui ho  ho appreso la  news  e l'esistenza da     https://www.arcipelagoadriatico.it/



 che  In una Venezia Giulia occupata dagli Alleati, azionisti, socialisti e perfino importanti settori comunisti anelano il ritorno in Italia di Trieste e dell’Istria, già nel corso della Guerra di Liberazione e quindi ben prima dello scisma Stalin-Tito del ’48. In pochi sanno che questi antifascisti di provata fede, spesso ex partigiani del CLN Giuliano o delle Garibaldi, continuano all’ombra del GMA la loro battaglia per la democrazia progressiva e l’italianità delle loro terre. Usati e gettati da un Governo italiano che li giudica troppo morbidi con i sostenitori della Repubblica jugoslava ; odiati dalla destra perché irremovibili sulla pregiudiziale antifascista e responsabili di avere consegnato la Città alle truppe di Tito; ostacolati dal GMA che mal tollera il loro potenziale libertario; avversati dalle forze (filo)jugoslave perché contrari alla politica annessionista della loro nazione; i progressisti tricolore rivendicano democrazia, libertà e socialità per tutta la Venezia Giulia. Attraverso particolari organizzazioni e strategie, i patrioti di sinistra operano nel segno della giustizia e dell’equità in una terra troppo a lungo martoriata da odi e crudeltà. Prefazione di Giovanni Fasanella.


Oggi    con  l'istituzione  della  giornata    del   10  febbraio   questo è  stato dimenticato     e  si vedono i  comunisti ( senza  nulla  togliere  alle  loro  gravi responsabilità   in tali eventi   )     solo ed  esclusivamente  come   carnefici   ed  infoibatori  .
  infatti  una  bandiera    tricolore  con una stella   al  centro  o  viene   solo vista  , in quanto  fu simbolo delle brigate  Garibaldi , come  simbolo  di Pro Tito e   quindi  solo   da   condannare  
Esempi trovati in rete  

Risultato immagini per foibe bandiera italia  con la stella  al centro

e    da http://www.ilfriuli.it 10.2.2020

Foibe, nuove provocazioni a Trieste
Savino (FI) denuncia su Facebook: "Presidio con bandiere jugoslave e tricolori con stella rossa" 



"Nel Giorno del Ricordo nostalgici di Tito pensano bene di manifestare contro la commemorazione delle vittime delle foibe e dell’esodo. E lo fanno con un presidio in piazza della Borsa a Trieste, sventolando la bandiera della repubblica socialista di Jugoslavia e il tricolore con la stella rossa. Una bieca e squallida provocazione che ci sprona e rafforza nel valorizzare ogni anno di più questa dolorosa solennità civile”. Lo denuncia su Facebook Sandra Savino, deputata e coordinatrice regionale di Forza Italia Fvg.



Ok    va bene        condannare    le brutture  e le  violenze     da cui  neppure  i  comunisti    furono immuni ed  estranei ma  , non   apriori  . contestualizzandole  ed  soprattutto senza  esagerarle        specialmente   quando  ci sono  fatti storici  cosi complessi   e discussi  dal punto di vista    delle interpretazioni    documentali  e  in cui ancora  oggi storia  e  memoria    non sono   ancora  scissi  ma sono  tutt'uno .  

3.2.21

intervista \ chiacchierata con l'amico fb triestino Paolo Visnoviz e miei riflessioni sulla settimana el ricordo ( sul 10 febbraio )

 Per  cercare  d'essere  originale  ed  evitare  di cadere  nella   retorica  anche nella "  settimana  "  del  ricordo ovvero nel 1' febbraio  , ho       deciso  d'incentrare  il  mio post  su un  intervista \ chiacchierata  con l'amico  fb triestino Paolo Visnoviz



IO  ciao   e  complimenti   per  i tuoi scritti  .    e  pensieri  in direzione  ostinata   e  contraria  .    vorrei chiederti  ,  visto  che  il tuo  cognome  mi sembra   slavo ,  se  t'andrebbe     una  "  intervista  "      chiacchierata   sulle foibe  e sull'esodo


PAOLO
Sono triestino da almeno 7 generazioni, poi chissà... Ma anche mi chiamassi Rossi, la storia delle foibe ha segnato tutto il territorio e tutti i suoi abitanti. 



IO  come  hai  conosciuto  le  vicende  delle  foibe  ? 

PAOLO   Abitando dove abito, è difficile non aver mai sentito parlare delle foibe. Ma anche la memoria va contestualizzata. Nel senso che la mia memoria non è diretta, per ovvi motivi anagrafici, ma nasce in un preciso contesto sociale e politico. La mia famiglia era di sinistra. Mio nonno era un attivista del PCI, e fu internato in Risiera. Sopravvisse. Mio padre, anch'esso di sinistra (seppur equilibrato e affatto integralista), era stato preso dai tedeschi e obbligato a scavare trincee nell'ultimo periodo dell'occupazione nazista. Delle foibe, in famiglia, non se ne parlava mai. Forse perché non ci avevano mai toccato direttamente. Forse perché avevamo altre tragedie da ricordare, come il bombardamento del 10 giugno del '44, che mi impedì per sempre di conoscere uno zio materno, morto adolescente.Oltre che le memorie e i discorsi a mezza voce di "quelli grandi", da piccolo la guerra mi regalò una baionetta nazista, usata da mia nonna per fare lavori di giardinaggio e lasciataci da un giovanissimo soldato, che la mia famiglia aveva nascosto per qualche giorno in un sottoscala, e un bel tavolo in legno massiccio lasciatoci da una famiglia ebraica, che pure i miei avevano aiutato. Le foto in bianco e nero di quelli che non c'erano ormai più. I racconti di mia madre e mio padre di quando andavano al mare, a tuffarsi da un relitto di nave bombardato. O, ancora, i racconti di mio nonno, il quale aveva, all'epoca, una piccola osteria dove dalla porta uscivano tedeschi, incrociando partigiani che entravano, facendo finta di nulla. Quasi in una specie di tregua mai dichiarata, ma da tutti rispettata.


IO secondo te  il  10 febbraio  è utile  o  inutile  ?  Oppure   tale    giornata  Istituita nel 2004 su iniziativa di esponenti dell'allora Alleanza nazionale e   da  una  sinistra    revisionista  “al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”, la ricorrenza del Giorno del Ricordo ha finito per inglobare non solo le memorie per troppo tempo marginalizzate degli esuli e delle loro famiglie, ma anche dei fascisti, le cui responsabilità sono intrinsecamente legate con il destino di quelle comunità.  ?


 PAOLO  Come sempre la politica, o meglio la strumentalizzazione politica dei fatti storici, fa sembrare tutto rosso o nero, ma non fu così. Non è mai così.


Nella mia fretta (   sia  del parlare  che nella  scrivere  )   gli ho fatto   tre  domande    in una     

IO "Sul tema si è imposta una verità ufficiale fatta di stereotipi e luoghi comuni. Chi la mette in discussione è tacciato di negazionismo"  che  ne  pensi  ?  Eric  gobetti   afferma  in questo articolo   su  https://www.ildolomiti.it/societa/2021/ <<  [...] Per gli studiosi parlare di questo tema, come di molti altri, è diventato sempre più difficile. Ma questo è un meccanismo che va fermato, perché gli studiosi devono poter analizzare le fonti, fare ricerca e dare le proprie interpretazioni liberamente” [....].>> e   qui introducendo   il  suo  ultimo   libro   


 concordi  o   non concordi  ?
Per  me    A dominare la narrazione sul confine orientale è il nazionalismo, che a fronte di decenni di repressione e oppressione degli slavi tende a isolare gli episodi in cui gli italiani sono stati vittime.   << La verità ufficiale che si è imposta sul tema delle foibe non si basa sulle fonti bensì sugli slogan – prosegue Gobetti – si sente ad esempio ripetere che i territori in questione fossero italiani da sempre. È totalmente falso, perché diventano italiani dopo la Prima guerra mondiale e lo restano fino alla fine della Seconda, quindi per poco più di 20 anni. Sono terre in cui per secoli hanno convissuto gruppi linguistici differenti. A questo aspetto dedico uno dei tanti capitoli del libro, dove punto per punto analizzo cosa ci sia di vero e cosa di falso negli slogan>>   e   vanno studiati       e ricordati  a  360  gradi  .   Per  te  ?

Paolo  Ritornando in tema e alla tua domanda, delle foibe iniziai ad interessarmi grazie a Roberto Menia (quello che poi sarebbe diventato il braccio destro di Gianfranco Fini). Andavamo allo stesso liceo, ma in classi differenti (credo lui sia più vecchio di me di un anno), e mi aveva preso di mira. Lui già allora era un "capetto del Fronte della Gioventù, mentre io mi definivo anarchico, e tra tutti i 600 studenti di quella scuola, eravamo forse in 3 ad esserlo. Avevamo però un certo seguito e carisma, ovviamente soprattutto a sinistra, e quindi Menia mi prese un po' di mira. Nulla di che, mai nulla di violento. Forse, una volta qualche spintone e un giornale strappato (credo fosse una copia de "il Male").Un giorno, in un confronto verbale in corridoio, mi rinfacciò le foibe, non a me, ovviamente, ma a quella parte politica cui lui credeva fossi vicino. Non era la solita contrapposizione verbale, il solito esercizio dialettico (classico, per dei giovani stupidi, come tutti a quell'età eravamo). No, per lui era qualcosa di più profondo, di più vivo: una ferita ancora aperta.Ne parlai a casa con i miei. Chiesi loro direttamente delle foibe. Non negarono, ma quasi giustificarono quei massacri con i torti da molti subiti. I villaggi in fiamme, la gente uccisa o deportata. Gli orrori perpetrati dai nazifascisti.Non subito, ci volle tempo, ma da quel giorno iniziai a capire che i torti non stavano da una sola parte, e che gli orrori li avevano commessi tutti.La famiglia di mia moglie è italiana d'origine, italiofona e vive in Istria, Croazia. La maggior parte di loro sono rimasti anche nel travagliato dopoguerra. Vivono non molto distante da una foiba, e i loro ricordi sono terribili. Sono sopravvissuti, come la madre di lei, poi emigrata a Trieste che, un giorno, camminando per strada si prese un proiettile in un braccio. Di storie così ogni triestino può raccontarne. Eppoi la triste storia degli esodati, ben raccontata da Cristicchi in Magazzino 18. Un lavoro teatrale che ha portata in giro per l'Italia, e che io ho visto a Trieste, dove ha avuto un impatto emotivo molto forte, per ovvi motivi. Lo hanno minacciato, gli hanno bucato le gomme della macchina. Ancora oggi c'è gente che non riesce a far pace con la storia. D'altra parte, quando venne eletto Nesladek sindaco di Muggia (TS), di sinistra, in piazza c'era gente che per festeggiare ha tirato fuori le bandiere titine. Ancora oggi ci sono moltissimi triestini che non vanno in Slovenia nemmeno se pagati. Ancora oggi in molti esercizi della minoranza slovena, servono prima chi entra dicendo "doberdan" di quello che ha detto "buongiorno", anche se sarebbe stato il suo turno.Ancora oggi ci sono persone che negano o giustificano. Almeno oggi se ne parla, almeno oggi c'è il 10 febbraio. La verità viene raccontata, anche se non tutti vogliono sentirla. Più in generale ci sono stati storici e giornalisti che hanno riletto la storia della 2° guerra mondiale in modo più critico e obiettivo, non ideologico, come Giampaolo Pansa.Dal mio canto, quando mi capita di parlarne con qualcuno, ricordo semplicemente che riconoscere le atrocità dell'esodo e delle foibe, non sminuisce affatto gli orrori del nazifascismo. Nessun revanscismo, nessun odio, solo la necessità di raccontare la storia. Tutta la storia, non solo una parte.

  Concordo   con lui    soprattutto   sull'ultima parte  perchè     dopo     quasi  60 anni di  silenzio   istituzionale   e ufficiale  ,  rotto    ogni tanto  come  un Geysir da  scritti e  studi  ma  limitatoi     solo per  gli specialisti  e   un pubblico  di nicchia  ,  certe ferite   ancora  aperte     bruciano  ancora   per il sale  che  viene  sparso  su  d'esse    da  un uso  politico  \  ideologico della storia     alimentato     dalle  celebrazioni ufficiali  .  Infatti  anche se  sono  critico   verso  il  10 febbraio ricordo  tale   evento   e  cerco  di sfatare  la  vulgata  delle foibe  e  dell'esodo  solo ed  esclusivamente  come i eccidi   comunisti   . Ma  soprattutto  mettere  in evidenza   che    quello che  accade   nell'Adriatico  (  quelo che  una volta  si  chiamava   confine orientale  )   in quegli anni  non  è  solo dal 1947 al  1960\75    e che  farsi un idea   diversa   da  quella  ufficiale   non vuol dire necessariamente  giustificare o    negare  talli   fatti. Infatti  La cristallizzazione istituzionalizzata   delle  memoria    delle  vicende   delel  foibe  in una ricorrenza nata a qualche anno dall'istituzione del Giorno della Memoria contiene in sé un'irrisolvibile contradditorietà. Il 10 febbraio l'Italia si ferma a ricordare una comunità sradicata dal proprio territorio e accolta a fatica nel seno della nazione. Lo fa in una data che è al tempo stesso l'inizio della fine per gli italiani adriatici e l'imposizione di un trattato come vinti per l'intero Paese. Agli occhi degli italiani, digiuni dalla Storia e dalla conoscenza delle terre di confine, il ricordo diventa rivendicazione, in continuità diretta, geografica e politica, con la “vittoria mutilata”. L'iter per l'istituzione della ricorrenza, al tempo stesso, ne marca il senso politico. “Colonizzata” dalla destra post-fascista, accettata dalla sinistra post-comunista in nome della “memoria condivisa” - lo scotto da pagare per la consunzione dell'utopia – questa data “dialoga” con il Giorno della Memoria, quasi fosse contrapposta allo sterminio nazi-fascista. "Pareggiare la storia", equilibrare le morti, presentarsi come vittime dimenticando deliberatamente d'essere stati carnefici.
L'uso politico della storia strumentalizza la tragedia d'una comunità, acuendo le divergenze, impedendo la comprensione. Infatti    concordo  con    quanto  dice in questo articolo   dell'anno scorso sempre  dal sito https://www.ildolomiti.it/societa/     Raoul   Pupo uno  degli storici  fra  i  più    citati   dai  "seguaci  "    del  10  febbraio ufficiale  . 


Professor Pupo, cosa avvenne nel confine orientale negli anni della Seconda guerra mondiale e cosa si celebra nella ricorrenza del Giorno del Ricordo? 

È un periodo lungo quello che si ricorda nella celebrazione del Giorno del Ricordo, così come diversi sono i fenomeni al centro di questa ricorrenza. Si parte con gli infoibamenti, un'espressione in cui è forte la tendenza a semplificare e all'uso pubblico della storia. Si indicano le stragi avvenute a ondate nell'autunno '43 e nella primavera/estate del '45. Si ricorda poi l'esodo, un fenomeno lungo cominciato con lo sfollamento di Zara nel 1943 e concluso nel 1956. Vi sono poi le altre vicende del confine orientale, per cui si va indietro all'occupazione italiana. Complessivamente nel Giorno del Ricordo si commemora il collasso dell'italianità adriatica, di un intero gruppo nazionale, che per il 90% decise d'emigrare. I numeri precisi non si conoscono, si parla di alcune migliaia di scomparsi, tra i 3000 e i 5000, e di 300mila esuli. Sul tema, Italia, Slovenia e Croazia diedero vita a commissioni d'esperti, che si conclusero nel caso italo-sloveno mentre è rimasta in sonno quella italo-croata. Alla pubblicazione in Slovenia, in Italia non corrispose una pubblica comunicazione. Il Ministro degli Esteri, comunque, lo ha lasciato a disposizione degli studiosi. Su questo “collasso” vi è poi stato il tentativo di colonizzazione da parte della destra, un uso politico che si è inserito sullo spirito originario della legge di recupero e valorizzazione di una memoria per lungo tempo rimossa dalla scena pubblica. 


Uso politico della storia e semplificazioni nel linguaggio segnano questa ricorrenza. Non è forse l'accento sulla memoria a determinarne la problematicità? 

Sulle vicende di giuliani, istriani e dalmati ha operato per lungo tempo una generale amnesia, a partire dal dopoguerra. Per gli esuli e i parenti degli scomparsi è rimasta una ferita. Il Giorno del Ricordo agisce in questo senso su un lutto non elaborato, recuperato e valorizzato, come detto, ma su cui poi si è prepotentemente inserito un uso politico. L'utilizzo di un linguaggio banalizzante e semplificatorio ne è l'esempio. Si parla tanto di foibe perché impattano maggiormente sull'opinione pubblica, ma nella categoria di infoibati si comprendono anche persone uccise in altri modi o scomparse. Si parla di pulizia etnica, ma se fosse stata davvero una pulizia etnica ci sarebbero attualmente in quei territori circa 100mila italiani. Infatti quando parliamo di italiani in questi territori ci riferiamo a italiani d'elezione, non a italiani etnici. Paradossalmente “pulizia etnica” è un termine riduzionista, una semplificazione che finisce per essere un boomerang per chi la fa. Si guardino i cognomi degli esuli, ci si renderà conto di questo concetto. Con l'istituzione della legge il racconto di queste storie è delegato alle associazioni di profughi, variegate al proprio interno, alla rete degli istituti della Resistenza e agli enti locali. È chiaro che in quest'ultimo caso le maggioranze politiche influiscono in modo più o meno evidente. La problematicità delle iniziative, d'altronde, si ritrova proprio nell'accento che si fa sulla memoria. Nella caccia ai testimoni, sempre di meno, si mettono in difficoltà queste persone. Non si può, in aggiunta, far spiegare da un figlio di un infoibato come funzionano le stragi. Bisognerebbe che ci fosse sempre uno storico o un esperto accanto al testimone, perché va bene quando la memoria fa memoria, ma quando la memoria fa la storia è un disastro. 


Tutti gli anni, a margine del Giorno del Ricordo, il dibattito pubblico viene percorso da opposte prese di posizione che negano o ingigantiscono il fenomeno degli infoibamenti. Quanto e perché è problematica questa ricorrenza?

La scelta del 10 febbraio è tutta politica. Nello spirito delle associazioni dei profughi è una data che segna l'inizio della tragedia, una data simbolicamente molto forte. Dal punto di vista storico, però, è estremamente problematica. Il governo italiano è oggetto del Trattato di pace, l'Italia è un Paese sconfitto e sul banco degli imputati. C'è inoltre il grosso limite d'essere vicini al Giorno della Memoria, segno che tra alcuni proponenti ci fosse l'idea di metterli sullo stesso piano. È una data infelice, se ne deduce, ma non era facile trovarne un'altra. Le ricorrenze si pongono spesso all'incrocio tra due fenomeni: la ricerca dei testimoni e il vittimismo come esaltazione della vittima. Queste due ricorrenze ne sono il simbolo. Riguardo ai diversi atteggiamenti nei confronti dei fenomeni al centro di questa ricorrenza, nel mio libro del 2003 ("Foibe", scritto con Roberto Spazzali) vengono avanzate alcune categorie come quelle di “negazionista” e “riduzionista”. Categorie scivolosissime da usare con attenzione, visto che il negazionismo è un reato punito per legge, e che rischiano d'essere utilizzate per ogni critica. C'è un grosso equivoco, a mio giudizio, e consiste nel fatto che cercar di capire cosa accadde nell'Adriatico in quegli anni non vuol dire giustificare.

Lo  so che  il  mi ricordare      e  parlare  di tali argomenti crea  stupore  tipo     quanto mi  si  disse   quasi  a  sfotto     un amico  di destra  anni  fa    : <<  come  miracolo  un  comunista  che  critica      gli  stessi comunisti    ,   e  ricorda  ed  condanna  i  loro eccidi  >>  Ma  certi eventi  , aldilà dell'interpretazione      che  ne  viene   data  da  una  parte     e  dall'altra  




Sul suo profilo Facebook, lei ha scritto: “Perfino un banale incidente viene raccontato in mille modi diversi. Per raccontare esodo e foibe occorrono anni di studi, onestà intellettuale e più voci”. Che motivo l’ha spinta a scriverlo?

Ho scritto questo perché io ho letto e leggo molto, anche per il mestiere che ho fatto. Mi sono reso conto che tante manifestazioni che sono organizzate per il ricordo o per altri motivi, sono spesso poco equilibrate. C’è gente che si improvvisa storico. E’ vero che ognuno ha i propri ricordi e quindi la storia la vede sotto il proprio punto di vista e non da quello degli altri. L’estrema sinistra e l’estrema destra hanno due approcci diversi nel raccontare la storia di quegli anni. Bisogna avere più equilibrio. E questo manca tante volte, anche in alcuni di noi. Perché io mi rendo conto che il dolore provato da mio padre, da mia madre, da mio nonno è stato grande, ma bisogna tener conto anche dell’opinione degli altri.
Non puoi raccontare solo la tua, devi indagare, vedere poi trarre le conclusioni. Per questo per me sarebbe importante che certe manifestazioni fossero organizzate con tutti e due i punti di vista, sia chi nega certe cose sia chi le esalta troppo. In modo da raggiungere un certo equilibrio in modo che la gente senta le opinioni di tutti e poi possa trarre le sue conclusioni. Io voglio sapere qual è la verità, la verità mia quella dell’altro, poi ognuno farà i suoi ragionamenti.
[.... segue  qui  su https://www.qdpnews.it/conegliano ] 

  La storia e il dramma del professor Picot, il racconto della tragicità delle foibe e della fuga dall'Istria

  non si possono negare o far  finita  che  non siano mai   avvenuti  . Inoltre  io ricordo oltre a quanto  ho già detto precedentemente  in altri  post   tali eventi       perchè : 1) combatto , almeno  ci provo . l'uso strumentale  e politico      di  tali  complesse  e dolorose  vicende  ., 2) perchè  essendo  La memoria, come un fiume carsico, percorre le profondità della terra prima di ritornare alla luce. E quando lo fa, spesso, è prorompente. La memoria degli italiani adriatici, silenziata e rimossa nell'Italia del dopoguerra - lacerata dalla guerra civile, ferita da vent'anni di regime, spaccata politicamente e socialmente dalla Guerra fredda - è esempio significativo. ed  io    sono cresciuto   con  ciò . Da  un lato  mio nonno e  i miei  prozii paterni    che   coltivavano  la  vulgata   come  eccidi    comunisti    sulle  foibe      e  mio padre  e mio  zio     che la contrastavano  . 3)   perchè ancora    non si è  fatto  i conti  con il nostro passato   dimenticando che siamo stati "noi"   ad  averle  innescate   e  poi   tacerle    ed  ora  usarle  strumentalmente   tacendo   \  nascondendo  sotto il  tappetto  o    quando  c'è  un briciolo  di onesta  intellettuale  e politica  cioè  non li   si nega   sminuendo     quello che  è  avvenuto prima  e  concentrandosi  solo     su quello  chè è  avvenuto dopo  . 

 






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