La
scorsa settimana, come ogni anno, sono riprese su Rai 1 le puntate di “ Ulisse il Piacere della
Scoperta” di Alberto Angela, la prima puntata e stata dedicata a Roma ed agli imperatori
che si sono succeduti e di quanto sia stato importante il loro operato per la città di Roma e l’Impero.Tra
i tanti imperatori ho scelto di parlare dell’imperatore Adriano.
Da
Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Publio Elio Traiano
Adriano, noto
semplicemente come Adriano (in latino: Publius Aelius
Traianus Hadrianus; Italica, 24 gennaio76 – Baia, 10 luglio138),
è stato un imperatoreromano, della dinastia degli imperatori
adottivi, che regnò
dal 117 alla sua morte. Successore di Traiano, fu uno dei "buoni
imperatori" secondo lo storico Edward Gibbon. Colto e appassionato ammiratore
della cultura greca, viaggiò per tutto l'impero e valorizzò le province. Fu
attento a migliorare le condizioni dei militari. In Britannia costruì un vallo fortificato, il Vallo di Adriano. Inaugurò una nuova strategia
militare per l'impero: all'espansione e alla conquista sostituì il
consolidamento dei confini e della loro difesa. Mantenne le conquiste di Traiano, a parte la Mesopotamia che assegnò a un sovrano vassallo. Il
suo governo fu caratterizzato da tolleranza, efficienza e splendore delle arti
e della filosofia. Grazie alle ricchezze provenienti
dalle conquiste, Adriano ordinò l'edificazione di molti edifici pubblici in
Italia e nelle province, come terme, teatri, anfiteatri, strade e porti. Nella
villa che fece costruire a Tivoli riprodusse i monumenti greci che amava di più
e trasformò la sua dimora in museo. L'imperatore lasciò un segno indelebile
anche a Roma, con l'edificazione del Mausoleo, la Mole
Adriana, e con la
ricostruzione del Pantheon, distrutto da un incendio. Sulla
sua vita la scrittrice Maurguerite Yourcenar scrisse un libro
intitolato le “Memorie di Adriano”
Recensione
di Daniela Bionda
Si tratta di un libro in forma
epistolare, dove un Adriano malato e stanco, sapendo di non poter guarire,
scrive una lettera di "memorie" a suo nipote Marco Aurelio. Una
lettera, a tratti nostalgica, in cui l'imperatore ripensa alla sua vita
"politica", ricordando il percorso che lo ha portato al potere, alle
sue conquiste, alle imprese come la costruzione del Vallo che porta il suo
nome. "Privata", caratterizzata dalla sua passione per la caccia, le
lunghe cavalcate, il nuoto. Un Adriano che si diletta di astrologia, poesia e
filosofia, della conoscenza della cultura e lingua greca. Un inno alla vita ed
all'amore, come quello che nutre per il suo amato Antinoo. Un racconto dove la scrittrice,
sapientemente, crea una sorta di legame intimo tra il lettore e l'imperatore.
da https://www.tp24.it/ del 25\4\2021 Sta spopolando in queste ore il video di Oriana Civile, speaker e conduttrice radiofonica siciliana, che ha abbandonato il suo programma perchè non le hanno concesso di parlare del 25 Aprile. "Se non posso parlarne allora sono nel posto sbagliato". La sua trasmissione, che va
in onda due ore al giorno dal lunedì al venerdì su una radio locale di Capo d’Orlando, Radio Italia Anni ’60. In un video pubblicato su Facebook annuncia che quella di ieri era la sua ultima puntata “Spazio Civile”, questo il nome del programma, in cui ha denunciato la censura sulla festa della Liberazione. “Era un argomento che avrebbe troppo politicizzato la trasmissione. Mi hanno detto che potevo farne un accenno ma non più di 15 minuti perché troppo politicizzato”. Una limitazione inaccettabile, e ingiusta, che ha portato la giovane speaker a chiudere il microfono.
dal il IFQ stessa data
“Se non posso parlare di 25 aprile allora sono nel posto sbagliato e sono soprattutto la persona sbagliata per questo posto”. Oriana Civile, speaker e conduttrice radiofonica,è sicura, la sua trasmissione, che va in onda due ore al giorno dal lunedì al venerdì su una radio locale di Capo d’Orlando, Radio Italia Anni ’60, non andrà avanti perché non ha potuto parlare del 25 aprile.
“Due ore in cui parlo un po’ di tutto. Ogni giorno scelgo un argomento e lo sviluppo. Parlo soprattutto di musica tradizionale siciliana, di cui sono esperta. Ma ho parlato di legge Zan, oppure di Francesco Lo Sardo, mio concittadino primo comunista alla Camera”, spiega lei al Fattoquotidiano.it, dopo avere pubblicato su Facebook un video della sua ultima puntata di “Spazio Civile”, questo il nome del programma, in cui annuncia la fine della trasmissione e denuncia la censura sulla festa della Liberazione. “Era un argomento che avrebbe troppo politicizzato la trasmissione. Mi hanno detto che potevo farne un accenno ma non più di 15 minuti perché troppo politicizzato”, racconta. Ma Civile non ha accettato: “È inaccettabile che non possa parlare della Liberazione. E la mia non è una battaglia contro la Radio ma contro il sistema di informazione tutto, che con leggerezza liquida il 25 aprile come argomento di sinistra”. Per questo ha detto basta: “Sì, lascio la radio. Non posso accettare di non parlare di 25 aprile. Proprio impossibile”.
L’amore per la vita e per la terra. Partendo da queste due passioni è nata La campagna di Francesca, canale YouTube che se a giugno 2020 contava 1000 iscritti, a marzo 2021 è arrivato a quota 38.800. Un salto esponenziale per la 28enne Francesca Zambonini che dopo aver frequentato il Liceo Linguistico cambia vita: incontra l’amore e diventa una contadina.
I video disponibili sono semplici, diretti, spontanei. Magari è proprio per la sua naturalezza e il delizioso accento toscano che il numero di follower della "contadina sul web" è cresciuto in maniera così rilevante. Mentre lavora nei campi – circa un ettaro di terreno – è il marito a riprenderla, poi in serata se c’è il tempo Francesca li monta. Non c’è una regia esterna, né post produzione, è tutto home made: "Si fa tutto noi, ecco!". La curiosità dall’esterno aumenta e i video piacciono al punto che Francesca inizia a dare suggerimenti sulla creazione di un piccolo orto: "Mi sono detta che potevo fare dei veri e propri tutorial per spiegare, a mio modo, come avere in casa un giardino anche piccolo o giusto qualche vasetto in terrazzo. Ed è nato il canale La campagna di Francesca". La tenuta di Francesca e Francesco si trova verso Torre del Lago Puccini, a Viareggio, una zona di mare frequentata più da turisti che da coltivatori, tanto che anche per Francesca è stata una felice scoperta. "Io la vita da contadina non la conoscevo per niente. Mi sono innamorata di mio marito Francesco e poi della terra. Da queste parti di ortaggi non ce ne sono molti, non è un’area tipica per coltivarli eppure vengono così bene! Prima ero l’opposto e mi faceva anche un po’ impressione mettere le mani nella terra, invece adesso è il mio mondo. Ci sto proprio bene e sono contentissima di vivere qui". Il tempo di diplomarsi e Francesca inizia a lavorare con il marito. "I suoi nonni avevano un’azienda di famiglia, con un’impostazione un po' più 'vecchiotta'. Siccome io sono più giovane di lui (hanno 20 anni di differenza, ndr.), mi garbava ammodernare la gestione, stare un po' più al passo con i tempi". Trasformare non significa però stravolgere, ma raccontare. "Mi piace tanto girare video e allora mi sono detta: 'Ma perché non facciamo conoscere alla gente come coltivo?'. E ho iniziato a pubblicare riprese spontanee a livello locale su Facebook, dove mi seguivano in 2 mila. Era giusto per farmi conoscere e ampliare la vendita diretta. Pian pianino la gente si è incuriosita e ha cominciato a farmi domande specifiche, per esempio su come nascono gli ortaggi. Sono felicissima di questo interesse per le coltivazioni, mi dà soddisfazione far vedere quello che faccio".
Con un papà in pensione dopo aver lavorato in cartiera e una mamma impiegata in ospedale, come ha fatto Francesca a diventare una contadina? "Quando era vivo, era il nonno di Francesco a darmi consigli. In effetti è un lavoro che impari con l’esperienza, con la pratica. Noi stiamo 24 ore su 24 nei campi, anche il sabato e la domenica. Apri la porta di casa e hai davanti il terreno: o prendi l’aereo e vai dall’altra parte del mondo, oppure ogni giorno hai questo da fare. Impari per forza".
Dentro “La campagna di Francesca”, il video più apprezzato è quello in cui spiega come potare le zucchine, a quota 1,1 mln visualizzazioni ("ho fatto il boom"), ma piace anche la “sfemminellatura del pomodoro” (284.505 visualizzazioni), o la costruzione del “mega pollaio” con 52.385 visualizzazioni. Con maglietta gialla o felpa, mollette tra i capelli, sorriso accogliente e guanti d’ordinanza Francesca in video dà del tu a chi l’ascolta e descrive quello che sta per fare. Del successo che sta ottenendo, lei stessa non se ne capacita: "Ascolta, non so proprio da cosa dipenda, io li faccio con naturalezza, mostrando come lavoro nella piccola azienda. Coltiviamo nel rispetto della natura utilizzando metodi biologici, anche grazie all'aiuto di insetti utili. Non mi pongo assolutamente come maestra di quello che faccio, nei miei video mostro il mio lavoro quotidiano in mezzo alla natura. Di certo sono contenta. La gente mi dice che riesco a comunicare bene, penso sia per la mia genuinità: non è per essere presuntuosa ma non mi trucco, non sono in posa e non sono impostata. Sono proprio me stessa". Francesca e Francesco vivono a km zero ("zerissimo!") visto che il prodotto del lavoro nei campi diventa in parte il loro pasto e in parte viene destinato alla vendita diretta, che a volte risulta più faticosa del previsto: "La gente è impegnativa. Vendiamo solo la roba che raccogliamo la mattina; se manca qualcosa la recuperiamo sul momento, tanto che alla fine diventa un andirivieni stressante" Una scelta al naturale che l’ha condotta a seguire i ritmi della Terra. La vita viene scandita dal sorgere del sole: d’inverno marito e moglie sono nei campi verso le sette del mattino e dormono un po’ di più; d’estate si alzano alle quattro e vanno a letto dopo che cala il buio. "D’estate le giornate non finiscono mai, però sono felicissima, ci piace da morire. La fatica si sente nel fisico ma d’altra parte siamo contenti e abbiamo sempre nuovi progetti. Ora stiamo programmando di mettere le api, che si aggiungono al pollaio e ad altre bestie più grandi. L’obiettivo finale è di auto sostenerci. Speriamo di realizzarlo". Una vita sana, all’aperto e a contatto con la natura, al punto che il covid-19 non ha creato impedimenti alla rituale quotidianità familiare: "La casa è di fronte al campo, è tutto aperto. E i rumori del traffico della città non si sentono".
poiché non capisco il perchè blogger non legge il codice embed dei video li potete trovare sull'url dell'articolo
Le combattenti furono 35mila, altre 20mila ebbero funzioni di supporto. E poi le migliaia di arrestate, torturate, condannate dai tribunali fascisti. Eppure il contributo delle donne nella battaglia per la libertà è stato a lungo lasciato ai margini del racconto. "Ci chiesero di non sfilare" ha raccontato tempo fa Lidia Menapace. Ilfatto.it ha intervistato 4 di loro: Mirella Alloisio, Francesca Laura Wronowski, Teresa Vergalli e Ida Valbonesi. Storie diverse, spirito comune: "La comunanza di sentimenti fra persone che non si conoscevano, ma che si riconoscevano come appartenenti alla stessa idea di umanità”
“Senza le donne non ci sarebbe stata la Resistenza. Abbiamo rischiato come gli uomini ma allora in tanti ci guardavano male. E il giorno della Liberazione ci chiesero di non sfilare”. Lidia Menapace, nome di battaglia Bruna,
partigiana, parlamentare, pacifista, morta nel dicembre scorso a 96
anni, è stata una delle partigiane che hanno partecipato alla guerra di
liberazione. E’ stata una delle più note. Ma per troppo tempo le donne
della Resistenza sono state relegate nel ruolo di staffetta quasi come
se quel compito non fosse rischioso quanto combattere. “Il loro
contributo – spiega a ilFattoQuotidiano.it la storica Isabella Insolvibile – è stato disconosciuto. Purtroppo a volte sono stati gli stessi partigiani
a non dare il giusto peso a quanto avevano fatto le donne per
acconsentire la rivoluzione”. Chi conosce bene la Resistenza, tuttavia,
sa che le donne ebbero un ruolo fondamentale: “Intanto – sottolinea Insolvibile – per fare la staffetta serviva un gran coraggio ma dobbiamo ricordare che alcune di loro comandarono le formazioni partigiane; altre si occuparono dei posti di cura e non poche combatterono alla pari degli uomini”. Secondo i calcoli dell’Anpi le partigiane “combattenti” furono 35mila, altre 20mila
ebbero funzioni “di supporto”. Tra loro ci furono 16 medaglie d’oro e
17 medaglie d’argento al valor militare, 512 commissarie di guerra.
Oltre 4600 furono arrestate, torturate e condannate dai tribunali
fascisti. Una di loro era Francesca Del Rio, nome di battaglia Mimma, staffetta della 144esima Brigata Garibaldi. I nazisti la sottoposero a indicibili torture, sevizie, mutilazioni nella caserma di Ciano d’Enza (ora nel Comune di Canossa). Eppure non disse mai i nomi dei compagni di battaglia. Riuscì a fuggire in modo rocambolesco e a raggiungere il comando partigiano. Era incinta e, dopo un parto difficile, perse il bambino. E’ morta nel 2008: due giorni fa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella le ha conferito la medaglia d’oro al merito civile come “mirabile esempio di eccezionale coraggio e di straordinario impegno per i valori della libertà e della democrazia”.
Mirella, la prof di francese: “Senza di noi la Resistenza non sarebbe stata possibile”
Mirella Alloisio,
96 anni, ex professoressa di francese di Perugia, quella storia, che è
anche la sua, la racconta così: “Son entrata nella Resistenza perché non ne potevo più di guerre.
A 16, 17 anni, una ragazza doveva vivere perennemente con il
coprifuoco, non poteva andare a casa di un’amica. Oggi siamo travolti
dalla pandemia ma non possiamo paragonarla a quel periodo che abbiamo
vissuto: la guerra non è stata un fenomeno naturale ma è stata voluta da
Mussolini e se tutti fossero stati antifascisti non si sarebbe fatta”. In battaglia la chiamavano Olga: “Facevo parte della segreteria del Comitato regionale ligure. Avevo 17 anni.
Eravamo in tre: una compagna di 25 anni che stenografava e trascriveva
le riunioni; un ragazzo di 23 che aveva il compito di cercare le sedi
dove il Comitato si riuniva ed io che dovevo tenere i collegamenti con i
comitati di liberazione periferici. Andavo da una parte all’altra della provincia
a piedi, in treno o in tram se giravo in città. Dovevo portare le
direttive e loro mi davano altre informazioni. Bisognava essere
estremamente puntuali”. Mirella ha fatto di tutto: si è presa cura dei
feriti; è stata addestrata a sparare “anche se per fortuna non ce n’è mai stato bisogno”. “Senza le donne – sottolinea – la Resistenza non sarebbe stata possibile”.
All’inizio lei e i suoi compagni non davano nell’occhio. “Quando si
sono resi conto di chi eravamo – racconta – ad ogni arresto c’era la
tortura. Ancora oggi non ci posso pensare”.La
voce di Mirella si fa più fioca. Qualche attimo di silenzio e poi
riprende con un messaggio a chi vive l’oggi: “Durante la Resistenza
abbiamo fondato i gruppi di difesa della donna. Avevamo iniziato a
pensare al domani: all’avere gli stessi diritti degli uomini;
a poter accedere a tutte le carriere. Nel 2021 non siamo arrivati
ancora al punto che desideravamo. Ecco perché credo che ogni donna ma
anche ciascun uomo debba credere nel valore della partecipazione”.
Francesca Laura, la nipote di Matteotti: “Fascismo? E’ ovunque ci sono ignoranza e violenza”
A Milano vive Francesca Laura Wronowski, ex partigiana di 97 anni, nipote di Giacomo Matteotti,
da mercoledì insignita dell’Ordine al Merito della Repubblica con il
grado onorifico di Commendatore. “Come donna, devo ringraziare un’altra
donna, mia madre, meravigliosa e combattiva cognata di Giacomo Matteotti. Trascinava alla lotta: mi ha insegnato l’intransigenza e la coerenza,
anche a costo dell’emarginazione, come è successo alla mia famiglia
durante gli anni del regime fascista. Io sono combattiva per
temperamento, ragione per cui la Resistenza in montagna mi è risultata
affine. Come donna, ho sempre ricevuto il massimo rispetto da tutti i combattenti di Giustizia e Libertà con i quali ho condiviso la lotta antifascista e antinazista, partecipando su un piano di parità ad azioni militari, come la liberazione dei prigionieri ebrei dal campo di Calvari, nell’entroterra di Chiavari, dove operavamo”.Kiki,
questo era il suo nome di battaglia, ricorda così il suo 25 aprile:
“Ero stata inviata, insieme a due uomini della mia Divisione, a Genova, con la missione di prendere possesso di un albergo
per farne il nostro quartier generale. Ricordo i pensieri e le
preoccupazioni di quel giorno (la città era ancora in mano ai tedeschi) e
ricordo, giunti alla periferia industriale della città, un’altra donna, una partigiana jugoslava, che sorridendo entusiasta volle regalarmi a tutti i costi il suo cinturone e una piccola rivoltella a tamburo. Un episodio che mi è sempre rimasto impresso, per la comunanza di sentimenti fra persone che non si conoscevano, ma che si riconoscevano come appartenenti alla stessa idea di umanità”.
Ad
accumunare queste donne è la loro lucidità, il desiderio di essere
ancora partecipi, presenti nella storia: “Ad una ragazza di 12-13 anni
vorrei dire che il fascismo è ancora attuale. Non sul piano politico,
ovviamente, ma come forma mentis. Dico spesso a mio figlio, anche se non è più un giovane, che il fascismo si può sintetizzare in due parole: ignoranza e violenza, laddove la seconda è figlia primogenita della prima”.Kiki ha le idee chiare: “Rivedo l’espressione della mentalità
fascista, che fu all’origine dell’assassinio di mio zio Giacomo
Matteotti il 10 giugno del 1924, ogniqualvolta ho notizia di un episodio
di bullismo, ogni volta che un disabile o un senzatetto vengono aggrediti senza motivo, ogni volta che una donna viene picchiata o uccisa per affermare il proprio dominio. Tutti questi comportamenti esprimono lo stesso nichilismo
frutto di ignoranza che dette vita e animò il fascismo nei suoi
comportamenti abietti, al di là degli scopi politici che Mussolini ed i
suoi si proponevano. Il fascismo è quindi sempre vivo nella società
contemporanea, e perciò deve essere altrettanto vivo l’antifascismo”.
Teresa, la maestra di storia: “Il mio pensiero va a Francesca Del Rio, ecco chi era”
E poi c’è chi come Teresa Vergalli, classe 1927, in montagna ha insegnato la storia ai partigiani. Maestra di scuola primaria di Bibbiano
non ha mai smesso, dopo la Liberazione, di raccontare quello che
avevano fatto e ancora oggi ama parlare ai bambini. Una lezione l’ha
tenuta anche questa settimana ai ragazzi della quinta primaria di Madignano (Cremona). Oggi è tra gli ospiti della maratona organizzata da Casa Cervi alla quale partecipano anche don Luigi Ciotti, GianfrancoPagliarulo, Diego Bianchi
e tanti altri. “In questi giorni posso raccontare non tanto di me ma di
un’altra donna che ha fatto la staffetta ed è stata arrestata e
torturata per un mese dai fascisti: si chiamava Francesca Del Rio, nome di battaglia Mimma”. Martedì sera Teresa ha avuto la notizia che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella
ha conferito a Francesca la Medaglia d’oro al merito civile. “Lei è
morta nel 2008 ma io ci tenevo a questo riconoscimento. Mimma era
riuscita a fuggire nella notte dalla sua prigione ferendosi e congelandosi i piedi
al punto da non poterli più usare ma non si è mai arresa, ha voluto
continuare la sua missione nella Resistenza facendosi portare in
montagna un cavallo con il quale poteva proseguire a fare la staffetta.
E’ rimasta famosa come la partigiana a cavallo”. La maestra Vergalli riassume così il ruolo delle donne durante quegli anni: “Noi facevamo da radio, da telefono, da guardia del corpo”
Ida, la sarta di Forlì: “Noi abbiamo lottato per un futuro migliore. Ma serve ancora lottare”
Il 25 aprile tutte queste donne lo vivranno come se fosse quello del
1945. Lo si capisce dall’emozione che si intuisce nel parlare con Ida Valbonesi, sarta di Forlì, nome di battaglia Idina:
“Ho 97 anni ma ho ancora le idee chiare. Faccio fatica a seguire tutto
quello che succede nel mondo ma ai giovani dico: state attenti, guardate
il vostro futuro perché è in pericolo. Noi abbiamo lottato per darvi un avvenire migliore. Non è successo. Serve ancora lottare”.
Ida ricorda la fratellanza e la vicinanza, l’amore che c’era per la
libertà: “La gente ci aiutava perché non voleva più la guerra. Per
arrivare al 25 aprile abbiamo trovato la forza per unirci. Oggi dobbiamo
ritrovare quello spirito. Abbiamo lottato per avere la libertà
ora dobbiamo difenderla fino in fondo”. Storie di vita che affondano le
radici in un passato che continua a essere vivo in queste donne. Tutte
sanno che ci sarà un giorno in cui non potranno più raccontare, essere
presenti in piazza, parlare ai giovani, ma ascoltandole si ha
l’impressione che si sentano ancora le ragazze di ieri.
Tutti i video fanno parte del Memoriale della Resistenza, portale
dell’Anpi all’indirizzo noipartigiani.it, frutto del lavoro di raccolta
di testimonianze di numerosi volontari coordinati da Laura Gnocchi e
Gad Lerner. Il Memoriale è raggiungibile a questo indirizzo.
Il 20 Marzo è arrivata la Primavera, ovvero questo è quello che risulta dal calendario, ma come prima si diceva "Non esistono più le mezze stagioni", oggi a causa dei cambiamenti climatici non c'è più una stagione che rispetti le sue caratteristiche e peculiarietà. Il caldo imperversa in zone che hanno sempre avuto lunghi inverni e basse temperature, il freddo, invece imperversa in zone a clima temperato, per questo motivo, ho scritto una poesia sulla primavera, una primavera normale, di quelle di una volta. Una primavera calma e serena, una primavera di un piccolo paese che spero vi piaccia.
La primavera poesia di Daniela Bionda
Osserva la ragazza che cammina cantando, senti la sua passione che si trasforma in un inno di gioia, mentre accarezza le corde del suo violino per annunciare la primavera. Dentro uno spicchio di cielo piccole nubi, scrosci d' acqua sulla terra e sui prati. I giardini si vestono di mille colori. Uccelli che intrecciano in volo danze giocose, per poi posarsi sui teli stesi ad asciugare, sui rami degli alberi o sui fili dell' elettricità. Le donne affacciate alle finestre, colgono fiori dai loro balconi. Ogni giorno é diverso, eppure uguale. L'inverno uccide i colori. O amor dai sguardi indiscreti, lievi carezze, timidi baci. Il giorno avanza, il sole batte sui tavolini all'aperto di un bar, dove i ragazzi sorseggiano bevande ghiacciate, osservando la gente che passa con aria annoiata. È aria serena, è aria di paese. Bimbi bevono alle fontane, bagnandosi con i loro zampilli.
Aspetto la notte per dormire abbracciati sotto lenzuola che profumano di lavanda.
non riuscendo , a volt capoita , le parole adatte che non sia solo mera retorica , non ho scritto niente io sul 25 aprile ma lascio parlare gli altri .
Nel 2005, quando pubblicai la prima edizione de La Resistenza spiegata a mia figlia, il dibattito sulla lotta partigiana procedeva per schieramenti rigidi. Mi ero messo a scrivere per alleviare la tristezza: soffrivo nel vedere affievolirsi il significato di una festa gioiosa come il 25 aprile, oscurato dal peso dolente del 27 gennaio. Per gli studi che ho svolto, spiegare la Shoah a mia figlia sarebbe stato più comodo. Nei giorni successivi all’uscita del libro, la vanità che alberga in ogni autore fu appagata dalla voce squillante di Margherita, una compagna di scuola di mia figlia, che mi lesse al telefono la scheda uscita su Metro, il giornalino distribuito gratis nelle stazioni ferroviarie: «In questi giorni di overdose di documentari sui 60 anni dal 25 aprile cade l’occhio su un libretto di Alberto Cavaglion, 49 anni, che tenta una missione impossibile: raccontare a sua figlia Elisa, 16 anni, generazione “non so chi è Badoglio”, la Resistenza. Lo sforzo è di riassumere per blocchi (fu davvero guerra civile? quale significato dare alla violenza?) tenendo presente il filo storico dopo un mare magnum di letture e controletture (da Bocca a Pansa) sul tema. Fare il punto non significa non avere un punto di vista etico-morale. Una lettura dietetica: si esce dal centinaio di pagine senza il senso di aver ingurgitato chili di panna montata».
Autocritica di una generazione
Quel consiglio “dietetico” mi sentirei di ripeterlo adesso. Fa parte della dieta il nutrimento offerto da grandi scrittori che hanno raccontato la Liberazione (Beppe Fenoglio, Italo Calvino, soprattutto Luigi Meneghello), ma una parte importante spetta ai libri di famiglia. La Resistenza spiegata a mia figlia doveva tantissimo alla Resistenza narratami da mio padre, che fu tra i 12 giovani a seguire Duccio Galimberti alla Madonna del Colletto il 12 settembre 1943.
Tutto cambia e la mia generazione, in termini di trasmissione della memoria, ha il dovere di portare a termine un sano esercizio di autocritica. Molte cose sono cambiate rispetto al 2005. Il primo consiglio “dietetico” che vorrei dare è di guardare alla lezione delle cose. Meglio non fidarsi troppo di parole impegnative come Resistenza quando sono accompagnate da un aggettivo qualificativo, sia pure suggestivo. Gli allargamenti terminologici sono quasi sempre concepiti allo scopo di rendere esteso ciò che invece è giusto rimanga piccolo: le piccole virtù, le minoranze virtuose, “i piccoli maestri” direbbe Meneghello. Togliendo il superfluo si arriva alla sostanza. Vere e proprie nebulose appaiono coppie di parole, che sono andate per la maggiore: Resistenza tradita, Resistenza mancata, Resistenza taciuta, Resistenza passiva, Resistenza disarmata, Resistenza legittimata (o delegittimata). Lo stesso esercizio si può fare con antifascismo: antifascismo militante, antifascismo difensivo, antifascismo esistenziale. Può darsi un antifascismo che non sia esistenziale? La Resistenza è o non è. Se non medita di attaccare l’avversario cessa di essere sé stessa.
Resistenza disarmata
Negli ultimi anni molta attenzione è stata riservata alla "Resistenza disarmata”. E questo è sicuramente un bene, anche se la storia militare – sia pure una storia militare sui generis come quella di cui stiamo parlando – non può essere un dettaglio. Sulle armi bisogna intendersi subito. Non averle è molto rischioso, ma sono fin dall’inizio scarse. Sono poche, non funzionano affatto o molti partigiani non sono capaci di farle funzionare. Si cerca di prenderle nelle caserme abbandonate dopo l’8 settembre, ma i risultati non sono affatto soddisfacenti. Mancano i pezzi di artiglieria, i ricambi, manca specialmente chi sappia insegnare ad usarle.
Roberto Battaglia, prima di salire in Umbria con i partigiani, ha lasciato sul tavolo le bozze di una sua monografia sul Bernini, non sa neanche come si impugna una pistola. Appena arrivato in Valle d’Aosta a Brusson, Primo Levi contempla allibito l’arma che gli viene data: gli sembra quella che le contesse adoperano nei film. Si cerca di sottrarre armi ai tedeschi, ai repubblichini, ma per tutto il periodo del conflitto, il problema delle armi è, innanzitutto, quello della loro mancanza. I lanci degli alleati tardano ad arrivare, nel primo inverno sono rarissimi, spesso hanno per destinatari soltanto i partigiani monarchici, i badogliani e questo genera risentimenti. Le cose migliorano alla fine del secondo inverno quando i rifornimenti diventano più consistenti, ma la questione delle munizioni rimane una tragedia irrisolta fino alla fine. Disarmata, spesso, la Resistenza è per dura necessità.
Zone d’ombra
Si potrebbe continuare a lungo nel gioco degli aggettivi inutili. Anche il concetto di Resistenza ebraica va sottoposto a un’analisi critica, come ha fatto di recente Daniele Susini nella sua bella sintesi (Donzelli). Le difformità, per l’Italia, sono doppiamente vistose per la ragione che la Resistenza non è comparabile con altre realtà europee: in primo luogo perché nasce tardi, sull’onda di una sconfitta militare; in secondo luogo perché le divisioni politiche, già prima che il fascismo prendesse il potere, erano profonde e non saranno superate durante i mesi della clandestinità (per poi riesplodere in forma acuta nel dopoguerra).
Diventa ogni giorno più urgente riconoscere il problema della (relativa) lentezza del processo di acquisizione di una consapevolezza politica da parte di maggioranza e minoranze; andrà prima o poi analizzato anche il problema del rapporto fra i partigiani (quale che fosse il loro orientamento) e le leggi razziali del 1938: si ha l’impressione che il dramma dell’antisemitismo sia stato sottovalutato: altre colpe del regime apparivano più gravi. In certe realtà dove la Resistenza sorse in modo particolarmente disordinatosi diedero anche esempi di vessazioni contro famiglie, donne e anziani, che avevano trovato asilo nelle stesse baite dove si formavano le prime bande partigiane. La sventurata storia delle prime settimane autunnali in Valle d’Ayas a Brusson, dove la formazione partigiana di Gl cui aveva aderito Primo Levi ebbe a scontrarsi con altre formazioni prive di scrupoli, ha svelato zone d’ombra e contraddizioni che rivelano l’importanza, direi l’urgenza, di una ricostruzione meno frettolosa e semplicistica di quelle che si sono lette.
Altri elementi di possibile fraintendimento erano già stati messi in evidenza dai diari che ci hanno lasciato figure molto rappresentative. Avevano compreso i rischi connessi alla celebrazione retorica, all’iconografia mitologica: «Può essere che in futuro questo mio spregiudicato e pessimistico diario possa fare cattiva impressione: si dirà che io, arrampicandomi per la montagna mi fermavo a osservare sterpi e sassi – i brutti episodi son numerosi – e non guardavo la vetta e il paesaggio. Errore, errore. Se non vedessi la vetta e il paesaggio non farei la dura salita; ma per timor di retorica preferisco tacere gli alti ideali». Così scriveva Emanuele Artom, prima di essere torturato e ucciso nel 1944. Nel suo diario invitava a raccontare anche le cose sgradevoli, «perché fra qualche decennio una nuova rettorica patriottarda o pseudo-liberale non venga a esaltare le formazioni dei purissimi eroi; siamo quello che siamo: un complesso di individui, in parte disinteressati e in buona fede, in parte arrivisti politici, in parte soldati sbandati che temono la deportazione in Germania». Se Artom fosse stato ascoltato il caso-Pansa sarebbe evaporato al sole del 25 aprile in un istante. Un’idea di Resistenza che trae la sua forza dal disincanto dei piccoli maestri che cercano dentro se stessi la ragione della menzogna di cui sono stati vittime è quella che in futuro potrà esserci più utile.
Scrive sempre Artom: «Il fascismo non è una tegola cadutaci per caso sulla testa; è un effetto della a-politicità e quindi della immoralità del popolo italiano. Se non ci facciamo una coscienza politica non sapremo governarci e un popolo che non sa governarsi cade necessariamente sotto il dominio straniero o sotto una dittatura».
Dopo il risorgimento e la grande guerra ,la radio durante il fascismo , televisione durante il periodo repubblicano , ad unire l'italia , ci ha pensato la pizza
da repubblica del 24\4\2021
Dagli anni 50 ad oggi circa 2000 pizzaioli sono emigrati dal paese affacciato sulla Costiera amalfitana. La loro storia, a partire da quella prima pizzeria aperta a Novara
di Lara De Luna
“Tramonti negli anni ‘50 contava circa 6000 abitanti, e in poco più di un decennio è scesa a quota 4000”. Dove sono finiti quei 2000 “scomparsi” dal pittoresco borgo a pochi chilometri dal cuore della Costiera Amalfitana, su cui si affaccia? La risposta ce la dàGiovanni Mandara, pizzaiolo titolare della pluripremiata Piccola Piedigrotta di Reggio Emilia e Vice Presidente dell’Associazione Pizza Tramonti nel
mondo: “Tutti emigrati al Nord, con in tasca poco più di un disco di pasta”. Quello per fare la pizza integrale tipica del paese d’origine. Nasce così la storia poetica dei Pizzaioli di Tramonti, la scuola che non è mai stata davvero tale, nata per caso e per necessità e che dall’allora sconosciuta provincia di Salerno ha portato involontariamente la pizza oltre la linea della Capitale ben prima che ci arrivassero i pizzaioli-star degli ultimi 15 anni. "Prima eravamo quasi tutti tramontani o salernitani. Siamo stati noi ad aver portato e insegnato la pizza al Nord. Ma non abbiamo saputo raccontare la nostra storia”.
Una storia che come tutte le avventure nasce per caso, poco dopo la II Guerra Mondiale, mentre l'Italia cercava di capire da dove potesse ripartire e si ponevano le basi per il boom economico. Pioniere, nel 1947, fu Luigi Giordano, giovane di Tramonti in servizio di leva che arrivò a Loreto di Novara per “assolvere ai suoi doveri di cittadino. Fu il primo di tanti di noi a trovarsi in terre che con la nostra avevano in comune la produzione casearia -Tramonti è storicamente una delle contendenti ad Agerola del monopolio del fiordilatte -, elemento fondamentale per la pizza ma soprattutto per la nostra cultura. Lui iniziò con il fratello Amedeo a produrre mozzarella, e solo dopo un po’ di tempo aprì la pizzeria vera e propria”. Essere i primi è sempre importante, i pionieri sono un faro nella notte, dimostrano che ciò che prima era un vuoto può assolutamente essere riempito, ma il lavoro di Giordano ha avuto un quid in più: “Per una popolazione come la nostra, dove siamo tutti tanto legati che mio figlio, nato in Emilia Romagna, la sente come casa propria, avere un punto di riferimento della terra natia è fondamentale”.
E così seguendo Giordano sono partiti molti altri ragazzi “appoggiandosi spesso a parenti o amici che erano già in Lombardia, Emilia Romagna, Veneto. Il tutto funzionò a ondate, la seconda dagli anni ‘60 in poi, quando partirono i miei genitori. Io sono emigrato due volte, una da bambino e una seconda a 15 anni”. “Lo sviluppo - racconta Luciano Pignataro nel capitolo dedicato a Tramonti del suo “La pizza, una storia contemporanea” (Hoepli) -, si ebbe a macchia di leopardo, cioè da Novara nacquero pizzerie con le seguenti direttrici: da Novara verso Pavia, Vercelli, Varese, Milano; da Vercelli verso Ivrea, Biella, Como; da Pavia verso Bergamo, Brescia, Cremona, Piacenza…”. E così via fino ad arrivare a Udine, Vicenza, Venezia.
Ma la storia di questi duemila pizzaioli emigranti non è fine a sé stessa, ma fondamentale per l’evoluzione della gastronomia in Italia, per la creazione di una realtà trasversale, meticcia nel gusto, che oggi, si dà per scontata. Facendo diventare la pizza un piatto nazionale prima, e internazionale poi. “Di fatto - spiega Mandara - siamo stati noi tramontani a portarla al Nord e a creare il rapporto di gusto con questo piatto particolare. Non siamo stati consegnati alla storia per questa piccola grande rivoluzione solo per un nostro errore: tutte le pizzerie che venivano a mano a mano fondate avevano nomi che richiamavano alla tradizione napoletana, città più conosciuta, da Marechiaro a Bella Napoli. Io stesso, che ho iniziato questo lavoro ormai più di trent’anni fa, ho chiamato la mia pizzeria Piccola Piedigrotta”. Per arginare questo “difetto” della storia gastronomica, da anni lavorano fianco a fianco la Corporazione dei pizzaioli di Tramonti - fondata a cavallo tra gli anni '80 e '90 da Gaetano Generale e oggi di gestione prettamente politica - e l’Associazione Pizzaioli di Tramonti di cui Mandara è il Vice Presidente: “Noi siamo una costola della Corporazione originaria, la nostra non è stata una diaspora. Semplicemente siamo tutti pizzaioli, ci confrontiamo e proviamo ad agire giorno dopo giorno per diffondere la nostra tradizione e mantenerla sempre viva”. Alla Corporazione si deve anche la creazione del primo Festival della Pizza, organizzato a Tramonti l’8 agosto del 1991, da allora ogni anno, racconta Pignataro “in migliaia si ritrovano l’8 e 9 agosto, date che ricordano i giorni in cui furono inaugurate “A Marechiaro” a Novara e “La Violetta”, la prima pizzeria di Tramonti, nel 1953”.
Il rapporto tra la pizza di Tramonti e quella diffusasi nella parte più a nord del nostro Paese viaggia anche sul filo del gusto e delle tecnicità del lievitato. “La nostra era una pizza integrale - spiega Giovanni Mandara -, tradizionalmente preparata nel giorno dei morti prima dell’infornata di pane e condita con prodotti semplici del territorio: pomodoro, olio e fior di latte”. E se è vero che oggi il versante impasti si è evoluto, andando a smussare gli angoli rigidi della farina integrale pura con nuovi grani a cui a volte viene aggiunto il finocchietto, la vera anima della pizza di Tramonti, il suo genoma distintivo, è la cottura “A differenza della napoletana tradizionale, noi cuociamo più lentamente e a temperature più basse. Ci attestiamo a circa 300-350 gradi, realizzando non una pizza umida, ma più croccante fuori e morbida dentro”. Un anello di congiunzione, storico e organolettico, tra la pizza di origine campana e quella della Scuola Veneta (la “pizza gourmet”, come viene più comunemente definita). Un trait d’union unico tra Nord e Sud, fatto di cibo e di uomini, quelli che sono andati e che sono tornati, rendendo “Tramonti uno strano paese, nel cuore della Campania ma con la mentalità nordica degli emigranti di ritorno”. Una realtà culturale unica. Un motivo in più per rendere onore a quei circa 2000 pizzaioli che ignari della rivoluzione che stavano compiendo, hanno lasciato il Paese natio in cerca di fortuna “con in tasca solo un disco di pasta”.