2.1.25

diario di bordo n 95 anno III La coppia con l'autismo scoperto da adulti: «L'ansia per i vestiti, al supermercato con le cuffie anti rumore» .,A 8 anni sopravvive 5 giorni in un parco con leoni in Zimbabwe




La coppia con l'autismo scoperto da adulti: «L'ansia per i vestiti, al supermercato con le cuffie anti rumore»

Ripubblichiamo l’intervista di Enea Conti a Martina Monti e Pippo Marino, pubblicata ad aprile, una delle più apprezzate dalle nostre lettrici e dai nostri lettori nel 2024

«La percezione è che la gente non abbia idea di che cosa sia l’autismo. Tanti pensano a Rain Man il film con Tom Cruise e Dustin Hoffman. Altri pensano al bambino che si dà i

pugni in testa. Ma la verità, anzi, la realtà è un'altra ed è molto diversa». Martina Monti, 35 anni, e Pippo Marino, 48 anni, sono marito e moglie. Lei, impiegata in un patronato Cgil a Ravenna, con alle spalle un passato da assessore comunale, lui, insegnante di inglese, vicepreside del Liceo artistico della città. Hanno deciso di raccontare la loro storia personale: entrambi hanno ricevuto una diagnosi da adulti. Una parte della popolazione su cui non esistono dati di incidenza di questo disturbo mentre al contrario è noto che in Italia 1 bambino su 77 ha ricevuto una diagnosi di autismo. Martina e Pippo si sono conosciuti nel 2017. 

«Fu un innamoramento lentissimo, ed entrambi siamo arrivati insieme a ricevere questa diagnosi». Spesso, però, tanti adulti con disturbi dello spettro autistico non riescono ad intraprendere alcun percorso. «Io, Martina, ho fatto anni di psicoterapia e ho scoperto spesso che la psicoterapia non è tarata sull’autismo lieve e quindi sull’autismo nell’adulto. Nessuno mi ha mai suggerito di pensare allo spettro autistico. Nonostante i soldi investiti sulla psicoterapia. Vogliamo raccontare la nostra storia per fornire un input ad altre persone in difficoltà».

Martina e Pippo, come siete arrivati alla diagnosi da adulti?

«Una cara amica di Martina ha un figlio che soffre di disturbi dello spettro autistico e lei stessa è arrivata alla stessa diagnosi dopo aver notato certe similitudini tra i propri comportamenti e quelli del figlio. In Martina rivedeva alcuni comportamenti simili ai suoi e Martina, a sua volta, vedeva in me comportamenti altrettanto simili. Entrambi abbiamo sempre avuto a che fare con gli psicoterapeuti perché i nostri problemi di ansia, cito in particolare l’ansia sociale. Questa nostra amica ci ha consigliato il centro "Cuore mente lab" di Roma, tra i pochi specializzati in Italia per quel che riguarda i disturbi dello spettro autistico negli adulti. A Roma venne fuori che entrambi rientravamo non solo all’interno dello spettro autistico ma anche nel adhd ovvero il disturbo da deficit di attenzione/iperattività. Altro disturbo frequentemente diagnosticato nei bambini ma meno negli adulti».

Video consigliato: Viaggiare Con L'Autismo: 5 Consigli Per Le Situazioni Stressanti (unbranded - Lifestyle Italian)

Potete fare un esempio concreto, tratto dalla vita di tutti i giorni?

Martina: «Banalmente stare fermi davanti a una scrivania per otto ore a lavoro per una persona neurotipica può sembrare la cosa più banale, facile e normale del mondo. Per chi come me ha un adhd, che sono iperattiva e faccio un lavoro impiegatizio è molto dura: devo necessariamente muovere le mani, per esempio con le palline o il fidgets spinner. Non è un disagio da poco e non è immaginabile da un neurotipico. Che magari può comprendere in senso assoluto il bisogno di muoversi ma non può intuire il nostro punto di vista. Ecco, immaginate quanto possa essere terribile fare un colloquio di lavoro: può capitare di mostrare certi atteggiamenti come mangiarsi le unghie – e faccio solo un esempio - che se esplicitati da una persona neurotipica tradiscono insicurezza, nervosismo, svogliatezza ma che nel mio caso sono semplicemente manifestazioni di iperattività, e quindi un disturbo».
Pippo: «Io ho sempre avuto la sensazione di essere diverso dagli altri. Spesso venivo emarginato, subivo bullismo, non riuscivo ad adeguarmi ai giochi che facevano gli altri bambini. Per compensare ho iniziato a fare il "camaleonte", imitavo. Durante l’infanzia gli altri bambini, durante l’adolescenza gli altri ragazzini e così via. Insomma cercavo di essere accettato dalla microsocietà di cui facevo parte. Pensavo in qualche modo di essere sbagliato o mal funzionante, per questo cercavo di imitare gli altri. È stata una sofferenza: non sei autentico ma indossi una maschera. Non uso termini casuali: in gergo medico questa tendenza si chiama proprio masking. E il masking genera ansia, attacchi di panico e talvolta il ricorso a psicofarmaci, per esempio antidepressivi. Va fatta però una premessa. Diciamo un masking buono: viviamo in un mondo fatto per neurotipici e questo è un dato di fatto. Il masking talvolta serve per sopravvivere. Ma c’è anche un masking cattivo che implica lo snaturarsi, l’essere completamente un’altra persona senza lasciare un briciolo di spazio alla propria soggettività. Succede che perdi te stesso e cominci ad avere attacchi di panico

Lei Martina, ha un passato da assessore. Neppure troppo recente, la sua nomina risale al 2011. E la premessa è che oggi ha 35 anni all’epoca ne aveva 23. Giovanissima. Come visse quell’esperienza?

«Gli autistici hanno interessi "assorbenti", interessi da cui vengono interamente assorbiti per tutta la giornata. Io non facevo altro che leggere libri di politica nazionale e internazionale e locale. Ero informatissima sulla "teoria" politica ma anche sui discorsi che questo o quel politico facevano. E quindi "camaleonticamente" ero perfettamente in grado di tenere un discorso in pubblico. Poi una volta diventata assessore si palesò la necessità di confrontarsi direttamente con le persone, elettori, colleghi, cittadini. E bisognava farlo con una delega complicata come quella alla Sicurezza e tempo da investire per studiare e laurearmi in giurisprudenza. All’epoca non sapevo di essere autistica: l’interazione sociale era diventata insostenibile, tanto che fui ricoverata due volte al pronto soccorso perché avevo sofferto di coliche allo stomaco. I medici dissero che erano dovute al fatto che non si decontraeva più per lo stress. Posso dire che probabilmente non rifarei tornando indietro nel tempo l’esperienza di assessore».

Che percezione credete abbia la società delle persone con disturbo dello spettro autistico?

«La percezione è che la gente non abbia idea di che cosa sia l’autismo. Tanti pensano a “Rain Man” il film con Tom Cruise e Dustin Hoffman. Quando va male in tanti pensano al bambino che si dà i pugni in testa. Ma la verità è che non si ha la più pallida idea di che cosa sia l’autismo. A volte la sensazione è che la società considera gli autistici dei "poveri handicappati" talvolta, azzardiamo, anche con un’accezione negativa screditante. La verità è che la definizione “spettro autistico” ha un significato preciso e ampio: c’è una gamma enorme di sfumature. Ci sono le persone non verbali, che non riescono a comunicare e a interagire. Sono casi gravi e difficili. E poi ci sono altri casi: noi per esempio siamo stati diagnosticati ad alto potenziale cognitivo. Ma anche con un q.i. superiore alla media abbiamo difficoltà notevoli. Martina ha avuto diritto alla legge 104 per avere una riduzione dell’orario di lavoro necessaria ad evitare il burnout. Significa andare in esaurimento mentali da sovrastimoli».

Che cosa intendete per sovrastimoli?

«Vale la pena fare un esempio. Non faccio più la spesa. Entrare al supermercato costa uno stress pari a un giorno di lavoro intero: luci alte, le persone intorno, il fastidio di essere toccati. Quando ci vado devo andarci con le cuffie anti rumore, perché sono "iper-uditiva". C’è chi, invece, soffre molto le luci perché percepisce molti più input luminosi rispetto al normale. Personalmente, molti vestiti mi fanno venire l’ansia se indossati, certe texture mi innervosiscono. Sono esempi di sovrastimoli».

La vostra storia è stata raccontata parecchie volte in questi giorni. Il motivo che vi ha spinto a renderla nota?

«Creare un po’ di curiosità. Tante persone si riconosceranno in alcuni tratti nella nostra storia. E magari molte di loro, che forse sono in cura per l’ansia o altri disturbi, potrebbero scoprire che in realtà hanno un problema di neuro divergenza. Per loro sarà una porta da aprire per vivere in pace. Non ci illudiamo e non illudiamo nessuno, la qualità della vita è pressoché la stessa dopo la diagnosi: noi però siamo molto più consapevoli, non ci colpevolizziamo per quello che siamo, come un tempo e ci accettiamo. È molto liberatorio poter dire "non sono io che non funziono ma sono neuro divergente". Io, Martina, ho fatto anni di psicoterapia e ho scoperto spesso che la psicoterapia non è tarata sull’autismo lieve e quindi sull’autismo nell’adulto. Nessuno mi ha mai suggerito di pensare allo spettro autistico. Nonostante i soldi investiti sulla psicoterapia ero sempre allo stesso punto».


------ 





(ANSA) - ROMA, 02 GEN - Un bambino di otto anni è stato trovato vivo dopo essere sopravvissuto per cinque giorni in un parco abitato da leoni ed elefanti nel nord dello Zimbabwe. Lo scrive la Bbc citando un membro del parlamento del Paese.IL calvario è iniziato quando il ragazzino, Tinotenda Pudu, si è perso a 23 km da casa nel "pericoloso" Matusadona Game Park, ha detto su X il parlamentare del Mashonaland West Mutsa Murombedzi. 


Il bambino ha trascorso cinque giorni "dormendo su uno sperone di roccia in mezzo a leoni ruggenti, elefanti e mangiando frutti selvatici", ha detto. Il parco giochi di Matusadona conta circa 40 leoni e per un periodo ha avuto una delle più alte densità di popolazione di questi animali in Africa, secondo African Parks citato da Bbc. Murombedzi ha detto che il bambino ha usato la sua conoscenza della natura selvaggia e le sue abilità di sopravvivenza per rimanere in vita. Tinotenda è sopravvissuto mangiando frutti selvatici, ha scavato piccoli pozzi nei letti asciutti dei fiumi con un bastone per procurarsi acqua potabile, un'abilità che viene insegnata in questa zona soggetta a siccità. I membri della comunità locale di Nyaminyami hanno organizzato una squadra di ricerca e hanno suonato tamburi ogni giorno per riuscire a riportarlo a casa. Alla fine sono state le guardie forestali a recuperare il bambino: al suo quinto giorno nella natura selvaggia, Tinotenda ha sentito l'auto di una guardia e le è corso incontro mancandola di poco, ha detto il parlamentare. Fortunatamente, le guardie forestali sono tornate indietro e hanno individuato "piccole impronte umane fresche", hanno quindi setacciato la zona finché non lo hanno ritrovato. "Questa era probabilmente la sua ultima possibilità di essere salvato dopo 5 giorni nella natura selvaggia", ha detto il parlamentare  Il parco ha una superficie di oltre 1.470 km quadrati e ospita zebre, elefanti, ippopotami, leoni e antilopi. Sui social media, gli utenti hanno celebrato la forza e l'istinto di sopravvivenza del bambino: "Avrà una storia incredibile da raccontare quando tornerà a scuola". (ANSA).

Sopravvissuta all'Olocausto, ha vinto 10 medaglie alle Olimpiadi: Agnes Keleti si è spenta a 103 anni

  fonti  corriere dela sera tramite msn.it  e https://www.thesocialpost.it/ e https://www.ilmessaggero.it/video/sport/ per il video

Agnes Keleti, una delle più grandi atlete ebree della storia, è morta a 103 anni in Ungheria. Sopravvissuta all’Olocausto, era la campionessa olimpica vivente più anziana, con 10 medaglie conquistate nella ginnastica . “Avrebbe compiuto 104 anni giovedì prossimo”, un traguardo che avrebbe celebrato con lo stesso spirito indomabile che l’ha sempre contraddistinta.Nata Agnes Klein nel 1921, la sua carriera fu drammaticamente interrotta dalla Seconda guerra mondiale e dalla cancellazione delle Olimpiadi del 1940 e 1944. Nel 1941, a causa delle leggi razziali, fu costretta ad abbandonare la squadra di ginnastica e a nascondersi nella campagna ungherese sotto una falsa identità, lavorando come domestica. La madre e la sorella sopravvissero grazie al diplomatico svedese Raoul Wallenberg, ma il padre e altri familiari furono deportati e morirono ad Auschwitz.
Dopo la guerra, Keleti tornò ad allenarsi con determinazione. Sebbene un infortunio le avesse impedito di partecipare alle Olimpiadi di Londra del 1948, il debutto a Helsinki nel 1952 la vide brillare: un oro, un argento e due bronzi negli esercizi a corpo libero. La consacrazione definitiva arrivò alle Olimpiadi del 1956 a Melbourne, dove conquistò 4 ori e 2 argenti.
Agnes è rimasta un’icona anche dopo il ritiro. Nel 2017 ha ricevuto il prestigioso Premio Israele, mentre l’Ungheria l’aveva già insignita del titolo di “Atleta della Nazione” nel 2004. Sorprendentemente, ha continuato a eseguire spaccate fino ai 90 anni, dimostrando che la sua forza andava ben oltre il tempo . i.
Keleti conquistò le medaglie olimpiche in due edizioni dei Giochi: Helsinki 1952 e Melbourne 1956, dove batté la leggendaria ginnasta sovietica Laris Latynina. Ha dovuto aspettare, dopo un mucchio di occasioni sfuggite: prima a causa della guerra, poi per un infortunio che l'ha costretta a rinunciare ai Giochi del 1948 a Londra. Era sopravvissuta agli orrori dell'Olocausto, aveva dovuto lasciare la ginnastica e superare il dolore per la scomparsa del padre e di diversi parenti, uccisi dalla ferocia nazista nel campo di concentramento di Auschwitz. Agnes si è salvata e con lei anche mamma e sorella.
 


Keleti è considerata una delle più grandi atlete ebree di sempre ed era la campionessa olimpica vivente più anziana: era nata a Budapest il 9 gennaio 1921 e giovedì prossimo avrebbe compiuto 104 anni. Agnes ha ottenuto anche successi importanti in Italia: ai Campionati del Mondo di Roma 1954 si è laureata Campionessa del Mondo alle parallele asimmetriche. Keleti ha lasciato l'Ungheria a causa della rivoluzione scoppiata nel '56, proprio durante le Olimpiadi di Melbourne: dopo aver chiesto asilo politico in Australia, si è trasferita in Israele. In un'intervista di tre anni fa, disse: «Ho 100 anni, ma ne sento 60. Amo la vita». Lo sport piange una donna che è stata più forte di tutto.

1.1.25

per evitare chiamate indesiderate o messaggi molesti su whatsapp usate due schede una pubblica ed una privata

  questo post     di  Aranzulla     conferma    il consiglio      che  davo    in un post   (  cercatevelo  nell'archiviuo  dell'anno  scorso )         che  l'unico metodo  efficace  al 99%    per  evitare  spam   su cellulare      era  quello  di avere   un telefonino   a   due schede  . Ed  usare  ,  a meno  che    non vogliate  provare  gli altri metodi    descritti    nel'l'articolo    sotto ,    una scheda   per  tutti    gli usi   a  cui  dovete  dare  ed usare  il   vostro    cellulare   una   che  darete  solo  a  parenti  ed    amici    fidatissimi  .  

   da  Come fanno ad avere il mio numero di cellulare  di Salvatore Aranzulla

Come fanno ad avere il mio numero di telefono

Se anche tu stai cercando una risposta concreta alla domanda “come fanno ad avere il mio numero di telefono?”, di seguito ti spiego in appositi capitoli dedicati le principali strategie alle quali le società di telemarketing ricorrono per ottenere tali dati.

Condivisione volontaria

foglio nella macchina da scrivere con scritta privacy policy

Quante volte ti è capitato di iscriverti a un servizio (online o di persona), compilando allo scopo un modulo di adesione nel quale veniva richiesto di fornire obbligatoriamente anche il numero di telefono? Beh, in molti casi effettivamente questa informazione serve per una funzionalità specifica, ad esempio per una verifica dell’identità e/o per attivare un secondo fattore di autenticazione.
Vi sono, però, diverse situazioni nelle quali tale richiesta dovrebbe destare quantomeno qualche sospetto. In queste circostanze, quando si va ad accettare i termini della privacy, prima di apporre il segno di spunta nelle apposite caselle è opportuno controllare attentamente che le varie clausole delle policy in questione siano chiare e ben esposte.In particolare, è importante che venga dichiarato in maniera trasparente e inequivocabile che il numero verrà usato solo per gli scopi dichiarati e non per marketing o rivendita. Delle volte, ove possibile basta semplicemente evitare di barrare la casella relativa a tali finalità, che non può assolutamente essere obbligatoria.Secondo la normativa sulla privacy (GDPR – Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati e Codice Privacy italiano), infatti, il consenso per attività di marketing deve rispettare il principio della libera accettazione, secondo il quale un utente deve poter accedere al servizio offerto anche se nega tale autorizzazione. In secondo luogo, deve essere facilmente revocabile accedendo alle impostazioni del relativo account o contattando il servizio clienti del fornitore.Dunque, la prima risposta alla cruciale domanda “come fanno a sapere il mio numero di cellulare” che ti stai ponendo è proprio questa: probabilmente in passato gliel’hai fornito proprio tu, non prestando attenzione a queste importanti clausole sulla privacy.Ora, anche se il dato è tratto, ci sono diverse azioni che potresti intraprendere per “bonificare” la situazione, o almeno porre un limite alla tempesta di chiamate di telemarketing: in primo luogo, puoi ad esempio cercare di scoprire a quali siti sei iscritto, e togliere poi i consensi già forniti come accennato poc’anzi, accedendo allo spazio dedicato della tua area personale o rivolgendoti ai riferimenti dell’assistenza clienti presenti nella sezione dei contatti.In secondo luogo, ti raccomando vivamente di iscriverti al Registro Pubblico delle Opposizioni, in modo da inibire ulteriormente l’utilizzo del tuo numero di telefono, almeno nei confronti di coloro ai quali non hai fornito i suddetti consensi. A tal proposito, però, devi sapere che i call center esteri non sono tenuti a rispettare le normative italiane.Infine, puoi bloccare le chiamate indesiderate avvalendoti delle varie funzionalità previste dal sistema operativo del tuo device o da app di terze parti, descritte nella guida dedicata che ti ho appena linkato.Per il futuro, oltre a leggere attentamente la policy sulla privacy, in caso di dubbi ti consiglio di verificare l’attendibilità del sito al quale ti stai per iscrivere, e di utilizzare un numero alternativo dedicato, magari aderendo a unofferta di telefonia mobile conveniente o a quella di un operatore virtuale affidabile.

Presenza sul Web

Hai mai provato a verificare la tua presenza sul Web, e capire se ad esempio il tuo numero di telefono risulta pubblicato online? Inserendo l’informazione in un motore di ricerca, eventualmente assieme al prefisso +39, potresti avere proprio delle belle (si fa per dire) sorprese.Oltre a eventuali siti personali o ai profili social nei quali hai deciso volontariamente di pubblicare i tuoi contatti appositamente per fare networking, in Rete esistono diversi siti che hanno funzione di elenco telefonico online. Il più celebre è sicuramente quello di Pagine Bianche, trasposizione online della versione cartacea che un tempo potevi trovare a fianco del telefono fisso nella maggior parte delle case.Se il tuo numero risulta effettivamente pubblicato in uno di questi servizi, puoi tranquillamente richiederne la rimozione: nel suddetto caso l’operazione va richiesta al proprio gestore telefonico, in altri è il portale stesso a prevedere la possibilità di inoltrare domanda di cancellazione. Alcuni di questi servizi, però, destano non poche perplessità riguardo alla loro legittimità e al rispetto delle normative sulla privacy.D’altro canto, devi sapere che esistono dei veri e propri procacciatori di informazioni che sondano costantemente Internet alla ricerca di questo tipo di dati, con lo scopo di rimpinguare le liste dei numeri di telefono utilizzate dai call center.Se vuoi ricorrere a una soluzione drastica, puoi leggere la mia guida su come cancellarsi definitivamente dal Web, nella quale ti spiego puntualmente i vari passaggi necessari per eliminare, o almeno limitare, la tua presenza sul Web.
Sincronizzazione dei contatti

impostazioni Android app con accesso ai contatti

Se la domanda “come fanno a conoscere il mio numero di cellulare” non ha ancora trovato una risposta, in quanto senti di non avere alcuna responsabilità riguardo alla diffusione del tuo numero di telefono e non ti sembra affatto di aver agito in maniera incauta, beh, effettivamente potrebbe davvero non essere colpa tua!Qualcuno che ha il tuo numero in rubrica, ad esempio, potrebbe aver scaricato un’app poco affidabile, concedendo a quest’ultima i permessi per accedere ai contatti, senza prestare troppa attenzione alla presenza di policy sulla privacy accettabili.Il mio consiglio principale è quello di scaricare applicazioni esclusivamente dagli store ufficiali: prima della loro pubblicazione, infatti, queste sono sottoposte a diversi controlli che ne verificano la sicurezza e, soprattutto, gli eventuali rischi per la privacy degli utenti.Ad ogni modo, se non è necessario che un’app abbia accesso alla rubrica, è possibile disabilitare il permesso nelle impostazioni del telefono. Su Android puoi controllare le autorizzazioni delle app aprendo le impostazioni (l’icona dell’ingranaggio in home screen) e seguendo il percorso Sicurezza e privacy > Privacy > Gestione autorizzazioni.Devi poi selezionare un tipo di permesso (ad esempio Contatti o Registro chiamate), premere sull’app che desideri inibire a tale funzione e scegliere l’opzione Non consentire. Anche per gestire le autorizzazioni delle app su iPhone occorre seguire una procedura simile che ti spiego nel dettaglio nella guida appena linkata.So che, molto probabilmente, in questo caso non hai commesso alcuna leggerezza, ma vale la pena sensibilizzare le persone che ti sono vicine a usare questo genere di cautela, dato che i dispositivi mobili sono veri e propri veicoli di informazioni personali e possono essere facilmente sfruttati per raccogliere dati sensibili, come numeri di telefono, indirizzi, ma anche dettagli bancari, se non vengono utilizzati con attenzione.

Violazione dei dati

hacker

Non ti riconosci in nessuno degli scenari finora affrontati? Beh, in tal caso potresti esser stato vittima di un data breach, ovvero di una violazione dei dati perpetrata da parte di hacker professionisti ai danni di società che conservano le tue informazioni nel proprio database.I “pirati digitali” sono infatti in grado di sfruttare le vulnerabilità nei sistemi informatici per accedere a informazioni riservate. Spesso se ne appropriano a scopo di lucro, rivendendole poi a società che le utilizzano per finalità di marketing, infrangendo senza remore leggi e diritti di privacy.Quando ciò avviene, di norma l’azienda che ne è stata vittima invia una comunicazione a tutti coloro che sono potenzialmente interessati per spiegare l’accaduto e le eventuali azioni intraprese per aumentare la sicurezza, ma anche per suggerire agli utenti di eseguire alcune azioni volte a migliorare la salvaguardia dei propri dati, come il reset della password o l’attivazione del 2FA.
Come fanno ad avere il mio numero di cellulare WhatsApp

logo WhatsApp

Se ti stai chiedendo nello specifico “come fanno ad avere il mio numero di cellulare WhatsApp”, in quanto hai ricevuto dei messaggi sospetti da utenti sconosciuti anche tramite la famosa app di messaggistica in questione, considera che nella maggior parte dei casi le motivazioni sono le stesse di cui ti ho parlato nei precedenti capitoli.Difatti, basta semplicemente inserire il numero in rubrica per fare in modo che il servizio esegua l’associazione automatica dello stesso al relativo contatto WhatsApp.In aggiunta a ciò, potresti esser stato inserito in un gruppo con altre persone, condizione che rende visibile il tuo numero di telefono anche a coloro che non ti hanno fra i loro contatti. Ciò aumenta esponenzialmente le possibilità di condivisione accidentale delle informazioni.Dunque, se ti sei registrato su WhatsApp con il tuo numero di telefono, devo purtroppo informarti che non è possibile fare in modo che altri utenti in possesso di tale informazione non possano trovarti sul servizio in questione. L’unica cosa che puoi fare è bloccare una per una le chat sospette, provenienti ad esempio da numeri internazionali o che si presentano con messaggi generici, senza specificare la propria identità.Ti raccomando, inoltre, di gestire le impostazioni sulla privacy, accessibili pigiando il simbolo [⋮] posto in alto a destra su Android o la voce Impostazioni collocata in basso a destra su iOS, seguendo poi il percorso Privacy > Controllo della privacy: qui puoi trovare alcune utili funzioni per aumentare la sicurezza, come quella che consente di silenziare le chiamate da numeri sconosciuti o che permette di scegliere quali contatti possono aggiungerti ai gruppi.

Come fanno i carabinieri ad avere il mio numero di cellulare

carabiniere

Sono in molti a porsi la domanda “come fanno i carabinieri ad avere il mio numero di cellulare”, ma anche “come fa la polizia ad avere il mio numero di cellulare”. Ebbene, le forze dell’ordine hanno sicuramente un più facile accesso a tutte queste informazioni attraverso canali legittimi.In molti casi, molto probabilmente potresti averla fornita tu come informazione di contatto in relazione a precedenti interazioni (ad esempio, la richiesta di passaporto o una denuncia avvenuta in passato).Naturalmente, i funzionari dei corpi in questione possono richiederla e ottenerla anche in relazione a procedimenti legali in corso, tramite un’ordinanza giudiziaria rivolta agli operatori telefonici.Ovviamente, poi, possono loro stessi reperirla sul Web con una semplice ricerca, qualora tu l’abbia resa pubblica in qualche profilo social o su un tuo sito personale o commerciale.Inoltre, se hai avuto rapporti con enti o aziende che devono richiedere permessi speciali per operare in determinati contesti (ad esempio in aeroporto, o vicino a una sede istituzionale), i tuoi dati potrebbero essere stati condivisi con le forze dell’ordine per motivi legali, in relazione all’occupazione o alla funzione da te svolta.


“È giusto che si emigri, ma bisogna poter tornare”: così i nomadi digitali riportano vita nel cuore spopolato della Sardegna

da il FQ del 1/I\2025

 Il territorio di Laconi inizia dove l’ultimo tornante della strada statale 128 si apre sul verde. Per chi è originario di quel luogo, per chi vi è nato e da lì è emigrato, quel confine ufficioso segnala il ritorno a casa: è il “canali mraxani”, la valle stretta e lunga delle volpi. In quel paese dell’entroterra sardo, in provincia di Oristano, la popolazione si è ridotta della metà nell’arco di sessant’anni, fino ad arrivare agli

attuali 1600 residenti. E in altri sessant’anni, se la
 decrescita dovesse rimanere costante, come molti altri paesi della Sardegna, Laconi potrebbe quasi non esistere più. Eppure i primi segnali di un’inversione di rotta ci sono: nel centro storico del borgo, tra le mura di un’antica casa con il cortile, dal 2020 esiste Treballu (in sardo “lavoro”), il primo spazio di coworking e coliving rurale dell’isola. Che in quasi cinque anni ha innescato un circolo virtuoso di ritorni, arrivi e scambi culturali. E che ora vuole investire sui giovani del territorio.
Leonardo dalla Colombia, Evgeniya dalla Russia, Ardeena dall’Australia. Sono tanti i nomadi digitali che negli anni si sono fermati a Laconi, comune al di fuori dei principali circuiti turistici dell’isola – che da sempre è vista soprattutto come una meta di mare – e che non vuole convertirsi al turismo “mordi e fuggi”. “Volevamo avere un impatto reale sulla comunità, innestando nuove storie e nuovi incontri, che durassero nel tempo e che portassero nuova vita nel paese”, spiega Carlo Coni, fondatore e project manager di Treballu. “Con tutti i nomadi digitali si è creato un rapporto profondo, di amicizia e di connessione con il territorio. E spesso ritornano”.
Come Leonardo: “È un ragazzo colombiano che vive in Canada e lavora per un’azienda del nord degli Stati Uniti. È venuto l’estate scorsa e alla fine è rimasto per due mesi. I primi giorni era molto timido, credevo non si stesse integrando – ricorda Carlo – poi un giorno ha deciso che doveva farci provare il suo mojito”. Carlo in quell’occasione prova a dargli consigli sui negozi del paese, così che Leonardo possa recuperare il necessario: rum bianco, zucchero di canna, menta. Non sa che quel timido ragazzo del nuovo continente conosce bene persino i commercianti del borgo. Li cita per nome, poi dalla tasca estrae un foglietto un po’ stropicciato: “Il signore della bottega locale gli aveva disegnato una mappa per trovare il punto in cui cresce la mentuccia selvatica – racconta Carlo – Abbiamo bevuto quel mojito un po’ fusion, e al brindisi ha promesso che sarebbe tornato: voleva rivedere tutti”.
Del gruppo di Treballu fa parte anche Annalisa Zaccaria, europrogettista e garden designer permacultrice, insieme a tanti altri che supportano e collaborano con lo spazio. “Il progetto è nato anche da un bisogno personale: vogliamo vivere a Laconi, ma anche incontrare persone sempre diverse, che ci ricordino che non siamo unici e che il modo in cui facciamo noi le cose non è necessariamente il migliore – spiega Carlo – E questo scambio di visioni, fondamentale per crescere, vorremmo coinvolgesse sempre di più anche i ragazzi di Laconi e della Sardegna. Per questo guidiamo Giovani Iddocca, un’associazione che si occupa di mobilità giovanile”.
Perché secondo il fondatore di Treballu emigrare è positivo, ma può esserlo anche tornare. “Non credo nella retorica del bloccare lo spopolamento, è giusto che la gente emigri. Ciò che si può fare è offrire prospettive di ritorno, lavorare concretamente perché un luogo come questo non si rassegni né all’estinzione, né all’essere solo una meta turistica o una località nota per le sue tradizioni”. E spiega: “Il folclore, il costume sardo, i balli, sono sì una parte di ciò che siamo, ma non bastano a definire la nostra identità”. Proprio come in una poesia dello scrittore sardo Marcello Fois: “Io ho visto bene me stesso col costume della festa. E mi sono visto come gli altri mi vedevano, non com’ero. Perché adattarsi allo sguardo altrui può diventare una forma di sopravvivenza, ma anche una forma di eutanasia”.
Su queste premesse è nato anche il progetto Ammonte dell’associazione Giovani Iddocca, con il supporto della European Youth Foundation e il patrocinio del Comune di Laconi. Partendo da un processo di progettazione partecipata, l’obiettivo è quello di creare uno “spazio creativo rurale”, un punto di riferimento per la comunità, soprattutto per i giovani, in collaborazione con enti locali, imprese del territorio e associazioni culturali. Un luogo dove tutti possano essere liberi di organizzare workshop, eventi, presentazioni. “Sentiamo che Treballu non è abbastanza. Serve un luogo che sia di tutti. Così uniremo la dimensione internazionale e la dimensione locale”.
Il 7 dicembre per il progetto Ammonte si è tenuto un evento di restituzione e confronto. Molte tra le realtà presenti – Treballu compresa – fanno parte di Nodi, una rete di connessione fondata e coordinata da Federico Esu. Nodi vuole unire il capitale culturale di chi è emigrato e poi tornato, di chi non se n’è mai andato, ma anche di chi si è trasferito in Sardegna per la prima volta: “È importante collaborare, coesistere. Ci si sente meno soli e si cresce insieme – riflette Carlo – Io stesso so cosa significa viaggiare e poi portare le proprie scoperte a casa, un’esperienza che condivido con Esu e con alcuni degli amici che collaborano a Treballu. L’idea stessa di coliving rurale l’ho avuta in un’esperienza di scambio giovanile in Spagna”. Perché il cambiamento non si attua da soli: nasce con l’incontro e si sviluppa con lo scambio.


Marco Mancuso: “Grazie ai social ho rotto il silenzio sul suicidio e una generazione fragile



Iniziamo con gli Auguri di buon anno a tutti\e\ ɐ

Lo facciamo raccontando la storia (  lo  so  che  vi aspettereste  storie  Buoniste o  allegre   e  di melassa  natalizia   ma   la  vita   reale    sono  anche storie tristi    di
rotura     dei  tabù  )    del consigliere Pd di Vercelli,Marco Mancuso  di  22 anni, ha raccontato in aula il suo tentato suicidio al liceo per fare approvare una mozione sul benessere psicologico. “Ero arrabbiato perché i consiglieri presenti non pensavano che con il loro voto avrebbero potuto salvare delle vite”


da repubblica del 31\12\2024

“È come quando un aereo rompe il muro del suono e si sente un boato. Non immaginavo ma ho rotto il muro del silenzio sulla salute mentale e ragazzi e adulti, uomini e donne di generazioni differenti hanno messo in comune le proprie fragilità, aiutandosi con il semplice atto di raccontarsi”. Marco Mancuso, 22 anni, consigliere comunale del Pd a Vercelli, il 21 dicembre in consiglio Comunale, quando capisce che la sua mozione sul benessere psicologico dei giovani sta per essere bocciata, racconta la sua esperienza in prima persona: “Pensavo di non valere niente, ero sul cornicione della finestra di camera mia… al liceo tentai il suicidio, mi ha salvato mia mamma”. Pubblica il video del suo intervento su Istagram e diventa virale. Dieci giorni , novantaseimila visualizzazioni e quasi quattromila interazioni dopo, chiediamo a Mancuso se raccontare il tentato suicidio sui social sia davvero servito a qualcosa.

Marco Mancuso: “Io sul cornicione, salvato da mia madre”. Virale il video del giovane consigliere PD

“Sì, è servito – risponde con forza e ci chiede subito di dargli del “tu” perché così parlare è più facile – La premessa è che io a vivo a Vercelli, città capoluogo, ma piccola, dove tutti si conoscono e c’è il terrore di infrangere il tabù della salute mentale all’interno delle mura della città e all’esterno; invece, il mio intervento pubblico ha rotto il muro del silenzio e si è innescata una catena di messa in comune della fragilità”.

Cosa è successo dopo la pubblicazione del video su Instagram? Cosa hanno scritto nei commenti?

“Ho due esami da preparare e ho bisogno di dormire, eppure da giorni non riesco a non leggere, rispondere e condividere i commenti social. Non sono un esperto e spesso non ho gli strumenti adatti per rispondere, mi sono arrivati messaggi molto forti e delicati al tempo stesso, ma la cosa più bella è che non conta, non devo essere io a dare risposte, perché c’è chi racconta e chi ascolta, chi condivide e le persone si rispondono l’un l’altra, si scrivono. Ma non solo sui social, un grande grazie lo devo anche all’eco che hanno dato i giornali…”.

Perché, che differenza c’è tra le visualizzazioni social e la notizia pubblicata dai giornali?

“Perché grazie ai giornali sono entrato in contatto e ho scoperto quelle generazioni che non stanno sui social, ho parlato con genitori che sono andati oltre lo spasmodico desiderio di apparire perfetti e di vedere i loro figli perfetti, e che hanno riconosciuto le proprie fragilità mettendole al servizio di tutti. Grazie ai giornali sono arrivato a chi non usa i social, ma anche loro si sono riconosciuti e si sono raccontati”.

Ma raccontarsi, soprattutto sui social, non può essere visto come una forma di esibizione di sé?

“Quando tenti il suicidio, e parlo per la mia esperienza, il nemico più grande è la solitudine, il buio, il silenzio. Sono ben cosciente che sono gli stessi social ad alimentare questo senso di solitudine, ognuno agisce per uno ed è più importante quello che racconti rispetto a quello che sei, io stesso racconto solo cose belle. Ma questa “catena tossica” può essere usata in positivo, ne ho avuto la prova. Raccontare le proprie fragilità può scardinare qualcosa che nella nostra generazione non è scontata, noi siamo la generazione delle prime volte…ma avere delle fragilità, parlare di salute mentale è anche per noi ancora un terreno minato. Parlare di salute mentale senza paura di essere giudicati è un passo enorme e se avviene sui social e sui giornali ecco che la potenza viene addirittura amplificata”.

A Vercelli che reazione c’è stata?

“Temevo la reazione della gente di Vercelli e invece c’è stata tanta solidarietà, si è creata una rete, ognuno ha raccontato di sé, dei propri figli, dei fratelli, dei nipoti: ognuno nella propria famiglia vive delle fragilità. Io grazie allo studio e alla passione per la politica ho trovato la mia strada, sono uscito dal buio; ma ognuno ha strade differenti da percorrere, l’unico denominatore comune è non aver paura di parlare di salute mentale. Bisogna creare una rete più forte della solitudine, a Vercelli come nelle piccole e grandi città di tutt’Italia”.

Alla fine, la mozione sul benessere psicologico in Comune è stata approvata?

"No. Io avevo preparato per bene il mio intervento, ci tenevo moltissimo, ma proprio quando ho capito che non sarebbe stato approvato mi è montata in corpo una rabbia incredibile, non ci potevo credere che ci fosse tanta disattenzione, che i consiglieri attorno a me non capissero che una loro decisione avrebbe potuto salvare delle vite; perciò, ho raccontato quello che io stesso avevo provato, la mia fragilità. Ora il sindaco e l'assessore hanno promesso di aiutarmi. Il 2 gennaio mi accampo in Comune, non mollo. L’eco mediatica è stata fortissima, ma ora bisogna concretizzare”.

Hai ringraziato tua madre, che ti ha salvato e ti ha preso praticamente per i capelli…

“Sì, ma il suo è stato un salvataggio fisico. Io vivo in una bellissima famiglia dove parliamo molto e ci raccontiamo tutto, dove i problemi cerchiamo di risolverli insieme. Quando sei adolescente e ti senti solobullizzato, incompreso non hai voglia di parlarne con tua madre, con i professori o con il preside, con cui invece dopo ho instaurato un bellissimo rapporto da rappresentate di istituto. Nessuno di loro ha gli strumenti, mia madre mi vuole bene e aveva capito il mio disagio, ma non aveva gli strumenti adatti per aiutarmi. Nelle scuole ci vogliono più psicologi”.zologo, due milioni di euro in più per il 2024. Via libera all’emendamento del Pd

Il tuo emendamento appunto chiedeva al Comune di intervenire per potenziare il servizio psicologico nelle scuole e all’università.

“La politica è disattenta, sorvola su questo tipo di situazioni, si vede nel consiglio comunale a Vercelli, in quello regionale, in Piemonte, e in Parlamento. Il Pd è riuscito ad aumentare il bonus psicologo, ma è ridicolo come l’aiuto psicologico debba essere ridotto a un bonus: se mi rompo un braccio vado in ospedale e mi curano, se tento il suicidio mi devo rivolgere a un privato. Io volevo che il Comune di Vercelli si rivolgesse all’azienda sanitaria per potenziare il sevizio psicologico nei licei. Nel mio liceo, per esempio, ci sono solo due psicologi per 1.500 studenti. Il Comune deve aiutare e supportare la cittadinanza a comprendere che la salute mentale è salute. Bisogna agire nelle scuole e nelle università”.

Perché è così importante agire nelle scuole?

“Perché la mia generazione non ha strumenti per chiedere aiuto, una persona che ha il buio attorno non ha forza di gridare. E, come dicevo prima, mia mamma si era accorta del mio disagio, ma non aveva gli strumenti per aiutarmi. Non deve essere lo studente a gridare, perché non ha la forza di farlo; io non mi fidavo di nessuno, temevo il giudizio degli alti altri, mi sentivo schiacciato e vessato. Davvero non possono esserci solo i social, ci vogliono le istituzioni perché siamo una generazione di persone rotte nell’anima”.

Oggi è 31 dicembre, la notte dell’ultimo dell’anno, è una notte di bilanci e progetti. Da tutta questa storia possiamo trarre, secondo te, un augurio?

“In questi dieci giorni abbiamo creato una rete pazzesca, ci siamo raccontati e uniti. Il mio augurio è che vorrei che tutto ciò proseguisse, che da questo video nato un po’ per rabbia imparassimo tutti a fare squadra in un mondo che tende alla solitudine, dove uno conta per uno”.



Rigore inesistente a favore, attaccante U.14 della San Martino Giovani, campionato veneto sbaglia apposta L'indicazione data dall'allenatrice, il capitano la segue

Una storia dalla quale I calciatori professionisti dovrebbero imparare dai ragazzini. da   https://www.sportmediaset.mediaset.it/ Rigore ine...