Auschwitz ’44 Rivolta contro il Male Storia di Nicolò Sagi da Trieste l’uomo che cercò di fermare i nazisti
IL 7 ottobre 1944, alle due e mezzo del
pomeriggio, nel cortile del Krematorium IV di Auschwitz-Birkenau entrò
un camion con 70 SS. Un ufficiale fece
uscire gli uomini che lavoravano
nell’edificio e pronunciò loro un discorso tranquillizzante, ma chiaramente ingannevole: sarebbero stati “trasferiti” in un altro campo. Alla richiesta dei nazisti di avere 100 uomini
per il “trasferimento”, tutti si rifiutarono di fare un passo in avanti, tranne un prigioniero che, con uno scatto,
colpì con un martello un SS. Tutti si scagliarono con
quel che avevano in mano contro le guardie, che risposero sparando con le loro pistole. Era iniziata una delle rivolte più disperate mai avvenute in un Lager nazista.
Tra questi eroi c’era Nicolò Sagi, deportato da Trieste il
4 aprile 1944.
Ma chi erano queste persone che componevano il cosiddetto Sonderkommando (“comando speciale”) di Auschwitz-Birkenau? E quale era il loro ruolo? Tutti i principali Lager nazisti erano dotati di Krematorium con
una funzione prevalentemente “sanitaria”: prevenire
possibili scatenarsi di epidemie. In queste strutture erano quindi impiegate piccole squadre di prigionieri che
dovevano occuparsi della liquidazione dei cadaveri nei
forni crematori. Ma ad Auschwitz-Birkenau avvenne
qualcosa di nuovo: con l’inizio dello sterminio sistematico degli ebrei, dalla primavera del 1942 due fattorie di
contadini vennero trasformate in luoghi di messa a morte col gas e gruppi consistenti di ebrei, scelti generalmente tra gli elementi più giovani e prestanti appena arrivati nel campo, furono obbligati a svolgere un compito difficilmente sostenibile: estrarre dalle camere a gas i
cadaveri delle persone uccise, a volte i propri familiari,
portarli fino alle fosse scavate nei dintorni, quindi seppellirli e successivamente bruciarli “a cielo aperto”. Questa squadra, composta ormai da circa 500 elementi, venne definita, appunto, il Sonderkommando.
Nel 1943, in previsione della deportazione di un numero incredibilmente alto di ebrei da gran parte dell’Europa, sempre a Birkenau vennero messi in funzione quattro nuove strutture omicide, i Krematorium II, III, IV e
V, dotati di camere a gas, spogliatoi e numerosi forni crematori. Nella primavera del 1944, con l’arrivo degli ebrei
dall’Ungheria, oltre 400.000, si raggiunse la fase di massima capacità di messa a morte del campo, conseguentemente venne ulteriormente potenziato l’organico del
Sonderkommando, che arrivò ad essere composto da
circa 900 persone, costrette ad alloggiare prima in spazi isolati all’interno del Lager, poi negli stessi edifici dei
crematori. Birkenau era diventata una spaventosa fabbrica della morte di massa, dove quegli ebrei “speciali”
dovevano effettuare uno “sporco” lavoro a catena in
due turni di dodici ore ciascuno: accompagnare le vittime, quasi sempre ignare della loro sorte, nelle grandi sale-spogliatoio, ordinare e raccogliere i loro indumenti
mentre queste venivano uccise, tirare fuori i corpi dalle
camere a gas, estrarre i denti d’oro, togliere le protesi, tagliare i capelli delle donne, introdurre questi corpi deturpati nei forni crematori o gettarli nelle fosse all’aperto, sminuzzare le parti delle ossa ancora intatte, gettarne le ceneri nel vicino fiume Vistola, ripulire le stesse camere a gas e imbiancarle perché fossero pronte per il
“trattamento” di nuovi trasporti, senza mai, in nessun
caso, prender parte alle uccisioni. Nicolò Sagi venne inserito in questa “squadra speciale”.
Nato in Ungheria nel 1896, dopo aver sposato una donna ungherese cattolica, che si era convertita per potersi unire in matrimonio con lui, raggiunse a Fiume il padre, che era diventato capo stazione della città, iniziò a lavorare per una tipografia e nel 1925 ebbe un figlio, Luigi.
Nel 1940, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, come ebreo straniero venne internato a Campagna (Salerno), con molti altri profughi ebrei provenienti dalla Mitteleuropa. Tornato a Fiume dopo l’8 settembre del 1943, procuratosi documenti falsi per tentare la fuga dall’Italia, al rifiuto, da parte dei passatori, di portare anche la mamma, anziana e malandata, Nicolò, uomo di gran cuore e con alto senso del dovere, non si sentì di abbandonarla e rinunciò a fuggire. Arrestato in seguito a una delazione con il figlio Luigi presso la stazione di Fiume, subì un feroce interrogatorio nella villa Wortmann di Sušak, dove lo raggiunsero la moglie e la mamma, che si erano consegnate alle SS credendo di migliorare la situazione di tutti. Imprigionati per una settimana nella Risiera di San Sabba a Trieste, partirono per Auschwitz il 29 marzo, con lo stesso convoglio in cui si trovavano Mira e Gisella Perlow, con i loro bambini Sergio De Simone, Andra e Tatiana Bucci
Gli ebrei invece no, in particolare quelli che erano assegnati al lavoro presso le installazioni di sterminio.
Poi a settembre, terminata la deportazione degli ebrei dall’Ungheria, incominciarono ad arrivare meno trasporti; conseguentemente le SS eliminarono un primo gruppo di 200 uomini. A questo punto la rivolta venne giudicata l’unica strada percorribile: «Non avevamo nessuna via di scampo, in quel periodo non avevamo nulla da perdere», testimoniò Shlama Dragon, uno dei pochissimi prigionieri del Krematorium IV sopravvissuti. La maggior parte di quegli uomini si preparò con quel poco che era riuscita a “organizzare”: asce, coltelli, sbarre di ferro, granate artigianali confezionate con scatole di conserva di carne piene di pezzi di metallo recuperati dal filo spinato e polvere da sparo rubata da ragazze che lavoravano nella fabbrica di armamenti Weichsel-Union-Metallwerke, dove era impiegata anche Liliana Segre, e portata un poco alla volta ogni giorno verso i Krematorium dentro l’orlo dei loro vestiti. Queste “armi improprie” vennero nascoste per alcune settimane dove capitava: «Nascondevo le granate improvvisate dentro il mio materasso… Dopo un po’ di tempo incominciai a nasconderle dentro il muro del Krematorium», affermò sempre Dragon. Agli inizi dell’autunno Nicolò tentò un’impresa che sembrava impossibile, incontrare un’ultima volta il figlio Luigi e ci riuscì: «Una volta l’ho visto, papà, e quello fu un trauma. Mi chiamarono, non so esattamente che giorno: papà aveva corrotto le SS, i Kapos e mi fu concesso di entrare nel blocco 13 [del settore maschile di Birkenau, dove in alcuni periodi venivano alloggiati i membri del Sonderkommando ndr] per cinque minuti. E lì rividi mio padre. Mi abbracciò. Mi disse: “Abbi forza, non pensare a me perché io ho già passato una guerra, quindi io me la caverò. Tu cerca di risparmiare le forze. Tu pensa a te stesso. Fatti coraggio, resisti!” E mi disse anche: “T’aiuterò.” E lo vidi piangere. L’incontro è durato non più di cinque minuti. Non l’ho mai più rivisto. Mi fece giungere di tanto in tanto delle monete d’oro, poi naturalmente lui morì durante la rivolta del 7 ottobre». Il 6 ottobre il quarto italiano assegnato al Sonderkommando, Shlomo Venezia, con il permesso del suo Kapo convinse il fratello Maurice e i cugini Gabbai a raggiungerlo nel Krematorium III, dove lavorava, per morire insieme partecipando alla “rivoluzione”, così la definiva Shlomo. Questa si sarebbe rivelata una scelta incredibilmente fortunata. Iniziata la rivolta, quando le SS incominciarono a sparare, molti rivoltosi non ancora colpiti si rifugiarono all’interno del Krematorium dando fuoco al dormitorio e bruciando i materassi. Le fiamme fecero crollare il tetto e dei fusti di benzina posti accanto all’edificio presero fuoco ed esplosero. Il Krematorium crollò e molti ebrei morirono tra le fiamme sotto il tetto crollato. Gli altri vennero “abbattuti”; solo pochi riuscirono a nascondersi, nel bosco vicino, nelle rovine dello stesso edificio semi distrutto, nelle canne fumarie dei camini, sotto cataste di legno o riuscendo a raggiungere il vicino Krematorium V, nel cui cortile, successivamente, tutti i prigionieri catturati furono obbligati a stendersi per terra e nella quasi totalità uccisi con un colpo alla nuca. Dopo due ore, dei 324 ebrei dei Krematorium IV e V erano rimasti in vita solo in 44. Nel frattempo, i prigionieri del Krematorium II, sentendo gli spari e le urla dei loro compagni di lotta, tagliarono il filo spinato e tentarono una fuga nella zona circostante. Erano 171: furono tutti raggiunti e barbaramente uccisi, alcuni bruciati nei fienili dove si erano nascosti. Rimasero in vita solo quattro medici che stavano effettuando autopsie per conto del dottor Mengele. Il solo gruppo che non prese parte alla rivolta, su preciso ordine del Kapo Lemke, era quello del Krematorium III,
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