le donne nei lager e i lagerbordell

in sottofondo
  • Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in si bemolle minore, op. 23 di Pëtr Il'ič Čajkovskij in  particolare la  parte l'allegro ma     non troppo e  molto maestoso 

  come promesso precedentemente  nel post    il dovere  di non dimenticare ecco a voi   il  post   sulle  donne  nei lager  

Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche liberarono il campo di concentramento di Auschwitz e ogni anno in questa data, divenuta simbolica, si celebra il Giorno della Memoria in cui si ricorda uno dei periodi più bui dell’umanità: la pianificazione dello sterminio di ebrei, disabili, oppositori politici, omosessuali, zingari, testimoni di Geova, asociali, apolidi. Quando si parla , se se ne parla della deportazione femminile non possono essere dimenticati l’orrore e le ferite che i nazisti hanno inflitto alle donne e occorre ricordare il sacrificio e gli atti di resistenza messi in atto dalle deportate di tutta Europa, ebree e politiche, soprattutto durante il lavoro forzato nella fabbrica della Siemens. Raccontata magistralmente da Donatella Alfonso .con la collaborazione di Laura Amoretti e Raffaella Ranise in Destinazione Ravernsbruck -l'orrore e la bellezza nei lager delle donne ( foto della copertina a sinistra ) .
Ma  soprattutto   Le vicende accadute a Ravensbrück sono tra quelle che ricorrono meno nel Giorno della Memoria. Infatti  << Sino alla fine della guerra fredda, quindi all’inizio degli Anni Novanta, pochi sapevano della sua esistenza >> secondo quando  dice  Stefania Delendati  in questo articolo    su    http://www.informareunh.it/  di    <<  Le sopravvissute si vergognavano di raccontare, come se fosse stata colpa loro, e se lo facevano venivano additate come “bugiarde”, o peggio “complici”, accusate di essersi concesse volontariamente al nemico per salvarsi.
Tra le prime a sentire il dovere di tramandarne la testimonianza, ad avere il coraggio di farlo in un clima ostile e in anticipo sui tempi, fu un’italiana, Lidia Beccaria Rolfi, che arrivò a Ravensbrück il 30 giugno 1944, a bordo di un carro bestiame. Era partita quattro giorni prima dalle Carceri Nuove di Torino nelle quali aveva trascorso due mesi di angoscia, fra torture e minacce di morte, insieme ad altre donne in una cella sovraffollata.
Lidia era una maestra di Mondovì, staffetta partigiana dall’età di diciotto anni con il nome di “maestrina Rossana”; quando non insegnava fabbricava bombe a mano in casa e le nascondeva sotto il letto. Quando giunse in Germania, le parve perfino una liberazione, niente sarebbe stato peggio di quello che aveva passato, pensava, mentre incolonnata a piedi con le compagne marciava per i quattro chilometri che separavano la stazione ferroviaria dal campo.

Donne internate nel lager di Ravensbrück, in quella che oggi è considerata la “capitale” delle atrocità commesse dal nazismo nei confronti delle donne, tante delle quali con disabilità.

Ravensbrück si presentò con un alto muro sormontato da torrette di guardia e filo spinato elettrificato. Quelle donne che varcarono il portone furono le prime italiane non ebree ad essere internate.
L’impatto è ben descritto da un’altra superstite, Mirella Stanzione: «Il lager si presenta grigio, tetro, silenzioso. Si odono solo comandi secchi in tedesco e il latrato dei cani che insieme ai soldati ci circondano. Sulla piazza del lager notiamo una colonna di donne: sono le deportate che ci hanno precedute. Sono magre, sembrano affaticate, sono visibilmente sporche, e molte sono rapate. Hanno poco l’aspetto di donne, indossano una divisa a righe e ai piedi hanno gli zoccoli, tutte però hanno ben visibile sul vestito un numero e un triangolo di colore diverso che le contraddistingue, le qualifica».
Mirella Stanzione è una delle pochissime
donne italiane internate a Ravensbrück ancora viventi.
Per le deportate politiche come Lidia e Mirella il triangolo era rosso. La sorte peggiore toccava alle lesbiche, loro non “meritavano” neppure il triangolo rosa riservato agli uomini omosessuali negli altri campi. Erano insignificanti in quanto donne con l’aggravante di un comportamento “deviato”, pertanto passibili di ogni brutalità.
Lo scopo principale era annientare la dignità e l’identità delle prigioniere, tutto concorreva a raggiungere l’obiettivo. A partire dalla fame, il bisogno primario di cibo e l’istinto di sopravvivenza creavano conflitti fra le detenute. Il resto lo facevano il freddo, la sporcizia, il lavoro massacrante, le botte e le umiliazioni. [.... ]  segue  qui > . 




Di tutte le testimonianze aberranti sul trattamento disumano riservato nei campi di concentramento, il Lagerbordell è quella che ha avuto meno risonanza e che si è tentato di tenere nascosta il più possibile.


Nell’ottobre del 1941, durante una visita nel campo di concentramento di Mauthausen (famoso per essere l’unico campo di “classe 3”, cioè di punizione e di annientamento attraverso il lavoro), il capo delle SS Heinrich Himmler, in vista della scarsa produttività dei prigionieri dovuta soprattutto alla denutrizione, propose un “incentivo al lavoro”, un “bonus” sulla scia dei Gulag di Stalin: i lagerbordell.
I sonderbauten, traducibile con “edifici speciali”, erano a tutti gli effetti dei bordelli nei lager. L’obbiettivo della costruzione di questi spazi era quello di dare un incentivo ai lavoratori forzati ma, soprattutto, quello di debellare i casi di “degenerata” omosessualità, sempre più frequenti tra i prigionieri. Furono costruiti in dieci campi di concentramento: Mauthausen, Gusen, Flossenbürg, Buchenwald, KL, Dachau, Neuengamme, Sachsenhausen, Mittelbau-Dora e nel più grande, Auschwitz, che vantava ben 21 ragazze.
Le donne reclutate per i Lagerbordell (definite “antisociali”) venivano principalmente dai lager di Auschwitz e Ravensbrück: prostitute rigorosamente tedesche o provenienti da paesi occupati come Ucraina, Polonia e Bielorussia. Categoricamente escluse erano invece le italiane e le ebree, ritenute non degne in quanto prive di “sangue ariano”. L’età media delle donne scelte era 23 anni, tutte comunque sotto i 25. Dopo diverse violenze e stupri, venivano obbligate a prostituirsi con la promessa di libertà una volta passati sei mesi di lavoro, promessa ovviamente mai mantenuta. Venivano spesso sodomizzate e brutalmente abusate dalle guardie o dagli stessi prigionieri, che nonostante la fame riuscivano a trovare le forze per pochi minuti di sesso.

Una foto scattata nel campo di concentramento di Ravensbruck

Dal 1943 entrò in vigore il “Regolamento per la concessione di agevolazioni per i prigionieri” che concedeva alle prostitute una maggiore razione di cibo (anche e soprattutto offerto dai clienti) e un orario di lavoro ridotto rispetto a quello delle altre donne internate: dalle ore 20:00 alle ore 22:00 eccetto la domenica, con un ulteriore turno pomeridiano.
Ad usufruire di questi bordelli erano i detenuti-funzionari, i prigionieri “privilegiati” e i membri delle SS. Era vietato l’ingresso agli ebrei e ai prigionieri di guerra sovietici, mentre era concesso invece ai kapò. Per accedere vi era un lungo procedimento da seguire: l’interessato doveva prima presentare una domanda, essere inserito in una lista d’attesa, essere convocato per un appello, sottoporsi ad una visita medica molto blanda al Revier ed infine farsi una doccia. Se privi di bonus il servizio costava 2 marchi. I tedeschi con le tedesche, i polacchi con le polacche: la selezione razziale era presente anche lì. Il rapporto andava consumato senza protezioni, non poteva superare i 15 minuti e l’unica posizione ammessa era quella del missionario. Una guardia SS monitorava tutto dal buco di una serratura, per assicurarsi che non venissero “infrante le regole”. Gli aborti erano davvero rari: le donne venivano immediatamente sterilizzate, senza anestesia, appena arrivate nel Lager.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale la presenza dei lagerbordell è stata oscurata dalla memoria collettiva il più possibile. Sia perché le vittime hanno preferito non testimoniare, provando un profondo senso di colpa per essere riuscite a sopravvivere al contrario di tantissime altre donne, sia perché la Germania trovava “scomodo” affiancare all’immagine di un luogo di annientamento fisico e psicologico anche quello dello sfruttamento sessuale, di cui erano complici molti dei prigionieri incaricati di sorvegliare gli internati. Inoltre, le donne che durante il regime nazista furono costrette a prostituirsi non vennero mai riconosciute come vittime e furono considerate consenzienti, negando loro qualsiasi diritto ad un risarcimento.
Solo dopo gli anni ’90, finalmente, si iniziò a parlare dei Lagerbordell, grazie soprattutto alla meticolosa ricerca di studiosi e scrittori come Robert Sommer in “Das KZ-Bordell” («Il bordello nel campo di concentramento») presentato nel 2009 al parlamento della città-Stato di Berlino o Helga Schneider, autrice de “La baracca dei tristi piaceri”, romanzo tratto dalla testimonianza della sopravvissuta Frau Kiesel. Ancora oggi, però, in pochi conoscono questo lato del regime nazista. Un lato terribile che, visti soprattutto i tempi in cui viviamo, è necessario conoscere.

per  chi ha  stomaco  ed   vuole  approfondire  ecco alcuni link  

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