quando lo stato usa i ladri e poi li dimentica la storia dello scassinatore livornese Natale Papini che, 100 anni fa, si introdusse nel consolato austro-ungarico di Zurigo e, con la sua banda, trafugò decine di documenti con i piani di spionaggio degli austriaci




  La  storia    di  Natale Papini e  la  sua banda   è   il  classico esempio  di come lo stato  ti  usa    anche   con il ricatto (  papini  fu messoi a scegliere  o  essee mandato   in prima  linea   oppure   scarcerato si trovava  già in  carcere   per  un  furto  o  rubare  per  il paese  )  . Mentre  slo i pezzi grossi  cioè quelli  che  gli fornirono i mezzi    furono  , come   riporta   la  voce    di  wikipedia   https://it.wikipedia.org/wiki/Colpo_di_Zurigo    ricompensati con privilegi e prebende


  Ecco  la  storia  in questione  .  presa da  http://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca del 19\11\2017

Il meccanico livornese beffò gli 007 e aprì la cassaforte delle spie
In missione segreta per conto dello Stato (che poi lo rinnegò) per beffare i servizi segreti nemici nel cuore blindato di Zurigo

Il colpo di Zurigo: cento anni fa l'incredibile furto dell'agente segreto livorneseUna rapina degna di un film. Ma a compierla sono dei patrioti italiani durante la Prima guerra mondiale. Il protagonista di questa storia è lo scassinatore livornese Natale Papini che, 100 anni fa, si introdusse nel consolato austro-ungarico di Zurigo e, con la sua banda, trafugò decine di documenti con i piani di spionaggio degli austriaci (video a cura di Yuri Rosati) - L'ARTICOLOA cento anni dalla Prima Guerra Mondiale torna alla ribalta la figura del livornese Natale Papini che fu protagonista di un celebre episodio di spionaggio noto come “Il colpo di Zurigo”.


Lo spionaggio ed il controspionaggio hanno da sempre ricoperto un ruolo chiave in guerra (ed anche in tempo di pace) per scoprire i segreti del nemico e mettere al sicuro i propri: lo scopo del “Colpo di Zurigo” fu appunto quello di mettere fuori gioco la rete spionistica austriaca in Italia che aveva il suo centro nevralgico presso il Consolato Austro-ungarico, diretto dal capitano di corvetta Rudolph Mayer, con sede nella città elvetica ed alla quale erano imputati parecchi gravi episodi di sabotaggio (come l’affondamento delle corazzate Benedetto Brin e Leonardo da Vinci, oltre al piroscafo Etruria saltato in aria a Livorno), mentre un altro punto di riferimento era in Vaticano con l’attività spionistica svolta da monsignor Rudolph Gerlach, un ex ufficiale tedesco divenuto nientemeno che cameriere segreto del Papa.


L’operazione di Zurigo fu ideata e realizzata dal Servizio informazioni della Regia Marina con il quale fu chiamato a collaborare Natale Papini, un abilissimo meccanico livornese specializzato in casseforti, purtroppo descritto nella pubblicistica, anche recente, come una sorta di delinquente patentato (mentre in realtà, come riferisce Aldo Santini, si trovò solo implicato nel 1913 in un furto con scasso alla Banca Commerciale Marittima di Viareggio).

Era nato il 25 dicembre 1881 – per questo si chiamava Natale – Papini era figlio d’arte e viveva in via Materassai (l’odierna via Montegrappa) dove, come ricorda Ugo Canessa in un articolo comparso nel 1999 sul Tirreno, il maresciallo Donateo della Questura di Livorno lo andò a trovare nel dicembre del 1916 per chiedergli di partecipare ad un colloquio riservato con agenti segreti italiani.
Dietro l’offerta di un cospicuo compenso Papini accettò così il rischioso incarico di recarsi a Zurigo per aprire la cassaforte del Consolato Austrostro-ungarico dove era racchiuso l’elenco delle spie e dei sabotatori operanti in territorio italiano.Utilizzando le chiavi false realizzate dal triestino Remigio Bronzin, un fabbro impiegato alla Stigler di Milano, il colpo fu tentato una prima volta il 22 febbraio 1917, ma dopo avere aperto nell’edificio ben sedici porte, si scoprì una diciassettesima porta chiusa di cui però mancava la chiave.La squadra composta da Papini, Bronzin, dall’avvocato fiorentino Livio Bini, un doppiogiochista a favore dell’Italia, e da Stenos Tanzini, sottufficiale della Regia Marina, riprovò quindi nella notte tra il 26 ed il 27 febbraio riuscendo finalmente ad entrare nella stanza della cassaforte.

Papini si mise subito al lavoro con la fiamma ossidrica, ma il forziere era ben protetto: dal varco aperto nella lamiera uscì un getto del gas tossico immesso per sicurezza nell’intercapedine e che mise in grave difficoltà la squadra.
Coprendosi la bocca ed il naso con uno straccio bagnato e dopo avere bevuto acqua da un vaso da fiori per placare l’irritazione alla gola Papini riuscì comunque ad avere ragione della cassaforte dopo quattro ore di duro lavoro impiegando anche una sega “sorda” circolare: con tre valigie piene zeppe di documenti, soldi e gioielli i quattro, usciti dal Consolato senza problemi, si diressero poi alla stazione per consegnarle al tenente di vascello Pompeo Aloisi che, con il capitano di vascello Marino Laureati, aveva la responsabilità dell’operazione. Fu un vero successo, paragonato ad una grande vittoria in battaglia, ma Papini ebbe solo in minima parte il compenso pattuito e per di più, con suo profondo disappunto, nel film “Senza bandiera” del 1951, in cui si parlava della memorabile vicenda, fu dipinto come un ergastolano (all’episodio venne dedicato anche lo sceneggiato televisivo Rai “Accadde a Zurigo” diretto da Davide Montemurri nel 1981). Papini morì nel 1967 e non ebbe mai neppure la pensione nonostante la proposta di legge presentata in suo favore alla Camera dei Deputati nel 1954 da alcuni esponenti politici: dal monarchico Ettore Viola Di Cà Tasson al liberale Vittorio Badini Confalonieri, dal socialdemocratico Luigi Ceccherini ai comunisti Vasco Jacoponi e Laura Diaz, entrambi livornesi.
Non ebbero miglior fortuna le inchieste ed i processi avviati dopo la Grande Guerra promettendo sfracelli e terminati invece “a coda di topo”: fra insabbiamenti e documenti misteriosamente spariti nessuno dei grossi nomi italiani a quanto pare implicati nella trama spionistica pagò per le navi perdute e per le centinaia di morti nei sabotaggi. Alla fine i soli ritenuti colpevoli furono tre marinai, di cui uno ebbe l’ergastolo, mentre gli altri due furono condannati a morte con pena commutata nel carcere a vita: tutti furono liberati una ventina d’anni dopo e non se ne è saputo più nulla.

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