Zero al Massimo

 
 

Intervista a Del Papa, autore di Ti vivrò accanto. La favola infinita di Renato Zero

Massimo Del Papa (Milano, 1964), giornalista ("sono uno che scrive", corregge lui) è seduto di fronte a me, spettinatissimo, con un orecchino nuovo fiammante al lobo sinistro. “Di' che gesticolo molto, rido spesso, mi agito e bevo a piccoli sorsi un misterioso liquido ambrato”, mi suggerisce, sornione. In realtà basta il suo sguardo attento, la sua sagoma dinoccolata e scomposta a catturare l’attenzione.

- Ricordo quando mi accennasti per la prima volta al libro. Per scriverlo, hai impiegato una trentina d’anni… Aggiungo: si sente. È un libro che hai scritto per te: ed è una delle ragioni del suo fascino.

- E pensare che se non fosse stato per Marinella Venegoni, una persona speciale che ha scritto una prefazione molto lucida, non l’avrei mai pubblicato. Tu sai che Renato ha reso sé stesso un ponte per la vita di tanti. Ha stravolto il suo talento da fine a mezzo, per incidere, per cambiare molte vite.

- Inconsapevolmente…

- Certo, come dev’essere per ogni vero artista. E qui sta la sua forza. Ho conosciuto un’infinità di gente che mi ha detto: lui non ti molla, è presente davvero, diventa persino invadente se decide di starti vicino. Bene, questo libro ha preso qualcosa della storia che racconta.

- All’inizio volevi intitolarlo Un anarchico conservatore. Poi hai optato per Ti vivrò accanto, molto più suggestivo…-

- Ti vivrò accanto è uno dei versi più belli del suo canzoniere; volevo anche raccontare una favola, come recita il sottotitolo, infinita perché di questa vicenda umana si parlerà ancora fra cent’anni. Lui, Zero, può essere tutto ma non risulta mai mediocre. In un Paese che di mediocrità vive, e se ne vanta. Non dimentichiamolo: a 27 anni ne aveva già addosso 14 di gavetta, quattro dischi, l’Orfeo 9, i giri per Roma con Fellini, Ruzante in teatro, le coreografie di Don Lurio, Rita Pavone, l'Hair di Patroni Griffi, il Piper e tutta quella vita… ed era già tanta vita.

- Taluni, però, potrebbero equivocare: “Ti vivrò accanto”, cioè: sono uno di voi…
- No, Renato non è affatto “uno di noi”. Ti sfiora, ti passa vicino, ma le sue coordinate sono troppo diverse: non sta in te, e tu non sei in lui. I sorcini, che lo hanno cristologizzato, se ne facciano una ragione. È un anarchico conservatore, propone modelli che vanno bene per la società, ma lui se ne esorbita, sta altrove. Ti vive accanto, ma non lo puoi afferrare, fare tuo. Con la sua arte ha fatto più di mille convegni, ha sdoganato le diversità (non solo quella sessuale). Quando nelle scuole parlo di lui, come di Zappa e di altri esempi illustri di anarchici conservatori, mi riferisco all’individualità, alla specificità, che comprende la diversità, il coraggio di non conformarsi.

- Qualche purista sobbalzerà leggendo il nome di Zero accanto a quello di Zappa. Ma io rammento bene che, sul finire dei ’70, si indicava come possibile erede di Renato un nostro talentuoso concittadino, Faust’O [cfr. il sottostante video], che gli somigliava un po’ anche fisicamente, così emaciato e spettrale, e anch’egli portabandiera d’un rock all’avanguardia, anticipatore del punk, con testi disinibiti e iconoclasti.

- Certo, ma tu pensi che oggi potrebbe nascere un Renato Zero? Dicono: Renatino, tutto cuore… Ma era durissimo, fortissimo quel ragazzo. Con una incrollabile fiducia in sé stesso. Una macchina da guerra con un cuore. La gente non lo sospetta, non ha gli strumenti analitici per uscire dalla soggezione: mi piace=bello, non mi piace=brutto. Io ho tentato una chiave di lettura diversa, gli sono… vissuto accanto [risate], senza bisogno di fregole, di gossip. Vincenzo Incenzo ha notato: “Lo conosci meglio tu, che non l’hai mai incontrato, di tanti che gli vivono intorno”. Ma bastava ascoltarlo. Non esiste artista più autobiografico, più sincero. Dove lo trovi uno che ti dice che si sente un fallito, che si è inventato un circo “per non essere così”, per non ammettersi altrimenti? Non puoi chiedere di più a un artista. Il suo canzoniere è un po’ come l’Ecce homo di Nietzsche.

- Volevo restare su quell’aggettivo, “conservatore”, che si presta anch’esso a grandi equivoci. Mi è capitato persino di leggere che la critica all’aborto contenuta in Tragico samba (fra l’altro un brano piuttosto cinico e disincantato, come hai osservato tu, molto “lacero”, metropolitano, con persino un accenno a un fratello incestuoso, alla faccia della santità della famiglia…) era motivata dalla... fede cattolica di Renato.

- Ma figuriamoci! Conservatore non significa mica reazionario. Il vero ribelle non può che essere conservatore, perché gli stanno a cuore i temi ultimi, i punti nodali dell’esistenza. Che sono sempre quelli, da che mondo è mondo. E, al tempo stesso, sempre in movimento.

- La passione etica, come in Pasolini, altro anarchico conservatore…

- Esatto.

- Conservatore anche perché, mentre da un lato lo si additava come scandaloso, dall’altro lo si accusava di barare, dall’altro ancora di presentare una figura di “diverso” sempre sofferente, quindi, in ultima analisi, rassicurante per la società “normale”. A me non pare. Il solo fatto di aver infuso coraggio in tante persone mi darebbe ragione, ma i suoi brani sono “a tutto tondo”: non si limitano a denunciare l’emarginazione, hanno dimostrato che l’amore può nascere ovunque e per chiunque, e hanno descritto la bellezza di questi amori. Anche i loro limiti, certo, perché la sua visione è realistica, mai idealizzata.

- La maledizione di questo Paese è che tutti militano, stanno chiusi non nei barattoli ma nelle categorie. Io, per esempio, non reggo più quei giornalisti che anche seduti sul cesso fanno i giornalisti. Non c’è altro posto al mondo dove tutti ripetono: ah, io non sono come gli altri, io sono particolare e anche pazzo (che è una trovata miseranda per dire: sono egoista, stronzo e viziato, e voi dovete prendermi così). Però, al dunque, tutti si infilano in qualche militanza. Non voti a destra, “sei” di destra. Non voti a sinistra, firmi una cambiale a vita con la sinistra, qualsiasi cosa accada. Non sei uno con qualità sue, sei un gay, una lesbo, un macho, una velina, un terrone, un padano o quel che ti pare. Ma come si fa a vivere così? Come andare in un negozio di musica e chiedere: mi dà una chitarra ritmica, me ne dà una solista? Ma compra una maledetta chitarra e poi suonala! Zero andava in giro con una gallina al guinzaglio, che è molto meglio della scimmia sulla schiena. Anche perché, alla fine, la gallina te la mangi! L’importante è non tradirla mai, quella gallina, e io credo che, in fondo, Renato non l’abbia mai tradita. Devi adattarti, in qualche misura, ma alla fine penso che lui sia sempre lui. Come si dice: immorale nelle cose piccole, morale in quelle grandi. Sai perché alla fine gli si perdonano anche le scivolate retoriche, quell’andare a parlare di povertà francescana ad Assisi, con il parco macchine e la villa su piazza di Spagna? Perché alla fine lui dà molto di più di quel che riceve. Ha fatto felici milioni di persone per quarant’anni. Ha dimostrato, in particolare, che le provocazioni, le tutine, gli zatteroni, non erano fini a sé stesse, ma armi con cui scardinare certe incrostazioni. Ha mandato letteralmente a quel paese l’industria discografica e tu sai che queste cose, in Italia, si pagano. Poi è “imperfetto”, sicuro. Dicono che ha sempre recitato? E chi non lo fa? Io a muovermi sul palco ho imparato da lui. Da lui e da Keith Richards! Alla fine, non è più recitare. È liberare la parte più profonda e pericolosa.

- E, anche, il rapporto con le donne, sicuramente molto complicato, spesso conflittuale, sempre sofferto. Però non mi sembra corretto parlare di misoginia riguardo al primo Zero, i suoi pezzi al contrario di brani eseguiti da altri non mi hanno mai offesa, ho sempre avuto l’impressione si rivolgesse non all’intero genere femminile, ma solo a specifiche persone.

- La misoginia del Renato degli esordi somigliava molto da vicino a quella di Mick Jagger, che non a caso è stato uno dei suoi modelli.

- Insisto: in questa prima fase nessuna visione stereotipata, ma storie di vita (sue o altrui), donne singole e molto reali, corpi e non miti, rapporti paritari. Insomma, e per fortuna, nessuna Bella senz’anima in casa Zero, nemmeno nella canzone che tu ritieni più violenta, L’ambulanza.

- Sì, molto violenta.

- E, come violenza, lo si potrebbe avvicinare a Jim Morrison, a Iggy Pop. Visto comunque che abbiamo citato Tragico samba vorrei rimanere su Zerofobia. Come sai io adoro quel disco, lo ritengo la carta d’identità di Renato. È un disco “di cronaca”: più precisamente, di cronaca nera. Mi ricorda certe riviste, o rivistacce, degli anni ’70. in bianco e nero. A ciò affianco un libro uscito nel ’78 per Savelli, Lo scarico, ambientato naturalmente nelle borgate romane. Era il diario-verità (con tanto di nomi e cognomi, oggi in nome della privacy sarebbe impubblicabile) di Marco e Maria, “adolescenti ‘diversi’ del ghetto metropolitano” recitava la quarta di copertina. Violenza, degrado, squallore ma anche desiderio di riscatto, imprecisa ma concreta voglia di uscire dall’inerzia e di “entrare nella storia”, per dirla sempre con Pasolini…

- Zerofobia? Lo amo! Contiene lo spirito del tempo. Se vuoi capire cos'erano gli anni ‘70, devi ascoltare Zerofobia... di qualsiasi cosa parli! C'è qualcosa di malsano lì dentro, e non voglio neanche sapere come sia stato messo insieme. È uno dei pochi, veri dischi rock in Italia. Ma, dopotutto, uno dei talenti di Renato è sempre stato quello di cogliere il momento in cui viveva. Lui non è mai fuori sincrono, i suoi dischi sono utili a capire l'epoca da cui sgorgano ed è per questo che li ho scelti come filo conduttore per il mio lavoro, che poi è un libro su mezzo secolo di storia italiana. Basta saperli leggere in controluce. Prendi anche Zerolandia, l’album più pornografico della sua carriera…

- E anche il più allegramente amorale (mi riferisco almeno a certi pezzi), oggi si sente molto la mancanza di dischi così. A Matrix un brano come Triangolo aveva messo d’accordo tutti: donne, uomini, cristiani, musulmani, pagani… Ammiccavano divertiti e liberatori a quelle note maliziose.

- Lui aveva compreso che la gente s’era rotta di tutta quella violenza, quel sangue, e non parlo delle borgate adesso, ma degli anni di piombo. Non se ne poteva più. Ricordo i mondiali d’Argentina… tutta quell’euforia assurda. Ma avevano appena ammazzato Moro e si voleva dimenticare tutto. Lui reagiva a modo suo. Con una polemica in apparenza stralunata, in realtà affilatissima. Ah, voi volete la guerra politica? E io vi do le ammucchiate e le scopate con i trans! Sbattiamoci, quella era pericolosa davvero. Ma a molti ha fatto comodo prenderla come uno scherzo: “Ah, Zero, quel depravato!”. In fondo, è sempre lo stesso gioco. Fin da quando il “Times” titolava, a proposito dei Rolling Stones sbattuti in galera: Chi spezza le ali a una farfalla?. Per dire, sono solo dei ragazzi, non sono un nostro problema. Invece lo erano, eccome! E lo era Renato Zero all’epoca. Poteva scatenare comportamenti di massa, rivolte di massa, poi se n’è reso conto e a un certo punto ha chiesto "Tregua". Ma a Fantastico se n’è ricordato nuovamente: Viva la Rai, e arriva bardato come una drag queen: “State attenti, borghesucci da sabato sera, che se solo voglio, vi tolgo ancora il sonno!”. Oggi chi è capace di scatenare maree collettive? Un pivello uscito dal serraglio della De Filippi?

- Tu scrivi che Zerofobia, l’album “maledetto” di Renato, si conficca nel cuore dei fans ben deciso a restarci. Io non sono del tutto d’accordo. Molti, per esempio, sostengono che il capolavoro di Renato sia Amore dopo Amore. E, in un recente sondaggio, la terza canzone più rappresentativa di Zero, almeno secondo certi fans, sarebbe I migliori anni della nostra vita.

- Beh, sì, ascoltano Amore dopo Amore o I migliori anni (che ho definito "brano infingardo") e dicono: mio Dio. Ma perché amano venir soggiogati dalla quantità, da una proposta eclatante. Non hanno memoria storica. Lui, Zero, in questo è memoria storica e ha ragione a dire “è la memoria che ci rende interessanti”. Basta che sia memoria però, che non diventi presente, che non se lo mangi. Alcuni miei colleghi sono rimasti agli anni ’70. Non li sopporto, mi sembrano deficienti. Per me Renato Zero ha fatto bene a un certo punto a piantarla con le piume e le trombette. Non duri per sempre, non puoi fare a sessant’anni quello che ti riusciva a venti, e non solo per limiti fisici: se sei un artista intelligente non ti basti più, prosegui. Torniamo ai Rolling Stones. Io potrei uccidere a richiesta di Keith Richards [risate]. Ma vederli sempre uguali a sé stessi, condannati a danzare anche dopo morti, come pupazzi ossuti e macabri, mi preoccupa. Renato Zero ha compiuto questa magia, un successo spropositato nei ’70, la perdita di questo successo, il rinnovato trionfo con gli interessi nei ’90: il tutto, rimescolando gli ingredienti. Prima c’era un matto che con parole matte diceva cose di buon senso. Poi è arrivato questo “saggio”, vestito di scuro, che ogni tanto lascia balenare l’antica follia: “C’è sempre un cobra che dorme, eh eh!”. Lui è un maestro in questo…

- Si potrebbe facilmente obiettare che la saggezza può sconfinare, talvolta, nella retorica e nel perbenismo. Non mi sembra che Renato ne sia rimasto sempre immune. Fra l’altro, l’ha ammesso lui stesso: il pubblico mi segue per quegli anni là…

- Sbaglia. Conosco centinaia di fans convinti che lui abbia cominciato con I migliori anni… e lo amano! Si emozionano, provano gli stessi sentimenti che provavamo noi. Poi certo, io gli mostro, oppure scoprono da soli, su Youtube, di cos’era capace venti, trent’anni prima e… scatta la zeromania, la zerofobia e la zeroisteria. A ritroso! Presso le giovani generazioni di zerofolli parte come una caccia al tesoro, ma non è determinante, è solo un amore in più. Lo vogliono anche cominciando da oggi, e questo è degno di nota. Vado in giro e mi dicono: trattacelo bene Renato, ci appartiene, è nostro. E io: cazzo, uomo, ho fatto un libro su di lui! [risate] Comunque sì, lui ormai è una istituzione e questo è il suo attuale pericolo. Nessuno più lo contesta, lo mette in crisi, mentre lui è un uomo da battaglia.

- Piera Degli Esposti, dopo aver assistito alla commedia Quattro dischi e un po' di whisky , scritta da Roberto Biondi e ispirata ai brani del Nostro, ha dichiarato che quel testo mette in evidenza la solitudine di Renato.

- Non ho visto lo spettacolo ma, nel mondo attuale, un artista come Renato Zero non può che essere solo. Del resto, la solitudine è il tema che lui affronta di più, da sempre. L’Italia non ti perdona il tuo essere tu, ti vuol definire, cioè ridurre. E Zero a me sembra sempre un uomo solo, con dentro certe cose, certi esami di coscienza che, per quanto ne canti, non può davvero sperare che qualcuno colga fino in fondo. Perché credo pure che lui sia condannato a riesaminarsi di continuo. E che lo faccia con una certa lealtà. Siamo computer, o meglio, i computer sono stati costruiti a nostra somiglianza. Capita di usare gli stessi programmi per anni, poi ne scopri di nuovi… e l’approccio cambia. A volte poi ti devi “resettare”, pulire un po’ la memoria, per ricominciare. Io non scrivo come dieci o vent’anni fa, tu nemmeno… La scrittura cambia e così la musica. Questo, tra parentesi, è stato uno dei problemi del libro, perché ho cominciato a buttarlo giù, come dicevamo all’inizio, per motivi del tutto privati, molto prima di darlo alle stampe. Così, dentro non c’è sempre lo stesso stile, e ho dovuto renderlo omogeneo. Come lavorare sulla produzione, o sulla post-produzione, di un disco.

- Renato ama rifarsi a figure mitologiche, come Icaro e Prometeo, sempre legate al fuoco. E c’è anche un brano che s’intitola Ancora fuoco. Perché, secondo te?

- Icaro e Prometeo sono due tragedie: quando sono io, quando volo, quando vivo e ti do il fuoco… non me lo permettono. Mi uccidono. Lui spinge sempre al massimo, in tutta la sua vita, e a un determinato punto deve anche imparare a dosarsi, a non lasciarsi travolgere da sé stesso. “Successo, sei falso pure tu!”. E torna, ed è un uomo cambiato, pieno di cicatrici. Già questo a me fa venire la pelle d’oca, e la voglia di raccontare tutto, affinché non vada disperso.

- Poco fa ti è uscita una frase: “Basta che la memoria non diventi presente”. È arrivato il momento di parlare dell’ultimo album

- Presente è un buon disco, lo ascolto ancora dopo quattro mesi. Per essere un capolavoro, però, gli manca un elemento molto importante: le chitarre. Per avere un’idea di cos’avrebbe potuto essere, ascoltati Muoviti. Lì c’è un assolo strepitoso. E la fine de Il sole che non vedi è sprecata. C’è una coda orchestrale, tutta tuoni e fulmini, che ripete il tema in modo pedissequo. Lui ha improvvisato sopra un parlato, perché mancava la chitarra. Ma resta un buon disco. Involuto. Dove si parla spesso di speranza, ma partendo sempre dalla disperazione. Per me è un valore aggiunto: a 45 anni non mi va di venire illuso da uno di 58. Mi aspetto che Renato Zero mi faccia pesare la sua troppa vita, le troppe morti, le troppe lacrime, il troppo di tutto. Mi aspetto d’essere inquietato. Perché ho anche io da dire che sono disperato, che non vedo spiragli. Se Pasolini aveva cancellato la parola speranza, io ho archiviato anche la disperazione. Mi guardo intorno, e mi limito a ghignare di disperazione. E vado nelle scuole, e raggiungo le persone, ma la verità è che ci troviamo in una deriva irreversibile. Così, Renato Zero ci ha regalato un disco maturo, leale, rischiava tutto, poteva infilare dieci successi annunciati e invece perfino la cifra lirica ne esce compressa: lui vuole dire di più, smette le rime, le assonanze chiamate e trova echi, rimandi fra parole. Devi ascoltarle molte volte, quelle liriche, per apprezzarle. Vincenzo Incenzo, che è un grande, ha lavorato molto bene con lui. A suo parere Renato è molto propositivo e rispetta le proposte di chi gli sta vicino. È una fonte continua, un gioco che si rigenera sempre. So che Renato litiga con tutti: forse è questione di personalità, di non voler farsi travolgere. Io penso che un artista debba avere un pessimo carattere, anche perché alla fine la faccia è la sua, la voce è la sua, sul palco ci va lui. Gli artisti democratici non li capisco, sono solo dei cialtroni. Vincenzo mi ha detto: “Ogni tanto improvvisa qualcosa di cui non sono affatto convinto. Poi va sul palco, la esegue… e mi debbo ricredere, funziona”. Io sostengo che Renato ha il coraggio della retorica. Anche perché ha imparato a governarla, almeno su disco. Prima gli sfuggiva di più. Sì, certo, a volte diventa palloso con le sue esortazioni alla preghiera, al pane, alla domenica… ma, come ripeto, se lui decide di starti accanto, lo fa per davvero. Sarà uno dei vantaggi della crescita [risate].

- Come vedi Renato “da grande”?

- Non so, credo che una bella vecchiaia per Zero sarebbe quella di prendere certi classici letterari e ricavarne delle personalizzazioni musicali. Lui è l’unico che può farlo, perché ha saputo miscelare una vita vissuta su coordinate impensabili a un istinto artistico sensibile. Lui potrebbe tirar fuori qualcosa d’imprevedibile, e di davvero valido, da Leopardi, da Nietzsche o da chi gli pare. Perché sarà anche vero che “non basta solo la cultura”, ma non basta nemmeno la strada, eh no. È la cultura (da non confondere con l’erudizione) a dimostrarti che quello che hai colto, che hai scoperto, sta già da qualche parte: l’eterno ritorno e, come sai, non c’è quasi niente di davvero inedito. Io penso che uno come Zero potrebbe, in questo momento, porsi come veicolo di suggestioni culturali e artistiche in modo ancor più scoperto, deciso di prima. Tanti giovani hanno bisogno di scoprire qualcosa di antico, ma senza il tramite giusto non lo faranno mai.

- Per concludere: come è stato accolto il tuo libro?

- Questo libro ha uno strano karma. Hanno capito che non li prendevo in giro. L’ho scritto col massimo rispetto e gli stronco la metà delle canzoni! Ma non importa, quelle buone bastano e avanzano. La prima copia l’ho portata a una ragazzina ricoverata in psichiatria (a torto, peraltro: ero lì con lei e mi veniva in mente Depresso, le facili soluzioni d’una società che spegne i sogni e le curiosità di un’adolescente troppo sveglia). Ho altri amici, giovani, che, in mezzo a un momento difficile, si sono entusiasmati alla storia di Zero, hanno scoperto tutti i suoi dischi e, se non superato, hanno comunque assorbito la crisi. E di fatti curiosi, ne accadono. Una volta, nella Marche, un professore serissimo, culturalmente rigoroso, ascoltando Il cielo, al passaggio su “gli spermatozoi, l’unica forza tutto ciò che hai”, è “partito” e s’è messo a zereggiare: “Ricordatevi che gli spermatozoi di Renato sono nostri, dalle Marche sono partiti e nelle Marche torneranno… sempre!!!”. Un’altra volta presento il libro, cinquanta copie e nemmeno una persona. In un’altra occasione ancora, la libreria era gremita ma mancavano i volumi. Tornate domani, prego! Una sera lo presento a mezzanotte e penso: sarà un miracolo se arriveranno quattro gatti. Me ne sono ritrovati quasi seicento! È sempre diverso, perché parlo di Renato ma, sotto sotto, anche di me. A quindici anni ascoltavo eroZero e mi affacciavo dalla mia finestra di via Monte Nevoso, a Milano, di fronte al covo brigatista col memoriale Moro. Poi cambia tutto, mi ritrovo nelle Marche, la regione di mio padre, e per anni quei vecchi dischi sono le mie madeleines. Scrissi la prima poesia quando uscì Soggetti smarriti. Adesso allestisco spettacoli di poesie, scrivo anche le musiche, e in qualche modo lì dentro c’è qualcosa di quei dischi. Presente l’ho ascoltato, e ne ho scritto il relativo capitolo, il pomeriggio che è uscito: sentivo, scrivevo, mi tornavano alla mente i giri per Milano in furgone, con mio padre, e dentro l’autoradio con le cassette di Icaro. Sarebbe stato contento, di un libro su Renato Zero.

Tanta gente, me compreso, non ha mai vissuto un mondo senza Renato Zero. Spunta la luna, spunta il sole e ogni due anni spunta un disco di Renato. Da lui ho imparato una cosa: uno spettacolo riesce se il pubblico ignora cosa farai fra un attimo. Ama avere paura.



Daniela Tuscano (pubblicato, con qualche modifica, anche da Babysnakes)

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