In queste ore mi sono visto Civil War, che è senza dubbio un film sugli scenari possibili di una pressione politica, economica e sociale che sta montando da molti anni ma è anche, tra le altre cose, un film sul giornalismo di guerra, sul bilanciamento tra raccontare ed esporre, sulla verità e la post verità e sui sacrifici e le compartimentazioni che sono necessarie perché determinate storie arrivino al pubblico. E perché i giornali campino.
Uno dei più crudeli paradossi dell’informazione è che un clima sereno è il più grande nemico della stampa. La guerra non è solo un grandissimo business per gli Stati, per i politici che sanno sfruttare le nostre paure e per molte aziende che ci sguazzano, ma lo è anche per l’informazione. Perché le immagini di guerra ci colpiscono facilmente (quando ci arrivano e non sono filtrate), perché ci spingono a volerci informare e a “consumare” il prodotto notizia.
E questa cosa è ancora più vera oggi, che pur avendo tutti i mezzi per conoscere qualcosa siamo così bombardati di notizie che non riusciamo più a capire il confine tra verità, manipolazione e ci affidiamo a servizi che, in qualche modo, facciano per noi una curatela con meccanismi che ci sono oscuri.
Allargando il campo, qualsiasi periodo di incertezza è una manna per la stampa (e per i comici). Pensate agli anni d’oro del governo Berlusconi che ha praticamente dato vita a una nuova testata e ha lanciato la carriera di alcuni giornalisti.
A margine: ovviamente in questi giorni mi sono visto Il Giovane Berlusconi su Netflix che pur sfiorando l’apologia e intervistando quasi solo voci amiche ci mostra sia quanto non fosse ‘sto grande imprenditore e di come il passaggio dalla televisione alle politica sia stato un naturale scivolamento di campo dopo aver conquistato cuori e menti degli italiani. Conquista che lui aveva capito già ai tempi in cui cercarono di oscurarlo e furono gli italiani stessi a rivolere i puffi e Dinasty.
Molto più in piccolo, penso anche alle discussioni vuote e cicliche attorno a quale sia il miglior hardware, quale gioco meriti il premio di titolo dell’anno.
C’è poco da fare, il giornalismo non se ne fa niente della calma. E questo è una cosa con cui dobbiamo scendere a patti anche quando pensiamo che a sguazzare nel drama siano solo i content creator più abietti o i politici più discutibili. Pensavo queste cose leggendo un articolo di Nieman Lab che riporta un calo del traffico per molti siti d’informazione nel periodo post Trump e post-pandemia.
Meno attacchi e fuochi d’artificio di Trump vuol dire meno gente che cerca di capire cosa ha detto e magari si abbona ai siti per sostenere una informazione che gli vada contro. Quando Trump si scagliava contro la stampa alcuni erano incentivati a spendere soldi per supportarla.
Inoltre, e questa è un’altra cosa interessante del nostro comportamento: chi vince un’elezione tende a leggere meno giornali e informarsi meno. E lo fa perché tutto sommato gli va bene così, considera il suo ruolo assolto, smette di interessarsi della politica. E magari non vuole sentire eventuali voci che mettono in discussione la sua scelta di voto. Scusate il lungo prologo.
La cultura si fa coi soldi
Nell’ennesima dimostrazione dell’Effetto Streisand¹ (sì, c’entra Barbra Streisand), quel mirabolante meccanismo secondo cui più qualcuno vuole nascondere qualcosa, più quella cosa verrà condivisa perché improvvisamente caricata di un senso e di una valenza persino maggiore dopo il tentativo di censura, offerta dal monologo di Scurati sul 25 Aprile si è inserito anche il dibattito sul prezzo del lavoro culturale.
Perché il trucco, alla fine, è sempre buttarla sui soldi, sugli intellettuali strapagati, sull’ “e io pago!”, perché se c’è una cosa che chiunque può capire è il linguaggio dei quattrini, soprattutto chi quei soldi li vede dopo un mese di duro lavoro e può essere manipolato a odiare il solito professorone di sinistra.
Mentre il monologo veniva ripetuto, copiato, utilizzando anche biecamente per cercare di far diventare virale il proprio post (vi giuro di aver visto proprio call to action a tema), mentre c’è chi ha prontamente tentato di paragonarsi a Scurati per salire sul carro del censurato e fare un po’ di cara vecchio marketing della vittima, io non potevo fare a meno di notare come per l’ennesima volta fossi complice di una reazione di pancia che, per quanto lodevole, svuotava di significato ogni tentativo di approfondimento.
Insomma, come quando tutto quello che si è fatto per l’orribile scena di Porta a Porta con una platea di uomini che parlava di aborto è stato postare l’immagine di Bojack Horseman.
Innanzitutto perché Scurati è solo il caso più eclatante e palese di uno smantellamento che va avanti da tempo e del quale ci arrivano solo i tonfi più grossi, quelli che sono più facili da condividere o sono raccontati da chi può permettersi una esposizione.
Ma mentre un sacco di intellettuali, anche di sinistra, correvano impauriti dietro alla narrazione del “pensiero unico” e della cancel culture, mentre ci si preoccupa di evitare una shitstorm perché mettersi in discussione è faticoso e un sacco di gente viene costantemente invitata, premiata, ascoltata mentre urla di venire cancellata e silenziata, qualcuno la cancellazione l’attuava davvero e di certo non riguardava il diritto delle persone di insultare e fare battutine su minoranze e altre categorie.
Per non parlare di quando non si parlava di Gaza o se ne parlava (e se ne parla tutt’ora) in modo distorto e, tutto sommato, tutta sta voglia di urlare alla censura non c’era.
Quello che mi ha colpito in questo ennesimo tumulto social non riguarda tanto la censura, il fascismo di governo, il sistematico gaslight² meloniano che a ogni critica ti risponde come il marito manipolatore per cui è tutto nella tua testa e sei una pazza, ma che venga dato per scontato il ruolo degli intellettuali e il prezzo del lavoro intellettuale.
Tutto questo nel paese che da sempre dice ai suoi figli che con la cultura non si mangia e vede nell’intellettuale una figura o inutile o santa, che si nutre d’aria.
Perché se da una parte c’era chi riteneva esorbitante la cifra chiesta per quel monologo, era straniante vedere un sacco di gente difendere il diretto di un intellettuale a venire pagato per il proprio lavoro, ribadire che era una cifra congrua per la sua levatura. Ma nel frattempo il lavoro culturale viene quotidianamente demolito e deprezzato anche da chi nella cultura ci si rotola come se fosse un bel prato verde.
Come ci racconta l’aneddoto su Picasso e la signora che voleva un ritratto: quando lei si arrabbia perché ci ha messo solo pochi minuti per farlo lui risponde che ci ha messo tutta la vita (in verità credo dicesse che ci ha messo tutta la vita per disegnare come un bambino, ma vabbè).
Quindi è ovvio che un monologo di due minuti in televisione non richiede due minuti, ma vi assicuro che anche moderare un dibattito, presentare un libro, scrivere un articolo o qualsiasi altra cosa per cui è quasi sacrilego chiedere dei soldi non si fa in due minuti. Spesso sono momenti in cui si condensano anni di studi, di riflessioni, di letture. Distillati di conoscenza che spariscono con la stessa velocità con cui si butta giù un sorso di liquore, che ha richiesto magari anni di affinamento in botte.
Il lavoro culturale in Italia è costantemente deprezzato, svilito, trasformato in un favore tra amici, in uno scambio palese o meno di cortesie. Perché è chiaro che se nessuno mi pagherà mai allora presenterò soltanto cose di amici e amiche (o persone che stimo e ammiro) perché mi fa piacere dargli una mano. Ve lo leggereste il libro di una persona sconosciuta o quasi solo per passare un’ora circa del vostro tempo a fargli promozione? Se la risposta è sì allora forse devo mandarvi qualche copia del mio.
Il discorso sulla moderazione dei panel invece a volte può sconfinare nel discorso “vabbè è tutta visibilità” che ancora ci raccontiamo e che magari per qualcuno funziona. Ma, e questo sarà probabilmente oggetto di una mail successiva, quella della visibilità è una promessa che funziona raramente.
Fidatevi, sono una persona che va tutte le settimane in televisione, ho calcato i palchi delle fiere più importanti e scritto su quotidiani nazionali. Molto raramente qualcuno mi ha chiamato a lavorare perché ero visibile.
E attenzione, quando parlo di lavoro culturale parlo anche di situazioni molto meno apicali rispetto alla Rai eh? Gran parte di eventi, fiere, presentazioni e così via si reggono sulla speranza che qualcuno tutto sommato sia semplicemente felice di salire sul palco.
Anche quella è cultura, non solo quell’immagine paludata e immobile che abbiamo qua in Italia, paese che adora vendere ai turisti il suo passato senza creare un futuro.
Il risultato è quello di una cultura e di un lavoro culturale che diventano quindi sempre più appannaggio di chi se lo può permettere, perché è ricco, perché vive a casa coi genitori, per connivenze o agganci, perché ha un altro lavoro. O magari perché pensa di investire e di avere poi un ritorno.
Vogliamo esagerare? Allora forse dovremmo anche tirare in ballo quanto vengono pagati oggi gli articoli ai freelance, il mercato editoriale e così via. La stessa musica che suono da anni. Dovremmo ripensare tutta la filiera e forse anche il concetto romantico di cultura, quel concetto che per certi versi la rende una roba da ricchi o da giovani.
A pensarci ovviamente ci si sente soverchiati, schiacciati, annientati, anche se fosse possibile contare su associazioni sindacali o altri fronti comuni. Ma anche se la soluzione appare impossibile ricordarlo è importante.
Quindi sì, bello condividere il monologo di Scurati, giustissimo, ma suona tanto come quell’attivismo da social che alla fine della fiera sposta poco e niente, per quanto possa infastidirci quando ce lo ricordano.
In un Paese che non legge, non compra giornali e generalmente si infastidisce, a ogni livello sociale, se qualcuno chiede soldi, se mette dei paywall, se parla di bollette e gettoni presenza per quel valore sacro e intoccabile che è la cultura.
Chiudiamo dunque il cerchio di questo articolo: quanto dovremmo pagare il fotoreporter di guerra che rischia la vita e la propria sanità mentale per permetterci di postare su Instagram la foto di un corpo martoriato e invocare un cessate il fuoco?
Note a margine, link e tutto il resto
Si diceva di Civil War, ecco il parere di N3rdcore.
Se bazzicate i videogiochi vi saranno capitate le discussioni attorno a Stellar Blade, gioco con protagonista fisicata e… non tanto altro.
Lo dicono pure Barili Esplosivi qua e Le parole dei videogiochi qua
Sapete chi è il più invitato negli ormai saturi e terrificanti salotti televisivi?
Se pensate che il giornalismo freelance sia ancora sostenibile non cliccate qua.
A proposito di togliersi un po’ di dosso la retorica della Liberazione.
Giulia Blasi | Servizio a domicilio La storia, diceva quello, è fatta di corsi e ricorsi. L’umanità ripete sé stessa, riproduce gli stessi movimenti, le stesse ondate, in modo diverso e sempre uguale, anno dopo anno, secolo dopo secolo. Ed eccoci qua, a quasi ottant’anni dalla fine della guerra, e ci sono di nuovo i fascisti al governo, nei giornali, nelle istituzioni culturali, non fanno…
2 days ago · 107 likes · 8 comments · Giulia Blasi
Chiudiamo con questo pezzo che vi racconta i Sigma Male, se non sapete cosa sono probabilmente c’è un vostro amico che crede di esserlo.