23.1.21

Auschwitz ’44 Rivolta contro il Male Storia di Nicolò Sagi da Trieste l’uomo che cercò di fermare i nazisti

Sempre dallo speiale di robison di repubblica del 23\1\2021 riporto questa storia diun alòtro argomento poco trattato dalal memorialistica del27 gennaio . quelli che Primo un saggio di Primo Levi. Scritto , ultimo lavoro dell'autore, è un'analisi dell'universo concentrazionario che l'autore compie partendo dalla personale esperienza di prigioniero del campo di sterminio nazista di Auschwitz

Auschwitz ’44 Rivolta contro il Male Storia di Nicolò Sagi da Trieste l’uomo che cercò di fermare i nazisti

IL 7 ottobre 1944, alle due e mezzo del pomeriggio, nel cortile del Krematorium IV di Auschwitz-Birkenau entrò un camion con 70 SS. Un ufficiale fece uscire gli uomini che lavoravano nell’edificio e pronunciò loro un discorso tranquillizzante, ma chiaramente ingannevole: sarebbero stati “trasferiti” in un altro campo. Alla richiesta dei nazisti di avere 100 uomini per il “trasferimento”, tutti si rifiutarono di fare un passo in avanti, tranne un prigioniero che, con uno scatto, colpì con un martello un SS. Tutti si scagliarono con quel che avevano in mano contro le guardie, che risposero sparando con le loro pistole. Era iniziata una delle rivolte più disperate mai avvenute in un Lager nazista. Tra questi eroi c’era Nicolò Sagi, deportato da Trieste il 4 aprile 1944. Ma chi erano queste persone che componevano il cosiddetto Sonderkommando (“comando speciale”) di Auschwitz-Birkenau? E quale era il loro ruolo? Tutti i principali Lager nazisti erano dotati di Krematorium con una funzione prevalentemente “sanitaria”: prevenire possibili scatenarsi di epidemie. In queste strutture erano quindi impiegate piccole squadre di prigionieri che dovevano occuparsi della liquidazione dei cadaveri nei forni crematori. Ma ad Auschwitz-Birkenau avvenne qualcosa di nuovo: con l’inizio dello sterminio sistematico degli ebrei, dalla primavera del 1942 due fattorie di contadini vennero trasformate in luoghi di messa a morte col gas e gruppi consistenti di ebrei, scelti generalmente tra gli elementi più giovani e prestanti appena arrivati nel campo, furono obbligati a svolgere un compito difficilmente sostenibile: estrarre dalle camere a gas i cadaveri delle persone uccise, a volte i propri familiari, portarli fino alle fosse scavate nei dintorni, quindi seppellirli e successivamente bruciarli “a cielo aperto”. Questa squadra, composta ormai da circa 500 elementi, venne definita, appunto, il Sonderkommando. Nel 1943, in previsione della deportazione di un numero incredibilmente alto di ebrei da gran parte dell’Europa, sempre a Birkenau vennero messi in funzione quattro nuove strutture omicide, i Krematorium II, III, IV e V, dotati di camere a gas, spogliatoi e numerosi forni crematori. Nella primavera del 1944, con l’arrivo degli ebrei dall’Ungheria, oltre 400.000, si raggiunse la fase di massima capacità di messa a morte del campo, conseguentemente venne ulteriormente potenziato l’organico del Sonderkommando, che arrivò ad essere composto da circa 900 persone, costrette ad alloggiare prima in spazi isolati all’interno del Lager, poi negli stessi edifici dei crematori. Birkenau era diventata una spaventosa fabbrica della morte di massa, dove quegli ebrei “speciali” dovevano effettuare uno “sporco” lavoro a catena in due turni di dodici ore ciascuno: accompagnare le vittime, quasi sempre ignare della loro sorte, nelle grandi sale-spogliatoio, ordinare e raccogliere i loro indumenti mentre queste venivano uccise, tirare fuori i corpi dalle camere a gas, estrarre i denti d’oro, togliere le protesi, tagliare i capelli delle donne, introdurre questi corpi deturpati nei forni crematori o gettarli nelle fosse all’aperto, sminuzzare le parti delle ossa ancora intatte, gettarne le ceneri nel vicino fiume Vistola, ripulire le stesse camere a gas e imbiancarle perché fossero pronte per il “trattamento” di nuovi trasporti, senza mai, in nessun caso, prender parte alle uccisioni. Nicolò Sagi venne inserito in questa “squadra speciale”. Nato in Ungheria nel 1896, dopo aver sposato una donna ungherese cattolica, che si era convertita per potersi unire in matrimonio con lui, raggiunse a Fiume il padre, che era diventato capo stazione della città, iniziò a lavorare per una tipografia e nel 1925 ebbe un figlio, Luigi.
 Nel 1940, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, come ebreo straniero venne internato a Campagna (Salerno), con molti altri profughi ebrei provenienti dalla Mitteleuropa. Tornato a Fiume dopo l’8 settembre del 1943, procuratosi documenti falsi per tentare la fuga dall’Italia, al rifiuto, da parte dei passatori, di portare anche la mamma, anziana e malandata, Nicolò, uomo di gran cuore e con alto senso del dovere, non si sentì di abbandonarla e rinunciò a fuggire. Arrestato in seguito a una delazione con il figlio Luigi presso la stazione di Fiume, subì un feroce interrogatorio nella villa Wortmann di Sušak, dove lo raggiunsero la moglie e la mamma, che si erano consegnate alle SS credendo di migliorare la situazione di tutti. Imprigionati per una settimana nella Risiera di San Sabba a Trieste, partirono per Auschwitz il 29 marzo, con lo stesso convoglio in cui si trovavano Mira e Gisella Perlow, con i loro bambini Sergio De Simone, Andra e Tatiana Bucci

 Nel 1940, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, come ebreo straniero venne internato a Campagna (Salerno), con molti altri profughi ebrei provenienti dalla Mitteleuropa. Tornato a Fiume dopo l’8 settembre del 1943, procuratosi documenti falsi per tentare la fuga dall’Italia, al rifiuto, da parte dei passatori, di portare anche la mamma, anziana e malandata, Nicolò, uomo di gran cuore e con alto senso del dovere, non si sentì di abbandonarla e rinunciò a fuggire. Arrestato in seguito a una delazione con il figlio Luigi presso la stazione di Fiume, subì un feroce interrogatorio nella villa Wortmann di Sušak, dove lo raggiunsero la moglie e la mamma, che si erano consegnate alle SS credendo di migliorare la situazione di tutti. Imprigionati per una settimana nella Risiera di San Sabba a Trieste, partirono per Auschwitz il 29 marzo, con lo stesso convoglio in cui si trovavano Mira e Gisella Perlow, con i loro bambini Sergio De Simone, Andra e Tatiana Bucci. La moglie, considerata “ariana”, fu invece lasciata in Risiera, dove rimase fino alla liberazione. All’arrivo sulla Judenrampe di Birkenau, la mamma venne messa su un camion e inviata direttamente alla morte col gas, Nicolò e Luigi, “maschi adatti al lavoro”, furono immatricolati e inseriti nel settore del campo adibito a “quarantena maschile”. Un giorno Luigi, con altre venti giovani, venne sottoposto a una sperimentazione pseudoscientifica: «Mi iniettarono bacilli del tifo. Mi ricordo solamente siringhe, siringhe. Mi risvegliai con febbre altissima e deliravo. La febbre era oltre quaranta gradi.«Non so quanto tempo rimasi in questa infermeria, fatto sta che sopravvivemmo solamente in due, i due più giovani, io e un altro ragazzo di Trieste». Non morì perché da piccolo era già stato colpito dal tifo, quindi era dotato degli anticorpi necessari per sopravvivere. Ma quando ritornò nella sua baracca della quarantena non trovò più suo padre: era stato scelto per far parte del Sonderkommando. Per il suo aspetto sano, quasi sportivo, per la sua perfetta conoscenza del tedesco e dell’ungherese (ma parlava anche italiano, francese e inglese), e perché dava l’impressione di essere “affidabile”, gli era stato assegnato il lavoro più infame che una mente umana potesse concepire. Nicolò venne assegnato ai Krematorium IV e V, dove si trovavano molti ungheresi, ma anche tre italiani residenti in Grecia e catturati ad Atene, Maurice Venezia e i suoi cugini Dario e Jaacov Gabbai, e come loro avrà pensato mille volte di fuggire o di farla finita, ben cosciente come gli altri del fatto che non avrebbe mai avuto la possibilità di uscire vivo da quell’inferno. Gli uomini del Sonderkommando da tempo pensavano a una ribellione collettiva, ma non avevano mai ricevuto l’indispensabile sostegno da parte dei membri della resistenza “politica” che era attiva in tutto il  complesso concentrazionario
I prigionieri non ebrei, del resto, nutrivano la speranza di rimanere in vita fino all’arrivo dei sovietici, che a quell’epoca erano già relativamente vicini.
Gli ebrei invece no, in particolare quelli che erano assegnati al lavoro presso le installazioni di sterminio.
Poi a settembre, terminata la deportazione degli ebrei dall’Ungheria, incominciarono ad arrivare meno trasporti; conseguentemente le SS eliminarono un primo gruppo di 200 uomini. A questo punto la rivolta venne giudicata l’unica strada percorribile: «Non avevamo nessuna via di scampo, in quel periodo non avevamo nulla da perdere», testimoniò Shlama Dragon, uno dei pochissimi prigionieri del Krematorium IV sopravvissuti. La maggior parte di quegli uomini si preparò con quel poco che era riuscita a “organizzare”: asce, coltelli, sbarre di ferro, granate artigianali confezionate con scatole di conserva di carne piene di pezzi di metallo recuperati dal filo spinato e polvere da sparo rubata da ragazze che lavoravano nella fabbrica di armamenti Weichsel-Union-Metallwerke, dove era impiegata anche Liliana Segre, e portata un poco alla volta ogni giorno verso i Krematorium dentro l’orlo dei loro vestiti. Queste “armi improprie” vennero nascoste per alcune settimane dove capitava: «Nascondevo le granate improvvisate dentro il mio materasso… Dopo un po’ di tempo incominciai a nasconderle dentro il muro del Krematorium», affermò sempre Dragon. Agli inizi dell’autunno Nicolò tentò un’impresa che sembrava impossibile, incontrare un’ultima volta il figlio Luigi e ci riuscì: «Una volta l’ho visto, papà, e quello fu un trauma. Mi chiamarono, non so esattamente che giorno: papà aveva corrotto le SS, i Kapos e mi fu concesso di entrare nel blocco 13 [del settore maschile di Birkenau, dove in alcuni periodi venivano alloggiati i membri del Sonderkommando ndr] per cinque minuti. E lì rividi mio padre. Mi abbracciò. Mi disse: “Abbi forza, non pensare a me perché io ho già passato una guerra, quindi io me la caverò. Tu cerca di risparmiare le forze. Tu pensa a te stesso. Fatti coraggio, resisti!” E mi disse anche: “T’aiuterò.” E lo vidi piangere. L’incontro è durato non più di cinque minuti. Non l’ho mai più rivisto. Mi fece giungere di tanto in tanto delle monete d’oro, poi naturalmente lui morì durante la rivolta del 7 ottobre». Il 6 ottobre il quarto italiano assegnato al Sonderkommando, Shlomo Venezia, con il permesso del suo Kapo convinse il fratello Maurice e i cugini Gabbai a raggiungerlo nel Krematorium III, dove lavorava, per morire insieme partecipando alla “rivoluzione”, così la definiva Shlomo. Questa si sarebbe rivelata una scelta incredibilmente fortunata. Iniziata la rivolta, quando le SS incominciarono a sparare, molti rivoltosi non ancora colpiti si rifugiarono all’interno del Krematorium dando fuoco al dormitorio e bruciando i materassi. Le fiamme fecero crollare il tetto e dei fusti di benzina posti accanto all’edificio presero fuoco ed esplosero. Il Krematorium crollò e molti ebrei morirono tra le fiamme sotto il tetto crollato. Gli altri vennero “abbattuti”; solo pochi riuscirono a nascondersi, nel bosco vicino, nelle rovine dello stesso edificio semi distrutto, nelle canne fumarie dei camini, sotto cataste di legno o riuscendo a raggiungere il vicino Krematorium V, nel cui cortile, successivamente, tutti i prigionieri catturati furono obbligati a stendersi per terra e nella quasi totalità uccisi con un colpo alla nuca. Dopo due ore, dei 324 ebrei dei Krematorium IV e V erano rimasti in vita solo in 44. Nel frattempo, i prigionieri del Krematorium II, sentendo gli spari e le urla dei loro compagni di lotta, tagliarono il filo spinato e tentarono una fuga nella zona circostante. Erano 171: furono tutti raggiunti e barbaramente uccisi, alcuni bruciati nei fienili dove si erano nascosti. Rimasero in vita solo quattro medici che stavano effettuando autopsie per conto del dottor Mengele. Il solo gruppo che non prese parte alla rivolta, su preciso ordine del Kapo Lemke, era quello del Krematorium III, 




dove si trovavano i fratelli Venezia e Gabbai. Dovevano restare in vita per continuare lo “sporco” lavoro con gli ultimi trasporti che sarebbero ancora arrivati. Ne vennero uccisi solo alcuni, allo scopo di terrorizzare tutti gli altri. La rivolta disperata si era conclusa con un bagno di sangue: erano stati uccisi 452 uomini. Altri 14 furono eliminati tre giorni dopo. Il 10 ottobre erano rimasti in vita solo 198 membri del Sonderkommando: 154 del Krematorium III e 44 del IV. Furono impiccate anche le donne che avevano aiutato i rivoltosi. Molti altri trovarono la morte nei mesi successivi e 70 dovettero partecipare allo smantellamento delle strutture omicide. Nel maggio del 1945, alla fine della guerra, erano ancora in vita poco più di 90 uomini appartenuti al Sonderkommando di Birkenau; tra questi i quattro “italiani”. Non conosciamo le modalità della morte di Nicolò Sagi; l’unico fatto certo è che la sua fine è stata la fine di una persona coraggiosa e coerente, fedele ai suoi ideali, soprattutto generosa. Un eroe. Luigi, il figlio a lui tanto caro, del quale sarebbe stato fiero, una persona squisita e dolcissima, vide l’arrivo dei russi il 27 gennaio del 1945, ma ritornò in Italia, dalla madre, devastato nel fisico e nello spirito. Tormentato da diversi traumi difficilmente superabili, non riuscì mai a dimenticare quel giorno maledetto in cui per ore dovette sentire gli spari e le urla disperate degli uomini del Sonderkommando, quindi anche di suo padre, provenienti dai Krematorium. Ma nutrì sempre la forte convinzione che quel giorno un piccolo gruppo di uomini di Auschwitz, fra cui suo padre – così come era avvenuto in altri luoghi in cui si diede vita a una resistenza dall’esito scontato – aveva dimostrato al mondo che gli ebrei erano vittime, ma non certo passive. Luigi, tuttavia, sarebbe vissuto fino alla fine dei suoi giorni tormentato da un insopportabile senso di colpa: «Il fatto di esser rimasti vivi senza aver fatto niente. Insomma, un senso di non meritare il fatto di esser sopravvissuti, mentre tutti quelli che hanno combattuto qui, a Sobibor, a Treblinka, a Varsavia, quelli son tutti quanti periti. E noi questo senso di colpa ce lo portiamo appresso».



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