SALVIAMO LA COSTITUZIONE, le ragioni di un NO
di Antonio V. GELORMINI
di Antonio V. GELORMINI
Charles Louis de Montesquieu nella sua idea di stato moderno aveva fatto ricorso alla metafora della diligenza per rappresentare e affermare la dottrina della separazione e dell’indipendenza dei tre poteri fondamentali dello stato: il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario (i cavalli trainanti), equilibrati, coordinati e influenzati dai vari organi previsti nella prassi costituzionale di ogni nazione civile (le redini, le briglie e i finimenti).
L’assalto alla diligenza di Montesquieu è stato poderoso e irresponsabile, col rischio di avere effetti davvero devastanti sugli equibri complessivi della Carta Costituzionale. L'hanno chiamata riforma “federalista” per non dare nell’occhio e non mettere paura. In realtà, il testo votato dall'allora maggioranza cambierebbe radicalmente i connotati alla nostra Costituzione.
Certo la Costituzione italiana, nata in un contesto caratterizzato da equilibri di natura proporzionale, avverte oggi la necessità di interventi per adeguarla e “aggiornarla” a una nuova e ben diversa realtà, dove un sistema maggioritario, sebbene incompiuto, ne evidenzia gradualmente limiti e distonie.
Al tempo stesso, ciò che la rende forte e inossidabile è la sua intrinseca modernità: frutto della lungimiranza dei Padri fondatori, che dopo aspri scontri e animatissime discussioni, durati circa un anno e mezzo, seppero trovare i percorsi d’incontro necessari a darle forza politica e alto spessore nei contenuti; approvandola a stragrande e qualificata maggioranza, con soli 60 voti contrari su 556.
Se Mortati, Barile o Calamandrei hanno dedicato interi capitoli dei loro trattati a questo argomento, è perché la nostra è una Costituzione giovane e dopo circa 60 anni, gran parte del disegno abbozzato nei suoi principi generali resta ancora tale e non è stato ancora realizzato. Esso, pertanto, va completato, magari aggiornato, certamente non distrutto.
Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, nel suo saggio breve edito dal Il Mulino – La Costituzione, 2004, ci ricorda che: “Nelle civiltà umane le leggi scritte si rivolgono dapprima e essenzialmente agli individui, ai soggetti, ai sudditi di coloro che esercitano l’autorità nella società. Sono l’espressione dell’autorità. Esse stabiliscono gli obblighi dei soggetti e fissano le sanzioni per coloro che li trasgrediscono”. E continuando nell’analisi-confronto aggiunge: “Le moderne Costituzioni, invece, vengono scritte per fissare i limiti al potere di chi comanda, per definire le condizioni e i modi in cui l’autorità deve essere esercitata e per fissare i diritti dei soggetti nei confronti dell’autorità, che non può legalmente violarli”.
Alla luce di queste considerazioni “illuminanti”, diventa ancora più devastante il tentativo di manomissione della Carta fondamentale della Repubblica. La riforma, sottoposta ora al quesito referendario, definisce una nuova forma di governo, modifica la forma di stato, cambia la struttura del Parlamento, assegna nuovi poteri agli organi di garanzia.
Con la riscrittura di ben 53 articoli, la Carta ne esce stravolta, lacerata e geneticamente modificata. Con il testo approvato nulla sarà come prima. Basterebbe pensare a cosa significa concretamente avere una situazione in cui non è più il Parlamento che sfiducia il capo del governo, bensì il capo del governo che sfiducia il Parlamento. Oppure pensare a cosa vuol dire un sistema in cui è il voto che fa aggio su tutto: chi è eletto non deve avere contrasti in Parlamento e nemmeno giudici in tribunale perché è stato eletto dal popolo.
Col rafforzamento dell’esecutivo, così come è concepito nell’attuale proposta, ci spiega Francesco Paolo Casavola – altro presidente emerito della Corte Costituzionale: “Si consolida una prassi preoccupante, viene meno la separazione tra potere esecutivo e legislativo, si scivola verso il governo personale. E il parlamento fa il sarto su misura”.
E poi aggiunge: “Un presidente del consiglio responsabile di un indirizzo politico, non può diventare di fatto il titolare dell’azione legislativa, il cui 80-90% è del governo, che chiama poi il parlamento ad una mera azione di ratifica. Anche il Capo dello Stato, con questa riforma, viene ad avere una funzione puramente notarile, se gli si toglie la decisione sullo scioglimento delle camere, si aggrava lo stato di onnipotenza del premier”.
Un potere riservato al Capo dello Stato presente anche nelle tradizioni delle moderne monarchie, dove il re scioglieva i parlamenti che non funzionavano, ma dove il re non era un giocatore in campo. Tale potere di scioglimento se non resta tra le prerogative di una figura di garanzia, diventa in pratica potere di intimidazione.
La Costituzione per sua natura non è di destra o di sinistra, e la nostra è ed stata per più di sessant’anni la casa di tutti gli italiani. Stiamo parlando di una legge fondamentale, della carta dei valori di fondo, dei diritti di tutti e delle regole per tutti. Parliamo di un testo, quindi, che proprio per questo fu voluto dall’Assemblea dei Costituenti “comprensibile”, leggibile nelle scuole o da chi non ha nozioni di diritto.
Sempre Valerio Onida ci ricorda che la nostra Costituzione “è scritta in un italiano scorrevole ed elegante” e il testo finale, redatto da gente che aveva studiato molto, venne sottoposto all’esame di un gruppo di letterati per renderlo ancora più accessibile all’opinione pubblica. Anche il linguaggio, d’altronde, è un termometro per misurare una vocazione democratica.
Prendiamo l’articolo 70, quello che riguarda la formazione delle leggi. Nel testo originale del ’47 sono due righe: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due camere”. Si capisce tutto. Non c’è bisogno di tante spiegazioni. Non possono esserci equivoci.
Il nuovo articolo 70, scaturito dalla riunione dei 5 saggi di Lorenzago, è composto da 102 righe. Una montagna di parole, con concetti che rimandano altrove, frasi che giocano a rimpiattino, periodi che inciampano. Un italiano da azzeccagarbugli in una logica da prontuario ad uso dei condomini.
La cosa non è di poco conto e il pericolo che incombe è veramente grande nonché preoccupante. La Cdl, facendo a pezzi la Costituzione, ne ha assegnato un pezzo a ciascuna sua componente. La Lega si è presa la devolution e An si è presa la clausola dell’interesse nazionale, che in mano a un governo centralista può ridurre ai minimi termini l’autogoverno locale. La stessa An e Berlusconi hanno poi introdotto in questa riforma una inaudita concentrazione di poteri in capo al primo ministro che, per dirla con una battuta, finirebbe per avere tutti i poteri che hanno Bush e Blair messi insieme, ma senza nessuno dei limiti e dei contrappesi che regolano negli Stati Uniti il potere del primo e in Gran Bretagna quello del secondo (F. Bassanini).
Diritti, libertà dei cittadini, regole democratiche non possono essere appannaggio del vincitore delle elezioni, in tal modo si rischia una dittatura della maggioranza o addirittura la dittatura di un uomo solo. La “zeppa” del referendum è l’ultima occasione per fermare questo ingranaggio impazzito. Bisogna fermarsi e azzerare tutto.
Perché non siamo affatto certi che alla fine del processo riformatore nato a Lorenzago di Cadore si ritrovino, vivi ed operanti, i valori di quella eguaglianza democratica, di quella liberazione progressiva e di quello spirito di solidarietà che hanno fatto della Carta del ’47 la casa di tutti gli italiani.
Restituire la Costituzione agli italiani. Questo sarà l’obiettivo del prossimo referendum. Essa costituisce un patrimonio che non può essere disperso, così come non può essere dispersa la memoria storica che ne testimonia il valore e consente di trasmetterlo di generazione in generazione. Ne siamo tutti consapevoli e sapremo farne tesoro anche per il nostro futuro.
Un compito arduo, come afferma Leopoldo Elia, ancora un presidente emerito della Corte Costituzionale, “in un’Italia cloroformizzata dalla congiura del silenzio della grande stampa e distratta dall’elusiva informazione radiotelevisiva”.
Questa Costituzione fu il frutto di un grande “compromesso” che dette vita a un Ordinamento giuridico fondato sul “lavoro” (art. 1 della Costituzione). Il lavoro non inteso come “astrazione collettiva”, bensì quale “valore costituzionale essenziale”. Il “fondamento” sul lavoro sta ad indicare, secondo V. Onida, il valore che la Repubblica attribuisce all’apporto del lavoro di ciascuno (secondo le proprie capacità, e le proprie scelte – art. 4), in luogo di altri fattori in passato determinanti, come la nobiltà di nascita o di ricchezza, ai fini del ruolo sociale dell’individuo.
Basterebbe solo questo a motivare un grande plebiscito referendario, capace di spazzare via ogni velleità revisionistica della legge fondamentale della nostra Repubblica.
Diciamo quindi NO a questo tentativo di riforma, per avviarne poi uno più condiviso e più equilibrato. Sbagliare la riforma della Costituzione, significa sbagliare senza rimedio la vita stessa del Paese. E questo, davvero, non ci è consentito.
fonte: www.wema.it
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