9.6.21

da una famiglia di giocatori e nata una giocatrice . il caso di regina baresi

 ancora  calcio  ?  purtroppo  si    ,  quando  in  esso    ci sono storie  di passione e vero sport     (  vedere   post  precedente  )  e  forti  legami   familiari   come    il caso di Regina Baresi  .


Sorrisi Regina Baresi impegnata a fare il nodo alla cravatta al padre Beppe:

Nel calcio fast and furious di oggi, è una mosca bianca. Diciassette stagioni con la stessa maglia, da quando andava alle medie ai giorni nostri, vigilia dei 30 anni da celebrare il 26 settembre prossimo. Regina Baresi è stata l’ultima bandiera dell’Inter, capace di battere di un anno il percorso di longevità di papà Beppe. La scorsa settimana sui social ha comunicato, non senza commozione, l’addio al mondo del pallone, preparandosi alla fase 2.0 della sua vita.

Regina, lei lascia nell’età che per i suoi colleghi maschi è l’apice della carriera. Perché la vita professionale dei calciatori è più lunga?

«Diciamo che gli uomini guadagnano rispetto a noi cifre infinitamente superiori e non hanno fretta di aprirsi una seconda strada per quando smetteranno. A 30 anni mi devo reinventare ma ho altri progetti e nuove sfide da abbracciare che, spero, mi aiuteranno a colmare la nostalgia per il pallone».

A 29 anni lascia lo sport agonistico «Gli uomini guadagnano molto e hanno tempo per pensare al dopo Spero di poter restare nell’ambiente per ora voglio suonare chitarra»

Come è stato il primo giorno da ex?

«Non me ne sono ancora resa pienamente conto, probabilmente quando comincerà il campionato avvertirò la mancanza dei piccoli gesti e le abitudini del quotidiano. Di diverso finora direi che c’è stato solo l’impegno per montare il video che ho pubblicato su Instagram».

Scelta naturale o sofferta?

«Non è stato semplice decidere di lasciare prima l’Inter e il calcio in generale. Inizia una vita nuova, ma dopo averci riflettuto sono convinta».

Si è consultata con suo papà o suo zio Franco?


«Con lo zio no, ci sentiamo poco. Però ho affrontato il discorso con i miei genitori, che mi hanno appoggiato in maniera incondizionata. Sanno che è la soluzione più giusta 
Non le è pesato mantenersi fedele allo stesso club, precludendosi altre esperienze?
«Non avrei potuto fare altrimenti, avendo avuto mio padre come esempio. Non mi è costato fatica, anzi è stata una scelta d’amore per l’Inter» 
Dal suo osservatorio privilegiato ha assistito a tutte le fasi di sviluppo del calcio femminile, dalla nascita fino all’esplosione dopo il Mondiale francese del 2019.».

«Il movimento è in continua crescita, ma è servita tanta pazienza per arrivare a questo livello di seguito e di notorietà. Fino a pochi anni fa sembrava impensabile che i club più celebri di Serie A potessero avere squadre femminili, e invece è successo. Il Mondiale ha fatto da moltiplicatore di attenzioni e visibilità, siamo sulla strada giusta».

Deve convincere un genitore a iscrivere la propria bambina a calcio, invece che a danza. Che argomenti usa?

«Gli direi di valutare cosa appassiona la figlia e se sarà il calcio, di considerare che non ci sono sport solo maschili o solo femminili. Ma sappia che bisogna mettere in conto anni di sacrifici e rinunce».

Lei ha subìto pregiudizi?

«Da piccola sì. Quando al parco si formavano le squadre per giocare, i maschi partivano dal presupposto che non fossi capace. Poi li stupivo».

Il suo cognome è stato ingombrante?

«Qualche volta ho sentito i commenti di chi insinuava che avessi il posto in squadra perché ero figlia di Baresi. Non ne ho fatto un cruccio. Per me è un orgoglio».

Modelli a cui si è ispirata?

«Ronaldo il Fenomeno, avevo il numero 9 per l’ammirazione nei suoi confronti».

Il momento che non dimenticherà?

«La stagione 2018-2019, l’anno in cui vincemmo il campionato di B, senza perdere una partita. Fummo promosse, ci sentivamo la squadra più forte al mondo, eravamo un gruppo molto unito».

La delusione maggiore?

«In questa stagione l’esclusione dal derby, il non essere stata utilizzata nemmeno un minuto nella gara più sentita ed emozionante dell’anno».

E ora cosa farà da grande?

«Mi piacerebbe restare in quest’ambiente ma non come allenatore. Magari come commentatrice, ruolo che ho già svolto. Intanto imparerò a suonare la chitarra e mi migliorerò in cucina».

Se le propongono il reality?

«Perché no? Ma più che al Grande Fratello mi vedo bene all’Isola dei Famosi e soprattutto a Pechino Express. Amo l’avventura, e visiterei, dopo tanti anni in ritiro, posti esotici e curiosi».

La decisione Consigli dallo zio? No, ci sentiamo poco. I genitori mi hanno appoggiato Ora inizia una vita nuova


"Io, la pirata della fisica rivoluzionerò le leggi di Einstein e dei quanti" intervista a alla scienziata Chiara Marletto

 che ancora è convinto   e  sostiene  , tesi orma superate   dai tempi di mio padre  :-)   che   la cultura sia fatta di compartimenti stagni e di settori \ sezioni isolate fra loro . si legga questa interessante intervista   alla scienziata Chiara Marletto  (nella foto a  destra  di Joe Boswell) nata a a Torino e trapiantata in Gran Bretagna, sta per pubblicare il libro "La scienza di ciò che si può e non si può" su repubblica del 7\6\2021

                                       




                                           di Giuliano Aluffi


"Io, la pirata della fisica rivoluzionerò le leggi di Einstein e dei quanti"


Per coniare la "Teoria del Tutto", che metterà d’accordo le due principali spiegazioni dell’universo (la relatività di Einstein per stelle e galassie e la teoria quantistica per atomi e particelle), servono genio e spirito ribelle. Qualità abbondanti in Chiara Marletto. La giovane (34 anni) fisica teorica che fa ricerca a Oxford sta facendo parlare di sé — è recente una lunga intervista sul Guardian — e delle sue teorie. Ha appena pubblicato un saggio dal titolo ambizioso: " The science of can and can’t " ("La scienza di ciò che si può e non si può"), dove illustra le sue teorie. Liceo classico — il "Cavour" — a Torino, genitori in Fiat (ingegnere il padre, quadro la madre) che le trasmettono l’interesse per la fisica («mi hanno sempre fatto divertire mentre studiavo»), poi la laurea al Politecnico e dottorato a Oxford: è così che si diventa pirati. O meglio: fisici teorici, che per Chiara Marletto equivale a essere corsari.

Perché proprio pirati?

«Quando avevo 3-4 anni, mio padre mi lesse le avventure di Sandokan. E da allora ho quest’idea romantica dei pirati: non banditi, ma persone che si battono per aprire nuove frontiere.Nella fisica oggi si tende a incoraggiare le persone più giovani a concentrarsi su problemi poco profondi e che permettono di pubblicare in fretta. Io mi ribello: vorrei tenere alta la bandiera per la fisica di base, che magari oggi non serve a produrre un telefonino, ma crea le idee che porteranno a nuove applicazioni nei prossimi 50 anni, come è successo per la teoria di Einstein. Per me il "pirata" è uno studioso che va oltre gli schemi.Sembra un fuorilegge, ma solo perché di leggi ne crea di nuove».

Su Whatsapp il suo motto è "Alere flammam", alimentare la fiamma. Possiamo definirla come "la giovane italiana che vuole rivoluzionare la fisica?". «Ciò che sto cercando di fare è definire nuove leggi della fisica che siano compatibili con quelle che abbiamo al momento, ma siano più generali e riescano a catturare anche aspetti — come i meccanismi della vita — che oggi non sono ben rappresentati dalle leggi delle particelle elementari. Il mio obiettivo è arrivare a una sorta di descrizione a strati dell’universo, dove lo strato più basico è quello delle leggi del moto, e poi quelli superiori riescono a spiegare tutti gli altri fenomeni».

Come riesce, tra un’email e una notifica Whatsapp, a trovare la concentrazione per una nuova teoria che spieghi lo spazio e il tempo?

«Io in realtà ho sempre la fisica in testa, anche quando preparo una pizza o taglio l’erba in giardino. È proprio quando faccio queste cose, e sono rilassata, che può venirmi una sorta di illuminazione. Comunque cerco sempre di avere durante la giornata qualche momento di isolamento. Quando uno è immerso in tante altre azioni o interazioni con altre persone, perde un po’ la vena creativa. A Oxford ci sono due rami del Tamigi: il Cherwell e l’Isis. La camminata a bordo fiume è la mia fonte di ispirazione. Oltre alle discussioni con David».

Il fisico David Deutsch, suo tutor di dottorato?

«È una persona molto eccentrica.

Ogni tanto a casa sua si vedono oggetti strani. Sono parti di computer quantistici spediti da aziende come Google o D-Wave. Perché David è uno dei pionieri del computer quantistico». La teoria a cui lei e Deutsch lavorate potrebbe rendere più concreta la realizzazione di un computer quantistico universale, e poi di un "costruttore universale".

Di che si tratta?

«Al momento è solo un costrutto teorico, però può immaginarlo come una sorta di stampante 3D che sarà in grado — se mai si riuscirà a costruirlo in futuro — di produrre qualsiasi oggetto sia realizzabile senza violare le leggi della fisica. Perfino esseri viventi».

Persino esseri viventi?

«Per questo bisogna superare le teorie esistenti. Perché esistono fenomeni come i meccanismi che supportano la vita, ovvero le cellule e gli organismi, che — pur essendo del tutto compatibili con la relatività e con la teoria quantistica — non possono essere spiegati completamente solo in termini di queste teorie. Inseguendo l’idea del costruttore universale potremmo scoprire nuove teorie e leggi».

Il mondo delle scienze "dure" come la fisica penalizza le donne con stereotipi sessisti?

«A volte uomini in posizione gerarchica più alta mostrano una sorta di incredulità sul fatto che una donna si occupi di fisica teorica. Quando mi è capitato, ho visto che la cosa migliore è semplicemente continuare a discutere di fisica. Perché così le persone si rendono conto da sole che la loro prima impressione è sbagliata. Comunque questo approccio miope finirà tra non molto: ne sono convinta. Gli stereotipi si scioglieranno».

  

8.6.21

L'italia non n' è ( anche se ora è sempre di meno ) sl degrado ma recupero conservazione e salvaguardia dei beni

 

dopo il fatto del forte di Alessandria ( di cui abbiamo parlato nel post precedente ed in quest'altro post ) c'è anche chi conserva , restaura il patrimonio culturale



Libri miniati medievali, sigilli per autenticare lettere vergate su pergamena e persino volumi animati per l'infanzia. A Roma, l’Istituto centrale per la patologia degli archivi e del libro da decenni si dedica alla conservazione e al restauro di documenti conservati nei musei e negli archivi per custodire la memoria e le fonti del nostro passato formando al contempo nuove figure professionali all’interno della scuola di alta formazione e studio che rilascia un diploma equiparato alla Laurea Magistrale. Siamo andati nei laboratori e nelle aule dove, fra resine, chimici e pennelli, si riportano a nuova vita libri, lettere, materiali fotografici e testi stampati, per raccontare le storie dietro a una professione poco conosciuta ma al tempo stesso richiesta nel mondo del lavoro

non esiste più un nazionalismo di una volta . Il forte di Alessandria dove fu sventolato nel 1821 per la prima volta il tricolore è un rudere

 




Vagonate di amianto, frigoriferi scassati e rifiuti abbandonati in un capannone. E poi i danni provocati dall’ailanto, l’albero del Paradiso Il forte di Alessandria assediato dai rifiutiLa Cittadella di Alessandria, gioiello militare, aggredita pure da erbacce e piante infestanti

                      Corriere della Sera 7 Jun 2021di Gian Antonio Stella


È un capolavoro di architettura bellica del Piemonte. Qui il 10 marzo 1821, per la prima volta nella storia d’Italia, sventolò il tricolore. Oggi, dopo tanti annunci e altrettanti abbandoni, è in queste condizioni


Un machete. Ecco cosa ci vorrebbe per solcare come Indiana Jones la giungla infestante che sbarra fino ai tetti certi passaggi tra una caserma e l’altra della Cittadella d’Alessandria. Che vergogna... C’è da arrossire davanti alle discariche di immondizia tra i ruderi degli edifici crollati. Alle vagonate di amianto, frigoriferi scassati e rifiuti velenosi abbandonati in un capannone in disuso dalla saracinesca sventrata. Ai resti di libri bruciati buttati qua e là. Alle tegole schiantatesi a terra dove «per legge non si possono toccare». Alle muraglie di vegetazione dietro le quali puoi solo intuire l’esistenza dei bellissimi bastioni settecenteschi. Agli alberelli che spuntano tra i comignoli. Agli alberi che si sono ingoiati i tetti facendoli crollare.«Colpa del Paradiso», sorridono amari Ileana Spriano, Sergio Serafini e i volontari del Fondo ambiente italiano che da dieci anni si prendono cura della fortificazione abbandonata. Meglio: dell’ailanto, «la pianta del Paradiso» di origine orientale introdotta a metà del 1700 ai tempi in cui il Piemonte basava buona parte delle sue fortune sulla produzione di seta. Pianta all’epoca donatrice di prosperità, ma infestante. Radici lunghissime. Stupefacente rapidità di crescita. Ti distrai, parte e non la tieni più. Al punto che può arrivare fino a trenta metri d’altezza: quella di un palazzo di dieci piani.

Una veduta della Cittadella progettata da Ignazio Bertola (1676-1755, nell’ovale sotto a  destra  ). Nelle altre immagini (scattate da Gian Antonio Stella) le condizioni attuali della fortificazione, visibili anche in un video su corriere.it

Troppo comodo, però, scaricare tutto sull’ailanto: i primi responsabili del disastro storico, ambientale, culturale, sono infatti coloro che se ne sono occupati a partire dal 1994, l’anno della disastrosa alluvione in Piemonte. Quando la Cittadella, costruita a partire dal 1728 e considerata «un capolavoro di arte militare unico nel suo genere, con il suo complesso di mura e fossati, a forma di stella a sei punte che diventano dodici nella cerchia esterna», fu invasa dall’onda di piena del Tanaro. Un disastro. Che spinse i militari a decidere di dismettere un po’ alla volta il bellissimo presidio logistico e passarlo ai civili. Da
un demanio a un altro, stesso Stato. Disastro bis: il primo cominciò a trascurare la proprietà che stava lasciando, il secondo ad attendere di avere la piena proprietà di tutto prima di darsi una mossa. Risultato: quando l’ultimo dei militari, Maurizio Sciaudone, se ne andò nel 2007 (per diventare un nemico della sciatteria amministrativa) era già in condizioni pessime. Destinate a peggiorare per l’assenza, a eccezione di un edificio preso in carico dai Bersaglieri per un loro museo e un’altra palazzina presa dai Beni culturali, di manutenzione.  Finché nel 2011, grazie anche a una denuncia del «Corriere», il vuoto fu interrotto dal Fai il quale, d’accordo con il Comune che mise 150 mila euro, cominciò a prendersi cura del complesso monumentale. Un’azione proseguita negli anni grazie al progetto «Cittadella senza sbarre» del 2012 che prevedeva, d’intesa con Comune e Istituti Penitenziari, che le carceri alessandrine individuassero detenuti disposti a collaborare per la salvezza di quel patrimonio che andava in malora. Obiettivo centrale: «Il contenimento e l’estirpazione dell’ailanto».

Questo è il punto: quella bella ma mefitica pianta infestante ha trovato nella Cittadella un ambiente ideale. Anche sui tetti. Tra la copertura e le tegole, infatti, gli edifici del complesso hanno uno strato di sabbia e di terra per contenere i danni causati da un eventuale colpo di cannone. I militari lo sapevano. E via via che spuntava una piantina la rimuovevano prima che crescesse. La dissennata indifferenza al problema, in perenne attesa d’un grande e straordinario intervento risolutivo (perché mai spendere pochi spiccioli al giorno invece che aspettare un megaprogetto di archistar e appalti milionari?) era stata catastrofica. Sei anni dopo il riavvio della manutenzione, nel 2018, le cose andavano meglio. Ma la scelta di «rallentare» il coinvolgimento a rotazione di una decina di detenuti (un centinaio in tutto, peraltro lodati per la dedizione) e le chiusure dovute alla pandemia hanno interrotto il percorso. Con danni incalcolabili. Dicono tutto le nostre foto, scattate la settimana scorsa. Giudicate voi. C’è chi dirà, sdrammatizzando: proprio lunedì 14 scade un bando di Invitalia per «l’affidamento dei servizi tecnici propedeutici alla realizzazione dell’intervento di “conservazione e valorizzazione della Cittadella militare di Alessandria”». Totale: 1.391.117,99 euro più Iva. Evviva? Niente affatto: sono solo soldi iniziali e «propedeutici» per poi cominciare chissà quando (campa cavallo!) i lavori veri e propri. E arrivano (se arrivano) cinque anni dopo l’impegno nel marzo 2016 di Dario Franceschini per lo stanziamento di 25 milioni mai arrivati. Più altri 5 della Regione, mai arrivati neppure quelli, denunciano gli ambientalisti. Cinque anni: quanto impiega una «pianta del Paradiso» a crescere di tre metri e più. Quanto c’è da aspettare ancora: un altro decennio, due, tre? Aveva ragione Guido Ceronetti. Quando all’inizio degli anni Ottanta, stremato da quanto era stato costretto a vedere, scriveva nel suo Un viaggio in Italia parole sconsolate: «C’è qualcosa d’immorale nel non voler soffrire per la perdita della bellezza, per la patria rotolante verso chi sa quale sordido inferno di dissoluzione, non più capace di essere lume nel mondo».  E non è solo una questione di patrimonio architettonico o monumentale. Quella straordinaria Cittadella d’Alessandria oggi lasciata al degrado è stata un po’ la Betlemme dell’Italia. Perché fu lì, il 10 marzo 1821, che sventolò il primo tricolore del nostro Paese. C’è chi ha scritto che i tre colori non erano ancora il bianco, il rosso e il verde e che non erano verticali ma orizzontali: può darsi, ma era la prima bandiera scelta per l’Italia. E il colonnello Guglielmo Ansaldi, che aveva preso il comando della piazzaforte, tuonò: «Cittadini, lo stendardo del dispotismo è per sempre curvato a terra fra noi. La patria che ha gemuto finora sotto il peso di obbrobriose catene, respira finalmente l’aure soavi di fraternità e di pace. Cittadini! L’ora dell’italiana Indipendenza è suonata!». Come andò a finire si sa. Gli idealisti che avevano puntato tutto («Se ci allontaniamo per poco dalle leggi di militare disciplina vi siamo trascinati dal supremo bisogno della patria...») sulla presunta volontà di Carlo Alberto di avviare un processo costituzionale e spingere per l’unità d’Italia furono traditi nei loro ideali, nelle loro speranze, nei loro sogni. Peggio: duecento anni dopo la patria per la quale spesero la vita, anche andando a morire per la libertà altrui come Santorre di Santarosa in Grecia, non si è manco ricordata di loro.



7.6.21

Il cane abbandonato ora fa il sommelier della birra o insegna nelle scuole la pet therapy in aula

Il cane abbandonato ora fa il sommelier della birra

QUANDO FU TROVATO ERA IN FIN DI VITA. OGGI FA L’ASSAGGIATORE E IL TESTIMONIAL DI UNA “BIONDA” AMATA DAI QUATTRO ZAMPE. «HA UN PALATO ECCEZIONALE»

BARBE... BAU La birra è perfetta per il barbecue: Ethan è pronto con grill e grembiule.

Ora è un testimonial, un influencer a quattro zampe. Ethan, il meticcio di cane corso che a gennaio aveva commosso migliaia di persone adesso è diventato un assaggiatore ufficiale, anzi il “responsabile della degustazione” per la Busch Beer’s Dog Brew, una birra creata appositamente per cani. Ideata e lanciata la scorsa estate, si è rivelata un successo immediato: venduta in una confezione da quattro lattine, la bevanda, ovviamente analcolica, è composta da carne di maiale, verdure, basilico, menta, curcuma e zenzero. Abbastanza gustosa da essere desiderata da molti quattro zampe, i quali ora potranno contare su altre deliziose proposte rese possibili proprio dalla collaborazione tra l’azienda Bush e Ethan, il palato ufficiale per testare i nuovi prodotti. La vita del simpatico meticcio è cambiata in poco tempo in modo stupefacente: ieri era in un abisso, oggi è sotto i riflettori. Ethan era stato gettato come un rifiuto nel parcheggio della Kentucky Humane Society a Louisville, organizzazione che si occupa di recuperare cani rimasti senza famiglia. Era in condizioni disperate, denutrito, emaciato, talmente debole da non riuscire nemmeno a camminare. Pesava appena 18 chili,

 quando un cane come lui dovrebbe pesarne almeno 20 in più. Per questo i
veterinari temevano non potesse farcela. Invece ha lottato, guadagnando, etto dopo etto, insieme con le forze, la gioia di vivere. Il resto, dopo il ricovero, lo hanno fatto Jeff Callaway, il direttore logistico della Kentucky Humane Society, e la sua famiglia. Hanno deciso che il cucciolone di un anno non dovesse aspettare ancora per ricevere l’affetto che meritava e lo hanno adottato loro. E, in soli 5 mesi, lui ne ha fatta di strada, finendo per essere scelto dalla Busch per essere il testimonial e il collaboratore ideale per migliorare ulteriormente la propria birra per cani. Una scelta che non è solo una trovata pubblicitaria. Ethan, infatti, riceverà anche uno stipendio di quasi 20 mila euro, assistenza sanitaria (con assicurazione per animali domestici) e una serie di stock option, che per l’impiegato a quattro zampe significano birra gratis a volontà.Ma dovrà impegnarsi. Le qualifiche che gli hanno valso il ruolo, secondo una dichiarazione della Bush, non sono affatto banali. «Possiede un palato raffinato, un olfatto eccezionale ed è un cagnolone molto socievole», hanno raccontato i suoi padroni, i Callaway. «Siamo molto onorati che Ethan sia stato scelto da Busch e vorremmo che tutti si prendessero un momento per pensare a quanto lontano è arrivato questo cane: era considerato un peso da coloro che lo hanno abbandonato, oggi è una star. E ha un suo reddito. Non è magnifico?» 





la pet therapy in aula
Un esperimento nato a Torino e ora replicato in diverse città: la lezione con gli animali aiuta a superare diffidenze e paure anche nelle relazioni coi compagni di classe




di Giulia Destefanis

Osilo Chiesa di Nostra Signora di Bonaria

Ieri era una delle due giornate Fai di primavera . Quest'anno nella mia zona nord Sardegna era visitabile la chiesa campestre sul colle di Osilo di Bonaria . Peccato per la pioggia a non potuto vistare il resto del bellissimo paese , ma vista la buona cucina e la ricchezza dei prodotti locali ci ritornerò . Quindi la visita era il monumento da cui soprattutto nelle belle giornate si gode di una bellissima visita ( quasi rudere come potete vedere dalle mie foto ) trascuratissimo , andrebbe valorizzato meglio ed il Fai oltre a farlo visitare dovrebbe o restaurarlo o farlo restaurare dall'amministrazioni comunale e dai beni archeologici \ architettonici della provincia o della diocesi .















da https://www.facebook.com/enrico.napoleone/posts/10220777011829544

pochissimi chilometri dal mare, con l'isola dell'Asinara proprio di fronte, esiste un luogo nel quale si ha l'impressione di trovarsi improvvisamente proiettati a centinaia di km di distanza dalle spiagge sarde, in un paese medioevale dell'Umbria [ o della toscana , aggiunta mia ] .E' Osilo, arroccata a 600 mt. d'altezza con le sue 36 chiese, con i suoi vicoli lastricati, con i suoi palazzi e con il suo castello con una vista a 360 gradi, edificato intorno al 1300 dalla famiglia toscana dei Malaspina. Originari della Lunigiana, arrivati in Sardegna nel 1016 in occasione della spedizione contro gli arabi guidati da Museto. A seguito di quella spedizione i Malaspina ottennero in ricompensa, dalla Santa Sede, una serie di terre sulle quali fecero costruire fortificazioni: tra le quali il castello di Osilo a guardia delle frontiere dell'Anglona, della Nurra e della Gallura. E' un paese molto bello e curato Osilo, sicuramente poco noto agli stessi sardi, ma che vale assolutamente la pena di visitare

la vita è tutto un film sta noi scriverne la sceneggiatura e come recitarlo. coincidenze tra il film precious e la storia di Freddie Figgers, il bambino abbandonato nella spazzatura diventato milionario dell'high tech L

 in sottofondo Canzone La vita è tutta un Film - video Giancavoice e SilviaT




ieri  ho visto  nìsu  netflix   Precious  un film del 2009 diretto da Lee Daniels.

Il soggetto è basato sul romanzo di Sapphire Push - La storia di Precious Jones. Il film è stato presentato al Sundance Film Festival, dove si è aggiudicato diversi premi,   fra  cui   due Oscar 2010, per la miglior attrice non protagonista a Mo'Nique e per la migliore sceneggiatura non originale a Geoffrey Fletcher, su sei candidature totali, comprendenti quelle a miglior film, miglior regia, miglior attrice protagonista (Gabourey Sidibe) e miglior montaggio  qui maggiori informazioni
  Poi  il  giorno dopo leggo  la storia    sotto riportata sarà diverso il  contesto ma  sempre  di  riscatto o ciclo dei vinti  o  sfigati come  gli chiamano  gli haters .






Freddie Figgers, il bambino abbandonato nella spazzatura diventato milionario dell'high tech La storia di un imprenditore americano arrivato al successo grazie a un computer trovato fra i rifiuti


                         di Massimo Basile


NEW YORK - Un bambino abbandonato dalla madre come "spazzatura" e un computer rotto trovato tra i rifuti non erano mai comparsi nella stessa storia. Fino a quando non è arrivato Freddie Figgers. Ognuno può vederci la metafora della rivincita o il sogno americano. Freddie vi direbbe: se qualcuno vi tratta come spazzatura, non lasciate che le circostanze stabiliscano chi siete davvero. Figgers ha 31 anni, è un afroamericano diventato milionario grazie al suo genio informatico e tutto questo dopo aver lasciato la scuola a quindici anni. Ma prima era stato lasciato lui. E quello è stato l'inizio di tutto. A otto anni Freddie entrò in casa di corsa, andò dal padre, Nathan, e gli chiese: come sono nato? "Ascoltami
bene - gli rispose - perché te lo dirò senza giri di parole, Fred. Tua madre biologica ti ha gettato via. Io e la mamma non volevamo mandarti in orfanotrofio e ti abbiamo adottato, così sei diventato nostro figlio". Freddie era stato abbandonato, appena nato, vicino a un cassonetto dell'immondizia, in un paese rurale della Florida. "Quando me lo disse - racconta alla Bbc - dissi, 'ok, sono un rifiuto'. Ma mio padre mi afferrò le spalle disse, 'ascolta, non lasciare mai che questa storia ti assilli'". Il padre era manutentore di edifici, la madre, Betty Mae, lavorava nei campi. Vivevano a Quincy, comunità rurale di ottomila persone nel nord della Florida. Accoglievano, in via temporanea, bambini abbandonati. Quando portarono Freddie, nato da due giorni, erano quasi sessantenni. Lo tennero. Freddie ricevette amore, ma i bambini furono spietati: lo chiamavano Dumpster Baby, il 'bambino cassonetto', o Trash boy, il 'ragazzo spazzatura'. Quando usciva da scuola, lo rincorrevano, lo prendevano per le bretelle e lo buttavano nel bidone dell'immondizia, dicendo: "sei sporco, Freddie". Il padre lo accompagnò, e la situazione peggiorò: ridevano di quell'uomo che sembrava il nonno. A nove anni Freddie aveva già diviso il mondo in due: i genitori erano gli eroi, tutti gli altri erano i cattivi.Poi arrivò un computer, trovato dai genitori in una discarica. Fu una folgorazione. "Vedete - spiega Figgers - un vecchio adagio dice, 'il rifiuto di un uomo è il tesoro di un altro'. Io ero affascinato dai computer, ne avevo sempre desiderato uno". E quello era stato abbandonato, come era capitato a lui. Un giorno, il padre portò a casa un secondo computer, acquistato per pochi dollari in un negozio dell'usato. Non funzionava. Freddie, dieci anni, cominciò a togliere cavi e valvole da una serie di vecchi arnesi raccolti nel tempo e provò a far ripartire il marchingegno. Al cinquantesimo tentativo, lo schermo si accese. "Quel momento si portò via tutto il dolore accumulato".  A dodici anni gli insegnanti notarono che il ragazzino ci sapeva fare. I compagni stavano alla playstation, lui riparava i computer del laboratorio: sostituiva il drive, aggiungeva la memoria Ram, montava caricatori elettrici. La scuola gli offrì 12 dollari l'ora per riparare cento congegni elettronici. A 15 anni Freddie lasciò le aule e si mise in proprio. Arrivarono i primi clienti, e sostanzioni guadagni. Ma il padre si ammalò di Alzheimer. "Fu la cosa più traumatica per me", racconta Figgers. Guardava tutto il giorno un film western chiamato Gunsmoke. Poi nel cuore della notte entrava nella camera del figlio, armato di pistola, convinto che Freddie fosse Matt Dillon, il protagonista della pellicola e gli diceva: "Ho bisogno che mi aiuti a lasciare la città". Allora il ragazzo gli spostava, con cautela, la canna della pistola, gli sfilava l'arma dalla mano e lo riportava a letto. Inventò un congegno con microfono per rintracciare il padre, collegato a Google Maps. Pigiava un tasto e chiedeva: "papà dove sei?". "Fred, non lo so", rispondeva. Quando la situazione peggiorò, Figgers cominciò a portarsi il padre anche agli incontri di lavoro con i suoi dipendenti. "Lui non aveva abbandonato me quando ero nato, così io non avrei abbandonato lui". Nel 2014 Nathan è morto. Aveva 81 anni. Freddie 24.In questi anni Figgers ha venduto il sistema di tracciamento per malati di Alzhemier a più di due milioni di dollari, progettato un rilevatore elettronico di glucosio nel sangue, fondato una compagnia di telecomunicazione e ideato un telefonino personale. Secondo la Nbc, Figgers è stato il più giovane operatore di telecomunicazioni d'America ed è attualmente l'unico afroamericano a capo di un'azienda del settore. La compagnia vale oltre 60 milioni di dollari. Nel frattempo l'ex "ragazzo spazzatura" si è sposato, ha avuto una figlia, incontrato Barack Obama e finanzia una fondazione che aiuta a studiare bambini poveri e abbandonati, perché nessuno si senta mai, anche per un momento, buono solo per il cassonetto. 

storie dal mondo del calcio . la storia di Jorge Omar Carrascosa il capitano dell'Argentina che lasciò la nazionale per il bene del suo Paese e quella di Giovanni Branchini, a quasi 65 anni, è uno dei più vecchi procuratori di calcio italiani

Nonostante gli scandali e la fusione tra il calcio ( e lo sport in generale ) tra il mondo dello spettacolo\ gossip cioè lo Show business (spesso abbreviato in showbiz o show biz). mi piacciono e d appassionano le sue storie . Come quelle che sta facendo repubblica con la  rubrica storie  di maglie      o  fa egregiamente  il sito  https://storiedicalcio.altervista.org/ ( in questo caso ) . Una storia quella di Jorge Omar Carrascosa che è stato a lungo il capitano dell'Argentina di Menotti. A pochi mesi dal Mondiale del 1978 ha lasciato la nazionale e la fascia, quando il calcio era ancora poco inquinato e troppo lontano dall'immagine e dal denaro .
Una decisione inaspettata che l'ha trasformato in un eroe. Oggi Jorge Carrascosa non disputerebbe neppure un incontro: troppi soldi e compromessi, in giro. «Ogni epoca ha le sue sfide. Forse questa è più difficile, è tutto sempre più complesso e ingiusto: ma l’uomo deve continuare a cercare, a farsi delle domande. Chi lavora, ha l’obbligo morale di contribuire al miglioramento del suo lavoro e del mondo: coi fatti. Basta poco, ma ci vuole coerenza». intervista del protagonista a https://storiedicalcio.altervista.org/blog/jorge-carrascosa-lupo-disse-no-ai-colonnelli.html




  da STORIE  DI MAGLIA  DI REPUBBLICA  

 
di Pier Luigi Pisa
a cura di Leonardo Meuti
riprese di Luciano Coscarella
La maglia originale esposta appartiene al Museo del Calcio Internazionale


 
 

 Storie di maglie è il format Gedi Visual dedicato al racconto di leggendarie divise da calcio originali: dalla numero 14 arancione di Johan Cruyff, usata ai Mondiali del 1974, alla numero 10 bianconera che Michel Platini ha usato nel 1985 in occasione della Toyota Cup (così si chiamava all’epoca il Mondiale per club, ndr). Dalla rarissima maglia verde che l’Italia ha indossato nel 1954, contro l’Argentina, a quella del 1935 con cui Silvio Piola ha debuttato in nazionale maggiore. Un tuffo nel passato più iconico e glorioso del calcio, insomma, reso possibile dalla collaborazione con il Museo del Calcio Internazionale, esposizione permanente che vanta cimeli di ogni epoca provenienti da tutto il mondo, e con il Museo del Calcio di Coverciano, promosso dalla Figc, dedicato ai campioni della nazionale italiana.




Giovanni Branchini: “Cavalli e pugni inseguendo Clint Eastwood"
Intervista con il procuratore sportivo. Ha portato Ronaldo all’Inter ed è l’agente di Allegri ma dice: "I miei sogni più belli li ho vissuti nella boxe e nel cinema. Mio padre si faceva spedire giornali da tutto il mondo, siamo stati i precursori di Internet. Il calcio? Purtroppo è malato"




Giovanni Branchini, a quasi 65 anni, è uno dei più vecchi procuratori di calcio italiani. È l'uomo che portò Ronaldo il Fenomeno all'Inter e l'ombra di Massimiliano Allegri che non è riuscito a portare al Real Madrid perché Max ha scelto Torino e la Juventus. È grande e grosso. Avrebbe voluto fare il pugile oppure l'attore. Nello
sport comunque c'è il suo destino."I cavalli arrivarono per primi. Mio nonno Nello all'inizio del '900 trasformò nel trotto le corse dei calessini delle campagne emiliane e toscane, che erano vere e proprie sfide tra i possidenti agricoli. Qualcuno si è giocato intere cascine. Ebbe tre figli, dei due maschi di casa mio zio Fausto continuò nel solco tracciato dal padre mentre mio papà, Umberto, sposò il pugilato".



E i figli con lui?
"Eravamo tre fratelli nati a dieci anni di distanza l'uno dall'altro, il primogenito Marco, che purtroppo ci ha lasciati nel 2004, ha intrapreso la carriera di driver, io e mio fratello minore, Adriano, abbiamo seguito papà nella boxe. A 18 anni ho avuto la tessera di procuratore sportivo dalla Federazione pugilistica italiana".


Quali sono i suoi primi ricordi?
"Da bambino passavo molto tempo nello studio di mio padre che fu un vero precursore del concetto di network e in un certo senso di Internet. Infatti, già negli anni '60 riceveva in abbonamento tutte le riviste specializzate e i quotidiani sportivi più importanti a livello mondiale. Lo faceva per trascrivere su appositi cartoncini i record di tutti i pugili in attività, ricavava i risultati dalla stampa. Parlava e scriveva in inglese, francese e spagnolo, possedeva le basi di giapponese e traduceva nomi, esiti degli incontri, peso degli atleti. Una di queste riviste era double face. Aveva due copertine e testi differenti a seconda del verso da cui cominciavi a leggere, ma soprattutto da una parte c'erano foto di pugili bianchi e dall'altra erano, invece, tutti di colore. Veniva dal Sudafrica".




Fu un modo salgariano di scoprire il mondo senza muoversi di casa.
"Papà aveva corrispondenti ovunque, trascorreva la sua vita alla macchina da scrivere e non passava giorno in cui non spedisse dalle 8 alle 15 lettere, più qualche telegramma. Non vi era altro modo di comunicare sino alla creazione da parte dell'azienda telefonica dell'epoca di un sistema chiamato Gran Parlatore che dai primi anni '70 consentiva di chiamare in teleselezione a costi esorbitanti".

Vi alzavate nel cuore della notte per seguire gli incontri americani?
"Il ricordo più nitido mi porta al primo Benvenuti-Griffith, al Madison Square Garden. Era l'aprile del '67. Fino all'ultimo non venne comunicato se sarebbe stato trasmesso dalla Rai in diretta. Rimanemmo svegli tentando inutilmente di sintonizzare il televisore tra Rai e Televisione della Svizzera Italiana. Ci siamo dovuti accontentare della storica radiocronaca di Paolo Valenti".




A quando risale la sua prima volta a bordo ring?
"Al 23 aprile del 1965, avevo otto anni. Eravamo al Palazzo dello Sport di Roma gremito sino all'esaurimento dei posti, mio papà con l'aiuto e l'organizzazione di Rino Tommasi era riuscito a condurre alla disputa del titolo mondiale uno dei suoi campioni prediletti, Salvatore Burruni. Nella concitazione generale non trovarono dove farmi sedere, alla fine mi sistemarono proprio all'angolo di Burruni, appena al di là delle corde. Ero rivolto verso il pubblico e ricordo di aver letto, per la tensione, l'andamento del match negli sguardi e nelle espressioni dei tifosi vip che stavano in prima fila".

Mai infilato i guantoni?
"Sì, mi sono allenato per molti anni in palestra con i nostri ragazzi e anche con degli amici ma non ho mai combattuto. Mi sarebbe piaciuto farlo. In compenso ci ha pensato mio figlio Giacomo a combattere da dilettante. Ancora oggi mi sveglio nel cuore della notte per assistere agli incontri più importanti. Grandissimi sono stati Carlos Monzon, Salvador Sanchez, Alexis Arguello, Roberto Duran, Sugar Ray Leonard, Mike Tyson. Ma ne dimentico troppi. Oggi Saul Canelo Alvarez è un campionissimo. Assieme a papà ho gestito nove campioni del mondo, ma sono legato soprattutto a un gruppetto di ragazzi: Rocky Mattioli, Loris e Maurizio Stecca, Francesco Damiani, Luigi Minchillo e Salvatore Melluzzo".

Che cos'è il pugilato?
"La boxe è verità. Non ci sono trucchi o chiacchiere, nella boxe devi essere te stesso, non puoi bluffare. La pazienza e il coraggio devono coniugarsi perché campioni non si nasce, si diventa imparando innanzitutto a camminare sul ring e poi piano piano a colpire e a non essere colpito. Il coraggio serve per ragionare non per picchiare".

Che cosa deve ai suoi genitori?
"Nella mia famiglia mamma è stata spesso anche padre. Nel '46, quando mio fratello Marco aveva appena un anno, papà partì per una tournèe negli Usa con tre atleti italiani, non lo vedemmo per diciotto mesi. Negli anni '70 gestiva un campione del mondo thailandese, Chartchai Chionoi, e quindi passava lunghi periodi in Asia. Insomma una famiglia normale, papà al lavoro e mamma casalinga, in cui ho presto imparato come il concetto di normalità sia flessibile".

Il cinema era l'avventura, il sogno?
"Credo che quelli della mia generazione siano cresciuti nei cinema molto più che davanti a uno schermo domestico. Se dovessi giocare con la risposta direi che mi sarebbe piaciuto essere il grande Peter Lorre di M - Il Mostro di Düsseldorf oppure un meraviglioso Clint Eastwood in tutte le sue interpretazioni".

Ci sono film che ha visto più di una volta?
"Moltissimi. C'era una volta in America di Sergio Leone e Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, ma tra i miei favoriti ci sono due capolavori del 1957 di Ingmar Bergman: Il Settimo Sigillo e Il posto delle fragole. Alcune opere mi hanno divertito moltissimo condizionando, credo, anche la mia ironia personale e sono Harold & Maude di Hal Hashby, Il Dittatore dello Stato Libero di Bananas di Woody Allen, Frankenstein junior di Mel Brooks e il primo Amici miei di Mario Monicelli. Se devo però dare un punto di partenza al mio amore per il cinema devo indicare alcune opere di John Cassavetes: Una moglie, La sera della prima e Gloria".

Le piace ancora il calcio?
"Amo il sacrificio dell'allenamento, l'alchimia dello spogliatoio e il valore mistico della sconfitta. Amavo soprattutto accompagnare l'opportunità che lo sport offre ad ognuno di poter crescere sul piano umano. Oggi questo concetto di sport propedeutico alla vita si è molto perduto, il guadagno è divenuto l'unico motore, la priorità invece della conseguenza".

Ma voi procuratori siete i profeti del dio denaro.
"Non siamo tutti bestie. Il potere dei procuratori è direttamente proporzionale allo spazio e alle connivenze che presidenti e club concedono. Non sono ancora riuscito a convincere i reggenti del calcio a sedersi insieme a un tavolo per resettare un meccanismo impazzito, per condividere e affrontare le sue patologie. Mi rispettano, mi ascoltano ma poi non succede nulla e tutto continua come prima".

Cosa sono i soldi per lei?
"I soldi sono spesso la conferma del valore di ciò che fai, ma sono soprattutto una scialuppa di salvataggio quando si affrontano le tempeste della vita. Senza aver mai assaltato diligenze ho potuto guadagnare con soddisfazione".

Chi è stato Ronaldo?
"Ho cominciato ad assistere Ronaldo quando aveva 17 anni e da subito ho percepito due cose: la sua vivissima intelligenza e l'empatia che sapeva creare intorno a sé. Era facile condividere con lui anche le decisioni più complesse, bastava spiegargli il contesto e i motivi di una scelta. Fu così anche per la sofferta decisione di lasciare il Barcellona. Era il numero uno al mondo e aveva diritto a un contratto trasparente e cristallino. Esattamente quello che l'Inter gli garantì".

Chi è Max Allegri?
"Uno che risponde no grazie al Real Madrid. E ho detto tutto".

6.6.21

nuove tendenze nell'arte collezionistica . Spendono Quindicimila euro per una scultura invisibile di Salvatore Garau .




Dopo  aver letto sulla  home di  facebook   ( e  di conseguenza   i siti     , vedere  gli approfondimenti,    consultati  prima  di scrivere  questo post     )    L’opera immateriale “IO SONO” di Salvatore Garau è stata venduta presso la casa Art-Rite di Milano, partendo da una base d’asta di 6mila euro mi trovo  sempre  più  confuso   sulle   nuove  forme d'arte .   A differenza dell’arte digitale, i cosiddetti  Nft, di questa scultura non esiste nemmeno l'immagine, lasciando all’acquirente il solo certificato di autenticità
Salvatore Garau, Gianfranco Mura ©Salvatore Garau, Gianfranco Mura ©
Ora    è vero     che  Le sculture immateriali di Salvatore Garau come l’opera “IO SONO” hanno , secondo   una nuova valenza storica e rappresentano una perfetta metafora dei nostri giorni, andando ben oltre come concetto e linguaggio all’arte digitale degli NFT, perché sono uniche, irripetibili, con zero impatto ambientale e perché, a differenza dell’arte digitale, non esiste nemmeno l'immagine, lasciando all’acquirente il solo certificato di autenticità. Ma  , come  già  dicevo  nelle righe  precedenti  ,  mi trovo  confuso    perchè pur  avendo preso   30  all'esame  di storia dell'arte moderna e   pur  andando  a mostre   ed avendo  amici\che    che la  praticano  , non ho  le  conoscenze  approfondite    dell'arte moderna  \ contemporanea      non avendo fatto né  accademia  né ho una  laurea  in  storia dell'arte  .  Infatti da  un lato   mi trovo  d'accordo    dopo aver  visto   la sua  Afrodite piange






  con   quanto dice  questo articolo     di  https://www.lavocedinewyork.com/   del   3 giugno 

  
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E’ un mero concetto quello che l’artista Salvatore Garau ha rappresentato a Manhattan lo scorso 29 Maggio: un cerchio bianco lasciato a terra, che trattiene, nel suo centro, un punto rosso, il suo fulcro, anzi, il suo cuore. Si chiama Venere Piange, ideata per esprimere l’idea di una bellezza dimenticata, di un amore perso, svilito, sostituito dalla ricerca spasmodica e costante di una apparenza che vorrebbe essere in grado di restituire consistenza. Una fisicità sbiadita, penalizzata anche dalla mancanza di relazioni cui questo periodo storico ci ha costretti. Un’opera, dunque, che nasce da più riflessioni, in parte seguite all’isolamento imposto dal Covid; in parte alla perdita di contenuti che sta caratterizzando questi ultimi anni e che degenera sempre più, soprattutto nel mondo fittizio dei social. Concause, dunque, che irrompono nella quotidianità artistica del maestro Salvatore Garau, il quale – alla stregua di una provocazione, ma che è solo un invito alla riflessione – ci implora di soffermarci a entrare in relazione con uno spazio sì, privo di fisicità, ma non di contenuto: uno spazio che è, sia una dimensione interiore (che ci appartiene, quella del proprio sé), che estranea (perché appartiene ad altri), ma che certamente, essendo privata del suo limite fisico dall’autore, può finalmente, in quello spazio pensato e definito dal cerchio di Garau, mettere in contatto più dimensioni.

Brasilia – 08.11.2016: Inaugurazione della mostra di Salvatore Garau (Salvatore Garau – 1993-2013 carte e tele) al Museu Nacional, a Brasilia

Venere Piange rappresenta, dunque, un’assenza (fisica) che trattiene l’essenza (contenuti), ovvero ciò che siamo o che dovremmo essere: un invito a pensare a ciò che non vediamo ma di cui siamo fatti, come le energie che ci abitano e ci muovono; l’entità e lo spirito che sentiamo dentro di noi e che inseguiamo. Le vibrazioni che danno spinta alla nostra vita, le percezioni e le intuizioni che ci illuminano, le pulsioni che ci fanno sentire vivi. Ma anche i ragionamenti, compresi quelli che ci frenano e le paure che ci governano o ci condizionano. Un concetto di “assenza” affine anche alle teorie fisiche e quantistiche che tanto si stanno sviluppando in questi ultimi anni e che, per questo, rafforzerebbero ancora di più questa concezione. Basterebbe pensare come i pregiudizi correlati ai sensi limitano la riconoscibilità della realtà tangibile: in questa accezione, infatti, solo riconoscere attraverso i sensi – vedere, toccare, ascoltare, ecc. – corrisponderebbe ad “ammettere l’esistenza”. Come se i sensi fossero la conditio sine qua non per riconoscere la realtà tangibile. Ma lo spazio delimitato da Venere Piange è una dimensione che pur occupando quel luogo, non aggiunge nulla anzi, toglie, permettendoci di interagire con un vuoto che è tale solo perché invisibile all’occhio, immateriale al tatto, ma presente se guardiamo al di là, di ciò che ci suggeriscono i cinque sensi.

L’opera “Afrodite Piange” di Salvatore Garau a Manhattan (Immagine ripresa da www.stanzeitaliane.it/ )

E’ in quell’assenza, dunque, che si trova l’esistenza di altre dimensioni. Energia, invisibile, che si intreccia al visibile, ma entrambe vere. Entrambe reali. Solo noi possiamo accorgerci della loro presenza, credendo che lì, proprio nella volumetria cilindrica delimitata dalla base della circonferenza voluta da Garau, esiste una Venere che piange, triste, per la sua bellezza dimenticata, ormai confusa con la vana apparenza; ma anche l’amore, spesso privato del suo coraggio e del suo vigore; talvolta annacquato dal comfort di una routine rassicurante. Soprattutto la nostra qualità più importante, l’umanità, che giorno per giorno stiamo abbandonando alla ricerca di altro. Anch’essa smarrita nell’assenza di relazioni imposta dal Covid, come pure nella ricerca di una fisicità inutile, priva di contenuti nonché alimentata dalla superficialità del mondo virtuale. Una speranza, quella di Garau, ma anche un atto di fiducia verso il prossimo e la sua capacità di riflessione in grado di concedersi uno “spazio” interiore, proprio come quello che l’autore ci dedica in questa opera. Perché abbiamo già tutto dentro di noi e il resto è solo di più.

[... ] 


Ma allo stesso tempo confermo le mie conclusioni di quanto avevo detto nel  precedente  post  << Disastri causati dal bisogno di arte nella storia. >> .Infatti Concordo inoltre Francesco Picciau in questo commento sull'account facebook dell'autore

Una scultura invisibile è una operazione ecologicamente perfetta, però onestamente, è solo una speculazione commerciale, roba per gente che ha soldi e li usa per mettersi in mostra comprando quello che un povero lavoratore non comprerebbe mai. La gente che lavora, i soldi li spende per qualcosa 😢

  che  è   , almeno io  l'ho vista  cosi , una   risposta  a quanto  ha detto l'autore    stesso   : << (...) C'è già troppo di niente che viene venduto per qualcosa, e nessuno ci fa caso >> sempre a https://artemagazine.it/ del 4 giugno qui l'articolo completo

Quindi benvenuti  nella  nuova corrente  artistica  dell'immaterialità  o  del  nulla  

Le Balene d'agosto racconto di Daniela Bionda

Tratto dal 2° concorso letterario "una storia sbagliata"- Associazione culturale Carta Dannata presidio di Tempio Pausania in collaborazione con la libreria Max 88 Presidi libri Sardegna Edizioni Mediando

Copyright 2007 Mediando- ISBN 978 -88-89502-17-4

 

Durante il tragitto Sha iniziò a pensare alle sue balene, nel Mare del Nord, ai salvagenti arancioni, ai suoi compagni stipati come sardine in piccole barche o in gommoni che si scagliavano contro le baleniere impedendone il passaggio. Al compagno più ardito, che riusciva ad issare il loro emblema sull'alto pennone. Pensò alle canzoni gridate, alle marce per la pace. Infine come in un caleidoscopio d'immagini, ai tralicci saltati; Alle cariche della Polizia; Alle vetrine infrante, alle bandiere bruciate. Robin avrebbe voluto stringerla a sé ma si limitò a chiederle :"Sei proprio sicura, possiamo ancora tornare indietro". Sha scosse la testa, uscendo dal suo torpore. Giunti alla meta scese dal furgone, lentamente, la bomba rudimentale nascosta sotto la giacca logora, mentre le luci dei pali illuminavano i suoi passi. Rimase qualche secondo ad osservare il bersaglio, le insegne al Neon del Mc Donald's che brillavano in quella gelida notte. Deposta la bomba, Sha mise in funzione il detonatore, poi, ritornò,
contando mentalmente i passi, senza cedere all'istinto di scappare. Il furgone si allontanò sgommando, giusto in tempo per sentire un gran boato, le fiamme che si sviluppavano dall'edificio, il suono delle sirene, i vetri infranti delle auto bruciate. Giunti al rifugio i giovani si lasciarono travolgere dal fumo denso, la musica ritmata. Sha ballava da sola, a piccoli passi, le braccia alzate, girando su se stessa come una girandola mossa dal vento. L'alba li trovò esausti, le bocche asciutte, i capelli incollati. La ragazza s'infilò nel sacco a pelo stringendosi a Robin in cerca di calore. Incapace di dormire Sha pensò a suo padre, un piccolo borghese con un alto senso del decoro; Al fatto che non riusciva ad accettarla, con le sue divise militari, i suoi capelli rossi mal lavati. Pensò alla sua infanzia dorata, alla dolce Patti che nel calore della grande cucina, oltre al pane fragrante, latte, burro, marmellata, le dispensava un amore incondizionato.Uscita dal sacco a pelo con Robin che borbottava, si diresse traballante al chiosco più vicino alla ricerca di un giornale. La notizia la fece impallidire, le mani tremanti e sudate, macchiate dell'inchiostro della carta stampata. Quattro addetti alle pulizie erano periti nell'inferno di quella notte. Si diresse alla Metro, rifugio sicuro di barboni e sbandati dal vento gelido della notte. Salì sull'ultimo vagone, quello dei pendolari, le borsette strette in pugno, gli sguardi assonnati, mentre nella cabina si sentiva un odore di dopobarba, misto a sudore. Scese alla terza fermata, quella che conduceva al mare. Osservò le saracinesche serrate dei locali non ancora affollati. Gli ombrelloni e le sedie accatastate. Con un dito disegnò dei cerchi concentrici sulla sabbia bagnata, poi sciolse il nastro di cuoio che le imprigionava i capelli, lasciandoli scendere sulle spalle, come quelli di una sirena della quale non si udiva più il canto.Cominciò a spogliarsi, prima le scarpe, poi tutto il resto. Si diresse sul bagnasciuga, lasciando delle orme che presto le onde avrebbero cancellato. L'acqua le coprì le ginocchia, poi il petto ed allora Sha cominciò a nuotare, verso l'orizzonte infinito, senza guardarsi mai indietro. Presto si stancò, gli arti rigidi, i polmoni che cercavano l'aria. Presto perse il senso dell'orientamento come le sue balene d'agosto, arenate. Sha chiuse gli occhi e si lasciò trascinare dal vortice di un mare profondo.


      

L'Alienista" di Caleb Car recensione di Daniela Bionda

Potrebbe essere un'immagine raffigurante libro 
 
Letteratura "L'Alienista" di Caleb Car recensione di Daniela Bionda
 
A partire dalla metà del diciannovesimo secolo, furono definiti "Alienisti" i dottori che avevano il compito di studiare ed assistere i pazienti a superare la loro "alienazione mentale". Essi furono influenzati dalle teorie di Freud, Jung, nonché Cesare Lombroso.
Il romanzo ci fa conoscere una New York del 1816 in cui si compiono efferati delitti che hanno come vittime ragazzini di strada che si prostituiscono, o di figli di immigrati. La polizia corrotta, non considera degne di attenzione queste povere vittime e così, una squadra composta da un giornalista di cronaca nera, il suo amico Lazlo Kreizler di professione Alienista e tre poliziotti, tra cui una donna, effettueranno un indagine per fermare il killer attraverso le nuove scoperte nell' ambito della criminologia moderna. Il lavoro di Lazlo, consisterà, appunto, in quello di tracciare un profilo dell' assassino partendo proprio dalle sue vittime. Questo libro differisce dal giallo classico a causa della sua rivoluzione sociale e culturale, che rende giustizia anche agli ultimi, ed all'utilizzo delle scoperte scientifiche in campo della criminologia e psicologia

 

«Il bodybuilding mi ha salvata: avevo 47 anni, ero depressa e in sovrappeso» ., La campionessa di kickboxing derubata a Termini recupera la borsa da sola: «Mi sento Batman, dalle forze dell’ordine nessun aiuto» .,

  «Credi in te stesso e impegnati per diventare la tua versione migliore», scrive  Claudia  sui suoi profili social. La donna racconta di co...