C'è stata una canzone che per quasi un anno della mia vita è stata la mia ossessione.
Per la cronaca: o per gioco o per sfida, ad un certo punto ho preso me stessa e mi sono catapultata a 1300 km da dove ero nata. Un nuovo stato; dei nuovi amici; un'altra o meglio altre lingue.
Così: per studio, per gioco, e per poco.
Non abbastanza poco per non creare anche nuove abitudini: ad esempio nel weekend, qualsiasi fosse il programma della serata, si finiva a tirar notte in un locale del centro città, dove passavano la "peggio" musica del momento, che sarà stato l'alcool, sarà stata la compagnia a noi sembrava bellissima e assolutamente ballabile. Non c'era notte che potesse dirsi finita prima che passassero quella che in breve battezzai "la trilogia". La trilogia constava di tre canzoni rigorosamente francofone, presumibilmente di vecchia data, che facevano davvero impazzire il locale. Il tutto accadeva in crescendo: già sulle prime due tutti gli autoctoni -che si trovassero al bancone o a pasturarsi qualche figliola- smettevano le proprie attività e abbracciati gli uni agli altri cantavano e seguivano il ritmo con impegno. Ma sulla terza accadeva il finimondo: in qualsiasi angolo del locale ci si trovasse, si veniva inglobati in questa danza, presi abbracciati stretti in crocchi di persone disposte in circolo che si sputavano fuori i polmoni dalla forza con cui cantavano e senza alcuno sforzo si veniva sospinti in aria dagli altri che saltavano e muovevano simultaneamente le gambe, neanche fosse stato un cancan. Erano quattro minuti di assoluta agonia, dove non era permesso non perdere l'andi, onde non rischiare di giocarsi un'anca o una costola. Urgeva concentrarsi nel ballo e sperare che al deejay non venisse l'insana idea di concedere il bis: perché quattro minuti di quella baraonda si possono reggere, ma otto no.
Inutile dire che nel caos generale, della suddetta canzone non ho mai capito una frase per intero, e per dieci e più mesi, afferrando qua e là qualche parola, mi è sempre piaciuto pensare che parlasse di terre stravolte da guerre ma poi liberate, di ideali bellissimi, di pace, di patria, di amore e libertà. Ho sempre pensato a qualche concetto forte che unisse con veemenza tutti quei folli e sgangherati ballerini in quel ballo goffo, buffo, improvvisato ma genuino.
Un po' forse è così. A mesi di distanza, ho scoperto che la canzone in questione è "les lacs du Connemara", successo del 1982 di Michel Sardou. Seppur ricca di fascino, in realtà ascoltata e compresa con più calma mi si è rivelata molto meno poetica di quanto mi aspettavo. Quasi delusa, rileggendo il testo, mi ha infine colpita una frase "on dit que la vie c'est une folie et que la folie, ça se danse". Cioé: si dice che la vita sia una follia e che la follia, questa si danzi. Bé, che dire? di teorie e filosofie in questo mondo se ne sono spese e se ne spendono a quintali. Ma in questa rima per me è già sufficientemente contenuta e giustificata l'euforia dei balli di quel locale.
ps: sono stata invitata a scrivere su questo blog, questo è il mio primo post e quindi dò il mio saluto a tutti. Siccome l'invito mi è arrivato già da oltre una settimana, ma non avevo ancora fatto capolino su questa pagina ne ho aprofittato oggi... spero di non essere troppo fuoriluogo con le mie righe, purtroppo sono in giorni un po' caotici e non ho molto materiale su cui scrivere, così mi sono ispirata a una canzone a cui è ispirato anche uno degli ultimi post del mio blog.
3 commenti:
va benissimo . non ti preoccupare scrivi quando vuoui e quel che vuoi
Benvenuta allora ^^
E mi ricordi che dovrei scrivere più spesso qui...il post mi è piaciuto, soprattutto la baraonda ^_*
MaD
grazie :)
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