30.4.24

DIARIO DI BORDO N°46 ANNO II . DIO è ANCHE FUORI DALLA CHIESA IL CASO DI Don Totoni Cossu, il parroco che porta Dio nei bar di Bitti., Ucraina, donna di 98 anni percorre 10 chilometri a piedi per abbandonare il Donbass occupato dai russi ., ed altre storie

Cari lettori   eccoci  ad  un  nuovo  n  della  rubrica  diario di bordo  .  In esso   le  4  storie    \ notizie  , accumunate  da  : viaggi , esplorazione , ricerca  


Don Totoni Cossu, il parroco che porta Dio nei bar di Bitti

LA  NUOVA  SARDEGNA  
28 aprile 2024 
                                        di Valeria Gianoglio

La missione del prete: «È mio dovere andare e gettare il seme. Iniziamo alle 19,30, facciamo una lettura e poi parliamo di amore e di perdono»



Bitti
«Salude, buongiorno. Tottu bene? Itte parimmusu? Bella die, finalmente». Un battesimo appena celebrato nella chiesa di San Giorgio, preceduto da tre messe, ma per don Totoni Cossu pure l’aperitivo al bar dopo la liturgia domenicale, è occasione di ritrovo, nuovi proseliti, socialità, un commento sulla sua adorata Juve, i ricordi di quando giocava nel ruolo di libero allo Sporting Siniscola. E speranze da buon pastore di una comunità nella quale tanti vivono ancora di agricoltura. «Cosa dice, don Totò, pioverà? L’acqua ci serve». «Eh, speriamo – risponde lui – io ogni giorno prego perché piova, ma a pregare mi lasciate solo. Dobbiamo chiedere tutti insieme che piova, ma con calma, perché altrimenti anche da queste parti ne abbiamo paura».
Ed è lì, tra le mura anni ’70 del bar di Francesco Carzedda, a due passi dalla parrocchia nella parte più antica di Bitti, che ogni giorno di festa, dopo aver posato l’abito talare, don Totoni Cossu fa tappa insieme al suo volenteroso aiutante, Franco Contu. Lì dove tre anni fa, per caso ma non troppo, le circostanze lo avevano ispirato a portare la parola di Dio dove in genere regnano caffè, chiacchiere e l’inossidabile “0.20” bionda.
«Eravamo qui – ricorda davanti a un gruppetto di clienti del locale – come sono entrato dentro il bar ho visto un po’ di persone e ho detto “Vi ho segnato a tutti quanti l’assenza, stamattina in chiesa”. E loro, sorridendo, mi hanno detto “Eh, no, don Totò, se non viene lei qui ...”. “Già vengo anche da voi, ho risposto, accetto la sfida. Ed è così che è cominciato tutto: quella è stata la scintilla finale di qualcosa che avevo in animo di fare da tempo».
Tre anni dopo quella battuta, l’iniziativa passata alla storia e alle locandine sparse nel paese come “La mezza birra evangelica”, dall’esperimento è diventata una certezza. Dieci bar coinvolti per questa terza stagione – dai sette iniziali del 2022 – una media di trenta presenti, i locali che secondo un calendario programmato in netto anticipo per un’oretta in una sera prescelta ospitano don Totoni e il suo desiderio di portare la parola evangelica dove non era mai arrivata. «Gesù andava ovunque – ripete don Totoni – e questa è la mia visione di chiesa. Papa Francesco, specialmente in questo periodo, lo dice sempre, di andare fuori dalle chiese, in periferia, dove ci sono le persone. Tanto più in una società secolarizzata. Credo che sia il mio compito di sacerdote, far questo: andare, gettare il seme, incontrare le persone là dove si ritrovano. E sì, dunque, portare anche la chiesa all’interno dei bar. Del resto, nei nostri paesi, a Bitti ma non solo, il bar ha una funzione diversa dalla città. In città è il luogo del consumo, paghi un caffè, una bibita e te ne vai. Da noi, invece, il bar è il luogo di incontro, è il luogo dove le persone stanno insieme. E proprio per questo che ho voluto portare lì, la parola di Gesù».
E così gli incontri della “Mezza birra evangelica”, a Bitti sono arrivati già al terzo anno. Più o meno lo stesso copione, la stessa scansione oraria – «quest’anno li cominciamo al le 19.30 perché aspettiamo l’orario nel quale i pastoria tornano dalla campagna» – cambia solo il tema della lettura evangelica, e anche quello del dibattito e delle domande finali. «Quest’anno – racconta don Totoni – abbiamo parlato del tema dell’amore ma anche del perdono. Ed è allora che dico che il nostro prossimo è chiunque, anche chi ti è antipatico, ti ha offeso, e che bisogna amare anche i propri nemici. E dopo la lettura, quando lascio a tutti la parola, l’altro ieri c’è stato anche chi mi ha detto che perdonare un nemico non era possibile. E si sa, dalle nostre parti, la questione è davvero delicata. Gli ho risposto che il perdono, e il saper perdonare, è una grazia. E che dobbiamo chiederla al Signore, perché lui può darcela. E cito il caso di Eva Cannas, al Quadrivio, davanti a papa Giovanni Paolo II, quando ha perdonato gli assassini dei due fratelli».
«Mentre all’inizio dell’incontro – racconta ancora don Totoni – cominciamo con una preghiera. Poi ringrazio i presenti, introduco il tema. Durante l’incontro non si beve. Ma al termine, si sta insieme per un piccolo momento conviviale e il primo giro è sempre a conto del parroco». «La prossima frontiera dopo il bar? L’ho sperimentata già l’anno scorso e segue le mie origini, visto che vengo dal mondo della campagna – risponde don Totoni – ed è qualcosa che tocca gli ovili e le campagne. L’anno scorso abbiamo fatto qualche messa in cinque ovili, quest’anno, invece, abbiamo fatto una messa unica nella chiesa campestre di San Giovanni. E l’idea è di proseguire: lo Spirito santo ci guiderà».


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Ucraina, donna di 98 anni percorre 10 chilometri a piedi per abbandonare il Donbass occupato dai russi


La polizia ucraina ha diffuso sui canali social  in   questo video     un'intervista all'anziana Lidiya Stepanivna: la donna, che nel video afferma di avere 98 anni, racconta di aver camminato 10 chilometri per abbandonare la parte di Ocheretyne (Donbass) occupata dai russi.Ha lasciato casa sua, spiega, con il marito e il figlio e nel tragitto ha avuto a disposizione soltanto due bastoni. "Sono sopravvissuta alla guerra precedente, sopravviverò anche a questa", le sue parole. La polizia ucraina ha diffuso sui canali social un'intervista all'anziana Lidiya Stepanivna: la donna, che nel video afferma di avere 98 anni, racconta di aver camminato 10 chilometri per abbandonare la parte di Ocheretyne (Donbass) occupata dai russi.
Ha lasciato casa sua, spiega, con il marito e il figlio e nel tragitto ha avuto a disposizione soltanto due bastoni. "Sono sopravvissuta alla guerra precedente, sopravviverò anche a questa", le sue parole.


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Alla ricerca di lingue antiche
Valerio Millefoglie, autore del podcast “Voci nascoste”, ripercorre su Altre/Storie il suo diario di viaggio dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, alla ricerca di volti, voci e parole antiche.



© Roselena Ramistella

Giorgio Fusco, un ragazzo di 28 anni, poco dopo la mezzanotte di giovedì 4 aprile canta Lule Lule, brano della tradizione arbëreshë, accompagnandosi alla chitarra nella casa della nonna che non c’è più. Mi dice che in questa casa c’erano più persone che sedie, che letti; «hanno vissuto in tanti», ripete, e questi tanti mi sembra abbiano vissuto sia contemporaneamente che separatamente, separati dal tempo, come lui che in questa casa si sente più vicino alla sua infanzia.La casa è una stanza con un bagno e un balcone da cui si vede tutta Piana degli Albanesi, paesino a 25 chilometri da Palermo, eppure lontanissimo dalla città. Ku vate moti c’is nje here, “dov’è andato il tempo?”, intona Giorgio nella lingua portata qui nel 1400 dagli albanesi in fuga dai turchi-ottomani e riecheggiata fino alla sua generazione. La risposta è che il tempo passato è nel luogo in cui ci troviamo, il luogo che è anche la sua voce che ne contiene tante, arriva dal profondo, da uno scavo che ha nella pancia, una caverna che la custodisce e la fa uscire solo quando si esprime in quella lingua che a lui dice molto di più di ciò che dicono le parole.
Giorgio è una delle tante voci che ho ascoltato e registrato nel mio viaggio attraverso tre lingue antiche, tuttora presenti: l’arbëreshë in Sicilia, il griko nella Grecìa Salentina e il francoprovenzale in Valle d’Aosta. “La lingua è una terra”, ho appuntato sul mio diario di viaggio, “anche di una terra che non c’è”. 
Vittoria, 18 anni, indossa la sua stirpe. La srotola su un tavolo della biblioteca di Piana degli Albanesi. «Si chiama brezi e vuol dire stirpe, generazioni», mi spiega svelandomi la cintura dell’abito tradizionale, regalo di battesimo del nonno, «poi se n’è andato via, quindi è l’ultimo ricordo vivo che mi rimane addosso. E questo è un peso, perché il brezi pesa. Quando guardo la cintura di mio nonno penso di vedere il suo essere forte». A Giorgio, a Vittoria, a tutte le persone incontrate ho chiesto di tradurmi “voci nascoste” nella lingua madre, quella lingua per tutti minoranza e per loro l’alfabeto più importante e necessario. Eppure, di ritorno da questo viaggio, soprattutto nel tempo, la parola che in me ha generato più eco è “forte”. Il richiamo forte di cui mi ha parlato un ragazzo all’ora di pranzo che spopola le strade, in una pozza d’ombra al riparo dal sole, fuori dal castello di Corigliano d’Otranto. «Ero nella mia casa al mare – mi ha raccontato – stavo leggendo un libro in cameretta quando vengo attirato dalla musica che proveniva dalla televisione. Mio nonno e mia zia stavano guardando la notte della Taranta, in diretta da Melpignano, a poca strada da noi. Mi resi conto di essere così trascinato da quella musica ipnotica che cominciai a piangere, mi chiamava. Presi l’auto e guidai fino al concerto, verso quella lingua che mi aveva rapito». 

© Antonio Ottomanelli

Io sono stato rapito dal volante delle auto prese in affitto, capsule dimensionali che mi hanno portato dalle valli alte a quelle medie fino a quelle basse della Valle d’Aosta, a rincorrere il francoprovenzale. Per sentire dove lo si parla e dove è diventato un linguaggio fantasma, che altrettanto fortemente si perde da porta a porta come mi hanno detto Elodie e Asia, due amiche e vicine di casa, e in una casa qualcosa è rimasto e nell’altra no.
L’ho trovato forte e chiaro nella casa di Liliana Bertolo, cantastorie che mi ha cantato in patois La ballata dell’amore cieco di Fabrizio De André. Lo stesso amore cieco che Fabien Lucianax, giovane rapper valdostano, prova verso il patois, tanto da scrivere rime in questa lingua proveniente dall’epoca di Carlo Magno. Ho registrato raffiche di vento che a volte hanno coperto le parole di chi intervistavo, ho riparato il microfono dall’acqua di un lago che stavo registrando e ho catturato prima i passi sul pavimento di legno di una chiesa e poi la confessione di un prete che ha iniziato a parlare il francoprovenzale solo a diciotto anni. Da piccolo quella lingua dei nonni lo imbarazzava perché era la lingua della zappa, della terra, del dizionario dove il cielo è più condizione meteorologica che spirituale e tutto ciò che è astratto non ha vocabolo.

© Arianna Arcara

Una voce fra tutte ha assunto significato per me, perché mi ci sono ritrovato. La voce di Livio Munier, vicepresidente dell’Association Valdôtaine Archives Sonores: «L’archivio nasce nel 1980 e ha come scopo quello di registrare persone. Noi all’inizio eravamo denominati come associazione militante. Abbiamo accumulato più o meno un 15mila ore di registrazione. Ero giovane nel 1980. Ho iniziato allora e adesso sono ancora attivo e continuo a registrare persone».La mia ricerca – partita nel 2018 con un reportage per la raccolta Stiamo scomparendo Viaggio nell’Italia in minoranza (CTRL Books) – era partita dalla parola Bukë, pane in arbëreshë. E oggi so che il mio pane, ciò di cui mi cibo, sono le lingue, le lingue interne a un popolo, a una persona, le parole, le voci degli altri

*Valerio Millefoglie, scrittore e giornalista, ha pubblicato Manuale per diventare Valerio Millefoglie (Baldini Castoldi Dalai), L’attimo in cui siamo felici (Einaudi), Mondo piccolo. Spedizione nei luoghi in cui appena entri sei già fuori (Laterza). Ha diretto “ARCHIVIO magazine”. Scrive su “D La Repubblica”. Il suo ultimo libro è “Tutti vivi” (Mondadori Strade Blu, 2024)


In Italia esistono lingue antiche tuttora in uso, un ricco patrimonio linguistico ancora vivo e vibrante.
Con il progetto Voci Nascoste - Le lingue che resistono, attraverso la fotografia e un podcast, raccontiamo parole e suoni tramandati per generazioni, capaci di resistere persino allo spopolamento dei paesi
Questo progetto multidisciplinare  fatto  dal  sito  www.mariocalabresi.com/  ( stessa  fonte  della storia riportata prima   ) si chiama Voci Nascoste – Le lingue che resistono e attraverso la fotografia e un podcast si concentra su tre lingue antiche: il Patois francoprovenzale in Valle d’Aosta, il Griko in Salento, l’Arbëreshë a Piana degli Albanesi in Sicilia. Tre lingue ancora in uso grazie agli sforzi di coloro che mantengono vive tradizioni secolari e contemporaneità facendo la più semplice delle azioni: parlare.
Due fotografe e un fotografo, Arianna Arcara, Roselena Ramistella e Antonio Ottomanelli hanno vissuto con queste comunità per restituirci un paesaggio visivo e sonoro articolato, dove la fotografia contemporanea si incontra con la storia, la vivacità delle persone e la sacralità dei luoghi, delle feste e dei miti.  Un progetto che è stato ideato da Camera – Centro Italiano per la Fotografia – con Chora Media, realizzato in partnership culturale con il Gruppo Lavazza e curato da Giangavino Pazzola.La mostra che raccoglie le foto sarà visitabile a Torino dal 20 aprile negli spazi di Camera in occasione di EXPOSED Torino Foto Festival.

I tre episodi del podcast Voci Nascoste sono disponibili su tutte le principali piattaforme gratuite

Nel podcast Voci Nascoste, che completa il progetto ed è stato scritto da Valerio Millefoglie e raccontato da me, ripercorriamo in tre episodi le tappe del viaggio dei fotografi. Ogni puntata esplora il paesaggio visivo, morfologico e sonoro del paese, dalle voci nascoste tra le montagne ai canti tradizionali delle feste popolari, fino ai giovani che arricchiscono il vocabolario di queste lingue antiche con le parole del contemporaneo. In Valle d’Aosta incontriamo rapper che compongono canzoni in francoprovenzale, amanti della musica che adattano in patois i classici della musica italiana e ragazze giovanissime che scelgono di vivere come i propri nonni e bisnonni, a contatto con gli animali. In Puglia il griko risuona nelle feste estive e nei discorsi nei bar e nelle piazze, dove uomini e donne di ogni età la tengono viva giorno dopo giorno, per evitare di perdere per strada parole e significati. A Piana degli Albanesi, in Sicilia, l’arbëreshë è il suono di una comunità italiana con le radici in Albania, con tradizioni fortissime che si tramandano di madre in figlia nelle trame sofisticate e nelle decorazioni dorate degli abiti da cerimonia.

29.4.24

Norberto De Angelis, atleta paralimpico disabile da 32 anni, difende il generale Vannacci e le sue idee sulla disabilità

   di  cosa  stiamo parlando  

LE PAROLE DI VANNACCI

Credo che delle classi con ‘caratteristiche separate’ aiuterebbero i ragazzi con grandi potenzialità a esprimersi al massimo, e anche quelli con più difficoltà verrebbero aiutati in modo peculiare“, erano state le parole del generale questa mattina al quotidiano di Torino. “Non è discriminatorio. Per gli studenti con delle problematiche mi affido agli specialisti – aveva continuato-. Non sono specializzato in disabilità. Un disabile, però, non lo metterei di certo a correre con uno che fa il record dei cento metri. Gli puoi far fare una lezione insieme, per spirito di appartenenza, ma poi ha bisogno di un aiuto specifico. La stessa cosa vale per la scuola“.


 Oltre  alle  polemiche    che  ha  susscitato  ed  ancotra  crea   ,  anche a  destra  ,   ecco    che    compare   (  oltre  ai suoi sostenitori  )      qualche  suo amico non intervenisse   in difesa  di Vanaccci   cazzeggiando  telegram   nei   vari  canali   alternativi o  pseudo tali      ho  trovato    quest' articolo   

 di Monia Sangermano per Strettoweb

Le parole del generale Vannacci sulle classi per disabili a scuola stanno facendo scalpore. “Credo che delle classi con ‘caratteristiche separate’ aiuterebbero i ragazzi con grandi potenzialità a esprimersi al massimo, e anche quelli con più difficoltà verrebbero aiutati in modo peculiare“, ha detto Roberto Vannacci in un’intervista. E il clamore che si è creato intorno a queste dichiarazione sta monopolizzando la scena dell’informazione nazionale.Secondo Vannacci le sua parole sono state travisate e rese tutt’altro dal titolo de La
Stampa. Ma la bufera non si placa. Ora, nel dibattito, entra a gamba tesa chi la condizione di disabilità la vive su se stesso. “Non nascondiamo certe problematiche dietro un dito e smettiamola di usare la disabilità solo in certi frangenti (politica docet) o quando ci si vuole detergere la coscienza. Per quello che il generale Vannacci ha espresso io sottoscrivo tutto e lo faccio convintamente come persona di causa. Io col generale Vannacci ho vissuto una serena infanzia insieme. Io, lui la sua e mia famiglia e vi garantisco che mai ho avuto la più vaga o lontana sensazione di sospettare le tante accuse e calunnie a lui spesso dirette. Si è vero siamo amici, vecchi e ottimi amici, ma per quel che può valere ciò che vi dico: lui è una

persona di grande umanità, cuore e famiglia, oltre a essere mio caro amico“.E’ quanto dichiarato in una lettera visionata dall’AGI e scritta da Norberto De Angelis, disabile da 32 anni. Nella missiva racconta che prima del trauma è “stato campione d’Europeo di football americano ad Helsinki 1987 con la nazionale italiana con tanto di record dei placcaggi“. In  seguito anche “Campione italiano di pesistica paralimpica 2012 e record mia categoria nel 2016. Campione italiano di danza in carrozzina a Rimini 2019“.
Inoltre, ricorda l’atleta paralimpico, “sono stato insignito dell’onorificenza Omri di cavaliere della Repubblica Italiana proprio per le mie azioni a difesa della disabilità in Africa (e non solo), quindi vi prego di smettere col travisare o martoriare chi, nello specifico Vannacci, parla di reali ma scomode verità, pseudo tabù e non della solita puerile ‘fuffa“.

28.4.24

ma in iraq non avevano portato la democrazia ? Om Fahad, tiktoker irachena uccisa a colpi di pistola. Era stata condannata per i suoi video «contro pudore e moralità» ed altre storie


   

Om Fahad, tiktoker irachena uccisa a colpi di pistola. Era stata condannata per i suoi video «contro pudore e moralità»


ecco a cosa è servità la guerra contro sadam hussein a portare la democrazia il caso di Om Fahad, tiktoker irachena uccisa a colpi di pistola. Era stata condannata per i suoi video «contro pudore e moralità» .


Om Fahad, tiktoker irachena uccisa a colpi di pistola. © Ansa

Vitale, sorridente, paffuta, vestiti sgargianti: così appariva nei filmati condivisi la settimana scorsa in cui si era ripresa davanti a uno specchio e mentre guidava il suo suv. Ogni video visto centinaia di volte su TikTok. Di Om Fahad, vero nome Ghufran Sawadi, influencer irachena da mezzo milione di follower resteranno immagini gioiose, nonostante venerdì sera uno sconosciuto le abbia sparato a bruciapelo uccidendola mentre era seduta in macchina davanti casa, nel quartiere Zayouna di Baghdad. Quello di Om Fahadnon non è il primo omicidio di una influencer in Iraq. Lo scorso anno a settembre Noor Alsaffar, una tiktoker di 23 anni seguita sui social da centinaia di migliaia di persone, è stata uccisa a colpi di pistola. Cinque anni prima, nel 2018, a cadere sotto i colpi dei killer era stata Tara Fares, modella di 22 anni. Nel Paese inoltre continua ad essere una pratica diffusa il delitto d'onore: l'ultimo a gennaio scorso quando la 22enne star di YouTube Tiba al-Ali è stata strangolata dal padre

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Si tatua una donna nuda sulla pancia, il particolare dell'ombelico lo mette nei guai: lui si toglie la maglietta in vacanza e rischia l'arresto

Farsi fare il tatuaggio più assurdo che possa venire in mente e non avere rimpianti. Nonostante gli sia quasi costato l'arresto. Richard Hart, sessantenne del Galles, ha speso 65 euro per imprimersi una donna nuda sulla pancia per il suo 40esimo compleanno. Fin qui nulla di assurdo, se non avesse però deciso di raffigurarla con le gambe spalancate, con il suo ombelico al centro a rappresentare le parti intime. «Se avessi una sterlina per tutti coloro che hanno chiesto di fare una foto, sarei un uomo molto ricco», ha
detto al Southwest News Service. Tuttavia, durante una vacanza in Spagna quel disegno gli è quasi costato l'arresto. Durante una vacanza a Benidorm, località di mare sulla costa est della Spagna, i poliziotti hanno minacciato Richard Hart di arrestarlo se non si fosse immediatamente rimesso addosso la maglietta, nascondendo quel tatuaggio. «Ero a Benidorm e faceva caldo, mi sono tolto la maglia e sono venuti due poliziotti dicendomi di coprirmi altrimenti mi avrebbero ammanettato», ha ricordato Hart, che è un ex proprietario di bar in pensione.
«Abbiamo litigato un po', poi ho dovuto accettare la loro imposizione. Ho dovuto tenere una maglietta per il resto delle vacanze». La moglie dell'uomo ha raccontato di non essere a disagio con quel tatuaggio, ma «davanti ai nipotini è sempre meglio nasconderlo».

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ELICOTTERO  ATTERRA DAL   BENZINAIO:  DOVEVA FARE   RIFORNIMENTO
Un piccolo elicottero è  atterrato su una strada e  ha fatto rifornimento in una  stazione di servizio in Romania, tra lo stupore di automobilisti e  passanti. È avvenuto a Curtea  de Arges, piccola cittadina in  Romania. Il pilota, un   tedesco, ha spinto l’elicottero,  modello Robinson R44, Fino alla pompa per fare rifornimento. Le immagini  (  a  lato) sono state viste  migliaia di volte sui social, mentre la polizia ha avviato  un’indagine per accertare l’accaduto. Molto   probabilmente il velivolo è  rimasto senza carburante e il  pilota ha deciso di atterrare  alla stazione di servizio più  vicina. Fatto rifornimento, è  decollato, mentre i passanti  filmavano la curiosa scena. 


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Porta a spasso un suricato in piazza Duomo: l’animale assediato dai curiosi che chiedono di fare una foto


I milanesi sono piuttosto abituati a vedere spettacoli fuori dall’ordinario in piazza Duomo, eppure la presenza di un suricato al guinzaglio che passeggiava tranquillamente con i suoi amici umani è riuscita a coglierli di sorpresa: ad accompagnare Timon – che è una femmina e ha preso in prestito il nome del suo famosissimo alter ego disneyano – nella sua escursione nel centro di Milano c’erano Efrem Brambilla, il sindaco di Santa Maria Hoè (nel Lecchese), e sua moglie Eleonora Maria Rizzo.
“Non mi sarei mai aspettato di ricevere un’attenzione del genere. Non riuscivamo a muovere un passo perché tutte le persone che incontravamo volevano accarezzare Timon o farci qualche domanda su di lei – sorride Brambilla – Adulti e bambini, chiedevano informazioni sulla sua età, le sue abitudini alimentari, la sua storia e così via. E lei era perfettamente a suo agio, felice di godersi tutto quell’affetto”.
Qualcuno poi ha riconosciuto in lei il suricato già visto su Facebook, dove Timon è diventata una
piccola star grazie ai numerosi post che Efrem Brambilla le dedica, raccontando la propria quotidianità domestica.
“Sia io sia mia moglie siamo cresciuti circondati dagli animali e li amiamo moltissimo. Eleonora in particolare nutre da sempre una passione per i suricati – continua – Così quando qualche mese fa una delle nostre due cavie Sheltie è morta per un tumore mi è venuto naturale pensare di regalargliene uno. Ovviamente ne abbiamo parlato a lungo prima dell’acquisto, perché ogni animale ha le sue particolari esigenze ed è fondamentale informarsi per conoscerle al meglio prima di farlo entrare in famiglia”.
Nata lo scorso novembre in un allevamento in Veneto, Timon ha trascorso i primi due mesi di vita insieme alla madre e ai fratelli e poi si è trasferita a Santa Maria Hoè.
“In casa abbiamo anche un bulldog francese e una cavia e tutti vivono insieme liberi, anche se ciascuno di loro ha i propri spazi – prosegue – Timon alla sera si accoccola sul nostro petto mentre ci rilassiamo sul divano, mentre di giorno esplora la casa o gioca con Madame Muffin, la nostra cagnolina”.
A cinque mesi, il suricato sta scoprendo il mondo e adora le passeggiate: “L’abbiamo abituata al guinzaglio e lei è felicissima di uscire – conclude il sindaco di Santa Maria Hoè – Quando siamo stati a Milano le ho protetto la punta della coda con uno strato di nastro medico, ma solo a scopo precauzionale, per evitare che raccogliesse germi e sporcizia da terra. È stata benissimo: lo so perché gli animali sono molto bravi a farci capire quando qualcosa li fa sentire a disagio. Basta saperli ascoltare”

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Ginevra, record di nonni e bisnonni per la neonata di quinta generazione: ha anche la trisavola

La città di Roma, tra le antiche mura e gli storici vicoli ci regala una storia familiare meravigliosa. infatti,questa non è stata semplicemente una nascita, ma il culmine di una storia familiare straordinaria che abbraccia cinque generazioni, tutte riunite per celebrare l'arrivo di questa piccola meraviglia.
Ginevra è una bimba fortunata: nata il  7 aprile, ha trovato ad   accoglierla l’amore dei genitori e 
dei nonni, ma anche di quattro   bisnonni e di una trisavola di  92 anni. Un vero “record di  affetti”. Ma
va anche detto   che i suoi genitori sono   giovani per la media  italiana: mamma Chiara  Marchegiani ha 22 anni e   papà Lorenzo Angelini 24   (nel tondo). Racconta Chiara: «Siamo molto felici di iniziare 
questo percorso accompagnati   dall’affetto di così tanti nonni».Insieme ai genitori, che hanno accolto la loro bambina con l’amore indescrivibile che solo una mamma e un papà possono dare, c'è un caleidoscopio di nonni e  bisnonni  , ciascuno dei quali portatore di una parte preziosa di quel legame che unisce il passato al presente e al futuro  .  qui  in qiuesto video ( on sono riuscito ad estrararlo ) di www.leggo.it ulteriori dettagli  su questa grande   famiglia   allargata 

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le  ultime   news  sono      sotto   forma  di  slide  \  foto    non avevo  voglia  di   di  fare  cute  - paste

 






27.4.24

Contenuti o-Scurati Molto bella la condivisione in massa del monologo di Scurati, peccato che serva come applicare un cerotto su una ferita da motosega. LORENZO FANTONI

 




Contenuti o-Scurati

Molto bella la condivisione in massa del monologo di Scurati, peccato che serva come applicare un cerotto su una ferita da motosega.

 
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In queste ore mi sono visto Civil War, che è senza dubbio un film sugli scenari possibili di una pressione politica, economica e sociale che sta montando da molti anni ma è anche, tra le altre cose, un film sul giornalismo di guerra, sul bilanciamento tra raccontare ed esporre, sulla verità e la post verità e sui sacrifici e le compartimentazioni che sono necessarie perché determinate storie arrivino al pubblico. E perché i giornali campino.

Uno dei più crudeli paradossi dell’informazione è che un clima sereno è il più grande nemico della stampa. La guerra non è solo un grandissimo business per gli Stati, per i politici che sanno sfruttare le nostre paure e per molte aziende che ci sguazzano, ma lo è anche per l’informazione. Perché le immagini di guerra ci colpiscono facilmente (quando ci arrivano e non sono filtrate), perché ci spingono a volerci informare e a “consumare” il prodotto notizia.

E questa cosa è ancora più vera oggi, che pur avendo tutti i mezzi per conoscere qualcosa siamo così bombardati di notizie che non riusciamo più a capire il confine tra verità, manipolazione e ci affidiamo a servizi che, in qualche modo, facciano per noi una curatela con meccanismi che ci sono oscuri.

Allargando il campo, qualsiasi periodo di incertezza è una manna per la stampa (e per i comici). Pensate agli anni d’oro del governo Berlusconi che ha praticamente dato vita a una nuova testata e ha lanciato la carriera di alcuni giornalisti.


A margine: ovviamente in questi giorni mi sono visto Il Giovane Berlusconi su Netflix che pur sfiorando l’apologia e intervistando quasi solo voci amiche ci mostra sia quanto non fosse ‘sto grande imprenditore e di come il passaggio dalla televisione alle politica sia stato un naturale scivolamento di campo dopo aver conquistato cuori e menti degli italiani. Conquista che lui aveva capito già ai tempi in cui cercarono di oscurarlo e furono gli italiani stessi a rivolere i puffi e Dinasty.


Molto più in piccolo, penso anche alle discussioni vuote e cicliche attorno a quale sia il miglior hardware, quale gioco meriti il premio di titolo dell’anno.

C’è poco da fare, il giornalismo non se ne fa niente della calma. E questo è una cosa con cui dobbiamo scendere a patti anche quando pensiamo che a sguazzare nel drama siano solo i content creator più abietti o i politici più discutibili. Pensavo queste cose leggendo un articolo di Nieman Lab che riporta un calo del traffico per molti siti d’informazione nel periodo post Trump e post-pandemia.

Meno attacchi e fuochi d’artificio di Trump vuol dire meno gente che cerca di capire cosa ha detto e magari si abbona ai siti per sostenere una informazione che gli vada contro. Quando Trump si scagliava contro la stampa alcuni erano incentivati a spendere soldi per supportarla.

Inoltre, e questa è un’altra cosa interessante del nostro comportamento: chi vince un’elezione tende a leggere meno giornali e informarsi meno. E lo fa perché tutto sommato gli va bene così, considera il suo ruolo assolto, smette di interessarsi della politica. E magari non vuole sentire eventuali voci che mettono in discussione la sua scelta di voto. Scusate il lungo prologo.

La cultura si fa coi soldi

Nell’ennesima dimostrazione dell’Effetto Streisand¹ (sì, c’entra Barbra Streisand), quel mirabolante meccanismo secondo cui più qualcuno vuole nascondere qualcosa, più quella cosa verrà condivisa perché improvvisamente caricata di un senso e di una valenza persino maggiore dopo il tentativo di censura, offerta dal monologo di Scurati sul 25 Aprile si è inserito anche il dibattito sul prezzo del lavoro culturale.

Perché il trucco, alla fine, è sempre buttarla sui soldi, sugli intellettuali strapagati, sull’ “e io pago!”, perché se c’è una cosa che chiunque può capire è il linguaggio dei quattrini, soprattutto chi quei soldi li vede dopo un mese di duro lavoro e può essere manipolato a odiare il solito professorone di sinistra.

A Napoli applausi per Scurati che legge il monologo

Mentre il monologo veniva ripetuto, copiato, utilizzando anche biecamente per cercare di far diventare virale il proprio post (vi giuro di aver visto proprio call to action a tema), mentre c’è chi ha prontamente tentato di paragonarsi a Scurati per salire sul carro del censurato e fare un po’ di cara vecchio marketing della vittima, io non potevo fare a meno di notare come per l’ennesima volta fossi complice di una reazione di pancia che, per quanto lodevole, svuotava di significato ogni tentativo di approfondimento.

Insomma, come quando tutto quello che si è fatto per l’orribile scena di Porta a Porta con una platea di uomini che parlava di aborto è stato postare l’immagine di Bojack Horseman.

Innanzitutto perché Scurati è solo il caso più eclatante e palese di uno smantellamento che va avanti da tempo e del quale ci arrivano solo i tonfi più grossi, quelli che sono più facili da condividere o sono raccontati da chi può permettersi una esposizione.

Ma mentre un sacco di intellettuali, anche di sinistra, correvano impauriti dietro alla narrazione del “pensiero unico” e della cancel culture, mentre ci si preoccupa di evitare una shitstorm perché mettersi in discussione è faticoso e un sacco di gente viene costantemente invitata, premiata, ascoltata mentre urla di venire cancellata e silenziata, qualcuno la cancellazione l’attuava davvero e di certo non riguardava il diritto delle persone di insultare e fare battutine su minoranze e altre categorie.

Per non parlare di quando non si parlava di Gaza o se ne parlava (e se ne parla tutt’ora) in modo distorto e, tutto sommato, tutta sta voglia di urlare alla censura non c’era.

Quello che mi ha colpito in questo ennesimo tumulto social non riguarda tanto la censura, il fascismo di governo, il sistematico gaslight² meloniano che a ogni critica ti risponde come il marito manipolatore per cui è tutto nella tua testa e sei una pazza, ma che venga dato per scontato il ruolo degli intellettuali e il prezzo del lavoro intellettuale.

Tutto questo nel paese che da sempre dice ai suoi figli che con la cultura non si mangia e vede nell’intellettuale una figura o inutile o santa, che si nutre d’aria.

Perché se da una parte c’era chi riteneva esorbitante la cifra chiesta per quel monologo, era straniante vedere un sacco di gente difendere il diretto di un intellettuale a venire pagato per il proprio lavoro, ribadire che era una cifra congrua per la sua levatura. Ma nel frattempo il lavoro culturale viene quotidianamente demolito e deprezzato anche da chi nella cultura ci si rotola come se fosse un bel prato verde.

Come ci racconta l’aneddoto su Picasso e la signora che voleva un ritratto: quando lei si arrabbia perché ci ha messo solo pochi minuti per farlo lui risponde che ci ha messo tutta la vita (in verità credo dicesse che ci ha messo tutta la vita per disegnare come un bambino, ma vabbè).

Quindi è ovvio che un monologo di due minuti in televisione non richiede due minuti, ma vi assicuro che anche moderare un dibattito, presentare un libro, scrivere un articolo o qualsiasi altra cosa per cui è quasi sacrilego chiedere dei soldi non si fa in due minuti. Spesso sono momenti in cui si condensano anni di studi, di riflessioni, di letture. Distillati di conoscenza che spariscono con la stessa velocità con cui si butta giù un sorso di liquore, che ha richiesto magari anni di affinamento in botte.

Il lavoro culturale in Italia è costantemente deprezzatosvilitotrasformato in un favore tra amici, in uno scambio palese o meno di cortesie. Perché è chiaro che se nessuno mi pagherà mai allora presenterò soltanto cose di amici e amiche (o persone che stimo e ammiro) perché mi fa piacere dargli una mano. Ve lo leggereste il libro di una persona sconosciuta o quasi solo per passare un’ora circa del vostro tempo a fargli promozione? Se la risposta è sì allora forse devo mandarvi qualche copia del mio.

Il discorso sulla moderazione dei panel invece a volte può sconfinare nel discorso “vabbè è tutta visibilità” che ancora ci raccontiamo e che magari per qualcuno funziona. Ma, e questo sarà probabilmente oggetto di una mail successiva, quella della visibilità è una promessa che funziona raramente.

Fidatevi, sono una persona che va tutte le settimane in televisione, ho calcato i palchi delle fiere più importanti e scritto su quotidiani nazionali. Molto raramente qualcuno mi ha chiamato a lavorare perché ero visibile.

E attenzione, quando parlo di lavoro culturale parlo anche di situazioni molto meno apicali rispetto alla Rai eh? Gran parte di eventi, fiere, presentazioni e così via si reggono sulla speranza che qualcuno tutto sommato sia semplicemente felice di salire sul palco.

Anche quella è cultura, non solo quell’immagine paludata e immobile che abbiamo qua in Italia, paese che adora vendere ai turisti il suo passato senza creare un futuro.

Il risultato è quello di una cultura e di un lavoro culturale che diventano quindi sempre più appannaggio di chi se lo può permettere, perché è ricco, perché vive a casa coi genitori, per connivenze o agganci, perché ha un altro lavoro. O magari perché pensa di investire e di avere poi un ritorno.

Vogliamo esagerare? Allora forse dovremmo anche tirare in ballo quanto vengono pagati oggi gli articoli ai freelance, il mercato editoriale e così via. La stessa musica che suono da anni. Dovremmo ripensare tutta la filiera e forse anche il concetto romantico di cultura, quel concetto che per certi versi la rende una roba da ricchi o da giovani.

A pensarci ovviamente ci si sente soverchiati, schiacciati, annientati, anche se fosse possibile contare su associazioni sindacali o altri fronti comuni. Ma anche se la soluzione appare impossibile ricordarlo è importante.

Quindi sì, bello condividere il monologo di Scurati, giustissimo, ma suona tanto come quell’attivismo da social che alla fine della fiera sposta poco e niente, per quanto possa infastidirci quando ce lo ricordano.

In un Paese che non legge, non compra giornali e generalmente si infastidisce, a ogni livello sociale, se qualcuno chiede soldi, se mette dei paywall, se parla di bollette e gettoni presenza per quel valore sacro e intoccabile che è la cultura.

Chiudiamo dunque il cerchio di questo articolo: quanto dovremmo pagare il fotoreporter di guerra che rischia la vita e la propria sanità mentale per permetterci di postare su Instagram la foto di un corpo martoriato e invocare un cessate il fuoco?

Note a margine, link e tutto il resto

Si diceva di Civil Warecco il parere di N3rdcore.

Se bazzicate i videogiochi vi saranno capitate le discussioni attorno a Stellar Blade, gioco con protagonista fisicata e… non tanto altro.

Lo dicono pure Barili Esplosivi qua e Le parole dei videogiochi qua

Sapete chi è il più invitato negli ormai saturi e terrificanti salotti televisivi?

Se pensate che il giornalismo freelance sia ancora sostenibile non cliccate qua.

A proposito di togliersi un po’ di dosso la retorica della Liberazione.

Giulia Blasi | Servizio a domicilio
La storia, diceva quello, è fatta di corsi e ricorsi. L’umanità ripete sé stessa, riproduce gli stessi movimenti, le stesse ondate, in modo diverso e sempre uguale, anno dopo anno, secolo dopo secolo. Ed eccoci qua, a quasi ottant’anni dalla fine della guerra, e ci sono di nuovo i fascisti al governo, nei giornali, nelle istituzioni culturali, non fanno…
2 days ago · 107 likes · 8 comments · Giulia Blasi

Chiudiamo con questo pezzo che vi racconta i Sigma Male, se non sapete cosa sono probabilmente c’è un vostro amico che crede di esserlo.

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