27.12.20

Festival di Sanremo, pubblico e artisti "in nave" Il progetto dell'organizzazione per superare l'emergenza Covid

  va bene  che     che  non si posso  fare   ancora  grandi eventi . Ma questo  modo mi sembra  ridicolo .  e poi  si  fanno figli e  figliastri  , San remo  si  ,  teatri chiusi  no   ?

(ANSA) - ROMA, 26 DIC 2020
Il pubblico di Sanremo e il cast artistico ospitato in una originale quarantena su una nave da crociera, la Smeralda, ancorata nelle acque liguri. Anticipata a Natale da Dagospia, sarebbe questa la soluzione alla quale sta lavorando l'organizzazione del Festival per garantire al palco dell'Ariston la presenza del suo pubblico di sempre e nello stesso tempo trovare spazi a prova di regole sanitarie covid per i camerini degli artisti, evitando quelli troppo angusti del teatro cittadino. Il progetto, presentato alla Rai da Costa Crociere, è al momento una delle ipotesi alla quale punta l'organizzazione della kermesse, anche se a Viale Mazzini le decisioni operative verranno prese a fine gennaio. Il progetto, che permetterebbe al Festival di riempire la platea dell'Ariston dribblando le restrizioni imposte ai teatri dall'emergenza pandemia, avrebbe convinto il presidente della concessionaria Rai pubblicità e coordinatore del progetto festival Antonio Marano, anche se non sarà lui quest'anno a seguire fino all'ultimo l'evento perché a giorni lascerà la Rai con un ruolo nella fondazione Milano-Cortina In sostanza il progetto prevede la creazione di una "bolla", simile a quelle già realizzate negli Stati uniti per permettere la conclusione del campionato NBA. In questo caso, si dovrebbero portare - previo tampone - 3-400 persone del pubblico oltre allo staff artistico sulla "Smeralda" una nave di Costa Crociere ancorata alla fonda nel porto di Sanremo. Pubblico e artisti rimarrebbero chiusi e protetti fino al 2 marzo, data di inizio del Festival. Al momento del via gli ospiti verrebbero imbarcati sui tender e accompagnati al porto e da lì, con autopulmini al teatro Ariston. Un'idea che troverebbe anche il favore della città perché permeterebbe di richiamare l'attenzione sul suo porto. Resterà invece operativo il Palafiori, a poche centinaia di metri dall'Ariston, che ospiterà lo staff tecnico, i discografici, le sale stampa, il presidio delle radio e i programmi del daytime in collegamento da Sanremo. Sarebbe confermato anche l'evento Tra il Palco e la città, con il palco di piazza Colombo, da dove partirà il lungo red carpet fino all'Ariston che negli anni scorsi ha ospitato diverse performance degli ospiti del Festival e dove il pubblico, con nuove regole antiassembramento, potrebbe assistere più numeroso agli show. E ugualmente si dovrebbe tenere il Dopo Festival, ospitato al Casinò.

  allora  cosa  proporre  ?  le  uniche  due soluzioni fattibili  1) non farlo  . se  per  un anno salta  non succede  niente  di grave  2)  si   può fare   come i  concerto del 1 maggio per i cantanti .3)  un cantante  per  ogni teatro    di ciascuna regione italiana  ,   a pubblico ridotto     o  a porte  chiuse   

invece di metterci quelli pericolosi o con hanno depredato il paese ci mettono queli che fanno del bene o aiutano gli altri ., il caso di Carlo Gilardi

   di cosa  stiamo parlando 

https://www.iene.mediaset.it/2020/news/carlo-gilardi-garante-visita_966374.shtml


Un filantropo, un uomo colto, mite e gentile, che nonostante i grandi mezzi a disposizione ha sempre condotto una vita umile, in campagna, coi suoi amati animali. Un uomo privato della sua libertà perché troppo generoso col prossimo. Carlo Gilardi ha 90 anni ed è molto ricco. E, nel pieno delle sue facoltà mentali, ha scelto di vivere aiutando gli altri. È un benefattore della comunità di Airuno, vicino Lecco, dove viveva prima di essere dichiarato incapace e costretto a stare rinchiuso contro la sua volontà in una rsa.
Ha messo a disposizione le sue case a chi non poteva pagarsi un affitto, ha donato soldi e beni immobili, ha regalato al Comune un parcheggio e un parco per i bambini. Ha reso più bella la vita dei suoi compaesani. Ha liberamente deciso, lui che non ha eredi legittimi, di destinare ai bisognosi la sua fortuna. Ma da tre anni, con un atto di forza, vive in amministrazione controllata e non può disporre dei suoi beni. Dal 27 ottobre, poi, Carlo è costretto all’isolamento
dentro una rsa, dove è stato ricoverato con la forza dalla sua amministratrice di sostegno. Nessuno sapeva dove fosse, neanche il suo avvocato e i familiari, e nessuno a oggi ha potuto incontrarlo e fargli visita. Neanche al 41bis si riserva ai detenuti un trattamento simile.
Il caso di Carlo è finito sui giornali ed è stato trattato anche da Le Iene l’altra sera. Il filantropo non voleva essere rinchiuso: in una registrazione mandata in onda lo si sente urlare disperato “io voglio la mia libertà che mi avete sottratto”. Eppure la sua tutrice legale, che ne amministra il patrimonio, afferma che Gilardi lo abbia seguito volontariamente. Ma qualcosa non torna, come svelato dalla trasmissione, a cominciare dalla chiara volontà dell’uomo di non andare in rsa, per finire con una quanto mai sospetta sensibile diminuzione negli ultimi mesi dei suoi averi, a cui Carlo però non può accedere da tempo. Che fine hanno fatto i suoi soldi? Inutili le giustificazioni della tutrice e di altri personaggi che ruotano attorno alla vita del pover’uomo, “colpevole” solo di essere ricco e generoso: secondo loro Carlo andava protetto da se stesso, perché aiutava troppo il prossimo ed era vittima di approfittatori. Ma già prima di venire portato in rsa, il filantropo aveva scritto lettere in cui chiedeva aiuto alla stampa: temeva che lo volessero chiudere in un ospizio per gestire liberamente i suoi soldi. E si era spontaneamente sottoposto a luglio scorso a una perizia psichiatrica che ne aveva certificato l’integrità mentale e psichica. Eppure Carlo Gilardi da 50 giorni è come un prigioniero, strappato alla sua vita, privato della libertà e della facoltà di disporre del suo patrimonio. E come se lo avessero sepolto vivo. Non gli permettono di vedere i familiari e il suo avvocato. Peggio di un carcerato. Ma l’unico “reato” commesso da Carlo è quello di essere stato troppo generoso con chi era meno fortunato di lui. E adesso sta soffrendo per questo.





L'ARTE DELLA SUPERCAZZOLA e IN MEMORIA DI FABRIZIO GIGLI, LO SCRITTORE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE di ©Emiliano Morrone



Funzionava come segue. Il dirigente chiedeva della procedura alla segretaria, la quale domandava a noi estranei, che a parte le giravamo la risposta, in maniera che gliela ponesse alla firma e poi ce la mandasse. Andò avanti così, credo per alcune settimane. 
Con Gigi eravamo i creativi della situazione, ridevamo di questo circuito maldestro e ci promettevamo, un giorno, di raccontarlo in qualche modo. Tutto vero. Non posso qui svelare ulteriori dettagli del gioco, che indica un’alterazione del sistema, nella fattispecie corretta da perfetti esterni. Qui non mi soffermo sul moto imprevedibile degli elettroni. Tuttavia in qualsiasi meccanismo naturale esistono variabili che
smentiscono le leggi di ogni scienza, eppure concorrono alla regolarità dei fenomeni. 
Aggiungo che non ci guadagnavamo alcunché, ci piaceva soltanto constatare che lì c’era un certo caos permanente, uno squilibrio che potevamo risolvere a vantaggio della collettività. Ne avevamo i mezzi e le competenze. E non commettevamo reato né prendevamo punti al cospetto di qualcuno. Era tutto riservato, da romanzare all’occasione. Come la storia divertente della nostra appartenenza ai Servizi, frutto di invenzioni altrui che continuiamo ad alimentare per un motivo preciso: vi è chi le propina e dilata a piacimento, sempre con stupidi pretesti. Ad esempio utilizzando la fesseria delle «fragole» che «sono mature», la quale non significa alcunché ma diventa, non di rado, elemento di prova per bollarci come agenti coperti, perfino possibili implicati nell’affare del «dossier Mitrokhin».
Paolo ripeteva che «in Calabria la realtà supera la fantasia». Ed è innegabile, se rammentiamo la vicenda delle dimissioni di Cotticelli e la parte televisiva dell’ormai famosa «Maria»; se riesumiamo argomentazioni della pubblica amministrazione da «Codice calabrese», che avrebbero suscitato l’interesse di Dan Brown, se non fosse stato per il carattere grottesco e selvaggio dei loro autori.
Un giorno, presente il deputato Sapia, dissi a un capoccione della sanità nostrana che aveva scritto una «supercazzola brematurata». Fui assalito dalla sua reazione impulsiva, avevo centrato il bersaglio. Il tizio mi replicò che non potevo permettermi di usare un simile linguaggio nei riguardi di un rappresentante delle istituzioni. Gli risposi che non aveva colto l’alto riferimento cinematografico, cioè «Amici miei» di Mario Monicelli, ideale per prenderci meno sul serio, sul presupposto che la vita di ciascuno non possa ridursi alla maschera dell’ufficio, alla veste delle nostre abitudini quotidiane.
Venivo dalla mitica scuola del Difensore civico della Regione Toscana, quella del grande Fabrizio Gigli, l’inventore dell’«operazione andata a buon fine», di cui vi dirò più in là. In quella sede, a Firenze in via de’ Pucci, per alleggerire il peso dell’esistenza e della burocrazia, a volte coincidenti, con Vittorio e Andrea creavamo istanze di sana pianta: lettere protocollate in apparenza, cariche di doglianze per questioni private singolari. L’obiettivo era semplice: allietare i colleghi e concludere con sghignazzata collegiale. Il maestro Albinoni era un docente di musica che «faceva casino»: disturbava la quiete pubblica, per giunta nelle ore notturne. Allora un comitato (inesistente) di mamme di piccini si rivolse al difensore civico, perché intervenisse e costringesse lo stesso Albinoni, leader di una band multiforme amplificata, a suonare più adagio. Il comitato si chiamava, appunto, «per l’adagio di Albinoni». Fu incaricato di seguire la pratica il collega Caponi, che per diversi giorni venne stressato al telefono da un componente maschile del curioso organismo, il quale lo supplicava di chetare l’Albinoni, che provava fin dopo la mezzanotte, finanche pezzi interminabili dai ritmi balcanici. Ero io, in realtà, da un’altra stanza dell’ufficio. Con fitto accento della provincia fiorentina, rendicontavo al Caponi le prodezze di quei musicanti impertinenti. Finì che il dottor Fantappiè, il difensore in persona, canzonò il Caponi e lo scherzo ottenne l’encomio e il diritto di pubblicazione.
La cojonatura è preziosa, salutare, vitale. Sicché va promossa in ogni luogo, in ogni tempo.

Firenze, i decreti di Gigli erano inappuntabili. I loro «anche» e costrutti non lasciavano campo a critiche né scampo ai Controlli interni della Regione, tutti centrati sulle leggi, su quel corredo di norme e cavilli che serviva a bacchettare i dirigenti firmatari degli atti. L’Ufficio delle verifiche aveva un piglio, un’aura notarile. Restituiva le bozze con annotazioni puntuali da commentario. Pensavo che rappresentassero una lezione di autorevolezza e autorità, un vaglio di sistema che risparmiava tempo e fatica alla giustizia amministrativa e contabile.


Tuttavia i decreti di Gigli erano un genere a sé: la metafisica dell’atto pubblico nella forma e nel significato. Avevano una veste filosofico-letteraria che per molti versi snervava i lettori, perfino i più attrezzati. Richiamavano, quindi, i testi di Hegel e perfino la musicalità narrativa di Gadda, peraltro l’inventore del termine «cinobalanico», che indica l’organo di copula dello stallone canino. 
I decreti di Gigli assomigliavano agli scritti giovanili di Cacciari, che nemmeno il grande Pareyson riusciva a comprendere, quand’anche assistito da Vattimo. Così arrivavano ai Controlli, sicché per gli addetti iniziava il pianto e lo stridor di denti. Sì, perché i decreti di Gigli spaziavano come le improvvisazioni del pianista Jarrett e quindi ritornavano alle note di partenza, secondo il canone del jazz. Chi poteva metterci mano, ritoccarli, sistemarli e anzitutto interpretarli? 
Gigli, per noi soltanto Fabrizio, li concepiva in una stanza seminterrata, a metà tra il bunker e lo scantinato, senza finestre e dunque luci naturali. Lì c’era il suo mondo impenetrabile, popolato di memorie personali, posacenere zeppi di cicche di sigarette col filtro masticato e umido di saliva, spettri della storia occidentale, relazioni dell’attività del difensore civico della Regione, carte varie ammucchiate e sparse, ricordi stipati della toscanità verace di stampo livornese. Quando entravi, eri assalito da un senso di confusione e smarrimento, come fossi lungo la A22 all’alba di metà dicembre, tanto il fumo perpetuo delle Diana Blu del Nostro aleggiava in quella camera isolata di Palazzo Pucci, opera di Bartolomeo Ammannati.
Fabrizio viveva lì, dalle 6 del mattino almeno fino alle 19. Era il primo ad entrare, l’ultimo a uscire. Giacca blu, camicia a quadri o bianca o azzurra, pantalone grigio chiaro, portava nel volto tinteggiato dalla vitiligine i segni del suo travaglio compositivo ed esistenziale, che domava con l’attaccamento al lavoro e ironia ineguagliabile, scandita dall’intercalare «boia de’», seguito da risata goffa soffocata da meccanica sordina. In quella specie di prigione senza sbarre, Fabrizio fabbricava i suoi decreti, ritoccava discorsi ad uso altrui e si compiaceva del suo ruolo aggiunto di ghostwriter. Poi saliva su, dispensava lezioni di forma e trucchi del mestiere di scrittore della P.A. e delle istituzioni, raccontava aneddoti e all’improvviso veniva interrotto dal difensore civico dottor Fantappiè, che lo convocava di corsa nel suo ufficio, oppure da una telefonata della moglie Ira o della figlia Naira. 
Un giorno dell’afosa estate del 2000, c’era una riunione delicata sulla nomina di un commissario ad acta. Fantappiè era assente per ferie; Andrea, che si occupava di queste pratiche, stava riferendo della sua istruttoria a Fabrizio. Vittorio, con la pipa spenta nella mano destra, rifletteva sulle questioni riassunte. 
Tra la calura del momento e l’attesa fissa delle vacanze d’agosto, si era creata un’aria piuttosto pesante. Attorno a un lungo tavolo rettangolare c’erano anche Angela, che prestava consulenza all’ufficio, e Francesco, il saggio della “compagnia”. Entrai per chiedere se volessero un caffè, visto che avevamo una magnifica dispensatrice a moneta. In quel preciso istante, passarono a Gigli una telefonata straordinaria, più preziosa di un acquazzone che riossigena le città nella morsa dei 40 gradi. 
Era Ira, che urlava con rabbia indomabile, tanto da costringere Fabrizio ad allontanare la cornetta. Lamentava d’aver patito «un’ingiustizia terribile», una specie di truffa, stando all’esposizione dei fatti. La donna seguitava a ribadire la gravità della vicenda, con divagazioni sul rispetto delle regole, sulla debolezza dei consumatori e sull’esercizio del commercio. Gigli rimase zitto e non interruppe quel ragionamento da Forum che procedeva per massime e legittime imprecazioni. A un certo punto, però, chiese di parlare con Naira, che stava accanto a Ira e ne sosteneva le ragioni. La giovane replicò gli argomenti e i toni della mamma, al che Fabrizio sentenziò: «Boia de’!». Poco dopo il nostro dirigente pregò di interloquire con Ira, ancora più adirata per via dello sfogo della figlia, che evidentemente riteneva incompleto.
Fu qui che la risolutezza di Fabrizio ebbe la meglio. Infatti domandò alla signora Ira che cosa avesse acquistato al supermercato. «Quattro cocomeri», scandì lei più rasserenata, però specificando che due erano «passati, immangiabili». Come uno scacchista russo, Fabrizio trovò la mossa vincente: un lampo di genio. «Quattro cocomeri, due buoni e due guasti. Allora, Ira, almeno il 50% dell’operazione è andata a buon fine. Prendila così!». 
Ho voluto ricordare questo episodio ad oltre 20 anni di distanza. L’ho reso di dominio pubblico, per necessità, condivisione, affetto. La pandemia non era neppure ipotizzabile. Nemmeno, forse, dalla fantasia incontenibile di Gigli, che da lassù starà ridendo nella sua stanza privilegiata, certamente non più sotto il livello del piano terra. 


25.12.20

sfatiamo il luogo comune che il natale con il covid secondo gli utenti dei social ( fb in particolare ) è il peggiore .



molti su fb dicono che questo è un brutto natale e peggio di cosi non si può , ecc . da un lato li capisco abituati specie qui giù al sud e nelle isole a tavolate numerose . Passino le nuove generazioni i cosiddetti millennial generation, ( cioè generazione Y o generation next ) che non hanno nonni che hanno vissuto i primi 50 anni del secolo scorso ed i loro nonni \e nati dopo la seconda guerra mondiale o non conoscono perchè odiano i programmi soporiferi (la maggior parte ) in tv dstoria e cultura ed a scuola i
prof ( ovviamente senza generalizzare ) sono solo ligi ai programmi e quindi anziché che innovare ed andare contro corrente s'attengono passivamente a quello senza entrare , al massimo ci si ferma alla 1 guerra mondiale , nel resto del secolo breve uno dei più importanti ed ancora divisorio e usato per strumentalizzazione ideologica e retorica  del vogliamoci tutti bene  che  non  approfondisce   in quanto  ci si   dimentica  i  ruoli   che  in   tali eventi  /  27  gennaio  e  10   febbraio hanno  avuto il nostro paese    o  si studiano solo  da  una  parte  sola o  sono  usati  come   arma  contro l'Aversario politico       vedi la  giornata  sulle  foibe     )   .  Ma un altro  sono  le  generazioni   precedenti  che   hanno  lasciato  alle  spalle    oppure   sono iperprotettivi  verso i figli e   gli  illudono che  tutto  sia   buono    e bello   tenendoli lontano   da brutture  ma  poi  li parcheggiano    sul  web    dimenticandosene    che  non sempre  il natale   è    solo    allegria   e spensieratezza      .  Infatti   ci sono  stati   natali  peggiori 

 
FRONTE DELLE TOFANE: LETTERA DI UN ALPINO CHE VENIVA DAL MARE.
26.12.1915
“Carissimi,
da qualche giorno non ho vostre notizie. Vi pregherei di farvi vivi ogni giorno almeno con una cartolina. Ieri in occasione del Natale gli austriaci sono stati buoni; non hanno sparato né cannonate, né colpi di fucile, gentilezze che gli altri giorni ci somministrano in abbondanza. Non sono mai riusciti a colpirci nonostante la loro buona volontà perché siamo protetti da certe rocce che sfiderebbero i cannoni più grossi.
Ieri, per solennizzare la festa è venuto per la messa un Reverendo Cappuccino. Immaginatevi una messa all’aperto, a quest’altezza e con la neve, una neve che Dio la mandava. A funzione finita ero completamente bianco, e mi si sarebbe detto appena uscito da un sacco di farina.
Dopo abbiamo avuto un pranzo luculliano; figuratevi che non mancava neppure il pesce fresco e di mare! [nota: il rancio quel giorno fu a base di baccalà con patate]
[...... ]. Nel pomeriggio vi fu una specie di fiera di beneficenza con la distribuzione alla truppa di indumenti di lana provenienti da diversi comitati. Ma stanotte alle 12 in punto, tanto per dimostrare che il Natale era trascorso, si è cominciato lo scambio di cortesie a base di granate e di shrapnells ed altri simili ingredienti nocivi alla salute. Contro di noi hanno un bel sprecar tempo che tanto non c’arrivano ...”

Il ten. Rodolfo Rossetti (7mo Reggimento Alpini, Btg. Monte Antelao, 151ma comp.) non vedrà più la sua Latisana (UD), non vedrà più il mare. Cadrà durante un assalto sulla Bainsizza la sera del 21.08.1917, sette giorni prima di compiere 23 anni. Medaglia d’Argento al Valor Militare.


Infatti condivido il post del  9 novembre   del mio nuovo  contatto    Facebook   Laura Scianna



Immagina per un momento se fossi nato nel 1900.
Quando hai 14 anni inizia la prima guerra mondiale e questa finisce quando hai 18 anni con un saldo di 22 milioni di morti.Poco dopo, una pandemia mondiale, influenza spagnola, uccide 50 milioni di persone. Ne esci vivo e indenne, hai 20 anni Poi a 29 anni sopravvivi alla crisi economica mondiale iniziata con il crollo della borsa di New York, provocando inflazione, disoccupazione e carestia. A 33 anni i nazisti arrivano al potere.Hai 39 anni quando inizia la Seconda Guerra Mondiale e lei finisce quando hai 45 anni. Durante l'olocausto muoiono 6 milioni di ebrei. Ci saranno più di 60 milioni di morti in totale.Quando hai 52 anni inizia la guerra in Corea. Quando hai 64 anni inizia la guerra del Vietnam e finisce quando hai 75 anni.Un bambino nato nel 1985 pensa che i suoi nonni non abbiano idea di quanto sia difficile la vita, ma sono sopravvissuti a diverse guerre e catastrofi.Un bambino nato nel 1995 e oggi di 25 anni pensa che sia la fine del mondo quando il suo pacco Amazon richiede più di tre giorni per arrivare o quando non ottiene più di 15 ′′ likes ′′ per la sua foto pubblicata su Facebook o Instagram...Nel 2020 molti di noi vivono nel comfort, abbiamo accesso a diverse fonti di intrattenimento a casa, e possiamo grazie agli aiuti governativi sopravvivere pacificamente ad una nuova pandemia.Ma le persone si lamentano perché per diverse settimane devono rimanere confinati a casa. Eppure hanno elettricità, telefono, cibo, acqua calda e tetto sulla testa.Nulla di tutto ciò esisteva una volta. Ma l'umanità è sopravvissuta a circostanze molto più gravi e non ha mai perso la loro gioia di vivere. E da giorni ci lamentiamo perché dobbiamo indossare mascherine per entrare nei supermercati, fare shopping, prendere il trasporto pubblico...Forse è ora di essere meno egoisti, smettere di lamentarsi e piangere.
(Autore sconosciuto)

passera   anche  questo   solo  questione    di abitudine  . bisogna    abituarsi   (  o riabituarsi   )  al  sacrificio   ,  al  fatto che niente    è  certo     a  vivere  e   a  viaggiare





Salgono i verticali i monaci in clausura
Immobili
Viaggiano l'alto il basso senza abbellimenti
Cadono di vertigine... 
Cadono di vertigine...
Strisciano verso il ritmo i tarantolati schiacciati dallo spazio senza tempo
Viaggiano i viandanti viaggiano i perdenti
Viaggiano i perdenti più adatti ai mutamenti viaggia Sua Santità
Consumano la terra in percorsi obbligati i cani alla catena
Disposti a decollarsi per un passo inerte più in là
Coprono spazi ottusi gli idoli
Clonano miliziani dai ritmi cadenzati
In sincrono [.... ]

           in viaggio  -  Csi  


    ad essere    sfigati    (  senza  esagerare   basta  il   bicchiere  mezzo  pieno   e  mezzo  vuoto  )  come   

  amiamo amando
la libertà
amiamo amando
la felicità
noi perdenti
saremo i vincenti
di un mondo intero
senza frontiere
saremo sfigati
ma siamo liberati


l'inno frigideriano composto dal pianista e compositore Giorgio Gaslini ( 1929-2014 ) ", brano composto per la ex rivista Frigidaire,


 vedi i miei  precedenti    post  

   ed  proprio    mentre  m'accingo    a  terminare  questo post   dal cd  o cellulare    di mia madre   partono  le prime     note      di   Lascia ch'io pianga  una celebre aria per soprano composta da Georg Friedrich Händel.  nella   versione più struggente   che  abbia mai sentito    

 
che  supera  addirittura  quella     di paolo fresu  




  con questo è tutto ancora  auguri  di  buon  natale  

24.12.20

Storia di Anna, infermiera Covid, e della trincea dove 180 mila donne e uomini combattono in silenzio ogni giorno la più grave delle pandemie degli ultimi cento anni

Lo so che sarete stufi di leggere storie sul covid , e non vi biasimo . Ma è grazie a gente come loro se le sofferenze passano in secondo piano . Persone prima osannate come eroi ed adesso tratte di .,.. come rifiuto . dalle stele alle stalle insomma . Infatti : << (... ) All'inizio si è fatta molta retorica (i nostri angeli), poi è emersa addirittura qualche ostilità. Stiamo parlando di dipendenti pubblici, insultati e disprezzati sistematicamente quando fa comodo pensare che esistano solo le partite Iva e i lavoratori autonomi. Ci si dimentica troppo facilmente che sono loro che possono salvarci la vita. Allora, oltre ai ristori per bar e ristoranti, il governo e le regioni dimostrino concretamente la gratitudine degli italiani a queste persone che rischiano la loro vita ogni giorno.>>(  da  u  commento all'articolo     che  trovate  sotto 


da repubblica del 24\12\2020

Matricola 169381


DI CARLO BONINI (COORDINAMENTO EDITORIALE E TESTO), MICHELE BOCCI, COORDINAMENTO MULTIMEDIALE DI LAURA PERTICI,

Ore 5.35. Il buon giorno

La prima sveglia arriva con il cellulare e suona alle 5.10. Ma Anna si alza dopo la seconda, quella delle 5.35. Se va bene, il piccolo Davide, un anno, dorme ancora e lei ha tempo di mettere su il caffè, svuotare la lavastoviglie, preparare i vestiti per la scuola della figlia grande, Sara, e rimettere un po’ di ordine in casa. Senza fare troppo rumore, per regalare ancora un po’ di sonno al marito, operaio.
Alle 6.10, l’aria pizzica. E Anna si infila nella Opel Corsa azzurra con un brivido. Da Sant’Agostino, provincia di Ferrara, all’ospedale di Bentivoglio, Bologna, sono 26 chilometri di bassa padana. Alberi da frutto, cascine isolate, rettilinei deserti che si infilano nella nebbia.
“Avrei dormito di più nella vita se fossi andata avanti con la grafica pubblicitaria che ho studiato alle superiori. O, magari, se avessi deciso di iscrivermi a psicologia, come pensavo di fare appena diplomata. Ma mia zia e suo marito erano infermieri, e così ho voluto provarci anch’io. In fondo, si trattava comunque di stare a contatto con le persone, proprio come fa uno psicologo”.
L’Opel viaggia spedita. Anna conosce le strade a memoria, non fosse altro perché le percorre ormai da tredici anni, da quando ha trovato lavoro a Bentivoglio. È una guida spezzata, la sua. Fatta di scorciatoie strette che corrono accanto ai canali.
“Me la ricordo ancora mia nonna mentre scendeva in lacrime le scale di casa il giorno in cui con i miei genitori abbiamo lasciato la Sicilia e il nostro paesino in provincia di Catania, Scordia. Babbo aveva trovato un lavoro quassù. All’inizio è stata dura. Avevo 10 anni e avevo appena finito la quarta elementare. A soffrire di più però è stata mia mamma. Guardava il cielo grigio fuori dalla finestra e non capiva come fossimo finiti in questa terra. Ci ha messo un po’ ad adattarsi, ma alla fine ce l’ha fatta e ha cresciuto me e mio fratello. E penso sia soddisfatta delle persone che siamo diventate”.
Al centro della rotonda di Bentivoglio, c’è una scultura di rame: dodici mondine che vanno al lavoro in bicicletta. Fatica e condivisione. Un po’ come dentro i reparti del palazzone dei primi del Novecento che affaccia lì di fronte. Lo ha fondato un benefattore, il marchese Carlo Alberto Pizzardi. A quest’ora, trovare parcheggio non è un problema. Il cielo è ancora nero quando la portiera della Opel si chiude. “Ospedale consorziale”, annuncia la scritta all’ingresso. Anna Maria entra senza alzare lo sguardo. Passa il badge e si infila negli spogliatoi del piano interrato per cambiarsi e raccogliere i capelli.

Ore 6.50. Nel reparto



Al primo piano, sopra la porta, tre cartelli sembrano usciti da un altro tempo: “Ginecologia”, “Chirurgia”, “Geriatria”. Sì, il tempo in cui si cercava di far convivere più specialità in un’unica unità operativa, come succede spesso nei piccoli ospedali di provincia. Il Covid ha spazzato via tutto. Adesso, qui a Bentivoglio, si ha cura solo di chi ha il coronavirus e i letti annunciano un unico spazio, quello delle malattie infettive. Dietro la porta a vetri convivono due mondi: il “pulito” e lo “sporco”.
È una differenza che bisogna avere chiara. Pulito e Sporco. E mandare a mente. Perché i due mondi, che pure sono fisicamente adiacenti non devono neppure sfiorarsi. Aiutano a orientarsi i cartelli sui muri e le strisce di scotch nero e giallo in terra. Guai ad oltrepassarle. “Non vanno neanche calpestate”, avverte con una certa severità un’infermiera. Per chi si muove nel “Pulito” sono sufficienti camice e mascherina Ffp2.
Chi lavora nello “Sporco” deve entrare nella dimensione asettica della protezione integrale di ogni superficie del corpo. Essere di qua o di là è questione di mansioni. O di fortuna. Se sei un operatore sanitario e il tuo compito è servire il pasto, non puoi evitare lo “Sporco”. Se sei il primario, di solito aspetti il collega che fa le visite di qua dalla linea, nel “Pulito”.Gli infermieri si alternano a seconda della giornata. Oggi, ad Anna, che sta entrando in reparto con un pile azzurro sopra la sua divisa blu, toccherà lo “Sporco”. Per il primo dei tre turni con cui si ruota in trincea. La mattina, alle 7. Il pomeriggio, alle 13.20. E la notte, che comincia alle 19.45. È così ovunque. Per Anna come per gli altri 180mila infermieri Covid del nostro Paese. I fanti della nostra nuova linea del Piave. Negli ospedali, negli ambulatori, nelle residenze per anziani, o anche nelle case delle persone malate. Detestano la retorica dell’eroismo, sorridono del sostantivo “angeli”. Forse perché, come Anna, sanno che quando tutto questo finirà, ci saranno altri malati di cui prendersi cura, altre malattie da affrontare, sofferenze da accompagnare. Che pochi si ricorderanno di dire “grazie”. Che non ci saranno premi. Perché è il loro lavoro e loro lo hanno scelto.
Il reparto non è grande. Quaranta passi di lunghezza e due corridoi su cui affacciano le camere, 13 in tutto. Al loro ingresso, i carrelli con il materiale per le medicazioni e i bidoni per i rifiuti. I punti in cui togliersi le protezioni sono indicati da cartelli a muro, su cui appoggiare la mano quando ci si sfila la tuta dai piedi, prima di spruzzarsi e cospargersi di prodotti per disinfettarsi. Le camere sono tutte da due letti con bagno e nessun paziente può uscire. Molti non ce la farebbero comunque perché stanno male. Ma la regola vale anche per chi, dallo “Sporco” prova a fare capolino per immaginare quanto manca a superare il confine che lo separa dal “Pulito”.
È un mondo dell’assenza. Per chi cura e per chi è curato. L’assenza di chi non sia malato o infermiere. L’assenza di chi vive fuori da quelle mura e a cui è vietata ogni visita. Genitori, figli, fidanzate e fidanzati. Mogli, mariti. Amiche, amici. Anna ne parla all’imperfetto. Come appunto di presenze di un mondo che non esiste più. “E dire che quando ancora potevano entrare, ci lamentavamo. Qualche volta diventavano di intralcio durante la somministrazione dei farmaci, ci interrompevano continuamente per farci domande sui loro cari e ci distraevano. Adesso, osservando la solitudine dei pazienti, si stringe il cuore. Come quando un anziano telefona per sapere come sta la moglie. Si informa se ha mangiato e ha bevuto ma chiede di non farlo parlare. Ha paura che dalla sua voce si capisca quanto sta soffrendo senza di lei e non vuole farla preoccupare”.
 

Ore 7. Consegne

Preparare le terapie e somministrarle, annotare le cartelle cliniche, rifare le terapie a chi ne ha bisogno, organizzare i nuovi ricoveri e le dimissioni e dare le consegne a chi subentra. È questo il programma di oggi del turno di Anna e delle sue colleghe, oggi tutte donne. Va seguito con precisione. Come dice Anna, con “organizzazione e consapevolezza”.
Il box degli infermieri è il cuore del reparto. E per questo si trova al centro. È diviso in due stanze. Nella prima, ci sono i computer, gli armadietti dagli sportelli verdolini, le sedie per le riunioni, i fogli attaccati alle pareti con su scritte le indicazioni sui telefoni da chiamare e le procedure da seguire. Nella seconda è il laboratorio dove si preparano le terapie. Un luogo per iniziati: i cassetti pieni di farmaci, i carrelli con i contenitori destinati ai singoli pazienti, il materiale per bendaggi, fasciature, prelievi.
I medici arrivano più tardi e comunque hanno una loro stanza da un’altra parte del reparto, vicino all’ingresso. Più defilata. I mondi professionali collaborano, ma sono indipendenti. E la sensazione è che il reparto sia saldamente nelle mani degli infermieri durante tutto l’arco della giornata. Eseguono quello che dicono i dottori, certo. Ma hanno ampi margini di autonomia e, soprattutto, si fanno carico del rapporto con i pazienti.Nel box ci sono otto persone. Lo sguardo di chi smonta dalla notte è di persone sfinite. Anna è seduta su un panchetto. Prende appunti. I pazienti vengono indicati con i cognomi, che sono anche scritti su una lavagnetta. Più avanti, per non sbagliare, si passerà al numero di stanza e alla posizione. Così c’è il “2 finestra”, con la glicemia che fa troppo su e giù e che tollera poco la mascherina per l’ossigeno. Il “4 porta” che, invece, è stato agitato tutta la notte e ha parlato nel sonno. “Oggi la 11 finestra è un po’ abbattuta. Non è vivace come sempre, non ha nemmeno chiesto di farsi i capelli. Non è la stessa. Ha detto che non vuole la terapia perché si è stancata di prendere farmaci”. E invece come va il “7 porta”, ha mangiato? “Macché, diciamo che mangiucchia”. Ci sono tuttavia alcune parole chiave per intendersi rapidamente sulla condizione clinica dei pazienti Covid: “responsivo” e “non responsivo”. “Soporifero”, o “vigile”, “autonomo”, “orientato”. Ci sono malati giovani, pochi, e anziani, molti. C’è chi aspetta di morire. E chi se la caverà ma ha una paura da matti e chiama spesso perché gli manca l’aria. Un segnale da non sottovalutare mai perché “abbiamo dovuto mandare in terapia intensiva persone che si sono aggravate in un paio di giorni”.
Prese le consegne, Anna si sposta nella stanza dei farmaci. Sono le 7.35 ed è necessaria concentrazione. Preparare le terapie è un lavoro lungo che richiede attenzione. Oggi c’è una ragazza nuova, rientrata da poco dalla maternità. Si chiama Chiara e deve essere un po’ aiutata anche se è sveglia e ha esperienza in un reparto dove sono abituati a correre come in pronto soccorso. 
Gli armadi dei farmaci non hanno etichette che illustrino cosa contengono e non è facile orientarsi. Si lavora in coppia e si controlla sulla scheda di ciascun malato se le terapie sono quelle giuste. Poi si riempiono le vaschette di ogni paziente con flebo, pasticche, gocce, pomate e sulle confezioni si scrive il nome del medicinale o del ricoverato. Non si deve sbagliare.

Ore 8.30. Vestizione

La stanza della vestizione del reparto di Bentivoglio è piccola e piena di scatole. Dentro, tute bianche con cappuccio, gambali, visiere, cuffie per i capelli, doppie mascherine. Anna si muove lentamente, rispettando un rituale imparato nei corsi di formazione sulle regole anti contagio.



“Da quando c’è il coronavirus ho smesso di bere il tè a colazione – confida sorridendo alla collega che si prepara con lei – Così non mi scappa la pipì mentre sono qua dentro. Sarebbe un bel problema”. Nelle tute fa un caldo asfissiante.
“Sai che l’altro giorno Dalila è svenuta mentre era in turno con me – racconta l’altra infermiera che si sta preparando – Probabilmente non aveva mangiato e bevuto abbastanza. Si è accasciata, l’abbiamo dovuta portare fuori noi trascinandola all’interno della zona sporca. Abbiamo aspettato che si riprendesse prima di farla cambiare”. Anche la visiera trasparente è faticosa da portare. “È tremenda, fa sudare sulla fronte nel punto in cui appoggia la spugna”.

Ore 8.45. “Dieci finestra”

“Allora, buongiorno, come va? Ehi, c’è qualcuno?”. Prima stanza e prima paziente che non risponde. È anziana, immobile nel letto, confusa. Anna si affaccia dalla porta, guarda la collega e sorride. Lo farà ancora tante volte, fino alla fine del turno, di fronte a tutte le difficoltà e tensioni che si presenteranno. “Lei è così, non si perde d’animo. È sempre positiva”, confida Benedetta osservandola riprendere il lavoro. Bisogna insistere con la signora, un’anziana. “Come stai?” (qui si tende a dare del tu ai pazienti). “Ah, bene mi hai risposto. Ok, poi vediamo se mangi qualcosa, magari uno yogurt”, dice a voce alta. Fuori il cielo è grigio, “pantone Bologna”, lo chiama qualcuno per scherzarci su, mentre in reparto è arrivata la colazione.
Mentre Anna si avvicina al secondo paziente, suona un campanello in un’altra stanza. È un malato che ha iniziato a respirare male e chiede assistenza, il “10 finestra”. Bisogna sbrigarsi. Anna accelera il passo, accenna quasi una corsetta. “Certi malati peggiorano in fretta, così dobbiamo avvertire l’anestesista e farli portare in terapia intensiva perché la saturazione si abbassa troppo. Ne abbiamo visti tanti di quel tipo, è meglio sbrigarsi”. Fortunatamente questo non è il caso. I valori non vanno male, il respiratore dà il giusto aiuto. “Non è che ti sei solo un po’ spaventato?”, chiede Anna. “Dai, dai, sistemati per bene l’ossigeno che dopo ritorno”. Allarme rientrato, riparte il giro.



C’è un catetere da sistemare, va fatto un prelievo a una signora con le vene in pessime condizioni e sono necessari venti minuti di lavoro in due per venirne a capo. Altra stanza, altre cose da fare. Fissa la flebo, convinci quel signore a prendere la medicina e quell’altro ad andare in bagno prima che sia necessario il clistere. Il tempo passa, la temperatura dentro la tuta aumenta, la faccia è rossa ma si apre di tanto in tanto in un sorriso. “Dai, dai, che stiamo andando bene”, dice Anna facendosi passare l’ennesima flebo da Benedetta. E poi per ora non ci sono stati grossi imprevisti. “Sono quelli a mettermi di più sotto stress. Soprattutto quando ne arrivano più di uno insieme”.


Ore 9.05. Decesso

In un reparto, la morte è un fatto spesso atteso. A suo modo, naturale. Poco dopo le 9, un uomo anziano, affetto da varie patologie appena trasferito in condizioni gravi da un altro ospedale, se ne va per sempre. Anna non fa in tempo neanche a realizzare, perché sta lavorando nell’altro corridoio. Bisogna avvertire i parenti, chiamare l’obitorio, preparare il trasferimento della salma. Prima però le infermiere che hanno in carico la stanza stendono un lenzuolo. Serve a non rendere visibile il letto della persona deceduta al paziente ospitato accanto a lui finché non arriva la cassa dove comporre la salma.
Il resto dell’attività va avanti. L’assistenza agli altri malati non viene interrotta neanche per un momento. “Ci sono però morti che non dimentichi – racconterà Anna più tardi, una volta arrivata a casa – Come quella donna che se ne è andata pochi giorni fa nella stanza dove era ricoverata con il marito. Erano stati messi insieme per aiutarli, perché si sostenessero a vicenda. È stato lui ad avvertirci, a dire che probabilmente la moglie non c’era più perché aveva smesso di sentire il suo respiro. Non so, in quel momento ho pensato che forse non è sempre la cosa migliore tenere insieme i parenti dentro un ospedale”
La morte può essere un presagio. O un annuncio di fronte al quale mentire. “Capita che ci rimandino indietro i pazienti dalla terapia intensiva perché non possono trattarli, perché troppo fragili per essere intubati. E purtroppo, spesso, sono malati ancora coscienti, che parlano con noi tranquillamente del futuro e di quello che vorrebbero fare fuori da qui. È drammatico avere davanti una persona, una nonna che ti dice di non vedere l’ora di tornare a casa dai suoi nipotini, e sapere che l’hanno spostata da noi per accompagnarla verso la morte visto che in terapia intensiva non possono fare più niente per lei”.


9.30. I medici

Tra infermieri e medici non c’è competizione. Il lavoro è in parallelo. E lo si capisce anche visivamente, quando il primario Marco Masina e il dottor Stefano Gagliardi, un chirurgo prestato all’infettivologia per l’emergenza, entrano in reparto. Hanno anche loro il carrello con sopra un registro. Uno sta fuori, Masina, l’altro entra con le protezioni a visitare i malati. Qualche metro più in là, le infermiere. Li precedono nelle stanze e anche loro fanno avanti e indietro con le terapie. In certi casi dialogano, magari sul cambio di un farmaco per un malato o su un prelievo da eseguire velocemente. Il medico indica cosa fare ma accetta il consiglio dell’infermiera e chiede il suo parere.“Questa era la mia Geriatria – dice Masina – nel giro di pochi giorni, in autunno, è diventata un reparto Covid, così come praticamente tutto il resto dell’ospedale. Abbiamo di fronte un’unica patologia con le sue manifestazioni sempre uguali, anche se i pazienti poi possono soffrire di altre malattie che li rendono unici. Per questo è necessario leggere spesso i parametri come l’ossigenazione del sangue. Sono gli infermieri a rilevarli e sarebbe impossibile non lavorare in stretta collaborazione con loro”.
Masina racconta di quanto rapidamente quello di Bentivoglio sia diventato un ospedale Covid (salvo la maternità che è ancora aperta). “Non siamo più nel periodo in cui le dimissioni erano meno degli accessi ma ci vorrà ancora tempo per uscirne”, dice. Da quando è iniziata la pandemia Bentivoglio ha seguito 896 persone infettate dal coronavirus. La gran parte di queste, 669, sono pazienti della seconda ondata. La malattia ha colpito più duramente in autunno. E solo in questi mesi l’ospedale, che fa capo all’azienda sanitaria di Bologna, è stato dedicato tutto a curarla, chiudendo anche quelle attività destinate agli altri malati che erano rimaste in piedi tra marzo e l’inizio dell’estate.

11.15. Fuori dalla tuta, ma per poco

“Finalmente”. Anna è fradicia di sudore. Lentamente inizia a togliersi la tuta e le altre protezioni, nel tratto di corridoio destinato alla svestizione. Ci vuole tempo, bisogna evitare contatti con gli indumenti da eliminare. Ha quasi finito quando prende il disinfettante per le mani e lo spalma fino al gomito, poi la collega le spruzza quello spray sugli zoccoli di plastica. Anche se erano protette dai gambali è necessaria una passata di sicurezza.

“Tutto questo lavoro, questa attenzione alle regole… Ma il Covid l’ho preso lo stesso. Il 13 novembre ho avuto i primi sintomi”. Già, il reparto non è stato risparmiato dalla pandemia. Molti infermieri e anche medici e operatori socio sanitari tra la prima e la seconda ondata sono risultati positivi. Qualcuno è rimasto fuori per settimane e sono stati mandati rinforzi da altre strutture. In tempi di Covid ci si trova spesso a lavorare con colleghi che non si conoscono. “Quando ero in maternità guardavo la tv, parlavo con le mie compagne e avevo paura di rientrare perché temevo di prendere il virus e passarlo al mio bambino appena nato. Ho detto: appena ricomincio starò molto attenta. Niente da fare, l’ho preso lo stesso. Per fortuna non si è trattato di una forma grave. Ho avuto un po’ di raffreddore, e soprattutto non l'ho attaccato a mio figlio e nemmeno a mio marito. Il tampone positivo lo ha avuto solo la bimba, che ha 7 anni, e non è andata a scuola per un mese. Ho avvertito tutte le mamme sulla chat di Whatsapp e siamo rimaste a casa insieme per un po’ di tempo”.
Il virus non fa distinzione. La Fnopi, che è la federazione nazionale degli Ordini degli infermieri, ha contato 40mila professionisti contagiati come Anna. Si tratta del 22% del totale di quelli impegnati contro il Covid. Un numero altissimo, che ogni giorno cresce. Trecento nuovi casi positivi ogni 24 ore, secondo le stime Inail.
“Cosa ho pensato? Che siamo come tutti gli altri – dice Anna mentre indossa di nuovo il suo pile e si dirige verso il box – Più che per noi, che comunque siamo abbastanza giovani, abbiamo paura per i nostri cari. Ma questo non basta a evitare il contagio. Anche i miei genitori hanno preso il coronavirus. Mio padre è ancora in quarantena, spero che la Asl lo liberi presto”.
Dopo il cambio non c’è nemmeno tempo per un caffè, giusto un sorso d’acqua. I ritmi di lavoro sono alti. Si torna nella stanza dei farmaci a preparare le terapie. “Eh, mica abbiamo finito qui, a mezzogiorno si riprendono i parametri, si fa l’insulina e qualche farmaco”. Prima però c’è da scrivere. A Bentivoglio e in buona parte delle strutture dell’Emilia-Romagna non è ancora arrivata la cartella elettronica (ormai presente in altre Regioni) e una parte importante del lavoro degli infermieri consiste nel riempire i registri. Con la faccia ancora segnata da mascherina e cappuccio si afferra la penna e si segna tutto quello che è stato fatto a ogni paziente sulla sua cartella. “Bisogna documentare tutto, perché quello che non scrivi è quello che non fai. Poi va segnato se manca qualcosa. Ad esempio, capita che oggetti personali, come le dentiere, vadano perduti”.
In mezzo al trambusto, c’è una giovane infermiera che praticamente non molla mai il telefono. È Laura e si occupa dei trasferimenti, dei ricoveri, delle dimissioni e di chiamare i parenti a casa. “Senta, noi tra un paio di giorni dimetteremmo suo padre. Avete bisogno dell’assistenza a domicilio? Volete che avvii le pratiche per l’esenzione?”. Assicurarsi che i malati vengano seguiti anche dopo è fondamentale per un servizio sanitario che funziona.
“Siamo qui apposta, per rispondere ai bisogni delle persone, per affrontare anche problemi che potrebbero apparire piccoli – dice Anna – Ad esempio ci occupiamo dell’educazione sanitaria a domicilio, cerchiamo di essere presenti anche dopo. Quando gli anziani vanno a casa vengono addestrati alle terapie, si cercano di formare anche i familiari, si attivano se necessario i servizi sociali. Il nostro lavoro è bello quando ti rendi conto di essere utile alle persone non solo nei giorni in cui sono costrette a stare qui dentro”


12.30. Di nuovo nella tuta

Cibo e farmaci. Il lavoro da fare sembra non finire mai. Anna è di nuovo dentro. Convince “6 porta” a mangiare. Almeno qualcosa di morbido come una purea di patate, e intanto ricontrolla il dosaggio dell’insulina. È stanca ma non nervosa, al contrario di alcune colleghe che non ne hanno più. “Ah, certo. È a casa che poi mi arrabbio. E poi ormai siamo quasi alla fine del turno”. Questa è uno dei momenti critici nella vita del reparto, perché sarebbe l’ora delle visite, abolite in tutti gli ospedali italiani causa Covid. Ne sentono tutti la mancanza, operatori e pazienti. Il virus ha tenuto i malati distanti dai loro cari, un cambiamento epocale e dai risvolti psicologici pesanti e ancora da esplorare del tutto.
Benedetta Mosca si è fatta ritrarre dal tatuatore in tenuta da infermiera

Benedetta, qui dentro, è una delle più esperte. Ha anni di professione alle spalle e conosce bene le esigenze dei malati. Per questo è angosciata. “Vedere queste persone così, sole, è molto difficile. Stiamo vivendo un’esperienza devastante. Facciamo di tutto per aiutarle a comunicare con chi sta fuori. Portiamo i tablet e i cellulari agli anziani che non li sanno usare e facciamo le videochiamate ai loro familiari. È sempre toccante vedere chi sta male mentre cerca di tranquillizzare chi è a casa”.
A volte le infermiere fanno da tramite, prendono loro le telefonate. Come quella del padre che ha appena scoperto che il figlio è tornato positivo dopo un paio di tamponi negativi. Probabilmente a Natale non potranno stare insieme. Va invece meglio a uno dei più giovani ricoverati che tutti chiamano per cognome, Mosca. È un quarantenne che si affaccia dalla stanza con la flebo ancora attaccata. È contento, ringrazia, si prende le prescrizioni per la terapia da portare a casa. Ha ancora la tosse ma comunque è negativo e le sue condizioni sono buone. Lui le feste le potrà trascorrere con i suoi parenti e ha parole di ringraziamento per chi si è occupato di lui. Alle 13.16 Anna finalmente si sveste per la seconda volta. Adesso è davvero stanchissima. “Ma non è finita, ci sono da passare le consegne alle colleghe”.
Il rito si ripete. Ci si incontra tutti dentro la stanza dei computer e si ricominciano a discutere i casi. Si parla di nuovo di “4 porta”, “11 finestra” e di tutti gli altri. Uno a uno i pazienti vengono inquadrati e descritti. Anna ascolta e pensa già a quello che troverà a casa. Chissà se suo marito è riuscito a lasciarle il pranzo. “Intanto va bene se sono ancora tutti vivi dopo tutto questo tempo da soli”, scherza. Saluta le colleghe, entra in ascensore, va a cambiarsi e esce nel parcheggio. Il cielo non è più coperto ma di ore di luce prima che torni a fare buio ne sono rimaste poche.
 

Anna Fratullo a fine turno sta per passare le consegne alle colleghe del pomeriggio


14.30. Mamma!

La casa è in una palazzina bianca di una zona residenziale del paese. Anna abita al primo piano. Parcheggia l’auto nel cortile e sale l’unica rampa di scale. “Mamma!”. Un solo urlo di bambina. Secco. Tutti gli sguardi che si voltano verso la porta. Sì, è tornata mamma. Sara, 7 anni, è a gattoni sul divano. Davide siede per terra con dietro il padre, che lo tiene sotto controllo. Davide ha bisogno di stare un po’ in braccio. Sara, invece, vuole raccontare qualcosa di solo suo. Un segreto. Il marito Daniele, 48 anni, è stravolto dalla mattinata passata insieme ai figli. “Abbiamo giocato tanto”, sintetizza. Oggi è sabato ed era libero dal lavoro nell’azienda che collauda macchine per il lavaggio a secco.
“Se non ci fosse mia mamma durante la settimana sarebbe un bel problema, non so come farei – dice Anna – Quando io parto all’alba, lei arriva prima che mio marito esca per portare la bimba a scuola e andare in azienda. È ancora giovane, ha 60 anni, è in gamba. La madre di mio marito invece ha più di novant’anni e ha cresciuto sei figli e un numero imprecisato di nipoti. Sta bene e vorrebbe tenere anche lei Davide ma non ce la sentiamo. È un impegno troppo pesante”. Davide è vivace. Saltella di qua e di là. Tocca tutto, anche lo stereo del padre, un po’ affranto dal trattamento che quei ditini riservano alle sue cose.


Si mangia. Anna non sembra aver sofferto la fame in mattinata e anche adesso non è vorace. Va sul leggero: due toast con il prosciutto (“cavolo, abbiamo finito il formaggio”) e un bicchiere d’acqua. “Il vino lo bevo stasera”. Lei e il marito in questo periodo hanno il cruccio della casa, dove abitano dal 2007. Vorrebbero cambiarla, trovarne una un po’ più grande a un piano terra e con il giardino. L’appartamento sarà 90 metri quadri, la stanza d’ingresso è anche salotto e cucina. Il problema sono le due camere da letto. “Troppo poche. Per i bimbi una non basta. Maschio e femmina, quando lei crescerà non lo vorrà tra i piedi. Sarà difficile farli stare insieme ancora per molto”. In effetti già adesso fuori dalla porta ci sono due cartelli con il nome Sara e dentro i giochi appartengono tutti a lei. Niente fa pensare al piccoletto, che dorme ancora nel lettino nella stanza dei genitori.
“Con il mio lavoro guadagno 1.600 euro al mese. Ho visto che la paga con il secondo figlio è un po’ salita ma non ho la prospettiva di grosse progressioni – dice Anna – La mia caposala dice sempre che prende un paio di centinaia di euro in più per avere tutte le responsabilità dell’organizzazione. Ma questo è il lavoro che mi piace e mi dà soddisfazione”. Il rapporto con i vicini è buono, forse anche perché siamo in un paese. Non ci sono stati episodi di intolleranza nei confronti di Anna per il lavoro che fa, come invece è successo altrove ad alcuni suoi colleghi. Niente cartelli sgradevoli, niente commenti sottovoce mentre passa.
“Quando mi sono ammalata di Covid nessuno ha detto niente, anzi si sono offerti di darci una mano. Qui non c’è il clima di sospetto per chi fa il mio lavoro che hanno dovuto subire altri. Sono cose che ho visto solo in tv”. Interviene Daniele. “Anzi. Qualcuno approfitta del fatto che Anna sappia fare le punture, quando ha bisogno la chiama. La sua presenza li tranquillizza”.

Damiana Barsotti, infermiera del reparto di malattie infettive dell'ospedale San Luca di Lucca, lo scorso aprile ha trovato questo biglietto nella cassetta delle lettere

Le città non piacciono molto a Daniele. Preferisce starsene nel suo paese, dove fa parte dell’associazione di volontariato dei donatori del sangue. Pure quando si parla di cibo non ha voglia di viaggiare. “Lei no, lei ogni tanto mi propone quei ristoranti etnici ma a me non piacciono, sono più sulla cucina tradizionale, da trattoria”. Il bambino si è svegliato e reclama la mamma. Si riparte con giochi.

 19.30. Serata tigelle

Farina, strutto, lievito e acqua. È serata di tigelle e salumi. “Non cucino spesso, non ho molto tempo. Però quando mi ci metto sono abbastanza brava ed è divertente”. L’impasto è pronto e va steso e tagliato. Per cucinare i piatti tipici bisogna prima guardare come li fanno gli altri e poi provarci un po’ da soli.“Anche a fare l’infermiera non si impara soltanto frequentando l’università. Ci vuole pratica, osservazione dei colleghi. Si cresce soprattutto facendo e può volerci molto tempo. Ad esempio ci ho messo un bel po’ a capire come affrontare i prelievi”. In salotto è appesa la pergamena della laurea in infermieristica. La data è 28 aprile 2005, a quel tempo Anna non poteva immaginare come sarebbe stato il lavoro. “Duro, ma stimolante. L’ho detto, mi piace aiutare le persone. Tutto parte dal contatto con il malato, dal desiderio di soddisfare un bisogno primario come la ricerca della salute. Siamo utili in un momento di grande necessità. Poi mi piace il confronto con i colleghi e il lavoro di équipe, che è una cosa fondamentale quando la mia professione viene svolta in ospedale”.


In casa di un’infermiera non si discute tanto di virus più o meno letale, di curve epidemiche e rimedi farmacologici. Le sfide televisive tra epidemiologi (veri o presunti), virologi, infettivologi e anestesisti, le polemiche, le uscite bizzarre e i richiami a rispettare il metodo scientifico sono come un rumore di fondo, distante, di cui spesso si fa a meno. “Beh, qualche volta i programmi tv nei quali si parla della pandemia li guardo. Non tantissimo perché alla lunga mi mettono addosso l’ansia. E io quando ero a casa pensavo soprattutto a rientrare al lavoro nel modo più sereno possibile”.
Anna ha ripreso a lavorare dopo la maternità alla fine della prima ondata. “Quando è arrivata la seconda sono rimasta un po’ delusa perché non ci hanno fatto molta formazione. Ci hanno comunicato da una settimana all’altra che avrebbe aperto il reparto Covid e ci hanno spiegato come vestirci e svestirci. Tutto il resto lo abbiamo imparato sul campo in questi mesi, dalle terapie a come si fanno le dimissioni dei malati”.
 

22.30 Buona notte

Domani, Anna fa la notte, entrerà alle 19.30. “È il turno in cui possono passare ore durante le quali non si è molto impegnati. Però poi arriva improvvisamente la scarica di adrenalina per un problema grave e resti sotto pressione fino alla mattina. Il giorno dopo di solito torno a casa verso le 9 e mi metto a dormire fino al primo pomeriggio”. 



Visto che domattina è libera ne approfitterà per comprare i regali. Sara ha chiesto a Babbo Natale una Barbie snodabile e il Monopoli. “Al piccolo prendo un orsacchiotto che si muove tutto. Mio marito? Non mi dice cosa desidera e vado sempre in crisi. Magari un capo di abbigliamento. Non mi butto sulla tecnologia perché non mi va mai bene in quel campo. Io invece ho chiesto il mio profumo preferito”.


concludo condividendo     un altro commento

10 ore fa
Pier Luigi Furlanetto

il nostro paese va avanti per il lavoro di queste persone che semplicemente fanno il loro lavoro. Semplicemente dice tutto, è una parola importante...Chi nega la realtà non solo della scienza, ma questa realtà così semplicemente narrata andrebbe condannato a passare una giornata vicino a un infermiere, non vicino a un virologo. Chi rifiuterà di vaccinarsi dovrebbe essere condannato a pagare per le cure che questi infermieri gli daranno.