Funzionava come segue. Il dirigente chiedeva della procedura alla segretaria, la quale domandava a noi estranei, che a parte le giravamo la risposta, in maniera che gliela ponesse alla firma e poi ce la mandasse. Andò avanti così, credo per alcune settimane.
Con Gigi eravamo i creativi della situazione, ridevamo di questo circuito maldestro e ci promettevamo, un giorno, di raccontarlo in qualche modo. Tutto vero. Non posso qui svelare ulteriori dettagli del gioco, che indica un’alterazione del sistema, nella fattispecie corretta da perfetti esterni. Qui non mi soffermo sul moto imprevedibile degli elettroni. Tuttavia in qualsiasi meccanismo naturale esistono variabili che
smentiscono le leggi di ogni scienza, eppure concorrono alla regolarità dei fenomeni.
Aggiungo che non ci guadagnavamo alcunché, ci piaceva soltanto constatare che lì c’era un certo caos permanente, uno squilibrio che potevamo risolvere a vantaggio della collettività. Ne avevamo i mezzi e le competenze. E non commettevamo reato né prendevamo punti al cospetto di qualcuno. Era tutto riservato, da romanzare all’occasione. Come la storia divertente della nostra appartenenza ai Servizi, frutto di invenzioni altrui che continuiamo ad alimentare per un motivo preciso: vi è chi le propina e dilata a piacimento, sempre con stupidi pretesti. Ad esempio utilizzando la fesseria delle «fragole» che «sono mature», la quale non significa alcunché ma diventa, non di rado, elemento di prova per bollarci come agenti coperti, perfino possibili implicati nell’affare del «dossier Mitrokhin».
Paolo ripeteva che «in Calabria la realtà supera la fantasia». Ed è innegabile, se rammentiamo la vicenda delle dimissioni di Cotticelli e la parte televisiva dell’ormai famosa «Maria»; se riesumiamo argomentazioni della pubblica amministrazione da «Codice calabrese», che avrebbero suscitato l’interesse di Dan Brown, se non fosse stato per il carattere grottesco e selvaggio dei loro autori.
Un giorno, presente il deputato Sapia, dissi a un capoccione della sanità nostrana che aveva scritto una «supercazzola brematurata». Fui assalito dalla sua reazione impulsiva, avevo centrato il bersaglio. Il tizio mi replicò che non potevo permettermi di usare un simile linguaggio nei riguardi di un rappresentante delle istituzioni. Gli risposi che non aveva colto l’alto riferimento cinematografico, cioè «Amici miei» di Mario Monicelli, ideale per prenderci meno sul serio, sul presupposto che la vita di ciascuno non possa ridursi alla maschera dell’ufficio, alla veste delle nostre abitudini quotidiane.
Venivo dalla mitica scuola del Difensore civico della Regione Toscana, quella del grande Fabrizio Gigli, l’inventore dell’«operazione andata a buon fine», di cui vi dirò più in là. In quella sede, a Firenze in via de’ Pucci, per alleggerire il peso dell’esistenza e della burocrazia, a volte coincidenti, con Vittorio e Andrea creavamo istanze di sana pianta: lettere protocollate in apparenza, cariche di doglianze per questioni private singolari. L’obiettivo era semplice: allietare i colleghi e concludere con sghignazzata collegiale. Il maestro Albinoni era un docente di musica che «faceva casino»: disturbava la quiete pubblica, per giunta nelle ore notturne. Allora un comitato (inesistente) di mamme di piccini si rivolse al difensore civico, perché intervenisse e costringesse lo stesso Albinoni, leader di una band multiforme amplificata, a suonare più adagio. Il comitato si chiamava, appunto, «per l’adagio di Albinoni». Fu incaricato di seguire la pratica il collega Caponi, che per diversi giorni venne stressato al telefono da un componente maschile del curioso organismo, il quale lo supplicava di chetare l’Albinoni, che provava fin dopo la mezzanotte, finanche pezzi interminabili dai ritmi balcanici. Ero io, in realtà, da un’altra stanza dell’ufficio. Con fitto accento della provincia fiorentina, rendicontavo al Caponi le prodezze di quei musicanti impertinenti. Finì che il dottor Fantappiè, il difensore in persona, canzonò il Caponi e lo scherzo ottenne l’encomio e il diritto di pubblicazione.
La cojonatura è preziosa, salutare, vitale. Sicché va promossa in ogni luogo, in ogni tempo.
Firenze, i decreti di Gigli erano inappuntabili. I loro «anche» e costrutti non lasciavano campo a critiche né scampo ai Controlli interni della Regione, tutti centrati sulle leggi, su quel corredo di norme e cavilli che serviva a bacchettare i dirigenti firmatari degli atti. L’Ufficio delle verifiche aveva un piglio, un’aura notarile. Restituiva le bozze con annotazioni puntuali da commentario. Pensavo che rappresentassero una lezione di autorevolezza e autorità, un vaglio di sistema che risparmiava tempo e fatica alla giustizia amministrativa e contabile.
Tuttavia i decreti di Gigli erano un genere a sé: la metafisica dell’atto pubblico nella forma e nel significato. Avevano una veste filosofico-letteraria che per molti versi snervava i lettori, perfino i più attrezzati. Richiamavano, quindi, i testi di Hegel e perfino la musicalità narrativa di Gadda, peraltro l’inventore del termine «cinobalanico», che indica l’organo di copula dello stallone canino.
I decreti di Gigli assomigliavano agli scritti giovanili di Cacciari, che nemmeno il grande Pareyson riusciva a comprendere, quand’anche assistito da Vattimo. Così arrivavano ai Controlli, sicché per gli addetti iniziava il pianto e lo stridor di denti. Sì, perché i decreti di Gigli spaziavano come le improvvisazioni del pianista Jarrett e quindi ritornavano alle note di partenza, secondo il canone del jazz. Chi poteva metterci mano, ritoccarli, sistemarli e anzitutto interpretarli?
Gigli, per noi soltanto Fabrizio, li concepiva in una stanza seminterrata, a metà tra il bunker e lo scantinato, senza finestre e dunque luci naturali. Lì c’era il suo mondo impenetrabile, popolato di memorie personali, posacenere zeppi di cicche di sigarette col filtro masticato e umido di saliva, spettri della storia occidentale, relazioni dell’attività del difensore civico della Regione, carte varie ammucchiate e sparse, ricordi stipati della toscanità verace di stampo livornese. Quando entravi, eri assalito da un senso di confusione e smarrimento, come fossi lungo la A22 all’alba di metà dicembre, tanto il fumo perpetuo delle Diana Blu del Nostro aleggiava in quella camera isolata di Palazzo Pucci, opera di Bartolomeo Ammannati.
Fabrizio viveva lì, dalle 6 del mattino almeno fino alle 19. Era il primo ad entrare, l’ultimo a uscire. Giacca blu, camicia a quadri o bianca o azzurra, pantalone grigio chiaro, portava nel volto tinteggiato dalla vitiligine i segni del suo travaglio compositivo ed esistenziale, che domava con l’attaccamento al lavoro e ironia ineguagliabile, scandita dall’intercalare «boia de’», seguito da risata goffa soffocata da meccanica sordina. In quella specie di prigione senza sbarre, Fabrizio fabbricava i suoi decreti, ritoccava discorsi ad uso altrui e si compiaceva del suo ruolo aggiunto di ghostwriter. Poi saliva su, dispensava lezioni di forma e trucchi del mestiere di scrittore della P.A. e delle istituzioni, raccontava aneddoti e all’improvviso veniva interrotto dal difensore civico dottor Fantappiè, che lo convocava di corsa nel suo ufficio, oppure da una telefonata della moglie Ira o della figlia Naira.
Un giorno dell’afosa estate del 2000, c’era una riunione delicata sulla nomina di un commissario ad acta. Fantappiè era assente per ferie; Andrea, che si occupava di queste pratiche, stava riferendo della sua istruttoria a Fabrizio. Vittorio, con la pipa spenta nella mano destra, rifletteva sulle questioni riassunte.
Tra la calura del momento e l’attesa fissa delle vacanze d’agosto, si era creata un’aria piuttosto pesante. Attorno a un lungo tavolo rettangolare c’erano anche Angela, che prestava consulenza all’ufficio, e Francesco, il saggio della “compagnia”. Entrai per chiedere se volessero un caffè, visto che avevamo una magnifica dispensatrice a moneta. In quel preciso istante, passarono a Gigli una telefonata straordinaria, più preziosa di un acquazzone che riossigena le città nella morsa dei 40 gradi.
Era Ira, che urlava con rabbia indomabile, tanto da costringere Fabrizio ad allontanare la cornetta. Lamentava d’aver patito «un’ingiustizia terribile», una specie di truffa, stando all’esposizione dei fatti. La donna seguitava a ribadire la gravità della vicenda, con divagazioni sul rispetto delle regole, sulla debolezza dei consumatori e sull’esercizio del commercio. Gigli rimase zitto e non interruppe quel ragionamento da Forum che procedeva per massime e legittime imprecazioni. A un certo punto, però, chiese di parlare con Naira, che stava accanto a Ira e ne sosteneva le ragioni. La giovane replicò gli argomenti e i toni della mamma, al che Fabrizio sentenziò: «Boia de’!». Poco dopo il nostro dirigente pregò di interloquire con Ira, ancora più adirata per via dello sfogo della figlia, che evidentemente riteneva incompleto.
Fu qui che la risolutezza di Fabrizio ebbe la meglio. Infatti domandò alla signora Ira che cosa avesse acquistato al supermercato. «Quattro cocomeri», scandì lei più rasserenata, però specificando che due erano «passati, immangiabili». Come uno scacchista russo, Fabrizio trovò la mossa vincente: un lampo di genio. «Quattro cocomeri, due buoni e due guasti. Allora, Ira, almeno il 50% dell’operazione è andata a buon fine. Prendila così!».
Ho voluto ricordare questo episodio ad oltre 20 anni di distanza. L’ho reso di dominio pubblico, per necessità, condivisione, affetto. La pandemia non era neppure ipotizzabile. Nemmeno, forse, dalla fantasia incontenibile di Gigli, che da lassù starà ridendo nella sua stanza privilegiata, certamente non più sotto il livello del piano terra.