Peccato che il Salone d’Onore del CONI oggi non fosse colmo come
accade nelle grandi occasioni, spesso di vetrina più che di sostanza.
Peccato perché quanto andato in scena in occasione della presentazione
del progetto “Sport e Integrazione” ha un valore profondo, maggiore di
quanto le parole dei convenuti siano riusciti ad evocare. Crediamo che
oggi, parlando di sport e integrazione, si sia riusciti a toccare uno
dei capisaldi di questa attività, antica e moderna, percependone i
motivi per cui questa è legata intimamente all’uomo.
Ma senza voler andare troppo in profondità e per volare bassi (alla politica spicciola), la giornata di oggi ha mostrato quanto meschine e limitate sono tutte quelle istanze di rigetto delle altre culture, il razzismo strisciante, la xenofobia imperante. Proprie del nostro Paese e dell’Occidente in questi giorni ma non dello sport e, soprattutto, di chi fa sport.
Ma senza voler andare troppo in profondità e per volare bassi (alla politica spicciola), la giornata di oggi ha mostrato quanto meschine e limitate sono tutte quelle istanze di rigetto delle altre culture, il razzismo strisciante, la xenofobia imperante. Proprie del nostro Paese e dell’Occidente in questi giorni ma non dello sport e, soprattutto, di chi fa sport.
In
sostanza al Salone d’Onore del CONI, oggi, si è parlato di
integrazione, senza se e senza ma, spostando l’asticella ben oltre il
problema dello ius soli. Al presidente Malagò si possono rimproverare
tante cose, sicuramente non la capacità di parlare al cuore: “Dobbiamo
fare in modo che la cittadinanza sportiva, e non solo, venga
rapidamente concessa a tutti quei ragazzi e ragazze che vivono, giocano,
si allenano nel nostro Paese. Altri Paesi sono stati in grado di
superare questa barriera psicologica. Lo sport adesso ha il dovere di
smuovere le coscienze del legislatore e del Paese.”
E’ in gioco il nostro futuro: l’Italia senza quel milione di ragazzi stranieri che vivono qui (e che, come ha ricordato Natale Forlani, Direttore Generale dell’Immigrazione e delle Politiche di Integrazione “hanno una percezione dell’Italia migliore di quella che abbiamo noi…”) non potrebbe vincere le sfide del futuro, non solo in campo sportivo, anche economico e culturale. E’ anche una questione di civiltà. Privare della cittadinanza sportiva (e piena, aggiungiamo noi) questo milione di persone vuol dire creare tanti apolidi che non hanno una comunità di riferimento. Ne qui in Italia, tanto meno in paesi da cui provengono solo di nascita e che nella maggior parte dei casi non conoscono e che non li conosce.
Peccato che un così alto messaggio culturale rischia di perdersi in un Italia concentrata sulla caccia a “chi ruba il nostro lavoro”, come ha ricordato il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Giuliano Poletti: “Siamo così impegnati a trovare un responsabile della crisi che non ci rendiamo conto che l’unico modo per accrescere il nostro benessere è quello di accrescere il benessere delle persone che abbiamo vicino. La cittadinanza sportiva può essere un modello per convincere il Paese a seguire questa strada dell’integrazione.”
E’ inutile spiegare, a chi fa e vive di sport, quanto l’integrazione sia parte stessa dell’attività sportiva. Inutile perché scontato; Diana Bianchedi, membro del Comitato Scientifico “Sport e Integrazione”: “Lo sport è un veicolo privilegiato nell’integrazione perché assegna a ciascuno un ruolo preciso in un contesto collettivo, di squadra. E’ più facile ottenere integrazione nello sport che in un contesto scolastico: la comunità, infatti, riconosce l’atleta, lo integra e fa il tifo per lui. Per questo tutti gli atleti devono mettersi a disposizione per andare nelle scuole a raccontare la loro realtà a coloro che non conoscono da vicino il mondo dello sport tanto quanto un atleta”.
Abbiamo paura, però, che nel paese dei salvini e del “si però, gli zingari…”, un Paese che, guarda caso, ha una delle più basse percentuali di praticanti di una qualsiasi attività sportiva, queste parole e questo bellissimo progetto rischiano di essere inutili. Inutili, in questo caso, perché parole che cadono nel deserto dell’indifferenza e del qualunquismo. Dello sport siamo abituati a parlare solo in caso di successi o di fatti di cronaca. Tanto ci basta. Tutto il resto… è noia!
Antonio Ungaro
E’ in gioco il nostro futuro: l’Italia senza quel milione di ragazzi stranieri che vivono qui (e che, come ha ricordato Natale Forlani, Direttore Generale dell’Immigrazione e delle Politiche di Integrazione “hanno una percezione dell’Italia migliore di quella che abbiamo noi…”) non potrebbe vincere le sfide del futuro, non solo in campo sportivo, anche economico e culturale. E’ anche una questione di civiltà. Privare della cittadinanza sportiva (e piena, aggiungiamo noi) questo milione di persone vuol dire creare tanti apolidi che non hanno una comunità di riferimento. Ne qui in Italia, tanto meno in paesi da cui provengono solo di nascita e che nella maggior parte dei casi non conoscono e che non li conosce.
Peccato che un così alto messaggio culturale rischia di perdersi in un Italia concentrata sulla caccia a “chi ruba il nostro lavoro”, come ha ricordato il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Giuliano Poletti: “Siamo così impegnati a trovare un responsabile della crisi che non ci rendiamo conto che l’unico modo per accrescere il nostro benessere è quello di accrescere il benessere delle persone che abbiamo vicino. La cittadinanza sportiva può essere un modello per convincere il Paese a seguire questa strada dell’integrazione.”
E’ inutile spiegare, a chi fa e vive di sport, quanto l’integrazione sia parte stessa dell’attività sportiva. Inutile perché scontato; Diana Bianchedi, membro del Comitato Scientifico “Sport e Integrazione”: “Lo sport è un veicolo privilegiato nell’integrazione perché assegna a ciascuno un ruolo preciso in un contesto collettivo, di squadra. E’ più facile ottenere integrazione nello sport che in un contesto scolastico: la comunità, infatti, riconosce l’atleta, lo integra e fa il tifo per lui. Per questo tutti gli atleti devono mettersi a disposizione per andare nelle scuole a raccontare la loro realtà a coloro che non conoscono da vicino il mondo dello sport tanto quanto un atleta”.
Abbiamo paura, però, che nel paese dei salvini e del “si però, gli zingari…”, un Paese che, guarda caso, ha una delle più basse percentuali di praticanti di una qualsiasi attività sportiva, queste parole e questo bellissimo progetto rischiano di essere inutili. Inutili, in questo caso, perché parole che cadono nel deserto dell’indifferenza e del qualunquismo. Dello sport siamo abituati a parlare solo in caso di successi o di fatti di cronaca. Tanto ci basta. Tutto il resto… è noia!
Antonio Ungaro
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